Non sanzionabile con sanzione espulsiva la reazione scomposta alle molestie sessuali

 

Trib. Milano 28 dicembre 2001 – Est. Negri della Torre – Dimondo (avv. Mattolini) c. Atahotels SpA (avv. Pistolesi)

 

Art. 2087 c.c. - Contenuto - Molestie sessuali - Obbligo d'adozione di misure di natura disciplinare e organizzativa - Sussistenza.

Molestie sessuali - Prolungato comportamento omissivo del datore di lavoro - Violazione dell'art. 2087 c.c. - Sussistenza - Licenziamento della lavoratrice molestata - Illegittimità - Condizioni - Danno biologico - Risarcibilità - Condizioni - Quantificazione in via equitativa - Ammissibilità.

 

Ai sensi dell'art. 2087 c.c. l'imprenditore è tenuto ad adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure necessarie a tutelare non solo l'integrità fisica ma anche la personalità morale dei dipendenti; tale obbligo di protezione impone al datore di lavoro, cui sia noto il compimento di molestie sessuali nell'ambito dell'impresa, di intervenire, adottando tutte le misure, anche di natura disciplinare e organizzativa, necessarie a garantire la tutela dei dipendenti.

Il prolungato comportamento omissivo del datore di lavoro a fronte di atti di molestia sessuale costituisce violazione dell'art. 2087 c.c. E’  illegittimo il licenziamento intimato alla lavoratrice molestata ove le condotte alla stessa imputate quale giusta causa di recesso siano casualmente ricollegabili al detto comportamento omissivo; ove tale nesso di causalità sussista anche in relazione al danno biologico lamentato dalla lavoratrice, la stessa ha diritto al relativo risarcimento, che è quantificabile in via equitativa.

 

(Omissis) Il ricorso è fondato e deve essere accolto.

Gli elementi raccolti in sede istruttoria impongono, da un lato, di ridimensionare l'obiettiva gravità dei singoli fatti posti a fondamento del recesso; dall'altro, e soprattutto, convergono a collocarli in una prospettiva diversa e particolare, nella quale i fatti in questione assumono sostanzialmente il significato di reazioni emotive - a tratti inconsulte ed esasperate - nei confronti di frasi, espressioni ed atteggiamenti connotati da elevata offensività, in quanto diretti a colpire, con la sfera sessuale, aspetti tra i più intimi e profondi della personalità umana.

Sotto il primo profilo, si rileva come nell'episodio del lancio del coltello sia del tutto assente la volontà di ferire o colpire il collega Della Malva, il quale «si trovava a circa un metro e trenta, due metri davanti» alla ricorrente (dep. Falzetta) e che, pertanto, poteva costituire, per quest'ultima, un bersaglio di assoluta ed evidente facilità. In realtà, il coltello, che la Dimondo - ed è particolare significativo - non ha afferrato al momento di compiere il gesto, ma che già «teneva in mano», è stato scagliato «tra i pie- di del Della Malva» (dep. Falzetta) e solo di rimbalzo, una volta caduto sul pavimento, è andato a colpirne il tallone sinistro (. con quale modesta potenza d'urto e con quali risibili effetti per l'incolumità personale è agevole immaginare).

Risulta, inoltre, che in data 8/3/99 la Dimondo non ha affatto chiamato il 113 per denunciare di aver subito una violenza carnale. La ricorrente, infatti, già con l'addetto al banco del ricevimento, sig. Bruno Vivarelli, al quale si era rivolta, «si è subito corretta dicendo "violenza sul lavoro"», secondo quanto emerge dalla dichiarazione rilasciata dallo stesso dipendente pochi giorni dopo il fatto (doc. 6 conv.ta). E comunque è inverosimile che la centrale operativa collegata con tale numero di pronto intervento abbia trascurato di disporre l'immediato intervento sul posto di una volante, se veramente le fosse pervenuta segnalazione di un grave delitto come quello di violenza carnale. Proprio il mancato intervento della Polizia, nonostante che la ricorrente avesse effettivamente «parlato con il 113» (v. ancora dich. Vivarelli), conferma che la comunicazione telefonica ha avuto per oggetto fatti diversi e presumibilmente uno sfogo della stes- sa ricorrente circa la difficile situazione venutasi a creare nell'ambiente di lavoro: con il conseguente intuibile invito, da parte dell'operatore, a rivolgersi ad altra e più opportuna sede di tutela.

Alla luce di tale episodio, non può che suscitare perplessità l'affermazione del direttore dell'albergo, secondo il quale, nello stesso contesto temporale (il pomeriggio dell'8/3/99), la Dimondo gli avrebbe raccontato «di avere subito violenza carnale» (dep. Pecorelli), accusa che - come si è potuto ricostruire, anche sulla base di documenti prodotti dalla società contenuta - non è stata avanzata dalla lavoratrice, né, in realtà, neppure concepita.

È poi da ritenere infondato l'addebito di gravi minacce («di ammazzare qualcuno»), che la ricorrente avrebbe proferito in varie occasioni e anche nei confronti della governante, sig.ra Lucia Minisini, dalla cui testimonianza emerge invece, e con nitida evidenza,lo stato di alterazione e di profonda esasperazione della ricorrente.

Come, infatti, riferito dal teste Arena, «erano anni» che il Della Malva indirizzava alla ricorrente frasi e battute oscene.

Anche la mattina del 6/3/99, giorno in cui si è verificato l'episodio del lancio del coltello, «vi era stato fra i due uno scambio di battute tra il serio e lo scherzoso, in cui però il Della Malva ha rivolto alla ricorrente frasi a sfondo sessuale», la cui natura offensiva la stessa Dimondo ha fatto immediatamente notare al teste, che si trovava nelle vicinanze e che è subito intervenuto, invitando in collega - senza che questi negasse il fatto - a moderare il linguaggio.

Che fosse costui a introdurre il registro dell'osceno pur in normali conversazioni di lavoro, è ben esemplificato nella testimonianza Falzetta (cfr. verbale, p. 7); né la circostanza che la ricorrente talvolta rispondesse sullo stesso tono, come nello scambio di battute riferito dal teste a modo di esempio, può essere fraintesa per accettazione di un «gioco» alla pari, trattandosi semmai del pesante, e davvero penoso, sforzo di adattamento di una donna alle produzioni verbali e al clima tipici di una sottocultura maschilista.

Ne costituiscono riprova le numerose proteste e segnalazioni fatte dalla ricorrente nel corso degli anni al teste Arena, nella sua qualità di delegato sindacale, e sempre per essere stata fatta oggetto di battute a sfondo sessuale o apertamente osceno; come gli episodi verificatisi, a opera del Falzetta,la mattina dell'8/3/99 e nel primo pomeriggio dello stesso giorno (cfr. verbale, pp. 13-14), rivelatori di un atteggiamento di intimidazione e di sopraffazione.

Anche la reazione del Della Malva al lancio del coltello (come dichiarato dal Falzetta nella sua deposizione, egli avrebbe preso per i polsi la ricorrente e l'avrebbe quindi adagiata: si deve presumere a terra, essendovi nel locale solo mobili di servizio) è indice di una violenza ingiustificata, non potendosi francamente riconoscere nel gesto della Dimondo altro che esasperazione e platealità, e peraltro tale da determinare la comparsa di «vasti ematomi», come risulta dal certificato medico in data 9/3/99/doc. 4 ric.te).

Dalla deposizione del teste Arena emerge altresì come la direzione dell'albergo fosse a conoscenza della situazione già da molto tempo e nei suoi esatti termini.

li teste, al quale la Dimondo ripetutamente segnalava di essere fatta oggetto di pesanti battute a sfondo sessuale, ha invero dichiarato di aver chiesto «alla Direzione di spostarla» e suggerito anche «i reparti ove poteva avere collocazione». In particolare, il teste Arena ha dichiarato di essersi recato «più volte» in Direzione insieme con gli altri delegati sindacali, parlando prima con il sig. Noventa, precedente direttore, e poi con il sig. Pecorelli; peraltro, «sia il primo che il secondo» ebbero a dirgli che «non se ne parlava proprio di quello spostamento, affermando che nei reparti di possibile destinazione sarebbero sorti dei conflitti» tra la Dimondo e un'altra dipendente.

Ora, non pare dubbio che, con la prestazione, il lavoratore non acquista soltanto il diritto alla controprestazione retributiva, ma entra, per cosl dire, in un'area di garanzia, in cui la sua personalità fisica e morale viene tutelata nel senso più ampio dell'espressione.

Di ciò è diretta manifestazione la norma di cui all'art. 2087 c.c., il quale dispone che l'imprenditore è tenuto ad adottare, nell'esercizio dell'impresa, le misure che,secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica «e la personalità morale» dei prestatori di lavoro.

La norma, proprio per la latitudine dell'obbligo di protezione, il quale dispone che l'imprenditore sia tenuto, comprende non soltanto misure tecniche (sostituzione, adattamento o modifica di macchinari o parti di essi, scelta di determinate e più sicure modalità produttive), ma anche misure di natura disciplinare e organizzativa, ove necessarie a realIzzare la tutela della «personalità morale» dei lavoratori: misure che però la Atahotels Spa non ha mai ritenuto di dover assumere nel caso della sig.ra Dimondo, nonostante le numerose segna!azioni ricevute al riguardo e in tempi diversi nell'arco di alcuni anni, così lasciando  la ricorrente del tutto priva di tutela in una situazione logorante e obiettivamente pregIudizievole per fondamentali esigenze di serenità e di equilibrio psichico. 

A tale prolungato comportamento omissivo e alle sue rilevanti conseguenze sul piano personale sono causalmente ricollegabili sia le condotte addebitate dall'azienda e, quindi, dalla medesima assunte a giusta causa di licenziamento; sia il danno biologico, di cui la ricorrente, quantificandone l'ammontare in via equitativa, ha chiesto il risarcimento.

Tale danno è da ritenersi provato nella sua esistenza sulla base del comportamento medesimo posto in essere dalla ricorrente in diverse occasioni e ampiamente rivelatore – per il carattere eccessivo e smodato delle reazioni, in apparenza scollegate dall'immediato contesto - del radicarsi di un trauma profondo, tale da incidere negativamente sulla stima di se e sulla pienezza della vita di relazione.

Si ritiene che il danno in questione, attesa la difficoltà di procedere alla determinazione di un. ammontare preciso, possa essere liquidato in via equitativa nell'importo proposto di lire 30.000.000, tenuto anche conto del fatto che la situazione lesiva si è protratta per oltre due anni; su tale somma andranno calcolati interessi e rivalutazione monetaria dalla domanda giudiziale al saldo.

Quanto al licenziamento, ne va affermata l'illegittimità, per le ragioni esposte.

Le conseguenze sono quelle proprie della tutela «reale» (art. 18 L. 300/70), non essendovi questione circa il superamento della soglia dimensionale.

Le spese seguono la soccombenza. (omissis)

 

(pubblicata in D&L, Riv. crit. dir. lav. 2002, 371)

 

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La sentenza di primo grado è stata oggetto di appello (il cui esito i lettori potranno leggere nella sottoriportata decisione del Collegio) in cui la Corte ha riformato la statuizione afferente al risarcimento del danno in favore della ricorrente nonchè l'affermazione di prime cure dell'essere la società datrice di lavoro a conoscenza  delle molestie nei confronti dell'attrice, con l'effetto conseguente di dichiarare che "al datore di lavoro...nulla può essere imputato sub specie della violazione dell'obbligo di cui all'art. 2087 cod.civ.".

 

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Corte d’Appello di Milano, sezione lavoro, 25 ottobre 2002 – Pres. Mannacio- Rel. De Angelis – Atahotels SpA (avv. Pistolesi) c. Dimondo (avv. Mottalini)

 

Oggetto: licenziamento disciplinare; risarcimento danni.

Svolgimento del processo

Con sentenza 28 dicembre 2001 n. 3398 il tribunale di Milano ha dichiarato illegittimo il licenziamento disciplinare intimato a Luciana Dimondo dalla s.p.a. Atahotels, ha emesso le conseguenti statuizioni tipiche della tutela reale, ha condannato la società a pagare all' attrice £. 30.000.000 a titolo di risarcimento del danno da molestie sessuali.

Secondo il tribunale l’ istruttoria ha ridimensionato i fatti addebitati, e cioè l' avere, la ricorrente, scagliato contro il collega Della Malva un coltello colpendolo di rimbalzo ad un piede; l’ averlo diffamato attribuendogli di avere tentato di violentarla; l’ avere gravemente minacciato la direzione dell’ albergo presso cui lavorava e Lucia Minisini, sua superiore gerarchica. Soprattutto, sempre ad avviso del primo giudice, i fatti vanno collocati nella prospettiva di chi era esasperata da un atteggiamento duraturo di oscenità e molestie di Della Malva verso di lei.

Contro la sentenza l' 11 febbraio 2002 ha proposto appello la società,  sostenendo come, a differenza di quanto ritenuto dal tribunale, l’ istruttoria abbia confermato gli addebiti nella loro gravita, a partire dall’ accusa infondata, rivolta a Della Malva ed esplicitata al direttore dell’albergo, di tentativo di violenza carnale. Quanto al danno, che non risulta soprattutto nel suo ammontare, non può  essere  certo addebitato, secondo  1' appellante, alla società, nel cui comportamento non vi è segno alcuno di colpa.

L’ appellata ha resistito.

All’ udienza del 16 ottobre 2002 la causa è stata discussa e decisa per i seguenti:

Motivi

1. Nell’ esaminare i motivi d' appello inerenti la statuizione sul licenziamento, la corte evidenzia come sia emerso in giudizio un atteggiamento verbale sessualmente molesto di Della Malva verso l' attrice che durava da anni.

E' vero, al riguardo - è emerso da più testimonianze - che Dimondo non subisse passivamente tale atteggiamento, a sua volta reagendo con tono scherzoso e magari ugualmente volgare. Come ha puntualmente colto il primo giudice, non si è però trattato di uno stare al gioco, ma della maniera adottata da una donna di una certa età che conosce il mondo per riuscire a stare il  meno peggio possibile in un ambiente di lavoro difficile e prevalentemente maschile dal quale già era stata espulsa per motivi inerenti la sua idoneità fisica e in cui era rientrata a seguito di conciliazione giudiziale. Che sia così lo dimostra la deposizione del sindacalista Arena, sia laddove ha detto di reiterate proteste di Dimondo al riguardo, sia laddove ha riferito che proprio nella mattina del 6 marzo 1999 vi sia stato si uno scambio di battute volgari tra i due, ma con la sollecitazione rivolta dall' attrice ad Arena a notare la natura delle frasi indirizzatele, cui fece seguito l’ invito di Arena a Della Malva alla moderazione del linguaggio.

L’ attendibilità di tale deposizione è stata messa in discussione dalla difesa della società, in particolare sul rilievo che Arena tre giorni prima ha introdotto una causa contro la società medesima. Sennonché, la testimonianza va attesa non tanto perché molto puntuale, ma in quanto ha riferito circostanza, quella dello scambio di battute tra il serio e lo scherzoso, sfavorevole a Dimondo, ed in quanto trova riscontro nella deposizione di Cannova.

Significativo sintomo di come quella vivesse male è inoltre dato dal fatto che abbia fatto trovare nell’armadietto di Falzetta il foglio di un giornale pornografico, con scritte offensive genericamente indirizzate al plurale (evidentemente, nel suddetto ambiente maschile non era solo il comportamento di Della Malva a lasciare a desiderare).

E’ quindi nel descritto contesto, innanzitutto, che va collocata la condotta di Dimondo nel pomeriggio del 6 marzo. Inseritosi, Della Malva, con parole abbastanza innocenti ma criticamente acide («tu sai sempre tutto») in una futile conversazione, Dimondo, stizzita, ha scagliato sul pavimento un coltello che di rimbalzo a colpito l’ altro senza ulteriori conseguenze.

Che siffatto modo di comportarsi sia inammissibile in un ambiente di lavoro (come altrove), non abbisogna di spiegazioni. Ai fini della sua valutatone sul piano disciplinare si deve però tener conto, per un verso, della predette pluriennali tensioni tra i due provocate da Della Malva; per un altro verso, del fatto che proprio al mattino dello stesso giorno si era verificato l’ ennesimo episodio. Il coltello, poi, lo si ripete, è stato scagliato sul pavimento, e non si sa se fosse già in mano dell' attrice o fosse stato prelevato da un carrello vicino (v. il contrasto tra le testimonianze di Falzetta e Tassalini).

La sanzione espulsiva è allora, per 1' episodio in discorso, sproporzionata.

Ma lo è anche se si considerano isolatamente, e in unione tra di loro e con il precedente, gli altri fatti addebitati.

Innanzitutto, la falsa accusa, esternata all' addetto al ricevimento dell’ albergo, di aver subito violenza carnale da parte di Della Malva, è palesemente derivata da confusione terminologica tra i violenza verbale a sfondo sessuale e, appunto, violenza carnale. In proposito sono ineccepibili i  rilievi del primo giudice secondo i quali, se l’ accusa fosse stata tale, la polizia di Stato, chiamata  per telefono pressoché contestualmente, sarebbe sicuramente intervenuta in ragione della gravita dei i fatti (ed invece la "denuncia" non ha proprio avuto seguito).

Lo stesso addetto alla ricezione, del resto, ha dichiarato, prima del giudizio, che l' attrice, subito  dopo  che si era portata al banco per chiedere di chiamare il 113 perché ella aveva subito violenza  sessuale, si corresse dicendo che aveva subito violenza sul lavoro.

La valenza disciplinare del fatto è, allora, pressoché nulla.

Circa gli episodi di minaccia e offese alla direzione dell' albergo e soprattutto alla superiore  gerarchica Minisini l’ 8 marzo 1999, essi, certo, hanno tale valenza. Per valutarli equilibratamente si deve però tener conto non solo dello stato d' alterazione di Dimondo in quel momento - Minisini  è intervenuta perché udì urlare in cucina - ma del clima di tensione di quei giorni, sopra evidenziato.

La massima delle sanzioni conservative, allora, e non quella espulsiva, avrebbe adeguatamente sanzionato la condotta dell’ attrice, pur complessivamente considerata.

 

2. E' invece fondato il motivo d'impugnazione avverso la statuizione risarcitoria.

Innanzitutto, vi è contrasto circa l’ essere stata, la direzione dell' albergo, portata a conoscenza delle  molestie subite da Dimondo da parte di Della Malva: le deposizioni di Arena e di Pastorelli  divergono in punto. Né tanto meno risulta che la direzione avesse certezza di tali molestie.

Non vi è poi prova circa l' esistenza di mansioni differenti (e, soprattutto, con altri compagni di lavoro) cui l’ attrice, portatrice di inabilità lavorativa del 60%, e per questo licenziata e poi riammessa al lavoro, potesse essere adibita.

Al datore di lavoro, quindi, nulla può essere imputato sub specie della violazione dell’ obbligo di  cui all' art. 2087 cod. civ.

 

3. In conclusione, la sentenza appellata va riformata solo con riguardo alla statuizione inerente il  risarcirnento del danno.

L’alterno esito dell' appello e la rilevanza disciplinare del comportamento dell' attrice, pur se represso in misura sproporzionata, rendono equa la totale compensazione delle spese, a norma dell’ art. 92 cod. proc. civ..

p.q.m

in parziale riforma della sentenza appellata,

1) rigetta la domanda di risarcimento del danno;

2) conferma nel resto la sentenza appellata;

3) dichiara interamente compensate le spese d' appello.

Milano, 16 ottobre 2002 (depositato il 25 ottobre 2005)

 

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