I
profili penalistici del Mobbing
“ E’ un peccato non potere estendere la pena ai ladri
di anime, oltre che di corpi. Detesto i collezionisti di furti sessuali,
disposti a qualsiasi inganno pur di ottenere ciò che gli stupratori dei corpi
ottengono con la violenza.
Questi stupratori di anime vengono talora scambiati per seduttori,
ma c’è qualcosa che li distingue, a parte l’identità apparente
dell’oggetto del loro desiderio: ed è che non sono mai presi dalla preda, mai
vinti dalla sconfitta della vittima……
Ora i ladri di anime sono certamente più immorali che i ladri di
una mela (il frutto biblico prediletto in questo genere di metafore) ma nessuna
legge li perseguita.
L’intenzione, infatti, se non si trasforma in un reato, non è mai
una colpa. Ed è questo il minuscolo abisso che supera i due codici, penale e
morale”.
Questa splendida pagina tratta dall’ultimo romanzo di G. Pontiggia
“Nati due volte”, Mondadori, 2000, è quella che a mio avviso meglio
consente di introdurre il tema del mobbing che in ultima analisi altro non è
che un vero e proprio furto dell’anima.
Ancora una volta il nostro linguaggio comune utilizza – ed accade
assai spesso in questi ultimi tempi - l'ennesimo anglicismo (mobbing) per
sintetizzare un fenomeno dalle sfaccettature assai variegate.
Il verbo inglese “to mob” indica letteralmente l'assaltare
congiunto di una folla, quasi un linciaggio, un atto collettivo ed anonimo di
violenza.
Certa autorevolissima dottrina (EGE) definisce il mobbing come
"terrore psicologico sul posto di lavoro". Esso, comunque, descrive
una situazione di aggressione, di esclusione o di emarginazione di un lavoratore
da parte dei suoi colleghi o dei superiori, anche se l'ambito di applicazione
del termine si è negli ultimi tempi notevolmente espanso, di talchè oggi si
parla anche di mobbing familiare, di mobbing nell'ambiente scolastico (school
bulling).
Significativi precedenti nella storia del fenomeno sono stati
individuati nell'ostracismo dei Greci antichi, nell'impiego sistematico della
calunnia (il pensiero corre all'infido Bartolo del Barbiere di Siviglia, che
amava cantare:"la calunnia è un venticello, un'auretta assai gentile,
che insensibile, sottile, lentamente, destramente, nelle orecchie della gente già
si insinua lestamente….e il meschino calunniato, avvilito, calpestato, sotto
il pubblico ludibrio per gran sorte va a crepar ".
Per non tacere delle rivolte contadine medievali, nelle quali la
folla si scatenava contro i suoi oppressori, della c.d. usanza dello "
charivari " che era assai diffusa in Francia, in Inghilterra ed in Toscana.
Esso si verificava quando in un villaggio contadino un uomo anziano,
ma ricco riusciva a sposare una bella ragazza, sottraendola così, in forza dei
suoi beni, al mercato matrimoniale dei giovani. Il malcapitato non poteva più
mettere piede in piazza senza essere deriso ed osteggiato. La sera delle nozze,
poi, doveva subire una serenata piuttosto pesante ad opera dei giovanotti del
villaggio che per tutta la notte gli impedivano di riposare. In qualche caso si
registravano atti di violenza collettiva con spargimento di sangue.
Già allora dunque il gruppo sociale si vendicava decretando
l'ostracismo nei confronti di chi veniva percepito come autore di un gesto
disapprovato.
La stessa caccia alle streghe, con tutta la frenesia che
notoriamente la accompagnava, cominciava sempre con un "sentito dire".
Si diventava strega, non tanto perché si compivano atti di stregoneria, quanto
perché la voce popolare indicava come tale una donna. E via via di questo passo
si giunge al rogo della Santa Inquisizione. Sino ad arrivare agli studi sul
comportamento animale, sull'etologia di Konrad Lorenz, il quale definiva il
mobbing come " l'attacco collettivo di una moltitudine di animali più
deboli contro il più forte ".
Venendo poi a tempi più recenti, va osservato che il termine "
mobbing " venne utilizzato già nel 1984 in una pubblicazione
scientifica per indicare la particolare forma di vessazione esercitata nel
contesto lavorativo, il cui fine consiste nella estromissione reale o virtuale
della vittima dal mondo del lavoro.
Esso si concretizza in un processo che si evolve nel tempo secondo
una excalation contraddistinta da un iniziale conflitto latente espresso in
piccoli contrasti quotidiani fini a se stessi, che si evolve in conflitto mirato
che si sostanzia nella routine del conflitto tra due specifici soggetti, e poi
ancora in conflitto pubblico, con aggravamento delle condizioni psicologiche del
mobbizzato, espulsione anticipata dal mondo del lavoro per malattia,
trasferimento, licenziamento, autolicenziamento e che alla fine sfocia in una
vera e propria malattia professionale. I relativi sintomi sono stati
brillantemente individuati nella indagine condotta dalla Clinica del Lavoro
"Luigi Devoto" di Milano nell'ansia, nel disturbo post-traumatico da
stress, nel disturbo da adattamento, in alterazioni dell'equilibrio socioemotivo,
in scompensi dell'equilibrio psico-fisiologico e disturbi del comportamento.
B) Le fonti normative e le prospettive di riforma : cenni.
Passando poi all'analisi delle fonti normative, va subito osservato
che allo stato non esiste in Italia una legge sul mobbing.
Si registra, però, una serie proposte di legge sintomatiche della
attenzione che il legislatore ha inteso rivolgere al fenomeno.
La prima a venire in rilievo è quella a firma dell'On.le CICU
(1996) – Camera n.1813, nella quale si suggerisce la creazione di una apposita
figura di reato di Mobbing, definito come "terrore psicologico
nell'ambiente di lavoro" con la sanzione della reclusione da uno a tre anni
nonché l'interdizione dai pp.uu. fino a tre anni.
Sulla stessa linea della proposta Cicu si muove quella dell'On.le
FIORI (2000) – Camera n.6667, con la quale vengono inasprite le pene fino a
cinque anni di reclusione in caso di danni psico-fisici permanenti.
Gli altri disegni di legge (Benvenuto, De Luca) non definiscono, al
contrario dei due anzidetti, alcun reato, sforzandosi di individuare con estrema
precisione i contenuti del mobbing, ma lasciando assolutamente insoddisfatti in
punto di disciplina dei profili di risarcimento del danno.
Ciò premesso, non va dimenticato che la sindrome da mobbing come
male sociale è sempre esistita anche se solo da poco tempo è assurta alla
attenzione di sociologi, psicologi del lavoro, psichiatri ed operatori del
diritto.
Essa non va confusa con il c.d. fantozzismo, giacchè spesso
colpisce lavoratori preparati e capaci ma ciononostante vittime di
discriminazioni e terrorismo psicologico sul luogo di lavoro.
Da quanto sopra evidenziato discende, come logico corollario, il
problema della rilevanza penale del mobbing, come realtà fenomenica del vivere
civile, in quanto tale suscettibile di essere disciplinata anche dal diritto
penale. Esigenza quest'ultima che potrebbe divenire ancor più pressante una
volta accertatone il disvalore di malattia professionale, considerando per tale
anche quella psicologica, con la conseguente esigenza di proteggere la persona
sul luogo di lavoro, che assume una dimensione sociale non solo in termini
solidaristici ma anche sotto il profilo etico e morale.
Assai più pregnanti, ai fini che oggi ci occupano, si rivelano sul
piano del diritto positivo i riferimenti normativi alla normativa vigente, e
segnatamente ai D.P.R. 547/55, D.P.R. 164/56, D.P.R. 303/56 ed ancor di più
all’art. 5 co.1 D.Lgs. n. 626/94 ( “ ciascun lavoratore deve prendersi
cura della propria sicurezza e della propria salute e di quella di altre persone
presenti sul luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle sue
azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione ed alle istruzioni e ai
mezzi forniti dal datore di lavoro”). Al riguardo non può certo
dimenticarsi che il D. L.vo 626/94, quale prima normativa generale di
derivazione comunitaria, ha introdotto un nuovo modello di impresa sicura che
appare non solo di tipo compartecipativo ma modulato in chiave sinergica tra i
protagonisti del mondo del lavoro per il raggiungimento del fine generale di
migliorare la sicurezza e l’igiene nel comune contesto lavorativo. E’
dunque difficile ipotizzare che il soggetto mobbizzato possa farsi parte
diligente della propria e della altrui sicurezza, svolgendo quel ruolo di
garanzia attiva che il citato art.5 D. Lgs.626/94 assegna a ciascun lavoratore.
Infatti, se per un verso non può revocarsi in dubbio che i lavoratori
nell’ambito della azienda sono gli unici soggetti creditori di sicurezza e di
salute, non è parimenti men vero che sono chiamati anch’essi a contribuire,
“ insieme al datore di lavoro, ai dirigenti ed ai preposti,
all’adempimento di tutti gli obblighi imposti dalla autorità competente o
comunque necessari per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori
durante il lavoro”. E si badi bene che il contributo richiesto dal citato
art.5 co.2 lett. h) del D. L.vo 626/94 è corroborato dalla sanzione penale in
caso di omissione.
C) Mobbing : una nuova figura di reato?
Nell'addentrarci nella disamina dei profili penalistici del tema che
oggi ci occupa, va preliminarmente segnalata la possibile qualificazione
dell’eventuale figura di reato come reato di evento, nel senso che può
parlarsi di una concreta praticabilità della tutela penalistica solo se ed in
quanto si sia verificato l’evento del soggetto passivo che si ammali di
mobbing. Certo, l’opera di ricostruzione degli elementi costitutivi della
nuova fattispecie criminosa si rivela quanto mai ardua, attesa l’assenza di
specifiche parallele figure di reato nella attuale legislazione vigente, sia
pure di carattere contravvenzionale a carico del datore di lavoro, per le
condotte di vessazione morale e di dequalificazione professionale da lui poste
in essere nell’ambiente di lavoro in danno del lavoratore.
A quanto sin qui rilevato vanno poi aggiunte le enormi difficoltà
di accertamento probatorio degli effetti sul soggetto passivo. Quest'ultimo
perde gradatamente la stima professionale di sé e la motivazione al lavoro nel
contesto socio-ambientale di riferimento e, se non traduce l’aggressione alla
sfera psichica in una menomazione della propria integrità psico-fisica, vede in
ogni caso compromessa la sua capacità di autoprotezione personale, che è una
delle componenti essenziali per dare vita ad un efficace sistema di sicurezza
del lavoro.
C'è dunque il serio rischio di arrivare al paradosso di imputare
sul piano giuridico al lavoratore mobbizzato le conseguenze di ciò che lui
stesso subisce sul piano materiale per effetto della condotta di vessazione
morale e psichica cui è assoggettato da parte delle gerarchie aziendali.
Epperò non può non convenirsi sul rilievo che, per effetto della
qualificazione soggettiva dell’agente (“lavoratore”) operata dall'art.5 D.
L.vo 626/94 da un lato, e per la caratterizzazione delle violazioni alla
normativa prevenzionistica e di igiene del lavoro quali reati propri dall'altro,
la conseguenza che ne deve trarre l’interprete è che nessuna contestazione,
sul piano del diritto penale contravvenzionale, è ascrivibile al datore di
lavoro.
Del tutto differente è invece la situazione normativa nel caso in
cui la condotta di mobbing incida negativamente – compromettendola pro rata o
in toto – sulla integrità psicofisica del lavoratore.
In questa ipotesi di compromissione temporanea, o con postumi
permanentemente invalidanti, della propria salute, di lesione alla integrità
psicofisica, il datore di lavoro può essere chiamato a risponderne penalmente.
Epperò vien fatto di chiedersi quale sarà la norma giuridica di riferimento
applicabile al caso di specie?
La risposta non potrà che essere quella che occorrerà accertare
caso per caso quale sia stata l’effettiva intenzione del datore di lavoro.
Si dovrà pertanto diversificare la analisi in relazione al profilo
soggettivo di imputazione del fatto.
La volontà del soggetto attivo si dovrà accertare essere stata in
contrasto (contra ius) con la previsione di una norma giuridica.
Parallelamente, la indagine in parola dovrà consentire di
distinguere l’area delle condotte colpose da quelle dolose, segnatamente per
tutti quei reati sanzionati indifferentemente a titolo di colpa e di dolo. E’
questo proprio il caso delle lesioni personali e dell’omicidio, puniti
rispettivamente a titolo di dolo dagli artt. 582 e 575 c.p. ed a titolo di colpa
dagli artt. 590 e 589 c.p..
L’applicazione delle regole generali del diritto penale al mobbing
aziendale si traduce quindi in ultima analisi nella esigenza di valutare in
concreto se la compromissione della integrità psicofisica del lavoratore sia
riconducibile ad una condotta del datore di lavoro colposa o dolosa, in quanto
tale intenzionalmente e consapevolmente orientata a produrre quel danno in capo
al prestatore di lavoro.
In che modo, dunque, orientare l’accertamento della responsabilità
in sede giurisdizionale? In base a quali criteri sciogliere il nodo valutativo
inerente alla imputazione soggettiva (sia essa colposa o dolosa) del fatto di
reato?
D) I criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità.
L'iter procedimentale più corretto per rispondere agli
interrogativi come sopra sollevati non può certo prescindere dagli orientamenti
adottati, nelle piuttosto rare pronuncie, dalla Corte di Cassazione. I Supremi
Giudici di legittimità, giova ribadirlo quelle poche volte che si sono occupati
della materia, non hanno mancato di sottolineare che la imputazione della
responsabilità non può prescindere dalla analisi delle modalità estrinseche
di concreta manifestazione della condotta criminosa e da una attenta valutazione
di ogni profilo circostanziale del fatto.
Si pone dunque preliminarmente un problema della valutazione
soggettiva dell’evento (mobbing doloso o colposo) con la sola variante che se
il mobbing colposo deriva quale conseguenza non voluta dal colpevole da un fatto
previsto come doloso è contemplato un aggravamento di pena sino ad un terzo per
le lesioni colpose o per l’omicidio colposo ( art. 586 c.p.).
Al reato di lesioni colpose o dolose saranno poi applicabili le
circostanze aggravanti di cui all’art.583 c.p. Si pensi alla ipotesi del
lavoratore affetto da esaurimento nervoso o da stato depressivo prolungato nel
tempo.
Quanto poi al caso del datore di lavoro che, con la sua condotta
vessatoria, e/o ingiustificatamente discriminatoria e di emarginazione,
determini o rafforzi per colpa nel lavoratore mobbizzato, una propensione
suicidiaria, egli potrebbe esserne chiamato a risponderne a titolo di omicidio
colposo ex art. 589 c.p.
Per i casi di mobbing doloso, invece, non sembra realisticamente
applicabile, non fosse altro che per la difficoltà di provare l’elemento
psicologico del reato in capo al mobber, la norma dell’art. 580 c.p. che
punisce la istigazione al suicidio.
La prova della natura dolosa o colposa del reato - giova ribadirlo
una volta di più - deve dunque trarsi dalla condotta complessiva
dell’imputato e dalle circostanze del fatto che concorrono a costituire
l’azione criminosa e nelle quali si riverbera la coscienza e l’atteggiamento
della volontà dell’agente ( cfr. per tutte sul punto Cass. Pen. Sez.I,
28.01.91, Caporaso)
A ciò possono aggiungersi ulteriori elementi di carattere
soggettivo, quali la dichiarata motivazione della condotta dell’agente, ovvero
le sue stesse affermazioni che trovino adeguata e convincente corrispondenza
nelle emergenze processuali (Cass. Pen. 12.01.89, Calò).
Per ciò che concerne poi gli spazi per l’area della colpa,
questi vanno riservati a quelle situazioni di aggressione alla sfera morale e
psichica del lavoratore cui si possa riconoscere una matrice inconsapevole, nel
senso che esse si devono sostanziare in condotte in relazione alle quali il
datore di lavoro sia in grado di offrire una giustificazione motivazionale
compatibile con profili gestionali del modello di organizzazione del lavoro in
azienda.
In particolare, i profili di colpa specifica possono ravvisarsi
nella violazione di specifiche norme di legge quali per es. l'art. 2103 c.c. in
tema di divieto di dequalificazione mansionale del lavoratore nonchè l’art.
2087 c.c. o l’art.3 co.1 lett. s) D. L.vo 626/94 in tema di tutela
prevenzionistica che comporterà la contestazione delle specifiche aggravanti
previste dagli artt. 589 co. 2 e 590 co.3 c.p..
Non va poi trascurato che i profili contravvenzionali ordinari di
violazione della normativa prevenzionistica e di igiene del lavoro mantengono il
loro autonomo disvalore e la loro rilevanza penale e non possono in alcun modo
ritenersi assorbiti nella vicenda di mobbing. Ad essi pertanto sarà applicabile
il meccanismo procedurale sanzionatorio delineato dal D. L.vo 758/94.
Residuano poi gli spazi per l’area del dolo, che potrà essere sia
quello tipico diretto o intenzionale, nel quale l’agente-datore di lavoro deve
essersi rappresentato l’evento del reato come scopo e conseguenza della sua
condotta, sia quello indiretto o eventuale, nel caso in cui l’agente, ponendo
in essere la condotta di mobbing, seppur diretta ad altri scopi che non quello
di ledere la integrità psicofisica del lavoratore, si rappresenti la concreta
possibilità del verificarsi di tale evento ulteriore rispetto alla propria
azione e, nonostante ciò, agisca accettando il rischio di cagionarla (Cass.
Pen. Sez.I, 12.11.97 n.6358, Tair).
E) La prassi giurisprudenziale di merito del foro
palermitano.
I Giudici del nostro foro hanno sin qui preferito, salvo qualche
assai sporadica pronuncia, piuttosto che parlare di vero e proprio mobbing,
inquadrare le condotte in discorso nell’ambito di fattispecie di reato aventi
una loro autonoma rilevanza penale.
Si è registrata, in particolare, la tendenza a vedere contestate
quelle condotte che determinano la lesione della personalità morale del
lavoratore di volta in volta sotto forma di molestie sessuali, ingiurie,
minaccie, violazione degli obblighi di assistenza familiare e, assai più
di frequente, di abuso d’ufficio.
Proprio con riferimento a quest’ultima fattispecie di reato, mette
conto di segnalare un provvedimento del Giudice per le indagini preliminari di
Palermo, che è anche l’unico allo stato attuale delle mie conoscenze in cui
si sia expressis verbis adoperato il termine mobbing.
La fattispecie concreta era quella di un dirigente medico di un
presidio ospedaliero che lamentava di essere stato destinatario nell’ambito
del rapporto di lavoro con l’azienda di provvedimenti viziati da illegittimità
che gli avevano impedito il corretto svolgimento del suo servizio con danni
professionali ed erariali; di essersi visto attribuire l’incarico dirigenziale
di responsabile di un servizio ospedaliero di fatto inesistente; di essersi
trovato di fronte al sistematico diniego di venire inserito nella attività di
diagnosi e cura della Divisione di appartenenza o di incrementare
l’ambulatorio pomeridiano; l’utilizzo del potere organizzatorio, da parte
del Primario, al fine di gettare discredito sulla p.o., istigando altresì i
colleghi della Divisione ad atteggiamenti ostili nei suoi confronti; di essere
stato trasferito abusivamente presso altro Servizio; di aver visto avanzare ai
vertici aziendali continue richieste di provvedimenti disciplinari
(licenziamento) motivate da presunte violazioni nella gestione dell’incarico
di Responsabile di quel Servizio.
A fronte delle doglianze del lavoratore che si è espressamente
lamentato di essere stato mobbizzato, il Pubblico Ministero ha ritenuto di
avanzare richiesta di archiviazione del procedimento con l’argomentazione, tra
le altre, che “ al giudice penale non è consentito il controllo
sull’operato dei pubblici amministratori laddove si sia in presenza
dell’esercizio di un potere discrezionale e di un provvedimento viziato da
eccesso di potere, in mancanza di violazione di norme di legge o di regolamento
o del dovere di astensione ”.
Sulla scorta della suindicata presa di posizione dell’ufficio
requirente, il Giudicante, nell’accogliere la predetta richiesta di
archiviazione, ha affrontato il problema del mobbing analizzandone l’origine
storica del fenomeno, nonchè le caratteristiche peculiari, concludendo che “ anche
laddove i comportamenti ascritti dal denunciante all’indagato fossero
riconducibili in linea di ipotesi al mobbing, a prescindere dai risvolti di
natura risarcitoria squisitamente civilistici, si tratterebbe in ogni caso di
verificare, per considerare detto comportamento sussumibile nella fattispecie
astratta dell’abuso d’ufficio, che in esso siano riscontrabili gli estremi
dell’elemento materiale e psicologico del delitto in argomento ( abuso di
danno, in violazione di legge di regolamento o del dovere di astensione nei casi
prescritti, abuso intenzionale)
Non sembra però che sia stato acquisito un compendio indiziario che
deponga nel senso della configurazione del reato, poichè la marcata discrasia
tra quanto denunciato e quanto accertato induce tutt’ al più un mero elemento
di sospetto sul clima non del tutto pacifico e sereno che regnava all’interno
di quella Divisione in dipendenza dei rapporti tra il Primario e tutti gli altri
sanitari subordinati.
Conclusivamente perciò i comportamenti denunciati potranno trovare
la loro naturale sede di tutela in un giudizio civile o amministrativo ”.
Come si vede, quella descritta può senz’altro assumersi a vicenda
emblematica da un lato delle enormi difficoltà probatorie che il lavoratore
mobbizzato incontra sul cammino processuale penale e dall’altro
dell’atteggiamento tenuto dalla giurisprudenza di merito di necessario
assorbimento di quelle condotte in altre figure di reato aventi una loro propria
rilevanza penale.
Dunque, sul fronte squisitamente penale, allo stato attuale della
evoluzione giurisprudenziale, occorrerà prendere atto della esiguità, per non
dire inesistenza, degli spazi per una tutela giurisdizionale autonoma del
mobbing.
F) Conclusioni.
Giunti al termine di questa mia breve e sommaria, se non altro per
esigenze di tempo, disamina dei profili penalistici del mobbing, non resta che
porsi un interrogativo finale.
E’ davvero necessaria la creazione di una nuova ed autonoma figura
di reato magari del tipo di quelle propugnate dalle varie proposte di legge
dianzi segnalate?
La risposta – a mio sommesso avviso – non può che essere
negativa.
Ciò non soltanto perchè il nostro ordinamento giuridico positivo
già vieta ogni atteggiamento vessatorio ma anche perchè al tempo stesso offre
un ventaglio di soluzioni possibili tese ad individuare, sanzionare e d in
ultima analisi risarcire le relative responsabilità, una volta accertate in
concreto.
Sarà
sufficiente dunque fare corretto uso degli strumenti di tutela di natura
civilistica e penalistica già disponibili per garantire al soggetto mobbizzato
(sia esso lavoratore, familiare o scolaro) una adeguata protezione. Tutto questo
per non tacere, da ultimo, non certo in ordine di importanza, del fatto che un
fenomeno in continua evoluzione come quello di cui oggi ci stiamo occupando non
deve essere circoscritto entro confini prederminati, epperciò angusti, ma
piuttosto deve poter essere disciplinato da poche e chiare norme di principio da
riempire di volta in volta con i contributi interpretativi della giurisprudenza
che consentano di trovare le soluzioni più idonee ai singoli casi di specie.
Maurizio Gemelli
Avvocato penalista del foro di Palermo
Bibliografia
Ascenzi A, e Bergagio G.L., Il Mobbing. Il marketing sociale come
strumento per combatterlo, Giappichelli,Torino 2000.
Casilli A., Stop Mobbing. Resistere alla violenza psicologica sul luogo di lavoro,
Deriveapprodi, Roma 2000.
Ege H., Mobbing: che cos’è il terrore psicologico sul luogo di
lavoro, Pitagora, Bologna 1996; Il Mobbing in Italia: introduzione al mobbing
culturale, Pitagora, Bologna 1997; I numeri del mobbing: la prima ricerca
italiana, Pitagora, Bologna 1998.
Gilioli A. e Gilioli R., Cattivi capi, cattivi colleghi, Mondadori,
Milano 2000.
Hirigoyen M.F., Molestie morali. La violenza perversa nella famiglia
e nel lavoro, Einaudi, Torino 2000.
(Torna all'elenco Articoli
nel sito)