NIENTE ATTENUANTI PER I MAGISTRATI “FURBI”

 

Corte Suprema di Cassazione  Sezioni Unite Civili, Sentenza 17 Aprile – 29 settembre 2003 n. 14487 – Pres. Carbone – Rel. Napoletano – PM. Cinque (conf.)- Ric. Schettino.

 

E’ correttamente motivata ed esente da censure la decisione del Csm la quale, analizzando il tipo di decisioni depositate dal magistrato, e comparandole con la produttività di altri colleghi addetti al medesimo ufficio, accerti che l’incolpato abbia sistematicamente e reiteratamente rinviato le cause più complesse, trattenendo in decisione solo quelle più semplici, come ad esempio le opposizioni a sanzioni amministrative.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, con sentenza resa in data 5 aprile- 30 luglio 2002, ha inflitto al dott. Francesco Schettino, gia' Pretore di Gaeta ed in atto consigliere presso la Corte d’Appello di Napoli, la sanzione disciplinare dell’ammonimento, avendolo ritenuto responsabile di violazione dell’art. 18 r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511, per aver mancato di operosita' e laboriosita', redigendo, quale magistrato addetto al settore civile, un numero di sentenze assolutamente esiguo (159 nel 1996, 134 nel 1997 e 178 nel 1998) e nettamente inferiore a quello degli altri colleghi, privilegiando nelle pronunce quelle relative a questioni "seriali" e di piu' agevole soluzione, ponendo cosi' in essere un comportamento ampiamente censurato dall’ambiente forense e dai cittadini, rendendosi immeritevole della stima e del prestigio riservati agli appartenenti all’ordine giudiziario.

A tale conclusione, si legge nella sentenza, il giudice disciplinare e' pervenuto sulla base delle valutazioni ampiamente condivise e espresse dagli avvocati del foro di Gaeta, del rapporto statistico della produttivita' dell’incolpato con quella di magistrati, i dottori Di Cinti e Pappaianni della sede Latina, svolgenti analoghe funzioni, degli accertamenti compiuti dal Presidente del Tribunale di Latina, che hanno consentito di cogliere, non solo il dato quantitativo espresso dai rilievi statistici, ma anche quello relativo alla qualita' dei procedimenti trattati dal dott. Schettino.

Sotto il profilo quantitativo, osserva la Sezione Disciplinare, anche considerandosi gli ulteriori dati documentati dall’incolpato, deve ritenersi che il grado di laboriosita' dello stesso fosse inferiore alla media, essendo risultata un produzione inferiore, rispettivamente, del 15% e del 30% a quella dei suddetti colleghi di Latina, con una media, con riferimento al numero delle udienze, di due udienze alla settimana.

Nella consapevolezza della possibile equivocita' in astratto del dato numerico, il giudice disciplinare osserva che nel caso in esame anche il dato qualitativo, desunto dalla tipologia delle controversie cui si riferiscono le sentenze prodotte dall’incolpato, depone per una scarsa laboriosita' dello stesso, poiche' dall’accertamento compiuto dal presidente del tribunale di Latina dell’epoca emerge che sulle sentenze in materia civile pronunciate dal dott. Schettino negli anni 1998 e 1999 l’incidenza di quelle riguardanti procedimenti di opposizione alle ingiunzioni amministrative e', rispettivamente, del 38% e del 55% e che, inoltre, nel 1998 egli ha pronunciato solo 110 sentenze in controversie ordinarie.

Da ultimo, la decisione della Sezione Disciplinare rimarca la larga insoddisfazione che, come riferimento da taluni avvocati e/o rappresentanti del Consiglio dell’ordine di Latina, aveva prodotto tra gli avvocati di Gaeta la condotta dell’incolpato, che, pur apprezzato per la sua capacita' professionale, era giudicato negativamente per la propensione al rinvio delle decisioni piu' complesse.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il dott. Schettino, affidandosi a tre motivi, illustrati da successiva memoria.

Gli intimati, Ministero della Giustizia e Procuratore Generale presso questa Corte, non hanno svolto attivita' difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col primo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per nullita' di essa in conseguenza di violazione e falsa applicazione dell’art. 462 del previgente codice di procedura penale nonche' per «omessa, insufficiente, lacunosa, contraddittoria ed illogica motivazione su documenti, elementi e punti decisivi della controversia».

All’uopo, rileva che illegittimamente, in violazione della citata norma, il giudice disciplinare ha utilizzata la deposizione resa al Procuratore Generale della dott.ssa Menichetti, poiche' il teste non era incluso nella lista dei testi predisposti dalla Sezione Disciplinare e sulla lettura della sua deposizione non era stato acquisito il consenso dell’incolpato.

Osserva, inoltre, il ricorrente che la sentenza impugnata, pur valorizzando le deposizioni rese dai testi Avv. Magliuzzi e Avv. Melisburgo, omette di prendere in considerazione il documento, sottoscritto da ben 56 avvocati della Camera di Consiglio di Latina, tendente, sulla base di un espresso apprezzamento per la serieta' e la professionalita' di esso ricorrente, a provocare la revoca od il differimento dell’anticipato possesso dello stesso ricorrente, che era stato trasferito alla Corte d’Appello di Napoli.

Peraltro, la deposizione dell’Avv. Magliuzzi era perplessa con riferimento al numero di avvocati che avrebbero espresso insoddisfazione per l’operato di esso ricorrente.

Le varie censure in cui il motivo si articola risultano, tutte, prive di fondamento.

La deposizione della dott.ssa Menichetti, pur menzionata nel corso dell’esposizione dei fatti della sentenza impugnata, non risulta in alcun modo valorizzata in sede di valutazione delle risultanze istruttorie.

Comunque, la sua eventuale utilizzazione non poteva essere censurata sotto il profilo evidenziato dal ricorrente, non avendo, l’incolpato, eccepito alcunche', in sede di giudizio disciplinare, a fronte del provvedimento che ne disponeva la lettura.

E' noto, invero, che il silenzio serbato dalle parti di fronte alla irregolare lettura di deposizioni testimoniali sana ogni nullita' relativa alla lettura stessa.

Quanto, poi, all’omesso esame del documento sottoscritto da 56 avvocati della Camera Civile di Latina, la Sezione Disciplinare ha preferito far ricorso, al fine di stabilire il grado di apprezzamento della laboriosita' del dott. Schettino, al diretto esame di rappresentanti di quel Foro, tra i quali anche alcuni che avevano ricoperto cariche nel Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Latina (l’Avv. Piero e l’Avv. Magliuzzi, quest’ultimo anche vice pretore onorario) e tale scelta, al pari dell’attribuzione di attendibilita' ai testi escussi, si sottrae alla possibilita' di censure, costituendo espressione legittima del potere discrezionale del giudice di merito di individuare le fonti del proprio convincimento, scegliendo, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicita' dei fatti ad essi sottesi, dando cosi' liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (cfr. Cass. n. 4916/2000).

Ne maggior pregio puo' riconoscersi al rilievo critico riguardante la deposizione dell’Avv. Magliuzzi, nella parte relativa alla vastita' dell’insoddisfazione esistente tra gli avvocati nei confronti dell’incolpato, essendo evidente, dalla lettura del passo di tale deposizione riportato nel corso, la correttezza della valutazione datane dalla Sezione Disciplinare, che anche da essa ha tratto il convincimento della larga insoddisfazione serpeggiante nel Foro di Gaeta sia a causa della scarsa produttivita' in generale del dott. Schettino sia, in particolare, per la tendenza dello stesso a sottrarsi, rinviandole, alle decisioni piu' complesse.

Col secondo motivo il ricorrente denuncia nullita' della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 477 del previgente codice di procedura penale nonche' per omessa, insufficiente, lacunosa, contraddittoria ed illogica motivazione su documenti, elementi e punti decisivi della controversia.

La violazione del principio di correlazione tra incolpazione e decisione si sarebbe sostanziata, ad avviso del ricorrente: nel prendere in considerazione, ai fini del computo delle sentenze "seriali", l’anno 1999, non compreso nel periodo oggetto dell’incolpazione, trascurando, invece, di esaminare gli anni 1996 e 1997, che in quel periodo erano compresi; nel comparare la sua produttivita' a quella dei colleghi Di Cinti e Pappaianni, non indicati nel capo di incolpazione; nel considerare sentenze "seriali" le decisioni assunte nelle controversie relative alle sanzioni amministrative, ugualmente mai indicate nel capo di incolpazione, senza che a sanare la conseguente nullita' potesse valere la precisazione verbale operata, su sua sollecitazione, del Procuratore Generale nel corso dell’interrogatorio reso in istruttoria; nel prendere in considerazione un numero di sentenze diverso da quello precisato nel capo di incolpazione; nell’aver valorizzato circostanze, riferite dai testi escussi, che non avevano alcuna attinenza con i profili di colpa contestati; il che, secondo il ricorrente, integrerebbe anche il denunciato vizio di contraddittorieta' nella motivazione, avendo, il giudice disciplinare, precisato che l’addebito riguardava la scarsa laboriosita' nel settore civile, desunta dal raffronto con la produttivita' di altri magistrati addetti all’ufficio con analogo carico di lavoro.

La censura, nelle sue varie articolazioni, si rivela infondata od inammissibile.

La rilevazione relativa all’incidenza delle controversie "seriali", compiuta nella sentenza impugnata sulla base della nota del Presidente del Tribunale di Latina, riguarda, in primo luogo, l’anno 1998, compreso nel triennio preso in considerazione ai fini dell’incolpazione e, con riferimento a tale anno, evidenzia un’incidenza del 38%, correttamente ritenuta elevata dal giudice disciplinare (peraltro, in relazione allo stesso anno, e' emerso che il dott. Schettino ha prodotto soltanto 110 sentenze in controversie "ordinarie").

E' evidente che l’ancora piu' elevata incidenza (il 53%) riscontrata in relazione all’anno 1999, non compreso nel periodo oggetto della contestazione, viene evidenziata al solo scopo di rimarcare la tendenza dell’incolpato a reiterare la condotta negligente.

Giova, peraltro, aggiungere che, come emerge dalla decisione impugnata (cfr. fg. 11), i dati al riguardo rilevati non furono dal dott. Schettino contestati nella fase di merito e che egli, pur rilevando l’omesso esame dell’incidenza delle decisioni "seriali" con riferimento agli anni 1996 e 1997, si e' astenuto dal documentare, in fase di merito, una diversa e piu' favorevole incidenza in quegli anni.

Quanto ai rilievi svolti sub b) e c), si osserva, preliminarmente, che essi evidenziano violazioni del principio di specificita' dell’incolpazione, anziche', quella, denunciata, dal ricorrente, del principio di correlazione tra contestazione e decisione.

Il vizio e', comunque, infondato, nn potendosi ritenere generica l’incolpazione quando la sua formulazione, ancorche' non estremamente dettagliata, evidenzi come nel caso in esame, anche in considerazione delle valide specificazioni verbali operate dall’organo dell’accusa in sede d’interrogatorio, i tratti fondamentali dell’illecito disciplinare attribuito all’incolpato, sì da consentire allo stesso di difendersi adeguatamente.

Nella specie, alla stregua del principio di diritto ora enunciato, devesi ritenere che sia stato agevole per il dott. Schettino intendere che l’accusa muoveva dalla comparazione della sua produttivita' con quella di colleghi dello stesso ufficio, addetti alla trattazione di materie analoghe alla sua e che l’accusa di aver privilegiato le decisioni in controversie riguardava la materia delle controversie relative alle opposizioni alle ingiunzioni amministrative.

La violazione del principio di correlazione tra contestazione e decisione non ricorre, di certo, con riferimento al numero di sentenze preso in considerazione, essendo evidente che l’aver fatto derivare il giudizio di colpevolezza da un numero di provvedimenti maggiore di quello indicato nel capo di incolpazione sta ad evidenziare soltanto che la decisione impugnata prende atto dei dati numerici forniti dall’incolpato ed a lui piu' favorevoli, ma, cionondimeno, ritiene ugualmente modesta la produzione.

Trattasi, dunque, di statuizione corretta in diritto, ben potendo il giudice pervenire ad un’affermazione di responsabilita' a fronte dell’accertamento di un illecito quantitativamente meno grave, sempre che, come nel caso in esame, la qualificazione giuridica dell’illecito resti immutata.

Da ultimo, manifestamente inammissibile risulta il rilievo sub e), perche' il ricorrente non specifica i profili di colpa, diversi da quelli contestati, sui quali si reggerebbe la decisione impugnata.

Col terzo motivo il ricorrente si duole di omessa, insufficiente, contraddittoria ed illogica motivazione su documenti, elementi e punti decisivi della controversia nonche' di violazione e falsa applicazione dell’art. 18 r.d.l.n. 511 del 1946, adducendo che: a) la motivazione della decisione impugnata e' inficiata da illogicita' nel criterio argomentativo, nella parte in cui classifica come "seriali" le controversie relative ad apposizione alle ordinanze, ingiunzioni, tale qualificazione traendo dalla tipicita' del procedimento ex lege n. 689 del 1981 e trascurando di considerare, da un lato, la varia ed ampia tipologia delle sanzioni amministrative in riferimento alle quali detto procedimenti e' previsto e, dall’altro, la complessita' delle questioni giuridiche che dette controversie pongono; b) ugualmente illogico e' l’aver ritenuto fondato l’addebito di aver privilegiata la trattazione e decisione di dette controversie, nonostante l’omessa comparazione con l’incidenza della stessa materia nella produzione degli altri magistrati addetti al settore civile e l’omesso esame delle certificazioni comparative rese dal Direttore di Cancelleria dell’Ufficio di Gaeta, dalle quali emerge, con riferimento all’anno 1999, che l’incidenza sulle decisioni rese da esso ricorrente non era del 53%, come ritenuto in sentenza, bensi' solo del 26%;c) la decisione impugnata e' nulla per violazione del principio di correlazione tra contestazione e decisione, sia per aver tenuto fermo l’addebito di assoluta esiguita' del numero delle decisioni emesse nonostante l’accertato maggior numero di sentenze rese rispetto a quello indicato in contestazione, sia per aver istituito un giudizio comparativo con la produttivita' di magistrati non indicati nel capo d’incolpazione; d) disattendendo il criterio logico che impone di comparare dati omogenei, il giudice disciplinare ha affrontata la produttivita' di esso ricorrente, non gia' con la produttivita' media dell’intera Pretura di Latina nel settore civile, bensi' con quella dei soli dottori Pappaianni e Di Cinti, per di piu' addetti al solo settore civile, in tal modo discostandosi anche dal senso comune che devesi attribuire ad un’operazione di comparazione; e) poiche' dai dati forniti risultava una sua produttivita' superiore alla media della Pretura di Latina, ben poteva essere apprezzato il significato del giudizio di «buona produttivita'» espresso nei suoi confronti dal Consiglio Giudiziario della Corte d’Appello di Roma in data 9 maggio 2001; f) la Sezione Disciplinare ha omesso, infine, di considerare l’ulteriore lavoro, per complessivi provvedimenti n. 1170, svolto in tema di decreti ingiuntivi, giurisdizione volontaria, esecuzione mobiliare e tutela cautelare ed illogicamente ed arbitrariamente non ha fatto alcun cenno ai provvedimenti di natura cautelare e possessoria, nonostante che la loro delicatezza abbia consigliato il legislatore di affidarli esclusivamente a giudici togati; la sentenza impugnata, mentre valorizza le deposizioni testimoniali dell’Avv. M. e della dott.ssa Menichetti, ha negata qualsiasi valenza numerica ai 56 avvocati sottoscrittori del documento tendente a far prorogare la sua permanenza alla Pretura di Latina in occasione del trasferimento alla Corte d’Appello di Napoli.

Le varie censure, in cui il motivo si articola, risultano, in parte, ripetitive di alcune gia' esaminate e, per la parte residuale, infondate.

In ordine alla pretesa violazione del principio di correlazione tra contestazione e decisione e all’utilizzazione delle deposizioni testimoniali dell’Avv. M. e della dott.ssa Menichetti, congiuntamente all’omesso esame del documento degli avvocati della Camera Civile di Latina, a dimostrare l’infondatezza delle censure valgono le considerazioni gia' svolte nel corso dell’esame dei precedenti motivi, non avendo, i ricorrente, addotto alcun nuovo argomento a sostegno delle censure.

Quanto alle altre censure, si osserva, in primo luogo, che il ricorrente, ponendo l’accento critico soprattutto sulla parte della motivazione che valorizza il dato qualitativo della sua produzione, trascura di considerare che tale aspetto, indubbiamente rilevante, e' stato dalla Sezione Disciplinare ritenuto come confermativo del giudizio di colpevolezza, perche' gia' il dato quantitativo, desunto dalla valutazione e del numero complessivo di sentenze rese nel triennio considerato, cosi' come risultante dalle stesse documentate precisazioni operate dall’incolpato con i dati relativi alla produzione nello stesso periodo dei colleghi Di Cinti e Pappaianni, avrebbe, di per se, consentito di pervenire ad un giudizio di laboriosita' inferiore alla media e disciplinarmente rilevante.

Tale giudizio, pur limitato all’aspetto numerico, si sottrae alle censure svolte dal ricorrente, sia perche' la comparazione risulta operata tra dati omogenei (i suddetti due magistrati erano addetti, presso la sede centrale della Pretura di Latina, a compiti a quelli del dott. Schettino ed avevano lo stesso carico  di lavoro; v. pagg. 2 e 10 della decisione impugnata) sia perche' scaturisce dalla valutazione dell’intera produzione dell’incolpato, comprensiva di quella risultante dalle certificazioni, da lui prodotte, relative al lavoro svolto nel settore delle esecuzioni mobiliari.

L’omogeneita' dei dati comparati consente di superare l’ulteriore rilievo critico, denunciante l’omessa considerazione della produzione in materia possessoria e cautelare, essendo evidente che anche per i magistrati Pappaianni e Di Cinti si debba tener conto della produzione in tale materie.

Cio' permesso, si osserva che neppure le censure relative all’analisi del dato qualitativo risultano fondate.

Con riferimento alla qualifica di routinarieta' attribuita dal giudice disciplinare alle controversie in tema di opposizione ad ingiunzioni amministrative trattate dall’incolpato, se e' vero che tali controversie non sono riconducibili ad un’unica tipologia e che, talvolta, pongono delicati problemi giuridici, e' pur vero che, come correttamente rilevato dalla Sezione Disciplinare, il ricorrente si e' astenuto dal fornire dati idonei a dimostrare che il contenzioso da lui trattato in tale settore, distaccandosi notevolmente dalla media di difficolta' normalmente accertabile, lo aveva costretto ad un particolare impegno sul piano qualitativo.

Le ulteriori censure mosse alla valutazione dell’incidenza delle suddette controversie nella produttivita' dell’incolpato risultano, in parte, inammissibili, perche', come si rileva dalla sentenza impugnata (cfr. fg. 11), i dati al riguardo contestati non furono messi in dubbio dal dott. Schettino nella fase di merito, ed, in parte, infondate, dal momento che l’incolpato non evidenzia, con riferimento alla produzione dei colleghi assunta a dato comparativo, dati idonei a sovvertire il giudizio negativo espresso, anche sotto l’aspetto qualitativo, dalla Sezione Disciplinare.

Conclusivamente, la decisione impugnata si sottrae alle censure svolte dal ricorrente, compresa quella che adombra un vizio di contraddittorieta' della motivazione in considerazione del giudizio di buona produttivita' espresso, con riferimento allo stesso periodo lavorativo, dal Consiglio Giudiziario presso la Corte d’Appello di Roma in data 9 maggio 2001, trattandosi di giudizio espresso da altro organo, in sede amministrativa, e, peraltro, in maniera decisamente apodittica.

Il ricorso va, dunque, respinto.

PQM

La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.

Roma, 17 aprile 2003.

Depositata in Cancelleria il 29 settembre 2003.

 

Sanzione disciplinare confermata per il magistrato poco produttivo

"La valutazione dell'impegno non è fatta solo di numeri"

Luigi Di Paola*

Scatta la sanzione disciplinare per quei magistrati poco produttivi. La casistica giurisprudenziale forgiata dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, in materia di difetto di laboriosità del magistrato si arricchisce infatti, pur nella sua nota esiguità di fondo, di un significativo pronunciato, fuoriuscito dalla zona d'ombra dell'oblio grazie al recente intervento rivitalizzante delle Sezioni unite della Cassazione (sentenza 14487/03, qui pubblicata a pagina 42).

Il fatto, stimolativo dell'avviata azione disciplinare culminata nel responso di segno afflittivo per il magistrato incolpato, trae spunto da segnalazione anonima, confermativa di malesseri diffusi nel locale foro ed addebitabili alla denunciata scarsa operosità del predetto magistrato, reo di aver sfornato sentenze civili con esagerata prudenza ed incline alla definizione - capace di alterare, in negativo, la portata dei numeri - di controversie "seriali".

IL FATTO

Il Csm si avvale, per la formulazione del giudizio, dei dati statistici - che «avrebbero già consentito di giungere alla presente pronuncia» - rivelatori di una produttività del magistrato inferiore a quella di due colleghi del medesimo, operanti nello stesso ufficio ed investiti di analogo carico di lavoro; in particolare, nel triennio considerato nel capo di incolpazione, il primo risulta artefice di 631 sentenze (di cui 523 tra civile e lavoro e 108 penali, con una media di 210 l'anno), contro le 885 e 727 dei secondi. Non manca, peraltro, nell'analisi descrittiva compiuta dall'alto Consesso, il riferimento alle udienze, la cui celebrazione, due volte la settimana, viene giudicata al di sotto della media (sulla base di quali parametri non è dato arguire dalla lettura della motivazione, che ben porrebbe, in ogni caso, destare, su tale punto, non trascurabile allarme presso quegli Uffici giudiziari ove le due udienze settimanali costituiscono antica e condivisa regola). Ma affidarsi al solo dato numerico - che, «in mancanza di rilevazione e di ponderazione dei dati sufficientemente attendibile ed affidabile che individui con ragionevole precisione il dato di produttività media per magistrato, per tipologia di ufficio e di funzioni, si presta a differenti interpretazioni, persino tra loro contraddittorie» - appare subito operazione poco feconda; la cui fragilità di fondo, peraltro, risulta certificata dalla vantazione positiva dei magistrato effettuata, proprio nello stesso periodo di tempo contemplato dall'incolpazione, dal Capo dell'Ufficio.

IL GIUDIZIO DEL CSM

La valutatone dell'Organo di autogoverno, pertanto, dischiusasi all'esame del profilo, percepibile grazie ad un monitoraggio contingente messo a punto dal subentrante Capo, relativo alla «qualità dei procedimenti trattati», si concentra sull'incidenza percentuale, giudicata rilevante, delle sentenze afferenti determinate controversie (i.e: opposizioni a sanzioni amministrative), di presumibile più agevole definizione, in rapporto al totale del lavoro svolto (il quale finisce, così, per risultare ulteriormente svilito nella sua consistenza effettiva). In sostanza viene estirpata dal monopolio prettamente teorico l'idea che il peso specifico dei processi debba stemperare la valenza oggettiva dell'arido dato numerico, e se ne sperimenta la messa in opera in fase patologica, attraverso il censimento delle tipologie di controversie cui le sentenze si riferiscono, per la formulazione del giudizio di responsabilità. La linearità dell'approccio non sembra perdere, peraltro, battute significative nel dosaggio delle presunzioni, necessariamente utilizzate per giungere alla conclusione che «il peso qualitativo medio dei procedimenti trattati dall'incolpato (in difetto di prospettazioni del medesimo atte a dimostrare la sussistenza di una situazione concreta fortemente dissimile rispetto alla media nazionale) sia collocabile nella media degli uffici di analoghe dimensioni, per i quali invece la produttività media è decisamente più consistente». Sebbene qui potrebbe, forse, fornire esca a qualche puntigliosa obiezione (facile a innestarsi in un campo minato) il raffronto operato tra fattori (i.e.: il peso qualitativo medio del lavoro del magistrato e produttività media degli uffici) non completamente allineati tra di loro. Nel caso specifico, inoltre, il Csm (finendo per rievocare questioni affrontate in articolati dibattiti) mostra di non ignorare, nella vicenda specifica, i rilievi critici mossi, in punto di laboriosità del magistrato in questione, dall'avvocatura, ad ulteriore supporto della decisione finale.

LA DECISIONE DELLA CASSAZIONE

La Suprema corte, vincolata all'esercizio del sindacato conferitole per legge, lascia fermo lo scenario delineatosi in fase di merito, chiudendo, ad uno ad uno, i varchi aperti dai motivi di impugnazione, forzando, forse, in un solo caso, il proprio impianto argomentativo; lì dove ribatte, enfatizzando la sfera di operatività del ragionamento presuntivo, che «i dati al riguardo rilevati non furono dal dott. (...) contestati nella fase di merito e che egli, pur rilevando l'omesso esame dell'incidenza delle decisioni "seriali" con riferimento agli anni 1996 e 1997, si è astenuto dal documentare, in fase di merito, una diversa e più favorevole incidenza in quegli anni». La Corte è comunque abile ad illuminare, con l'enunciato finale, il triste retroscena; si legge, per l'appunto: «Conclusivamente, la decisione impugnata si sottrae alle censure svolte dal ricorrente, compresa quella che adombra un vizio di contraddittorietà della motivazione in considerazione del giudizio di "buona produttività" espresso, con riferimento allo stesso periodo lavorativo, dal Consiglio giudiziario presso la Corte d'appello (...), trattandosi di giudizio espresso da altro organo, in sede amministrativa, e, peraltro, in maniera decisamente apodittica». Considerare annientata la valenza dei pareri può suonare, in un contesto di riferimento più ampio, eccessivo, ma, al contempo, patire, senza necessariamente incorrere in slanci emotivi smisurati, la delusione di un sistema di valutazione aperto a decisioni definite apodittiche potrebbe non essere, a giudizio di taluno, un fuor d'opera. La verità è che gli effetti del complessivo pronunciato si irradiano in più direzioni, e non occorre, per avventurarsi nei percorsi appesantiti da tratti curvilinei, esser dotati di brillante fantasia.

Prevale la tendenza, ragionevolmente da non osteggiarsi, a definire un lavoro medio esigibile del magistrato, ovviamente tenendo conto delle funzioni esercitate e di altre variabili legate all'ufficio di appartenenza; una volta fissati alcuni parametri, che la nota Commissione mista Ministero-Csm sta approntando (anche se con esclusivo riferimento al lavoro complessivo degli uffici giudiziali), introducendo una pesistica (che già conosce un primordiale modello sperimentato nella distribuzione del carico di lavoro presso la Cassazione) delle controversie, potrà più agevolmente misurarsi la produttività, senza vacillare al cospetto delle insidie innescate dai numeri. Ma non è detto che l'irruzione sulla scena dell'antidoto possa imprimere le auspicate torsioni al sistema, se i ripensamenti sulle logiche valutative continueranno ad oscillare tra poli teorici distanti tra loro.

CSM: LA DELIBERA DEL 23 LUGLIO 2003

Ma qui scatta la molla che induce al salto in avanti l'Organo di autogoverno, stilatore, di recente, della delibera in data 23 luglio 2003, recante «Integrazione e modifica della circolare 1275/85 in materia di criteri per la formulazione dei pareri per la vantazione di professionalità dei magistrati».

Con il rilevante documento il Csm si propone di rendere veramente effettivo il momento valutativo, per avere sempre un quadro esatto della professionalità del magistrato e delle sue attitudini. Ivi si legge che «dai pareri dei Consigli giudiziali, per la ricorrente utilizzazione di formule estimatorie stereotipe e ripetitive, si rileva un non sempre soddisfacente sistema di acquisizione dei dati in sede istruttoria, originato non solo dalle note carenze del sistema di rilevazione del lavoro giudiziario (statistico e di qualità, di cui, peraltro, si preannunziano consistenti modifiche), ma anche dalla sostanziale mancanza di omogeneità dei rapporti dei capi degli uffici»; e non si omette di richiamare l'attenzione sul rapporto del dirigente dell'ufficio «in quanto è da esso che possono essere tratti gli elementi conoscitivi più immediati, essendo l'autore del rapporto a contatto diretto con il magistrato ed avendo, quindi, conoscenza diretta del suo impegno lavorativo e della qualità della sua professionalità». Il punto di approdo è che «la qualità e la quantità del lavoro svolto dal magistrato in valutazione dovranno essere oggetto di valutazione da parte del dirigente dell'ufficio che dovrà effettuare le sue considerazioni sul complesso dell'attività svolta dal magistrato stesso, alla luce delle funzioni concretamente esercitate»; e nell'ottica di perseguire l'obiettivo di «responsabilizzare i soggetti chiamati a effettuare la valutazione a dare un giudizio in linea con il dato concreto acquisito agli atti del procedimento», si prevede che alla relazione del dirigente debbano essere allegati anche provvedimenti giudiziari redatti dal magistrato in valutazione, onde fornire al Consiglio giudiziario prima ed al Consiglio superiore dopo un oggettivo strumento di riscontro del giudizio formulato.

CONCLUSIONI

Può, a questo punto, ricomporsi il mosaico, dando il via libera all'interrogativo - che si auspica, avuto riguardo alla menzionata delibera, non debba porsi per il futuro - che traspare, in ampia prospettiva, dal quadro sopra tratteggiato: in quale misura il parere "rassicurante" fornito dagli organi titolari della funzione valutativa può incidere sulla condotta futura del magistrato e quanto vale a legittimarne, in termini di accettabilità, quella passata? La risposta è già data: è bene che il magistrato, per scongiurare ogni sorta di rischio in sede disciplinare, si rimetta all'autovalutazione figlia del buon senso; ma che l'odierna inversione di rotta sia comunque pubblicizzata al massimo, giacché anche il buon senso non si sottrae alla libera dissertazione.

*Magistrato

(fonte Diritto e Giustizia, n. 38/2003, p. 42 e 46, ed.Giuffrè)

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