La prescrizione nell'ambito del rapporto di lavoro
 
Sommario:
    1.     Prescrizione per i crediti retributivi: decorrenza in corso di rapporto (per quelli dotati di stabilità reale)
    2.     Vecchie iniziative parlamentari estensive (non sfociate in legge) e modalità di interruzione del decorso della prescrizione
    3.     Prescrizione del diritto alla qualifica (superiore) ed ai differenziali di retribuzione
    4.     La prescrizione del diritto al risarcimento del danno da demansionamento professionale o mobbing e del danno alla salute
    5.     Incoercibilità degli obblighi di fare ed elusione dell’ordine giudiziale: considerazioni
    6.     Azioni giudiziali avverso i demansionamenti
    7.     La prescrizione del risarcimento da omissioni contributive datoriali
 
1. Prescrizione per i crediti retributivi: decorrenza in corso di rapporto (per quelli dotati di stabilità reale)
La carenza di una peculiare regolamentazione della prescrizione, nell'ambito del sistema normativo disciplinante la materia del lavoro, impone all'interprete di individuare preliminarmente il regime o i regimi di prescrizione applicabili ai vari diritti nascenti dal rapporto di lavoro subordinato.
Secondo l'opinione ormai nettamente dominante tutto ciò che viene corrisposto dal datore al prestatore di lavoro con periodicità annuale o infra annuale ed, in particolare, i crediti di retribuzione si prescrivono nel termine di cinque anni secondo il disposto dell'art. 2948, n. 4, c.c.  Allo stesso termine quinquennale di prescrizione sono sottoposte, in virtù dell'art. 2948, n. 5, c.c., le competenze spettanti alla cessazione del rapporto di lavoro (il trattamento di fine rapporto, l'indennità di mancato preavviso e l'indennità per causa di morte). La prescrizione ordinaria decennale, di cui all'art. 2946 c.c., assume invece nella materia del lavoro una rilevanza applicativa secondaria, svolgendo un ruolo residuale invero assai limitato. Il connotato caratterizzante i diritti del prestatore, riconducibili nella previsione dell'art. 2948, n. 4, c.c., non è tanto la natura retributiva, quanto piuttosto la particolare modalità di soddisfazione del credito del lavoratore, nel senso che soltanto ove l'adempimento della prestazione da parte del datore si realizzi, per imposizione legale o contrattuale o più semplicemente per consuetudine, con continuità a scadenze periodiche, potrà trovare applicazione la prescrizione breve quinquennale. Viceversa opererà la prescrizione ordinaria decennale.
Ciò premesso risulta, purtroppo, ancora diffusa tra i  lavoratori - mentre la questione è chiara pressoché solo per gli addetti ai lavori (magistrati, giuslavoristi, ecc.) - una radicata quanto errata convinzione, secondo cui i propri diritti, afferenti ai crediti retributivi, non si prescriverebbero per tutto il periodo di spiegamento del  rapporto di lavoro ma sarebbero, all'opposto, rivendicabili dopo la risoluzione del rapporto stesso.
Causa  di tale infondato convincimento può ritenersi una sommaria cognizione dei principi stabiliti - in epoca antecedente alla promulgazione delle leggi sui licenziamenti individuali e dello statuto dei lavoratori - dalla sentenza n. 63 del 10.6.1966 della Corte costituzionale, in tema di prescrizione dei crediti di lavoro di cui all'art. 36 Cost.
All'epoca la rivoluzionaria decisione stabilì  che la regola, sancita dall'art. 2935 c.c., della decorrenza della prescrizione “ dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere” (e cioè dal giorno in cui è sorto), non era operativa per i diritti retributivi sorgenti dall'art. 36 Cost. - soggetti di norma a prescrizione estintiva quinquennale - in ragione della condizione di soggezione psicologica in cui versa il lavoratore, nel rapporto di lavoro subordinato privatistico. Soggezione concretizzantesi “nel timore del recesso, cioè del licenziamento che spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia ad una parte dei propri diritti...” (così Corte cost. n. 63 del 1966).
In conseguenza di questa realistica osservazione, la Corte costituzionale sancì allora la regola del differimento, alla fine del rapporto di lavoro, del decorso della prescrizione per l'azione volta a rivendicare gli stretti titoli retributivi rientranti nell'ambito del “salario minimo familiare”(di cui si occupa appunto l'art. 36 Cost., in relazione al quale la Consulta dichiarò la parziale illegittimità delle disposizioni sulla prescrizione).
E, ad evitare interpretazioni ampliative della materia retributiva oggetto del differimento dell'azione della prescrizione per l'epoca dell'estinzione del rapporto, la Corte - in successive decisioni  precisò che non erano riconducibili ai crediti retributivi, ex art. 36 Cost., sia i compensi per il lavoro straordinario, sia per l'indennità sostitutiva delle ferie, sia la gratifica natalizia.
Tuttavia la regola del differimento a fine rapporto dell'inizio della prescrizione per il lavoratore - enunciata in assenza della legislazione garantistica (di cui alle leggi n. 604/1996 e n. 300/1970, c.d. statuto dei lavoratori) - subì successive correzioni ad opera della stessa Corte costituzionale, una volta che la sopravvenuta legislazione, protettiva del lavoratore ed al tempo stesso espulsiva e sanzionatoria del licenziamento arbitrario, stemperò il timore del recesso datoriale immotivato e ridusse il grado di minor resistenza del rapporto di lavoro privato rispetto a quello di pubblico impiego.
La Corte costituzionale - attraverso posteriori decisioni  (n. 143/1969; n. 86/1971 ed infine n. 174/1972) - si pose apertis verbis il quesito (positivamente risolto) se, per effetto delle introdotte innovazioni legislative (ripetesi: legge sulla "giusta causa e giustificato motivo" nei licenziamenti individuali e statuto dei lavoratori) non fosse venuto meno anche il fondamento giuridico  su cui poggiava la parziale invalidazione delle disposizioni civilistiche sulla prescrizione, stabilita nella precitata sentenza n. 63 del 1966.
E pervenne così alla conclusione che  il principio del differimento, all'epoca dell'estinzione del rapporto, della decorrenza della prescrizione  non era affatto applicabile  “tutte le volte che il rapporto di lavoro subordinato fosse caratterizzato da una particolare forza di resistenza la quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca la garanzia di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione".
Sulla tematica la Corte costituzionale ha avuto occasione di ritornare con una serie di sentenze del giugno 1979 [1] tramite le quali ha sostanzialmente, anche se non perspicuamente, riconfermato la rettifica  apportata nel 1972 all'orientamento dilatorio, per i rapporti di lavoro subordinato nei quali il lavoratore risulta adeguatamente tutelato, sostanzialmente e processualmente, contro il timore della ritorsione del licenziamento arbitrario.
All'orientamento correttivo di Corte cost. n. 174/1972, si adeguarono, all'epoca, le sezioni unite della Cassazione (n. 1268 del 12.4.1976) asserendo con tutta chiarezza che la decorrenza della prescrizione ordinaria (quinquennale, per i crediti retributivi del lavoratore) “non è unica per qualsiasi rapporto di lavoro ma dipende...dal grado di stabilità del rapporto stesso”, dovendosi “ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale sul piano sostanziale subordini la legittimità e l'efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”.
Affermò la Cassazione che, agli effetti della dilazione del decorso della prescrizione a fine rapporto, tale situazione di stabilità, “ per la generalità dei casi, coincide oggi con l'ambito di operatività della legge 20.5.1970 n. 300 ( dati gli effetti attribuiti dall'art. 18 all'ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dall'art. 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604 sui licenziamenti individuali)”, potendo tuttavia “ anche realizzarsi ogniqualvolta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che danno al prestatore d'opera una tutela di pari intensità”.
Il surriferito principio - in ordine ai criteri atti ad implicare l'immediato decorso della prescrizione - è da ritenersi pacificamente consolidato, attesa la nutrita serie di decisioni posteriori di segno conforme della Cassazione.
Conseguenza, ai fini pratici, di quanto soprariportato è che – nella generalità dei settori - mentre per tutto il restante personale la prescrizione è pienamente operativa in corso di rapporto (nelle medie e grandi aziende, in organico nelle unità produttive aldispra dei 15 dipendenti), gli unici beneficiari del differimento del decorso della prescrizione a fine rapporto  risultano essere i “dirigenti”, e  cioè coloro la cui risoluzione ad iniziativa discrezionale aziendale, quantunque condizionata  pattiziamente (cioè contrattualmente) a “giusta causa o a giustificato motivo”, non è accompagnata, in caso di ingiustificatezza, dalla tutela della reintegrazione nel rapporto ex art. 18 stat. lav.  (norma che assicura la c.d. stabilità reale del rapporto), ma eventualmente solo  a penali a contenuto risarcitorio di natura retributiva (cd. indennità supplementare per i dirigenti d’industria), soggette ad imposizione Irpef, secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione (per cui vedasi da ultimo Cass., sez. trib., n. 3632 del 20 febbraio 2006[2]).
Solo nelle piccole imprese aldisotto dei 16 dipendenti - ove per tutti i dipendenti vige la sola stabilità “obbligatoria”, da intendersi quale libertà di licenziamento con monetizzazione –vale per tutti i prestatori d’opera la regola dell'operatività della prescrizione a rapporto di lavoro estinto, come evidenziato in precedenza per i dirigenti.
 
2. Vecchie iniziative parlamentari estensive (non sfociate in legge) e modalità di interruzione del decorso della prescrizione
Va detto ancora che all'epoca in cui la Corte costituzionale e la Cassazione elaborarono e, rispettivamente, recepirono la “correzione” dell’antecedente principio generale (che aveva spostato, in assenza di legislazione garantista, il decorso della prescrizione a fine rapporto), non mancarono reazioni vivaci sia in dottrina sia in giurisprudenza, occasionando altresì iniziative parlamentari  tese alla reintroduzione del principio della indifferenziata dilazione dell’operatività della prescrizione a rapporto di lavoro estinto.
Per la cronoca merita riferire come siano state presentate a metà degli anni ‘70 due iniziative (d.d.l. n. 216/1976 e proposta di legge n. 476/1976), finalizzate a generalizzare il riferito principio. I proponenti dell'epoca rilevarono - con notazioni perspicue ed  ancora attualissime -  che la Corte costituzionale nel suo intervento “correttivo” delle enunciazioni di cui alla sentenza n. 63/1966 ad opera della successiva decisione n. 174/1972  poteva ritenersi essersi mossa coerentemente una volta individuato il “timore del licenziamento” quale “unico” criterio di coercizione psicologica e di debolezza intrinseca al rapporto di lavoro privato. Ma così non era in assoluto in quanto da più parti si era fatto realisticamente e giustamente rilevare che nel ragionamento della Corte costituzionale risiedeva un errore, riposante sulla “ristrettezza” della premessa assunta dalla Consulta.
Invero - affermarono  i proponenti  dei d.d.l. – “la debolezza di fatto del lavoro dipendente, rispetto al datore di lavoro, non è dovuta soltanto al timore del licenziamento. Sono numerose altre sfere di subordinazione che, in costanza di rapporto di lavoro, espongono il lavoratore alle ritorsioni di controparte. Basti pensare al mancato riconoscimento di una meritata qualifica professionale, alla relegazione in reparti punitivi o sgraditi, alla degradazione delle mansioni, al trasferimento in sedi disagiate celato sotto l'aspetto della promozione...Per quanto sia stabile il rapporto di lavoro e dotato di mezzi giurisdizionali di tutela, di fatto il datore di lavoro ha numerose possibilità, anche apparentemente legittime, di usare il suo potere discrezionale di direzione in modo da esercitare una pressione intimidatoria o punitiva nei confronti del lavoratore indocile”.  
Infine i fautori delle iniziative parlamentari non mancarono di far acutamente notare come lo stato di soggezione dei prestatori di lavoro allignava a livello psicologico ed insisteva cioè su una sede organica determinante esitazione, insicurezza ed addirittura incapacità “ad avvertire quegli elementi di sicurezza legislativa che li indurrebbero a fronteggiare (anche con l'ausilio sindacale, n.d.a.) l'imprenditore inadempiente”.
Per varie ragioni  queste attualissime considerazioni caddero nel vuoto ed i disegni di legge non ebbero seguito, con l'effetto che  il regime della prescrizione è rimasto quello illustrato nel corso del presente scritto.
Sul piano concreto, attesa l'operatività (eccetto che per i dirigenti e per i lavoratori alle dipendenze di unità produttive aldisotto dei 16 dipendenti)  della prescrizione in corso di rapporto, il prestatore potrà cautelarsi contro gli effetti vanificatori (dei propri diritti  retributivi conculcati) da parte della prescrizione, tramite temporalmente reiterate iniziative interruttive - non necessariamente giudiziali, ex art. 2943, 4° comma, c.c. - ma comunque consistenti in idonei atti (cioè lettere, meglio se A.R.) di costituzione in mora del datore di lavoro, chiaramente indicativi della natura delle pretese, accompagnati da intimazione (o invito) di adempimento, idonei a concretizzare inequivocabili manifestazioni di volontà del lavoratore di far valere i propri diritti nei confronti dell'azienda (cfr. Cass. n. 542/1984).
Per la verità possono valere, ai fini interruttivi, anche richieste non provviste dei requisiti canonici della “diffida ad adempiere” sopraindicata, considerato che le sezioni unite della Cassazione (n. 9147 del 18.12.1987) hanno condivisibilmente sottolineato - in linea con le considerazioni dei proponenti dei d.d.l. di riforma del regime della prescrizione, innanzi citati - che “nell'ambito del rapporto di lavoro nel quale (nonostante l'eventuale stabilità) può sempre sussistere uno stato di soggezione del prestatore nei confronti del datore, la volontà del prestatore di non rinunciare al soddisfacimento dei propri diritti non può essere esclusa in base al rilievo circa il tono di petizione e non di perentoria intimazione che sia stato usato, ove beninteso una  tale volontà sia comunque inequivocamente desumibile”.
 
3. Prescrizione del diritto alla qualifica (superiore) ed ai differenziali di retribuzione
Un cenno merita il regime prescrizionale per la rivendicazione dell'eventuale diritto ai differenziali di retribuzione tra i trattamenti minimi contrattuali fra la categoria inferiore e  quella superiore spettante per l’ipotesi di promozione automatica ex art. 2103 c.c., eventualmente denegati.  La Suprema Corte, correttamente, distingue tra diritto alla qualifica o categoria superiore e diritto al correlativo differenziale retributivo, cioè tra il diritto di status e i diritti a contenuto patrimoniale.  L'accertamento del primo diritto è soggetto alla prescrizione ordinaria decennale, ex art. 2946 cod. civ., decorrente anche in corso di rapporto per non avere il diritto di status un immediato e diretto riflesso sul diritto del lavoratore alle differenze retributive riconducibili alle previsioni dell'art. 36 Cost.[3], mentre quello attinente a quest'ultime è soggetto alla prescrizione breve ex artt. 2948, n. 5, 2955, n. 2, 2956, n. 1, cod. civ., che decorre in costanza di rapporto - in relazione ai principi di cui alla sentenza della Corte Cost. n. 63/1966 - solo ove quest'ultimo sia assistito dalle garanzie di stabilità reale, quali risultanti dall'applicazione della legge n. 604/1966 sulla giusta causa e dal regime di cui all'art. 18 legge n. 300/1970.
Va osservato che la domanda avente per oggetto il riconoscimento di qualifica e quella avente per oggetto la corresponsione della retribuzione adeguata alle mansioni superiori effettivamente svolte, sono ritenute dalla Suprema Corte distinte ed autonome, in quanto basate su presupposti diversi, con la conseguenza che la seconda domanda, ove non espressamente proposta, non può ritenersi implicitamente contenuta nella prima[4].
 
4. La prescrizione del diritto al risarcimento del danno da demansionamento professionale o mobbing e del danno alla salute
Per il risarcimento di qualsiasi danno (di natura extracontrattuale) da fatto illecito (ex art. 2043 c.c.) opera la prescrizione quinquennale ex art. 2947 cod. civ., soggetta alla regola dell'interruzione (con l'effetto dell'inizio di un nuovo periodo prescrizionale di pari durata) dietro iniziativa del prestatore di lavoro.
Va tuttavia sottolineato che  sia per il danno da demansionamento (conseguente a violazione dell’art. 2103 c.c.), sia per il danno biologico da mobbing (conseguente a violazione dell’art. 2087 c.c. ), si versa nella fattispecie della responsabilità contrattuale. I principi civilistici violati dal datore di lavoro si incardinano in un rapporto obbligatorio (quello di lavoro) regolato dall’art. 1218 c.c. Il regime della prescrizione del danno di natura contrattuale conseguente alla violazione di obbligazioni contrattuali – inserite sia per legge ordinaria sia per effetto dei principi costituzionali correlati (nel caso del danno alla professionalità) al diritto all’autorealizzazione nel lavoro e nella comunità di lavoro, ex art. 2 Cost. e (nel caso del danno biologico) al diritto primario alla salute ex art. 32 Cost. tutelabile nell’ambito del rapporto di lavoro – non è pertanto la prescrizione breve quinquennale, ma la prescrizione ordinaria decennale ex art. 2946 c.c.. Sul punto la giurisprudenza della Cassazione è consolidata e si veda per tutte Cass. 8 febbraio 1993 n. 1523 [5]], in tema di danno biologico. La Cassazione rileva peraltro come le azioni risarcitorie del lavoratore possono essere azionate giudizialmente in maniera concorrente (la extracontrattuale per lesione del principio del neminem ledere, sottoposta al termine di prescrizione quinquennale, la contrattuale con il regime di prescrizione decennale più favorevole), spettando al giudice  la valutazione della fondatezza dell’una o dell’altra e, nel caso venga meno per regime di prescrizione l’una (la extracontrattuale), rimane ferma l’altra azione (per responsabilità contrattuale) fondata sui medesimi presupposti di fatto e parimenti diretta a conseguire il risarcimento del danno e che è soggetta al suo proprio correlativo regime prescrizionale ordinario decennale. Nella decisione sopracitata la Cassazione ha rigettato l’eccezione aziendale di decorsa prescrizione quinquennale per la richiesta di risarcimento del danno biologico (per violazione dell’art. 2087 c.c.) nei confronti di un lavoratore, statuendo espressamente la natura contrattuale del danno inferto (e quindi il regime della prescrizione decennale ordinaria). Una successiva di segno conforme ha ribadito che: «in ipotesi di concorso di responsabilità contrattuale e di responsabilità extracontrattuale o aquiliana (in relazione, nella specie, ad ipoacusia contratta dal lavoratore subordinato adibito a macchinari rumorosi), la duplicità del titolo risarcitorio…comporta un distinto regime per ciascuna delle due relative azioni…ferma peraltro l’identità della causa petendi, ossia degli elementi di fatto soggettivi ed oggettivi determinativi delle due azioni di responsabilità, la prescrizione di una delle quali non esclude che il danneggiato possa conseguire il risarcimento in base all’altra. Pertanto, attesa l’unicità della causa pretendi, il riferimento alle norme codicistiche relative alle due azioni risarcitorie – contrattuale ed aquiliana – è sufficiente ad evitare che l’oggetto del giudizio resti limitato ad una delle due forme di responsabilità» [6]].
 
5. Incoercibilità degli obblighi di fare ed elusione dell’ordine giudiziale: considerazioni
In alternativa al rimedio meramente risarcitorio per il danno da dequalificazione si colloca quello accreditatosi nella giurisprudenza di merito (e che, al momento, si spunta con il diverso orientamento della Cassazione) secondo la quale l'inottemperanza del datore di lavoro all'ordine giudiziale di riassegnazione del lavoratore alle originarie mansioni o di spostamento ad altre almeno equivalenti, costituisce elusione di un comando del magistrato tale da far ricorrere la fattispecie delittuosa ex art. 388, 2° comma, cod. pen.. Anche se va subito aggiunto che - allo stato delle cose - il procedimento penale di condanna sarà presumibilmente destinato all'annullamento una volta pervenuto (in tempi lunghi) in sede di Cassazione. Va infatti precisato come, in tal sede,  la Suprema Corte[7]  - a fronte di violazioni dell'art. 13 S.d.l., attuate attraverso quello che definiamo il declassamento «statico» (per sottrazione di mansioni qualificanti) ovvero tramite la dequalificazione «dinamica» (per assegnazione ad altre, diverse, mansioni prive del requisito dell'equivalenza) - abbia asserito che il lavoratore non può vantare un diritto di riassegnazione alle (o di reintegra nelle) mansioni originarie o in altre equivalenti, in ragione dell'incoercibilità degli obblighi di fare, accreditando così la tesi della monetizzazione degli illeciti datoriali a danno dei diritti della personalità.  Secondo la Cassazione, il lavoratore potrà solo pretendere il risarcimento del danno, ex art. 1218 cod. civ., a fronte dell'iniziativa datoriale contra legem affetta da nullità ex art. 1418 cod. civ., in quanto il provvedimento di reintegra è soluzione eccezionale, legislativamente tipizzata - ex art. 18 S.d.l. - per l'ipotesi del licenziamento nullo o dichiarato inefficace.  Notandosi, da parte nostra e per inciso, come anche tale soluzione sia parimenti vanificabile in fattispecie, proprio per il fatto che - singolarmente - lo stesso art. 18 ha codificato l'ipotesi dell'inottemperanza all'ordine del giudice, surrogabile con la corresponsione della retribuzione.  Così è che il lavoratore, soggetto a provvedimento di declassamento (giudizialmente dichiarato nullo), che tenga alla propria professionalità dovrà - giocoforza ed in tempi brevi - dimettersi dall'azienda per collocarsi in altra, auspicabilmente caratterizzata da maggior senso di giustizia o capacità di apprezzamento.  Solo qualora risulti impossibilitato (in ragione dell'età o per motivi familiari) ad una soluzione di «rinnovamento» all'esterno, dovrà ripiegare in facto nell'espletamento di mansioni deteriori, compensato dal risarcimento del danno che l'iniziativa datoriale gli ha arrecato sul momento ed in prospettiva. Infatti, solo eccezionalmente può ipotizzarsi una resistenza a lungo del lavoratore nel pur legittimo rifiuto (ex art. 1460 c.c., accompagnato dalla dichiarazione di disponibilità a svolgere le mansioni originarie o equivalenti) di dar corso ad una prestazione a contenuto difforme (e pregiudizievole) rispetto a quella legalmente esigibile, di norma verificandosi la dismissione del rifiuto dopo un certo tempo onde evitare il crollo psichico per inattività (ferma restando, irreversibilmente, la tutt'altro che salutare situazione frustrante).
Va ancora sottolineato come la tesi della ricorrenza del reato di elusione di  un ordine giudiziale (per inottemperanza datoriale all’ordine giudiziale di rassegnazione alle mansioni originarie o ad altre equivalenti ex art. 2103 c.c.), sia una  impostazione ricorrente e portata avanti nella giurisprudenza di merito (ed in alcune decisioni di Cassazione), politicamente restia[8]] ad accedere alla tesi secondo la quale le lesioni al disposto dell'art. 13 come dell'art. 18 S.d.l. (mediante mancata riassegnazione delle mansioni o concreto conferimento di incombenze lavorative, nel secondo caso), sarebbero sprovviste di tutela penale in quanto «l'interesse del lavoratore ad eseguire la pattuita prestazione... non è definibile come diritto di credito ma rappresenta soltanto il fondamento (e pare poco! n.d.r.) di alcuni diritti della personalità che fanno parte del suo status professionale» [9].
E non si può, ancora sotto il profilo della politica del diritto e nell'ottica di una moderna concezione del rapporto di lavoro, non condividere questi tentativi volti ad accordare una tutela reale ai diritti della personalità che si inquadrano perfettamente nel disegno costituzionale di riconoscimento del diritto all'esplicazione di una attività di lavoro, quale mezzo di realizzazione individuale e di elevazione professionale, finalizzata al progresso materiale e spirituale dell'intera società (art. 35 e 4 Cost.).
 
6. Azioni giudiziali avverso i demansionamenti
I mezzi processuali per accertare (e reagire a) declassamenti, sono rappresentati dall'azione ordinaria e dall'azione con procedura d'urgenza ex art. 700 cod. proc. civ.  Sull'esperibilità del ricorso d'urgenza - che è stato legittimato da diverse decisioni di merito [10] - sussistono talune perplessità, che appaiono invero eccessive e fugate dal prevalente orientamento giurisprudenziale, anche di legittimità.  Da coloro che sostengono la tesi negativa, si asserisce che difetterebbe il requisito del periculum in mora (cioè il fondato timore che nelle more del giudizio ordinario il lavoratore subisca un pregiudizio imminente ed irreparabile), attesa la continuità del percepimento della retribuzione con la quale il prestatore, suppostamente declassato, continua a far fronte alle sue necessità sostanziali ed esistenziali. Invero la continuità retributiva, se non è assolutamente da sottovalutare, è peraltro del tutto inconferente con il requisito del periculum in mora nel caso specifico.  Nonostante gli assicurati mezzi di sostentamento, il lavoratore assegnato a mansioni non equivalenti o declassato per sottrazione di compiti qualificanti (assegnati ad altri nell'organizzazione aziendale), ha un motivo serio e del tutto fondato di temere che il tempo usualmente occorrente per la conclusione del giudizio ordinario occasioni una irrimediabile stabilizzazione degli effetti della sua dequalificazione nell'organizzazione aziendale (anche per consolidamento in capo ad altri delle mansioni un tempo di propria pertinenza).  Diversamente, la tempestiva declaratoria di illegittimità - ottenibile in via d'urgenza - potrebbe favorire il dissolversi (o la rimozione) di quella situazione pregiudizievole, proprio a causa del suo mancato consolidamento nella divisione aziendale del lavoro e garantire così al lavoratore una tutela reale e non meramente risarcitoria. Nel consolidarsi degli effetti negativi per quel dipendente (e, correlativamente, positivi per altro collega) nell'organizzazione aziendale - piuttosto che sul «pregiudizio insanabile della perdita della qualificazione professionale, della violazione del diritto costituzionale al rispetto della propria dignità e personalità morale (art. 4 Cost.)» [11] - risiede, secondo noi, l'irreparabilità del danno da dequalificazione, tale da legittimare l'invocabilità dell'art. 700 cod. proc.  civ.
Diverse, naturalmente, le conclusioni qualora si ritenga - a differenza della Suprema Corte - che il datore di lavoro sia giuridicamente tenuto, pena l'incorrere nel reato ex art. 388 cod. pen., alla tutela reale a favore del prestatore di lavoro, mediante il riconferimento delle mansioni originarie dietro declaratoria giudiziale; ed è sulla base di questo convincimento che, in taluni giudicati di merito [12], si è negata la tutela in via d'urgenza della dequalificazione professionale.
 
7. La prescrizione del risarcimento da omissioni contributive datoriali
Un cenno finale merita la prescrizione per il risarcimento danno  alla posizione previdenziale del lavoratore, conseguente ad omissione di versamenti contributivi dell’azienda a favore dell’Istituto previdenziale erogatore del trattamento pensionistico. La prescrizione è quella ordinaria decennale, ma problematiche sono sorte in ordine al dies a quo , cioè il giorno  dal quale inizia a decorrere la medesima.
La questione concernente l'individuazione del dies a quo - cioè la data dalla quale prende a decorrere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno per omissione contributiva - ha ricevuto molteplici soluzioni. Limitandosi a quelle che hanno ottenuto un maggior seguito si ricorda che in un primo tempo le Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass., 16.5.1975, n. 1744[13] ) avevano indicato, nell'esaurimento del termine decennale di prescrizione del diritto dell'istituto assicuratore al conseguimento dei contributi non versati dal datore di lavoro, il momento iniziale del decorso della prescrizione dell'azione risarcitoria ex art. 2116, 2° co., c.c. Questa soluzione non venne, però, recepita dalla Sezione lavoro della Corte regolatrice (v., per tutte, Cass., 15.12.1975, n. 4113 [14]) che continuò ad identificare il dies a quo nell'emanazione del provvedimento definitivo di rifiuto, totale o parziale, della prestazione assicurativa da parte dell'istituto previdenziale. Tale situazione determinò un nuovo intervento delle Sezioni Unite (Cass., 18.12.1979, n. 6568 [15]) che, modificando il precedente orientamento, hanno affermato che la prescrizione dell'azione risarcitoria per inadempimento contributivo decorre - non nel momento in cui si compie la prescrizione dei contributi omessi né in quello di emanazione del provvedimento definitivo di rifiuto della prestazione - bensì dal momento in cui sarebbe maturato il diritto del lavoratore alla prestazione previdenziale. Ciò in quanto soltanto allora si concretizzano i due elementi (omissione contributiva e perdita totale o parziale del trattamento previdenziale) necessari per integrare la fattispecie risarcitoria alla quale è sicuramente estraneo il provvedimento amministrativo dichiarativo dell'insussistenza dei requisiti necessari per l'erogazione della prestazione previdenziale.

Mario Meucci

Roma 12 aprile 2006

(pubblicato in Notiziario del lavoro e previdenza, ed. de lillo, n. 21 del 25 luglio 1999 e successivamente aggiornato)

[1] Nn. da 40 a 45 in Giur. cost. 1979, 338 con annotazione di PERA. Nel settore del P. Impiego, la pacifica decorrenza della prescrizione in corso di rapporto è stata recentemente ribadita da Consiglio di Stato, sez. V, 3.4.2007 n. 1489 (est. Buonvino) secondo cui: «La prescrizione dei crediti retributivi relativi ad un rapporto di lavoro con la P.A. decorre in costanza del rapporto stesso "sebbene questo abbia carattere provvisorio o temporaneo" in quanto non è sostenibile, per la natura del rapporto, che il dipendente pubblico possa essere esposto a "possibili ritorsioni e rappresaglie" quando egli tuteli in via giudiziale i propri diritti ed interessi».
[2] Cass. 20 febbraio 2006 n. 3632 (che ha respinto la richiesta di configurazione dell’indennità supplementare corrisposta al dirigente illegittimamente licenziato quale “indennità risarcitoria di prestigio leso e di chances professionali”, considerandola correttamente risarcitoria di redditi futuri perduti e cioè di “danno da lucro cessante” e non “di danno emergente”) trovasi in D&G, del 7.3.2006. In precedenza nello stesso senso, Cass. n. 18369 del 16.9.2005, Cass. n. 3582/2003 e precedenti.
[3] Così recentemente Cass. Sez. lav. 6 aprile 2005 n. 7116 (inedita, a quanto consta), dissociandosi espressamente dal precedente assertore della “imprescrittibilità” nel corso del rapporto, costituito da Cass. 29 ottobre 1998 n. 10832. Conf.  Cass. 14 dicembre 1983, n. 7385, in Mass.  Foro it., 1983; Cass. 4 maggio 1983, n. 3062, ibidem, 1983; Cass. 29 giugno 1982, n. 3914, in Arch. civ., 1982, 976; Cass. 7 dicembre 1982, n. 6700, in Giust. civ.  Mass., 1982; Cass. 8 luglio 1982, n. 4064, ibidem, 1982; Cass. 12 marzo 1982, n. 1618, ibidem, 1982; Cass. 27 marzo 1982, n. 1910, ibidem, 1982; Cass.  1° dicembre 1981, n. 6389, in Riv. giur. lav., 1982,II, 361 con nota di MARESCA; Cass. 3 luglio 1980, n. 4234, ibidem, 1980, II, 916; Cass. 23 dicembre 1976, n. 4732, ibidem, 1976, II, 1077 e 1977, II, 74 con nota di BIGLIAZZI GERI.  Considerano invece imprescrittibile il diritto alla qualifica (o categoria superiore) in ragione della sua essenzialità, inviolabilità ed indisponibilità, Cass. 29 ottobre 1998 n. 10832, in Mass. Foro. it. 1998; Cass. 3 marzo 1983, n. 1596, ibidem, 1983; Pret.  Bologna 15 marzo 1974, in Riv. giur. lav., 1974, II, 640; Pret.  Bassano del Grappa 4 dicembre 1975, in Giur. mer., 1976, I, 406 con nota di DANZA; Trib.  Padova 31 maggio 1978, in Riv. giur. lav., 1978, II, 883; Cass. 3 marzo 1983, n. 1596, in Mass.  Foro it., 1983.
[4] Così Cass. 21 agosto 1982, n. 4698, in Giust. civ.  Mass., 1982; Cass. 27 marzo 1982, n. 1910, cit.; parzialmente difforme Cass. 4 settembre 1980, n. 5097, in Mass. giur. lav., 1981, 572 con nota di ARANGUREN.  Considera l'azione di rivendicazione della qualifica o categoria superiore, atto idoneo ad interrompere la prescrizione per i trattamenti economici, Pret.  Bassano del Grappa 30 maggio 1977, in Riv. giur. lav., 1977, II, 862.
[5] Cass.  n. 1523/1993 può leggersi in Not. giur. lav. 1993, 352. Nello stesso senso, in precedenza, ex multis, Cass. 23 marzo 1991, n. 3115, in Orient. giur. lav. 1992, 174, secondo cui: «La violazione del datore di lavoro del dovere di approntare cautele ed accorgimenti volti ad evitare lesioni della integrità fisica dei lavoratori (art. 2087 c.c.) è fonte di responsabilità contrattuale – attenendo detto illecito ad una preesistente obbligazione (ancorché di fonte  legale) – e, pertanto, il correlativo diritto del lavoratore al risarcimento dei danni soggiace alla prescrizione decennale, mentre grava sul datore di lavoro l’onere di fornire la prova che l’inadempimento è derivato da impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.) al fine di superare la correlativa presunzione di responsabilità».
[6] Sulla legittimità di azionare il concorso della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale ai fini della completa tutela dei diritti lesi, vedi, per tutte, Cass. sez. un. 14 maggio 1987, n. 4441, in Foro it. 1988, I, 2686; nello stesso senso – costituendo orientamento consolidato – Cass. 24 gennaio 1990, n. 411, in Lav. ‘80 ,1990, 659 e Pret. L’Aquila 10 maggio 1991, in Foro it. 1993, I, 318; Cass. 5 ottobre 1994, n. 8090, in Dir. prat.lav. 1995, 453; Cass. 8 febbraio 1993, n. 1523; Cass. 19 dicembre 1997, n. 12891 (inedita, est. Vidiri). Per la pacificità della natura contrattuale del danno biologico, in dottrina, POLETTI, Sulla risarcibilità del danno alla salute del prestatore di lavoro, in Riv. giur. lav. 1985, II, 664.
[7] Così Cass. 7 settembre 1981, n. 5052, in Not. giur.lav., 1982, 5, secondo cui «la reintegrazione nel posto di lavoro è provvedimento eccezionalmente limitato al casi previsti dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e, quindi, al di fuori di tale ipotesi eccezionale, non può il datore di lavoro essere condannato ad un facere.  Pertanto la violazione da parte del datore di lavoro della norma dell'art. 13 legge 300/1970 può dar luogo, quale inadempimento agli obblighi contrattuali, alla sanzione di nullità del relativo provvedimento a norma dell'art. 1418 cod. civ., con conseguente effetto risarcitorio, esclusa ogni ipotesi di ripristino della situazione pregressa».  Conf.  Cass. 19 giugno 1981, n. 4041, ibidem, 1982, 5, per cui «al sensi dell'art.. 2103 cod. civ., nel testo introdotto dall'art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300, la destinazione del dipendente a mansioni inferiori a quelle precedentemente svolte costituisce inadempimento contrattuale del datore di lavoro che, indipendentemente dall'eventuale acquiescenza del lavoratore, determina la responsabilità per i danni ad esso conseguenti».  Nel senso che è possibile rinunciare alla prestazione del lavoratore, mantenendolo nel posto di lavoro in condizioni di forzata inerzia (corrispondendogli la retribuzione), senza incorrere nel reato ex art. 388, 2° comma, cod. pen., nel caso in cui il giudice abbia disposto la reintegra del lavoratore (illegittimamente trasferito ad altre mansioni) in quelle di originaria pertinenza, v. Cass. pen. 8 aprile 1981, in Dir. lav., 1982, 11, 120 e Cass. 29 giugno 19791 n. 5992, in Mass. giur. lav., 1980, 462 (con nota di MORSILLO), secondo cui «l'interesse dei lavoratore... ad eseguire la pattuita prestazione delle proprie energie lavorative, indipendentemente dal conseguimento della controprestazione retributiva, non è definibile come diritto di credito, ma rappresenta soltanto il fondamento di alcuni diritti della personalità che fanno parte del suo status professionale ed ai quali il disposto dell'art. 388 cod. pen. non accorda specifica tutela penale»; conf.  Cass. pen. 23 giugno 1975, n. 1393, in Riv. giur. lav., 1976,11, 975; Cass. pen. 1° dicembre 1980, in Lav. prev. oggi, 1981, 1985.
Contra, di recente, Cass.VI sez. pen. 18 settembre 2001, n. 33860 (inedita a quanto consta, est. Caso), secondo cui la mancata esecuzione dell’ordine di reintegra in via d’urgenza al lavoratore licenziato configura il reato ex art. 388, 2° comma, c.p.   Nella giurisprudenza di merito, Pret.  Rho 14 luglio 1978, in Orient. giur. lav., 1978, 956.
Come è noto, in dottrina, le opinioni sono contrastanti al riguardo: per la tesi dell'effettività dell'ordine di reintegra e la conseguente configurazione del delitto ex art. 388 cod. pen. nel caso di inottemperanza sostanziale all'ordine giudiziale, v. CASTELLI-DI LECCE, L'effettività dell'ordine di reintegra, in Lavoro 80, 1981, 303; M. DINI-E.A. DINI, I provvedimenti d'urgenza nel diritto processuale civile e nel diritto del lavoro, Milano 1981, 903 e ss.; contra, nel senso della Suprema Corte, ARANGUREN, La tutela dei diritti dei lavoratori, Padova, 1981, 110 e ss.; TARZIA, Presente e futuro delle misure coercitive civili, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, 800.
[8] Per la Cassazione, vedi Cass. 12 ottobre 1999, n. 11479, in Mass. giur. lav. 1999, 1372 n. 149 (sola massima) secondo cui: “ Nell’ipotesi di assegnazione di mansioni non equivalenti a quelle spettanti, in violazione dell’art. 2103 c.c., il lavoratore può ottenere tutela con la condanna del datore di lavoro al corretto adempimento dell’obbligo contrattuale mediante l’assegnazione alle precedenti mansioni, senza che osti a tale pronuncia in sede di giudizio di cognizione la natura incoercibile della prestazione (con le relative conseguenze in punto di inutilizzabilità dell’esecuzione specifica); la condanna al ripristino della situazione antecedente all’illegittima dequalificazione (non riconducibile all’applicazione della tutela di cui all’art. 18 l. n. 300/70) non preclude il legittimo esercizio dello ius variandi, essendo consentito al datore di lavoro di adempiere mediante assegnazione del dipendente a mansioni diverse di contenuto professionale equivalente”. Nello stesso senso la precedente Cass. 27 aprile 1999, n. 4221, integralmente in  Not. giur. lav. 1999, 491. In sede di merito Pret. Milano 13 novembre 1979, in Riv. giur. lav., 1980, IV, 514, che sottopone a critica la tesi della carenza datoriale di un vero obbligo del datore di lavoro a far effettivamente lavorare i dipendenti (Cass. pen. 30 gennaio 1979, in Dir. lav. 1980, II, 328). Addizionalmente critica la nota redazionale, per la quale la posizione «incondivisibile e riduttiva» della Cassazione risiederebbe «in premesse teoriche... facilmente individuabili in una anacronistica e retriva concezione dei rapporto di lavoro, sostanzialmente ridotto ad un mero scambio di energie lavorative contro denaro e nell'incapacità di cogliere le profonde innovazioni che, in sintonia con lo sviluppo sociale e culturale del paese, hanno subito termini come posto di lavoro, credito, prestazione, ecc.». Alla Cassazione viene altresì imputata una «artificiosa scissione dell'unitario concetto di diritto al posto di lavoro... e la conseguente bizantina distinzione fra diritto alla retribuzione, avente natura di credito e diritti extrapatrimoniali, insuscettibili di valutazione monetaria, in una ottica di esasperato formalismo (e con un tecnicismo di facciata) che contrasta nettamente con la realtà giuridica e sociale, in cui tali aspetti si presentano al contrario indissolubilmente connessi».
Conf.  Pret.  Milano 19 maggio 1982, in Lavoro 80, 1982, 675 (che legittima, ex art. 219 cod. proc. pen. in relazione all'art. 388 cod. pen., l'accompagnamento dei lavoratore sul posto di lavoro a mezzo di ufficiale di polizia giudiziaria, il quale provvederà ad accertare che al lavoratore venga concretamente reso possibile di operare nel suo posto di lavoro); Pret.  Desio 3 maggio 1982, ibidem, 1982, 396 (esattamente conforme nelle modalità per la tutela reale del diritto al conferimento della prestazione); Pret.  Roma 10 aprile 1978, in Riv. giur. lav., 1978, II, 347; Trib.  Milano 22 marzo 1976, ibidem, 1976, II, 975; Pret.  Milano 21 febbraio 1975, in Orient. giur. lav., 1975, 483; Pret.  Milano 30 ottobre 1974, ibidem, 1974, 1127.
Recentemente, Cass. 6° sez. pen. 18 settembre 2001, n. 33860 (inedita allo stato) ha mostrato di ritenere reato ex art. 388 c.p. la mancata esecuzione dell’ordine di reintegrazione, emesso giudizialmente dietro provvedimento d’urgenza (ex art. 700 c.p.c.), del lavoratore licenziato.
[9] Così, espressamente Cass. 29 giugno 1979, n. 5992, in Mass. giur.lav. 1980, 642 (con nota di Morsillo).
[10] In tal senso, Pret.  Cagliari 29 ottobre 1982, in Giur. it., 1984, 1, 2, 57; Pret.  Roma 25 febbraio 1980, in Riv. giur. lav., 1980, II, 1140; Pret.  Milano 1° febbraio 1978, in Orient. giur. lav., 1978, 374; Pret.  Velletri 13 febbraio 1976, in Riv. giur. lav., 1976, II, 997; Trib.  Milano 4 maggio 1972, ibidem, 1972, II, 368.
[11] Così, espressamente, Pret.  Roma 14 luglio 1979, in Riv. giur. lav., 1980, II, 1140.
[12] E’il caso di Pret.  Piacenza 2 giugno 1977, cit., che nega il ricorso alla procedura ex art. 700 cod. proc. civ. « ... essendo sempre possibile, in caso di esito favorevole del giudizio di merito, la reintegra nelle mansioni originarle, con l'eventuale risarcimento di danni».
[13] In Foro it., 1975, I, 1086.
[14] In Foro it., 1975, I, 2684.
[15] In Foro it., 1980, I, 1007.
 

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