RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO  - LEGGE BIAGI
Precarietà del lavoro e precarietà esistenziale
( Un filosofo ed un operatore del diritto sulla legge Biagi)
 
Intervento di Fabio Bentivoglio
 
Che cosa c’entra la filosofia in un dibattito sulla  Legge 30, cioè sul tema della  riforma del mercato del lavoro? La domanda è legittima, perché la filosofia non si occupa di questioni che riguardano  direttamente il mondo dell’esperienza sociale. Il suo specifico oggetto di studio sono i significati permanenti dell’esistenza umana: attraverso la loro definizione, però,  la filosofia illumina indirettamente anche ciò che nel mondo dell’esperienza sociale assume una particolare importanza per la vita degli uomini.
L’essere di cui parla la filosofia è l’essere dell’uomo in quanto tale, indipendentemente dall’epoca storica in cui è calato. Ciò non significa che la riflessione filosofica si sviluppi  fuori dalla storia, ma piuttosto che essa cerca di cogliere in ogni epoca storica ciò che appartiene alla dimensione immutabile e all’orizzonte di valore della vita dell’uomo. E tutti gli uomini, sempre,  si sono interrogati sul senso della loro esistenza: a questa domanda di senso la religione ha risposto e risponde con i linguaggi derivati dalle rivelazioni di un dio, la filosofia con i linguaggi propri del pensiero, quindi con i mezzi razionali della ragione.
Ma proprio perché nel cielo della  filosofia si  tematizza e si custodisce il significato e il valore dell’esistenza umana, tutte le volte che nella dimensione storica e sociale si sono determinate situazioni di vita collettiva i cui effetti hanno prodotto una sorta di oscuramento del significato dell’esistenza, similmente agli effetti di oscuramento del cielo prodotti da un’eruzione vulcanica, anche  il cielo della filosofia  ne è stato coinvolto. Quello che intendo dimostrare è che i modi e i tempi del  lavoro così come sono stati  fissati nel quadro della Legge 30 sono una di queste  eruzioni vulcaniche che avrà pesanti  ricadute in termini esistenziali sulla vita delle persone. Non si tratta, è ovvio, solo di una legge, ma del momento conclusivo di un processo più che decennale di deregolamentazione del lavoro,  e di svuotamento della sua funzione sociale così come  si era storicamente determinata nelle società occidentali. Questa è la ragione di fondo per cui la filosofia, oggi, si incrocia con le problematiche poste dall’attuale riforma.
Per la nostra analisi prendiamo le mosse da una situazione che ci è familiare: in quali occasioni diciamo di “avere un buon lavoro” o di “essere soddisfatti del nostro lavoro”? Una componente è  la retribuzione, che è condizione necessaria, ma non sufficiente: se ci fosse assicurato un  reddito accettabile per un lavoro che consistesse  nel sostituire ogni giorno, da mattina a sera,  le persone in coda ai più diversi sportelli, potremmo disporre dei mezzi necessari per le spese della vita ordinaria, ma non saremmo certo soddisfatti.
Quel  qualcosa in più   che ci fa giudicare  buono un lavoro, oltre alla retribuzione,  è la gratificazione e la soddisfazione personale, che proviamo  quando il nostro fare ha il doppio predicato dell’utilità sociale e del riscontro positivo nel quadro delle relazioni entro cui operiamo. All’interno di queste coordinate emerge la parte migliore di noi, quella creativa e dell’impegno, che mobilita con generosità  le nostre risorse fisiche e psichiche, e che fa avvertire di meno anche la fatica propria di tutti i lavori.
Ma il  riscontro positivo e l’utilità sociale del mio fare chiama in causa gli altri, le relazioni con gli altri.    Ciascuno  può sperimentarlo nell’ambito del proprio lavoro: il valore e la qualità del mio impegno  lo vedo riflesso nell’immagine che gli altri hanno di me. Intendendo per “altri” il mondo delle relazioni entro cui opero: non potrei avere la misura del mio valore di medico se fossi l’unico abitante di  un’isola deserta. E’ nel quadro delle relazioni concrete con gli altri che troviamo e definiamo il profilo della nostra identità. Nel sentimento immediato della gratificazione o della delusione, o comunque di tutti quegli stati emotivi che accompagnano la nostra attività lavorativa, troviamo operante una dinamica intersoggettiva  che rimanda al principio costitutivo e fondativo dell’identità: il principio del riconoscimento. Questo è uno dei punti in cui la questione del lavoro incrocia la filosofia. 
In alcune memorabili pagine della Fenomenologia dello Spirito (1806), Hegel ha dimostrato come  la nostra identità si costituisca attraverso un processo regolato dal principio del riconoscimento. Il discorso hegeliano è denso, e non è questa la sede per affrontarlo nella sua complessità, però nella sostanza esso  mostra come  nessuna persona possa riconoscersi in un’identità che abbia valore e significato, se questo valore e significato non sono  riconosciuti originariamente da altri. E’ una dinamica che vediamo operante in forma immediata nel bambino, che costruisce la propria immagine sulla base dell’immagine che gli riflettono i genitori: il bambino si sentirà buono ed educato se questo gli verrà riconosciuto dalle figure preponderanti con le quali ha sviluppato le sue relazioni. Tradotto nel linguaggio filosofico ciò significa che l’identità, ovvero l’immagine nella quale ci riconosciamo, ha la sua genesi immediatamente fuori di sé, cioè  nel  contesto storico-sociale in cui nasciamo e nel più ridotto contesto delle relazioni con gli altri entro cui cresciamo ed operiamo. L’immagine che originariamente ci viene  riflessa nello stretto ambito privato, a sua volta si è formata attraverso   una catena infinita di riconoscimenti che ci rimandano alla storia. Per fare un solo esempio, si pensi alla consuetudine di chiedere ai futuri genitori se desiderano di più il maschio o la femmina: la domanda sottintende aspettative diverse rispetto al nascituro per cui solitamente  si attribuiscono a priori alle femmine caratteristiche più idonee ad assolvere determinati ruoli sociali (assistenza, educazione, famiglia…), mentre altre sono le aspettative nei confronti dei maschi. Si tratta di aspettative e ruoli definiti non dalla natura ma dalla storia e dalle tradizioni culturali, che poi agiscono nel plasmare le individualità concrete.   E’ solo un esempio per porre in evidenza  come  il valore e il senso in cui ciascuno si riconosce, si costituisce sempre in un quadro di relazioni con gli altri di natura storico-sociale. La costituzione dell’interiorità, questa è la lezione di Hegel,  nasce come fatto sociale e non come vicenda meramente individuale, per cui se il lavoro, in cui si condensa il fare sociale, non riflette alcun riconoscimento di significato e di valore dell’individuo che lo compie, esso lede l’individuo nella sua più profonda interiorità.
A questo punto si potrebbero avanzare alcune obiezioni. Assumendo questo concetto filosofico del lavoro, non si sovraccarica di troppe valenze la sua funzione? Fuori dall’utopia, non ci basterebbe e non ci avanzerebbe un lavoro che, pur faticoso, non appagante e volto all’altrui profitto, fosse però legalmente protetto dagli eccessi dello sfruttamento, in modo da consentire una vita personale creativa e dignitosa, fuori dalla sfera lavorativa?  E ancora: la funzione umanamente positiva del lavoro non dovrebbe essere individuata nella possibilità che esso fornisce, come fonte di reddito, di occuparsi di altro, della vita affettiva, intellettuale, spirituale, più che dell’attività di cui consiste?
La filosofia suggerisce che la risposta a queste osservazioni deve tener conto di una considerazione di ordine più generale, e cioè che la desertificazione spirituale del lavoro impoverisce, sia pure inconsciamente, in base all’universalità del principio del riconoscimento, le sorgenti stesse della creatività fuori del lavoro; la persona è “una”, e le componenti che sostanziano questa unità non costituiscono una somma di parti isolabili l’una dall’altra,  ma un tutto che interagisce dialetticamente.
L’osservazione empirica della realtà sociale ci mostra che, quando un lavoro non è più socialmente riconosciuto come valorizzante della figura di chi lo compie, diventa più agevole deprimerne la retribuzione e i diritti. I tranvieri, per riferirci a un caso di attualità, costituivano fino a pochi decenni fa un’aristocrazia operaia, ma quando il trasporto pubblico ha cessato di essere socialmente percepito come un bene collettivo che rendeva prestigiosa e tutelata la capacità di compierlo con spirito di servizio, la loro situazione economica e lavorativa è precipitata verso il basso. In un recente servizio televisivo un tranviere in pensione di Milano ricordava un episodio significativo della sua gioventù e cioè la gratificazione e l’orgoglio che una volta aveva provato, mentre camminava in città,  nel vedere la sua immagine in divisa da autista riflessa nelle vetrine dei negozi. Anche oggi le vetrine riflettono l’immagine dell’autista in divisa che passa, ma nell’attuale contesto il nostro autista non può trarne analoga  gratificazione ed orgoglio, perché il valore della funzione  del trasporto pubblico è socialmente decaduto nella coscienza collettiva. Risulta difficile pensare che il venir meno di un riconoscimento sociale del proprio lavoro, non abbia una ricaduta complessiva sulla persona , impoverendola non solo nella retribuzione e nelle tutele, ma anche nell’identità e nella sorgente stessa della sua creatività spirituale. 
Queste considerazioni inducono a ritenere che il contributo della filosofia nella comprensione della condizione attuale del lavoro, sia quello di includere la nozione economica e giuslavoristica del lavoro in un più ampio concetto, in grado di meglio illuminarla. E qui torna di nuovo utile Hegel, che, quando parla di lavoro, intende non  soltanto il lavoro in senso strettamente economico, ma la generale attività intersoggettiva di formare le cose nell’ambito della dialettica del riconoscimento.
Nel formare le cose con durevolezza,  il soggetto lascia la propria impronta, quindi deposita in qualche modo un segno di sé che altri raccolgono e che poi gli  riflettono. Non ogni “fare” garantisce però un riconoscimento, ma solo quello che ha i connotati della creatività che  si esplica nel tempo, quindi nel futuro. Incontriamo così il futuro, cioè un'altra  dimensione ontologica dell’esistenza, che le  appartiene strutturalmente.
Il concetto di futuro  non va confuso con  quello che accadrà tra un ora o domani mattina. Nel suo significato più proprio il futuro  si identifica  con gli scopi che ci poniamo; scopi che hanno la funzione di orientare il presente e di conferirgli un significato, quindi di arricchirlo. Chiarisco il discorso con un esempio tratto dalla personale esperienza di lavoro. La mia carriera di insegnante, come quella di altre migliaia di insegnanti, è iniziata con supplenze brevi e brevissime in scuole a volte distanti anche cento chilometri da Pisa, città dove risiedo: entrare in una classe per un tempo che non consentiva di impostare alcunché, era frustrante perché si trattava di un fare che non poteva lasciare traccia. Questa condizione di lavoro, frustrante,  subita per anni da migliaia di insegnanti che attendevano l’indizione di concorsi pubblici, era tollerata per un solo  motivo (il mio ricordo in merito è vivissimo, e per questo mi si stringe il cuore di fronte a leggi come quella in oggetto):  lo scopo di vita che mi ero dato, quello cioè di poter diventare un giorno professore di filosofia, implicava che si accettasse l’idea di un presente caratterizzato dall’instabilità e da condizioni di lavoro che al momento, e forse anche per anni,  non avrebbero consentito di realizzare la propria professionalità, ma che davano la ragionevole certezza di poterla esprimere, in un futuro prevedibile e raggiungibile attraverso itinerari predeterminati, in un ruolo stabile e strutturante.  La  precarietà di quegli anni, dunque, era del tutto diversa da quella che oggi viene imposta per legge: era un tempo sì precario rispetto alla temporalità della supplenza o dell’incarico, ma non si disperdeva, perché sedimentava nel punteggio che, accumulato, immetteva in un incarico stabile.  Ecco una situazione in cui il futuro, inteso come scopo che orienta il  fare (scopo reso socialmente possibile)  retroagisce positivamente sul presente: quel presente, infatti, per quanto faticoso e poco gratificante, si rendeva sostenibile in funzione di ciò che avrebbe dovuto essere.
Nel quadro definito dalla Legge 30 il lavoro, frammentato quanto alla sua utilizzabilità e temporalizzato solo sull’immediato presente, cessa di essere momento di integrazione sociale e luogo di definizione di sé, perché vengono meno le condizioni che rendono possibile un riconoscimento durevole del fare del lavoratore; un fare svuotato di significato, perché su di esso non può retroagire positivamente la proiezione nel futuro. Parlare di futuro nel perimetro disegnato dalla Legge 30 è veramente una sciocchezza: sul piano esistenziale merita la dizione di  futuro solo quell’arco temporale innestato sulle esigenze dell’uomo.  Oggi si pretende di chiamare futuro solo il   tempo innestato sulle convenienze aziendali, quando logicamente si tratta invece di un tempo che è meccanica reiterazione del presente.
Gli effetti di chiamare e declinare il futuro sulla base delle convenienze aziendali sono sotto gli occhi di tutti. Il guaio, però, è che  gli occhi di quasi tutti oggi vedono soltanto tali convenienze. Diversamente, in più occasioni, dovremmo assistere a  reazioni collettive indignate. Si pensi ad esempio alla naturalezza con la quale i maggiori responsabili dei catastrofici effetti causati  dall’inquinamento planetario ( Stati Uniti, Russia ed altri paesi) si permettono di non sottoscrivere o comunque di non rispettare il pur modesto Protocollo di Kyoto, perché, dicono,   limita la crescita dell’economia”! Il futuro delle prossime generazioni cade fuori dalla temporalità circoscritta dalle convenienze aziendali. Oppure: noti esponenti del mondo politico e della finanza (e purtroppo anche sindacale) ci ripetono con indifferenza che l’economia non può crescere con il lavoro a tempo indeterminato, e quindi per ridurre il costo del lavoro e rendere l’economia più competitiva ecco l’invenzione del lavoro ad intermittenza, a progetto, a chiamata ecc… .  Il futuro del lavoratore intermittente cade fuori dalla temporalità circoscritta dalle convenienze aziendali. 
Un lavoro che non consenta la costruzione autonoma della propria vita, intrecciandosi con la vita stessa e con la strutturale proiezione umana verso il futuro, diventa esclusivamente  distruttivo per la persona.
Costruirsi un’esistenza autonoma sul presupposto del lavoro non significa che il lavoro deve assorbire interamente il nostro tempo. Tutt’altro: la funzione del lavoro è anche  quella di garantire alla persona  la possibilità di disporre del tempo necessario per dispiegare altrove il ventaglio delle  proprie potenzialità. E’ un fatto incontrovertibile che il lavoratore utilizzato nei modi e nei tempi previsti dalla Legge 30, abbia le energie psichiche e fisiche sequestrate dall’idea di come potersi garantire una retribuzione, una volta conclusa la  “missione” temporanea. E’ una situazione angosciante che riduce la dimensione umana della persona alla sua utilizzabilità. L’avere ridotto il lavoro a mera utilizzazione di un individuo spersonalizzato, averlo quindi sradicato dalla sua naturale connessione con le esigenze materiali e spirituali dell’uomo è un evento di portata storica, su cui davvero si riflette  poco.
Non si perda di vista che questo perimetro non è stato tracciato da questa legge o da questo governo, ma dalle politiche neoliberiste che dalla fine degli anni Settanta sono state imposte su scala planetaria, da gigantesche concentrazioni di potere economico-finanziario, dagli organismi internazionali appositamente creati ed infine  dai governi locali.  Nel quadro politico  attuale gli opposti schieramenti, non solo in Italia, al di là delle dispute contingenti, sono abilitati a governare a condizione di rendere operative queste politiche. Le polemiche anche feroci che attraversano il mondo della politica, improvvisamente calano di tono fino ad evaporare, quando si discute di lavoro e di potere d’acquisto dei lavoratori.
Opporsi a questa legge ha un senso e una prospettiva a condizione che si comprenda da un lato la logica generale che l’ha prodotta, dall’altro che non la si trasformi nell’ennesima occasione di scontro strumentale, interno alle dinamiche di schieramento. Il dibattito deve essere autentico, cioè consapevole che il confronto è anche su  ragioni profonde, non contingenti, che chiamano in causa le fondamentali strutture dell’essere dell’uomo. Sono questioni che vanno ben al di là degli scenari del potere politico. In questa prospettiva di riflessione a più ampio raggio, la filosofia può essere di aiuto.     
 
Intervento di Fausto Nisticò
Con  l’enunciato proposito – in realtà solo suggestivo – di dover modernizzare  il mondo del lavoro, il secondo governo Berlusconi esordisce, nell’ottobre del 2001, con la diffusione del c.d. Libro Bianco sul mercato del lavoro, un documento di molte pagine nel quale si preannuncia una vera e propria rivoluzione culturale nel settore.
Gli osservatori, tuttavia, rilevarono subito come non si trattasse di una novità. Qualche mese prima Marco Biagi (coautore con Maurizio Sacconi del Libro Bianco) aveva reso a Confindustria una relazione su quanto e come si sarebbe dovuto fare( si legge in Rivista Italiana di diritto del lavoro, 2001).
Fra i due testi (l’uno commissionato da Confindustria e l’altro dal Ministro del lavoro) vi è coincidenza assoluta, alle volte fino alla materiale trasposizione di interi brani. Ed anche se il Libro Bianco non si risparmia nel dotarsi di grafici e prospetti (che difettano nella relazione Biagi) e si correda di una serie di neologismi anglosassoni (secondo l’antico vezzo tutto nostrano di utilizzare l’inglese per  addolcire la pillola), il documento ministeriale può – senza tema di smentita – definirsi una mera elaborazione della relazione resa a Confindustria.
Con questo vizio di origine, il Libro Bianco si pone all’attenzione del lettore per la secca affermazione di alcuni assiomi nel preannunciare – con toni quasi sinistri – l’imminente ripudio dell’intero sistema lavoristico  e del suo stesso impianto  costituzionale. Il documento, infatti, nella sua sistematicità,  enuncia le sue linee guida, affermando la vetustà dell’aspettativa individuale del posto di lavoro, il primato del mercato sul rapporto, il declino dello schema normativo sulla subordinazione, la valorizzazione di tipi contrattuali alternativi ( o flessibili), la marginalità  dell’intervento giudiziario, il consueto senso di diffidenza per i giudici del lavoro (definiti l’anno precedente nel corso di una convention di Pubblitalia come “infiltrati dal partito comunista”). Il progetto, dunque, si muove su due fronti: l’uno è l’alleggerimento delle regole ( soft law ), la loro derogabilità; l’altro la rimozione del processo, come unico strumento di tutela.
Richiamare, ora, il sistema previgente e le regole costituzionali che lo sorreggevano può apparire mera operazione di resistenza culturale, se non addirittura generazionale. Chi opera nel diritto (ed in special modo nel diritto del lavoro) non può perdere di vista l’evoluzione ed ignorare i mutamenti che, nei fatti e nelle tendenze, modificano  i sistemi. E dunque non  può ignorare che il mondo del lavoro  è stato interessato da fenomeni – senz’altro globali – che  comportano la indubbia necessità di rivedere le regole.
Osserviamo, per esempio, le nuove dinamiche occupazionali. Intorno al mondo occidentale ( o, se si vuole, intorno al mercato occidentale) premono inesauribili risorse di manodopera  dai paesi poveri od in via di sviluppo. L’evoluzione dei sistemi comunicativi e telematici ed il  perfezionarsi dei sistemi di circolazione dei beni consentono oggi all’imprenditore occidentale di confezionare il suo prodotto in oriente a costi enormemente inferiori rispetto a quelli imposti dal mercato occidentale. Un operaio specializzato medio in Europa costa circa 49 dollari al giorno, mentre un suo collega cinese, disposto a lavorare molto di più, costa appena 4 dollari.
Osserviamo, ancora, le conseguenze della immigrazione dai paesi poveri: qui il mercato può utilizzare, in special modo ai livelli professionali meno qualificati, soggetti disposti a non sottilizzare sulla paga, sulla previdenza, sulla sicurezza e dunque , ancora una volta, a costi certamente più appetibili rispetto ad un lavoratore comunitario.
Di queste circostanze – oramai connotate da irreversibilità – occorre prendere atto e quindi rimodulare gli equilibri, a meno di non favorire operazioni di trasloco imprenditoriale che finiscano per coincidere con forme più o meno palesi si antico sfruttamento.
Una buona regola giuridica, dunque, non può prescindere dal considerare il contesto nel quale è destinata ad operare. Ed il contesto, per chi oggi intenda mettere mano al mondo del lavoro, è caratterizzato dalla indispensabile necessità di realizzare equilibri non facili. La scelta, in tale complicato contesto, è , dunque, sempre  politica, forse filosofica, perché occorre decidere  alcune priorità.
Nell’organizzare la sua impresa, l’imprenditore utilizza, come è noto, capitale, strumenti e persone. Per quanto si voglia far leva sulla evoluzione industriale e nonostante tutti i mutamenti strutturali che sono propri della nostra epoca (in vertiginoso progress ), questa regoletta fondamentale è sempre di attualità. L’imprenditore, poi, facendo il suo mestiere,  cura di combinare le sue componenti al fine di ottenere il massimo risultato con la minore spesa. Anche questo – benché sappia di culture ripudiate fino ad apparire, oggi, quasi impronunciabili - è un dato fuori discussione. Lo scopo è il profitto (anche questa espressione risulta oggi impronunciabile). Poco importa rilevare se il conseguimento del profitto abbia una ricaduta anche su chi concorre, con il suo lavoro, a realizzarlo: non è, infatti,  la ricaduta che muove l’imprenditore. L’impresa genera opportunità di lavoro, ma lo scopo dell’imprenditore non va confuso con i suoi effetti, poiché nessuno impegna capitali e strumenti per creare posti di lavoro, bensì organizza i suoi mezzi per conseguire un guadagno, al contempo fornendo opportunità reddituali ai suoi collaboratori.
L’ordinamento conosce questo meccanismo e sa che ad esso appartiene una componente che, a differenza delle altre (capitale e strumenti) ha una sua connotazione, trattandosi di persone e trattandosi , quasi sempre, di soggetti che si presentano nel mercato ed al contratto in condizione di fisiologica debolezza. E siccome le persone hanno un loro percorso di vita che preesiste all’impresa ed al mercato, ogni ordinamento progredito si preoccupa di costruire intorno al loro ruolo di lavoratori un pacchetto minimo di garanzie – patrimoniali ed esistenziali – che ne consenta l’utilizzazione  nel rispetto della loro dignità umana.
Il lavoro – al di là delle  interessate enfatizzazioni mediatiche di grande attualità – è fatica, dispendio di energie finalizzato quasi sempre a procurare una utilità ad altri. In tal senso, il lavoro è attività solo strumentale al personale percorso di vita. Non è qui possibile approfondire: ed in particolare della ragione per la quale da sempre c’è chi lavora e chi utilizza il lavoro altrui e probabilmente all’origine vi è una prepotenza, olim con la spada oggi con la finanza. Il dato fattuale, però, è incontestabile, perché molti, forse i più, lavorano perché sono costretti a farlo, difettando la fatica , come appare del tutto ovvio, di ogni connotato teleologico. Nessuno, penso, può ragionevolmente sostenere di essere al solo scopo d procurarsi quanto sia indispensabile avere per esistere.
E questa la ragione per la quale più su ho affermato che la scelta di sistema è una scelta filosofica o, se vogliamo, politica. Perché si tratta di capire se in questo meccanismo immanente abbia priorità la persona od il mercato, ed in definitiva l’essere o l’avere: il prodotto interno lordo o l’individuo, il benessere materiale più che il benessere etico;  alla fine,  il supermercato più che l’ agorà.
La scelta politica del nostro ordinamento appariva inequivoca. Il lavoro è addirittura parte delle definizione della nostra comunità nazionale (art. 1 Cost.) ed al lavoro, nelle indispensabili forme di tutela, è dedicata parte dei principi generali della Carta Fondamentale (art. 2 , sulla solidarietà, art. 3 sul principio di eguaglianza sostanziale, art. 4 sulla specifica tutela del lavoro). Ma vi è una disposizione di principio che rappresenta la vera e propria chiave di lettura dell’intero sistema, che indica la scelta di fondo: all’art. 41 della Costituzione, infatti, si dice che l’imprenditore è libero di fare l’imprenditore ma con il limite della tutela dell’integrità della persona e del rispetto della dignità umana. Così anche l’art. 36 si prevede che la retribuzione debba essere tale da assicurare una esistenza libera e dignitosa e dunque una partecipazione alla vita sociale senza il peso della sopravvivenza.
Nello stesso codice civile – che, come è noto, -  risale al 1942, è previsto (art. 2087) che il datore di lavoro debba tutelare l’integrità fisica del lavoratore e la sua personalità morale.
In definitiva , non ci sono dubbi sul fatto che la nostra Carta fondamentale abbia stabilito una netta priorità del ruolo esistenziale dell’individuo rispetto al ruolo della persona-lavoratore e che, nel contempo, per la persona-lavoratore siano stati approntati – direttamente od in via programmatica – strumenti di tutela reddituale destinati a rimuovere la disuguaglianza ed ad assicurare un percorso di vita indipendentemente dall’apporto lavorativo (art. 38 Cost.).
In continuità e coerenza con l’impianto costituzionale si era mossa tutte la legislazione protettiva adottata negli anno dal 1960 al 1970:  mi riferisco alle norme sui licenziamenti individuali (1966), a quelle sul divieto di intermediazione (1960), a quelle sul divieto di contratto a termine salvo casi eccezionali (1962), infine allo Statuto dei lavoratori (1970), testo normativo, quest’ultimo, ricco di disposizioni direttamente dettate a tutela della personalità individuale del lavoratore.
Al contempo, nel corso di quegli anni e successivamente, di fatto o per legge, si valorizzava il ruolo della dimensione collettiva, mediante il conferimento alle organizzazioni sindacali di strumenti operativi sempre più incisivi, sul presupposto  della intrinseca debolezza della contrattazione individuale e della indispensabile necessità del lavoratore di presentarsi al contratto con la garanzia di un patto stipulato in sede collettiva ( si pensi a tutte le disposizioni di legge che hanno subordinato alcuni benefici all’impresa a condizione che siano rispettate le regole derivanti dai contratti collettivi di lavoro).
Si era rafforzata con il tempo anche la normativa in materia di tutela fisica del lavoratore, mediante la ricezione di alcune direttive comunitarie e soprattutto mediante  interventi giurisprudenziali ispirati alla massima severità ( c.d. criterio della massima sicurezza tecnicamente fattibile).
In definitiva la legge ( e la contrattazione collettiva) avevano costruito intorno al lavoratore un pacchetto minimo  esistenziale  e retributivo che consentiva di ritenere attuate, in gran parte, le regole costituzionali.
Alla obiezione – oggi ricorrente – della vetustà ed inattualità della nostra Costituzione ( cui oggi si è aggiunta anche una inquietante diffidenza revisionistica  sulle regioni storiche delle scelte ) potrebbe rispondersi agevolmente richiamando i principi dettati a livello di normativa Comunitaria e subito sollecitare  l’attenzione sui contenuti della Carta di Nizza (2001),  che al lavoro ed alla tutela della dignità del lavoratore dedica un terzo delle sue enunciazioni, in sostanza attualizzando tutti i principi contenuti nella nostra costituzione. E la cosa potrebbe finire qui  ed essere utilizzata “tecnicamente” per  sollecitare, al momento opportuno, la Corte Costituzionale a valutare la compatibilità  della riforma del mercato del lavoro.
Ma in realtà non è qui il problema  né è questo il modo di affrontarlo fuori dalle aule di giustizia.
La c.d. legge Biagi (d.lgs. n. 276/2003)  inverte le priorità. La sua matrice, cioè il Libro Bianco sul mercato del lavoro, infatti, non dedica una sola parola alla persona del lavoratore realizzando una vera e proprio inversione di prospettiva.  Il mercato del lavoro non ha bisogno di regole eteroimposte: esso se le crea da sé. Chi ha bisogno di regole è quel soggetto che alle dinamiche del mercato partecipa nel suo ruolo marginale di collaboratore dell’impresa, perché come tale è potenzialmente soggetto a tutti i i rischi, diretti od indiretti, che le medesime dinamiche possono comportare avuto riguardo alla sua condizione esistenziale.
Nel trascurare il ruolo esistenziale della persona del lavoratore, la legge Biagi assegna priorità al mercato, modulando la sorte del lavoratore alle sue esigenze, sul presupposto, tutto da verificare, che il mercato stessa contenga in sé gli strumenti di riequilibrio necessari  a salvaguardare l’individuo. La tutela del lavoratore – pensata e realizzata nel nostro ordinamento come prioritaria rispetto alle esigenze dell’impresa – diventa tutela per ricaduta, quasi eventuale.
Il mutamento di prospettiva si realizza attraverso la  enunciazione di una serie di strumenti di flessibilità. Flessibilità è una parola-contenitore, come alcune trasmissioni televisive della domenica. Letta da una prospettiva diversa essa equivale a precarietà, poiché tanto più è flessibile il contratto di lavoro, tanto più è precaria la condizione del lavoratore.
Non ci sono dubbi sul fatto che la flessibilità (così come la esternalizzazione) giovi all’impresa: è interesse indiscusso dell’imprenditore il poter modulare il costo del lavoro alle fluttuazioni del mercato. Se l’imprenditore intende guadagnare venti  avendo investito cento e se il mercato in un dato momento gli consente di guadagnare solo quindici, non c’è dubbio sul fatto che gli torni comodo poter ridimensionare anche il costo del lavoro perché i quindici diventino nuovamente venti. Essere parte in un contratto flessibile per l’imprenditore vuol dire assicurarsi la necessaria duttilità per mantenere costante il suo guadagno.
Ma se questo è il vantaggio diretto, non è certamente il solo.
Fra l’imprenditore ed il lavoratore (nella sua dimensione collettiva) esiste una fisiologica conflittualità: il primo mira a contenere i costi, il secondo ad ottenere una retribuzione più vantaggiosa. Vi è, però, una conflittualità diversa, poiché all’imprenditore non è gradita la dimensione collettiva, posto che è più semplice spuntare condizioni vantaggiose se la parte debole del contratto si presenta alla negoziazione nella sua dimensione individuale. E, dunque, immanente interesse datoriale quello di scardinare il più possibile la dimensione collettiva. Vi è, ancora, una conflittualità più sottile, spesso latente o sottointesa e riguarda l’interesse imprenditoriale alla fedeltà o quantomeno alla contiguità.
La flessibilità ,allora, e quindi la precarietà, a parte i vantaggi contrattuali, finiscono per favorire l’imprenditore anche in altri conflitti, agevolando l’opera di destrutturazione della dimensione sindacale ed avvicinando sempre di più il lavoratore – lasciato in solitudine nel contratto – alle esigenze del suo datore di lavoro. La precarietà, dunque, genera la perdita della dimensione solidaristica ed alimenta la competizione individuale. Se io sono parte di un contratto a termine ( o di un contratto flessibile che escluda  la garanzia della stabilità) e se so che il rinnovo dipende  dal mero arbitrio del mio datore di lavoro, certamente curerò di allentare il conflitto, di  mostrarmi più contiguo e soprattutto di mostrarmi più contiguo del mio compagno di lavoro (se e vero che il mantenimento del mio posto può derivare dalla soppressione del suo). E’ in questa assoluta destrutturazione della dimensione solidaristica e nella incentivazione alla competizione individuale  che si  realizza in senso intimo della riforma Biagi. E non solo,  perché la condizione di precarietà comporterà un mutamento che non esiterei a definire  antropologico: la  tensione continua rivolta al mantenimento del posto di lavoro, alla competizione spietata con i compagni di lavoro, alla indispensabile contiguità culturale con l’imprenditore, finirà per conferire al lavoro – cioè alla fatica – quel ruolo telelogico che non è proprio della natura umana, realizzando una identificazione mortificante fra il percorso  di vita ed il percorso lavorativo e privando l’individuo di quanti altri spazi possano  appartenere  alla sua agenda.
Valga il vero: la riforma Biagi, nell’individuare forme di collaborazione flessibile (intendo con flessibilità sul tipo contrattuale) autorizza sostanzialmente variegate ipotesi di intermediazione di manodopera, seppure prevedendo che il vecchio caporale assuma le vesti di società per azione ed offra alcune  garanzie ( così nel contratto di somministrazione di manodopera, oggi in mano a poche società  con capitale estero); autorizza il c.d. lavoro a progetto, cioè una camuffata forma di lavoro subordinato che però tale non è (  con la conseguenza della inapplicabilità delle regole proprie della subordinazione) ; autorizza il lavoro a tikets, assegnando ad agenzie di intermediazione lo smercio di buoni per servizi domestici o di assistenza ( qui essendo ipotizzabile addirittura il possibile sviluppo di illeciti commerci).  Autorizza, ancora, la certificazione e cioè una sorta di qualificazione concordata del tipo contrattuale che sottrae al giudice la qualificazione del rapporto. In sostanza realizza una tale  parcellizzazione del rapporto,  che,  a parte consentire guadagni per chi si occupi solo di fare da mediatore fra domanda ed offerta ( ovviamente in danno del lavoratore che finisce per ricevere una paga decurtata del guadagno del suo collocatore) , comporta una vera e propria dispersione del sistema di sicurezza, divenendo del tutto problematico, nel meccanismo di appalto, somministrazione o comando, individuare il centro di imputazioni di eventuali responsabilità.
La auspicata sottrazione al giudice della qualificazione del rapporto di lavoro, poi, realizza  una definitiva destrutturazione del sistema protettivo: è nelle cose che ad ogni forma di tutela sostanziale debba corrispondere una analoga forma di tutela processuale, perché le regole le applicano i giudici ed i giudici del lavoro hanno una loro formazione culturale non esattamente liberista. Coerentemente, dunque, la legge Biagi si occupa – in più disposizioni – addirittura di enunciare quali siano i poteri interpretativi del magistrato quando si debba occupare delle nuove figure flessibili (limitando – quantomeno nelle intenzioni – i margini del sillogismo giudiziario).
Per questo, come accennavo, la scelta è filosofica (o, più modestamente, politica). Non conta tanto parametrare la riforma alle regole costituzionali: questa è operazione tecnica che –  a parte i tempi e la intrinseca complessità – non è sufficiente alla riflessione. Occorrerà, al contrario, verificare quanto la scelta di fondo possa essere condivisa, poiché le regole – anche quelle costituzionali -  contano poco se non convincono la collettività. E la collettività oggi si deve interrogare se conti più il mercato o la persona, se valga la pena immolare ad un maggior benessere complessivo, al prodotto interno lordo, la personale agenda di vita; se sia utile, od anche se sia etico, consentire che il percorso esistenziale si identifichi con il percorso lavorativo , come già succede per  gli sfortunati destinatari della normativa sulla immigrazione  (c.d. legge Bossi-Fini) la cui  sopravvivenza dipendente esclusivamente dal mantenimento di un posto di lavoro, dunque dall’ altrui arbitrio.  
  (Torna all'elenco Articoli nel sito)