Gli accertamenti  medico-fiduciari  in  preassunzione

 

1.Premessa

2.Il divieto di ricorso a medici fiduciari aziendali introdotto dall’art. 5 L. n. 300/1970 per i lavoratori dipendenti

3.Le motivazioni dell’estensione giurisprudenziale e dottrinaria anche agli aspiranti all’assunzione

4. Il dissenso manifestato da Cass., 3° sez. pen., n. 2635 del 1997 ed i limiti del principio asserito alla luce delle leggi speciali (sulla parità uomo-donna, sulla privacy, sul divieto di test di sieropositività)

5.La questione delle visite per “giudizio di idoneità” alla mansione specifica nel D. Lgs. n. 626/1994

 

1.Premessa

La notizia dell’emissione della decisione n. 2635 (resa il 20 ottobre 1997 e depositata l’8 gennaio 1998) della 3° sezione penale della Cassazione (pubblicata in Lav.prev. Oggi 1998, 3, p. 617), in tema di riscontro del reato – ex art. 38  L. n. 300 del 1970 (c.d. Statuto dei lavoratori) per violazione dell’art. 5 stessa legge – impone un riesame, accompagnato da relativa cronistoria, della problematica delle visite attitudinali ad opera di medici fiduciari aziendali, nei confronti  sia dei lavoratori sia dei candidati all’assunzione, disciplinate dall’art. 5 L. n. 300 del 1970.

Per necessaria informativa va detto che  la 3° sezione penale della Cassazione si è discostata, nella materia penale e con motivazione di condivisibilità del principio equiparativo  (fra dipendenti e candidati all’assunzione) nella materia civile, dall’orientamento delle sezioni civili e della maggioranza della dottrina – equiparanti giustappunto lavoratori dipendenti ed aspiranti all’impiego – asserendo che, pur apprezzando vivamente lo sforzo di adeguamento o equiparazione operato dal Pretore di Torino, lo stesso non era condivisibile alla luce della chiara lettera del legislatore, stante la menzione del “lavoratore” quale destinatario delle garanzie statutarie ed auspicando, conseguentemente, ai fini di una inequivoca equiparazione, un sollecito intervento del legislatore. Ciò in quanto il giudice “deve compiere un  ordinario sforzo d’umiltà e soffermarsi sul significato letterale della disposizione e non ergersi a legislatore, facendo dire alla norma non ciò che essa testualmente prevede ma ciò che si vorrebbe avesse detto”. Soggiungendo che “il compito della Corte di legittimità è, proprio quello di evitare ‘fughe interpretative in avanti’ e di lasciare che sia il parlamento a svolgere il suo ruolo di legislatore”.

Va ancora detto che la terza sezione penale della Cassazione era stata investita dell’esame della ricorrenza del reato: a) per i test dell’Aids o di sieropositività per i candidati all’assunzione (reato riscontrato perché l’art. 6 della L. n. 135 del 1990, relativa  ai malati sieropositivi, fa espresso divieto di accertamento e di cognizione datoriale sia per i lavoratori in organico alle aziende che per gli “assumendi”); b) per i test di tossicodipendenza degli “assumendi” (reato non riscontrato, appunto in ragione della tutela  statutaria che la sezione penale della Cassazione ha asserito essere riservata ai soli lavoratori con rapporto in atto); c) per i test di gravidanza delle candidate all’assunzione (reato non riscontrato per la stessa motivazione di cui al punto b).

A proposito del reato eventuale di cui al punto c), va  detto che al reato ex art. 38 L. n. 300/’70 – per violazione dell’art. 5  stessa legge – era stato contestato all’imputato ricorrente (quando invece sarebbe stato addebitabile al datore di lavoro commissionante gli accertamenti a strutture mediche fiduciarie) l’addizionale reato per violazione della legge di “parità uomo-donna” in materia di lavoro (n. 903 del 9. 12 .1977) che, all’art. 1, stabilisce che “qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro è vietata anche quando sia attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza” (peraltro rientrante nel novero delle discriminazioni indirette vietate anche dalla successiva L. n. 125/1991 in tema di “azioni positive” per la rimozione di discriminazioni in tema di parità “uomo-donna”), ma la Cassazione, in sede penale, ha trascurato di effettuare le necessarie, meditate, riflessioni.

 

2. Il divieto di ricorso a medici fiduciari aziendali introdotto dall’art. 5 L. n. 300/1970

E’ noto – e per questo non occorre spendere molte parole – come l’art. 5 della L. n. 300 del 1970 (c.d. Statuto dei lavoratori) abbia inibito alle imprese  la pregressa prassi di sottoposizione dei lavoratori a controlli sanitari commissionati a medici di fiducia, per deferirli agli organismi pubblici (Inps, Usl, ecc.), nel presupposto di una loro neutralità e quindi imparzialità rispetto al medico pagato dall’azienda per le sue prestazioni professionali.

Cosicché sia le visite di controllo dell’addotta infermità – temporaneamente impeditiva della prestazione – sia le verifiche d’idoneità al lavoro o a certe mansioni sono oramai di esclusiva competenza dei “sevizi ispettivi degli istituti previdenziali” ovvero di “enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico” (ex art. 5, 2 e 3 co.).

Per lungo tempo le imprese si sono considerate sottratte dall’assoggettamento a questa disciplina relativamente ai “candidati”, aspiranti all’assunzione, sulla base della considerazione secondo cui l’art. 5 riferiva il divieto alla malattia o infortunio o all’idoneità fisica del “lavoratore dipendente” (o semplicemente del “lavoratore”). La terminologia del legislatore richiamava – invero – alla mente una situazione di rapporto di lavoro in atto, e solo sforzi progressivi finalizzati a cogliere ed ad affermare la ratio sottostante alla globale normativa statutaria potevano orientare anche per un’attrazione della fattispecie dell’instaurando rapporto di lavoro.

Ed in tale convincimento restrittivo le imprese trovarono supporto da parte di due decisioni della sezione penale della Cassazione (n.9172 del 28. 11. 1974, ric. Grisoni (1)– menzionata altrove come Cass n. 288 del 18.2.1974 - e n. 706 del 24. 3. 1975, ric. Cantelli (2), menzionata altrove come Cass. 4671 del 14. 4. 1975), finché la sezione lavoro non si dissociò dall’orientamento in questione, con decisione n. 2729 del 4 maggio 1984 (3) per affermare, l’opposto, seguente principio: “L’art. 5 L. 20 maggio 1970, n. 300, agli effetti del divieto di accertamento sull’idoneità del lavoratore tramite medici di fiducia del datore di lavoro – e del conseguente obbligo di ricorso a sanitari di enti pubblici o istituti specializzati di diritto pubblico – pone sullo stesso piano sia il lavoratore occupato sia l’aspirante  ad un posto di lavoro. Anche per quest’ultimo – la cui posizione è anzi più debole rispetto a quella del lavoratore occupato – sussiste invero l’esigenza di garantire la libertà, la dignità e la riservatezza, alla stregua del medesimo criterio che impronta anche le disposizioni della legge in tema di divieto di indagini sulle opinioni (art. 8)  e di nullità degli atti discriminatori(art. 15)”.

L’ orientamento sopracitato -  riaffermato poi da Cass. sez. lav. 26.2.1985, n. 1674 (4), da Cass. sez. lav. 5.11. 1985, n. 5387 (5) e da Cass. sez. lav. 19.3.1986, n. 1917 (6)- poteva ritenersi oramai del tutto affidabile, definitivo e consolidato, anche in ragione di una totale condivisione da parte della dottrina,  se non fosse intervenuta la già citata, recentissima, decisione della terza sezione penale della Cassazione (sentenza n. 2635/1997, depositata l’8. 1.1998) che sembrerebbe aver rimesso in discussione i principi consolidati delle sezioni civili, affermando che l’estensione agli aspiranti lavoratori (o candidati) delle norma dell’art. 5 dello Statuto, riservata ai lavoratori in costanza di rapporto, non è consentita in materia penale, sede nella quale non opera l’analogia, con la conseguenza della non ricorrenza di reato per gli accertamenti  richiesti da  aziende torinesi ad una privata clinica  fiduciaria, afferenti analisi di tossicodipendenza e test di gravidanza per candidati all’assunzione.

 

3. Le motivazioni dell’estensione giurisprudenziale e dottrinaria anche agli aspiranti all’assunzione

La tesi  disattesa dalla sezione lavoro della Cassazione (ed ora riaffermata dalla 3° sezione penale) accordava, invero, una protezione differenziata al lavoratore occupato rispetto al disoccupato-aspirante all’impiego, la cui aspettativa all’assunzione è meritevole di non essere frustrata da un accertamento potenzialmente non imparziale dei medici di fiducia aziendali, in misura quantomeno pari al diritto dell’occupato di non essere privato del lavoro se non dietro imparziale riscontro della sua inidoneità ad opera di sanitari di enti pubblici o istituti specializzati di diritto pubblico.

Questa considerazione è il fulcro logico dell’orientamento inaugurato da Cass. n. 2729/1984 laddove afferma che sono da porre sullo stesso piano “…la tutela del cittadino che è parte di un rapporto di lavoro e quella di colui che ad un posto aspira, sussistendo anche per quest’ultimo l’esigenza di garantirne la libertà, la dignità e la riservatezza…, non potendosi disconoscere che la posizione del lavoratore avviato (all’azienda dall’Uplmo, in quanto disoccupato, n.d.r.) è semmai più debole rispetto a quella del lavoratore dipendente, ed a maggior ragione merita la tutela a questo accordata”.

Per la verità, su questa motivazione concordavano, in dottrina, tanto coloro che avevano sostenuto la tesi del divieto di ricorso a medici di fiducia sia per lavoratori occupati come per aspiranti all’assunzione, sia coloro che circoscrivevano il divieto ai soli lavoratori dipendenti. Solo che i fautori di quest’ultima (e più restrittiva) tesi asserivano che l’estensione della tutela ai lavoratori non ancora occupati si imbatteva nell’insormontabile ostacolo della “lettera” della legge, la quale – menzionando al comma 1 dell’art. 5 il “lavoratore dipendente” (e non semplicemente “il lavoratore”) ed in ragione di un supposto inscindibile collegamento del comma 1 con il comma 3 – non lasciava all’interprete spazi per superare questa reale incoerenza, posta in  essere dal legislatore a danno del lavoratore disoccupato (7).

Taluni fautori andarono per la verità oltre, tentando di sottrarre la tesi restrittiva alla critica di privilegiare – tra i criteri ermeneutici – quello meramente letterale, giungendo  a sostenere che la tesi che circoscriveva il divieto di ricorso a medici fiduciari per i soli lavoratori dipendenti “…è confortata da tutti i criteri ermeneutici indicati (nell’art. 12, preleggi, n.d.r.) e soprattutto da quello sistematico e teleologico e che solo essa è conforme alla vera ratio della norma inquadrata nel sistema ed alla effettiva ed oggettiva intenzione del legislatore” (8), individuata nella salvaguardia eminentemente del lavoratore con rapporto di lavoro in atto, da abusi ed illegittime interferenze del datore di lavoro.

E’ fuor di dubbio che la legislazione del lavoro, come l’azione sindacale, abbia privilegiato i lavoratori già occupati rispetto ai non occupati – tant’è che particolarmente sul sindacato sono piovute non immeritate quanto stimolanti critiche – ma la constatazione non può essere esasperata eccessivamente, né tanto meno sino al punto da essere posta a fondamento o quasi esclusivo supporto della tesi che priva il disoccupato dell’imparziale visita attitudinale.

Lo statuto dei lavoratori non privilegia certo, ma neppure dimentica, le condizioni del disoccupato. Basti pensare che, se l’art. 1 tutela la libertà di manifestazione del pensiero, nelle sue varie forme strumentali, di coloro che sono inseriti nel processo produttivo - al fine di salvaguardarli da conseguenze pregiudizievoli a causa diretta del civile convincimento ideologico, morale o religioso – l’art. 8, nel vietare le indagini sulle opinioni, afferisce e tutela indistintamente il lavoratore dipendente e l’aspirante all’assunzione.

E’ una parificazione effettuata dal legislatore con esplicita formula inibitoria (“…ai fini dell’assunzione, come nel caso dello svolgimento del rapporto di lavoro”) ove, tuttavia, la precisazione afferente all’aspirante al lavoro s’imponeva per porre fine inequivocabilmente a prassi note, e comunque denunciate nel corso dell’indagine parlamentare conoscitiva, finalizzate a portare,  surrettiziamente, a conoscenza del datore di lavoro requisiti “extra professionali” dell’aspirante, di gradimento (o meno) del datore di lavoro.

Nell’art. 8, la precisazione in questione è apposta, secondo noi, più per conferire incisività ad un divieto insito nella ratio di un testo di legge titolato a “tutela della libertà e dignità dei lavoratori…” – così designati per status di subordinazione in contrapposizione ai prestatori d’opera autonomi – piuttosto che per specificare necessariamente l’ambito di estensione del divieto medesimo. E, comunque, la puntualizzazione di rafforzamento era tutt’altro che inopportuna, poiché l’oggetto del divieto era questione civilmente e politicamente troppo importante per rischiare equivoci, trattandosi di bandire, inequivocabilmente ed una volta per tutte, ignominiose pratiche poliziesche di ingerenza nella sfera di riservatezza del cittadino, designate comunemente come “schedature” (9).

Eguale parificazione al dipendente è accordata, per l’aspirante al lavoro, dall’art. 15 che vieta gli atti discriminatori per ragioni politiche, sindacali, religiose, etniche, linguistiche e di sesso, sia ai fini dell’assunzione sia in corso di rapporto, quivi in relazione alle opportunità di qualificazione professionale o di progressione di carriera, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari o con qualsivoglia strumento o criterio organizzativo gestionale.

L’intelaiatura dello Statuto rivela quindi una coscienza per il diritto del disoccupato al pari riconoscimento della propria dignità ed al pari rispetto degli aspetti della personalità rientranti nella intangibile sfera della riservatezza individuale, consapevolezza di cui sono testimonianza le due disposizioni sopracitate, purtroppo le uniche in forma esplicita nello Statuto dei lavoratori.

Ma, in verità, una volta che si convenga che la matrice del divieto di ricorso a medici privati per le visite di idoneità  è la stessa che permea gli artt. 8 e 15, nel senso che tutte e tre le disposizioni sono finalizzate a neutralizzare strumenti e condizioni di un potenziale comportamento non imparziale del datore di lavoro nei confronti del lavoratore subordinato in ragione della cognizione o dell’appropriazione di notizie attinenti all’ambito fisio-psichico o dei convincimenti (entrambi salvaguardati con la riservatezza, per attinenza alla sua condizione umana), non si trovano plausibili motivazioni per escludere l’aspirante all’impiego dalla tutela dell’art. 5, comma 3, stat. lav.

Troppo fragile, ai fini preclusivi, appare infatti l’argomento di una carente specificazione in positivo a favore del disoccupato, pretesa dai sostenitori della tesi restrittiva. Anche perché, se si vuol ragionare in questi termini, tanto vale la mancata previsione positiva quanto la mancata previsione negativa ovverosia l’inesistente esclusione del disoccupato (o assumendo) dalla tutela in questione.

Argomentazione usata, sul piano dialettico, dalla stessa S.C., nella decisione n. 2729 del 1984, laddove sottolinea come “…se è vero che il comma 1 dell’art. 5 fa riferimento, agli effetti del divieto di accertamento sulla idoneità  e sulla infermità per malattia o infortunio, al ‘lavoratore dipendente’, parimenti certo è che il legislatore non usa la stessa dizione nel comma ult., ove parla semplicemente di ‘lavoratore’, sicché la lettera della legge non esclude, di per sé, che il controllo della idoneità fisica debba avvenire, anche in fase di pre-assunzione, a mezzo di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico”.

Peraltro questa non è la considerazione “principale” o “portante” della decisione in questione della S. C., risiedendo il nocciolo argomentativo in convincimenti identici a quelli da noi delineati nel corso del presente scritto.

Invero anche la prevalente dottrina (10) aveva da tempo superato le angustie interpretative indotte dall’infelice formulazione letterale dell’art. 5, estendendo la tutela dell’accertamento d’idoneità da parte di medico non di parte, ai disoccupati avviati al lavoro dall’Uplmo e agli aspiranti al lavoro appartenenti a categorie non soggette all’obbligo della richiesta numerica. A ciò era addivenuta sulla base di diverse  argomentazioni che, per completezza ed in sintesi, riportiamo anche per dar conto di come la S. C. nelle sue decisioni delle sezioni civili, non si sia mossa in maniera estemporanea o isolatamente.

Si disse, in dottrina, che il divieto di ricorso a medici fiduciari per le visite di idoneità afferiva anche alle visite preassuntive, in quanto : a) la dizione “lavoratore” di cui al comma 3 dell’art. 5, senza l’aggettivazione “dipendente” di cui al comma 1 – peraltro interpretabile quest’ultima come equivalente a “subordinato” e quindi designativa di uno status sociale (11) e non significante interiorizzazione organica in azienda – era indicativa di una posizione sociale di cui gode anche chi ha solo diritto al lavoro (12); b) l’art. 5, unitariamente considerato, era improntato da una ratio non differenziante  occupati da avviati al lavoro poiché tesa ad “impedire che un terzo – il datore di lavoro – entri in possesso di dati e notizie inerenti alla sfera  della personalità intima di un individuo, eliminando in radice la possibilità che ne faccia uso incontrollato e comunque lesivo della altrui  riservatezza”(13), ratio peraltro reperibile nell’art. 8, afferente al diritto di privacy sui civili e personali convincimenti (14); c) ed ancora l’equiparazione, ai fini della tutela in questione, tra occupati e disoccupati era scontata, risiedendo per altri la ratio dell’art. 5, globalmente valutato, nell’intento di garantire l’imparzialità degli accertamenti delle condizioni fisiche dei lavoratori, sottraendone la possibilità ai datori di lavoro e assegnandoli ai servizi sanitari pubblici (15).

A perfetta conoscenza del quadro sopra delineato, la S.C. a sezioni civili ha quindi tratto le sue conclusioni, adesive all’impostazione dottrinale prevalente, peraltro condivisa dallo stesso Ministero del lavoro che, con circolare amministrativa del 22 marzo 1973 (16), ebbe a dire che l’idoneità fisica “si può accertare solo attraverso il provvedimento tipizzato dal comma 3 dell’art. 5, l’unico consentito al datore di lavoro sia nei confronti del lavoratore già assunto sia nei confronti del lavoratore da assumere”.

Ed anche se a sostegno della tesi restrittiva – ora riaffermata imprevedibilmente dalla terza sezione penale della Cassazione nella decisione n. 2635/1997, ric. Mormile -  è stato detto che il disoccupato respinto per dichiarata inidoneità ad opera di medico di parte, ha sempre la possibilità di esperire l’azione giudiziale (17) va sottolineato come il punto non stia nella potenziale garanzia che,  ad opera  del magistrato, al lavoratore - semprechè trovi soldi e tempo per intraprendere azione legale – venga a posteriori liquidato un risarcimento del danno subito, ma che il diritto al lavoro che fa capo a ciascun cittadino, ex art. 4 Cost., risulti eventualmente impedito solo da un’obiettiva constatazione di inidoneità ad opera di sanitario imparziale.

Sul piano pratico va poi evidenziato come l’orientamento consolidato delle sezioni civili della Cassazione – noto alla terza sezione penale –  possiede un suo rilievo, in quanto la violazione dell’art. 5 è penalmente sanzionata per espressa previsione dell’art. 38 st. lav. Nè, al riguardo, risulta condivisibile il ragionamento (18) secondo cui la sanzione penale – ex art. 14 preleggi, in tema di applicazione delle norme penali - afferirebbe solo alla violazione del comma 1° dell’art. 5, ove è espressamente menzionato il divieto, in quanto alla facoltà (rectius, obbligo) datoriale, sancito nel comma 3°, di far ricorso ai servizi pubblici per le visite di idoneità, corrisponde implicitamente ed inscindibilmente un divieto di utilizzo dei medici fiduciari, inespresso solo dal lato formale (19).

 

4. Il dissenso manifestato da Cass. 3° sez. pen. n. 2635 del 1997 (depositata l’8.1.1998)

La decisione n. 2635/1977, ric. Mormile (depositata l’8. 1.1998), della terza sezione penale della Cassazione atteneva, per l’appunto, al versante penale della questione, per accertare il quale si rivelava propedeutica la verifica di estensibilità - del divieto di affidamento datoriale delle visite (o esami) a strutture mediche private - nei confronti non già  di lavoratori in organico ma di candidati all’assunzione.

Visite ed analisi attinenti – come già illustrato – alla eventuale sieropositività degli aspiranti all’impiego, alla tossicodipendenza e allo stato di gravidanza.

Come abbiamo evidenziato le conclusioni sono state nel senso della legittimità e della conseguente esclusione del reato, salvo  che per gli esami di sieropositività, espressamente protetti anche per gli assumendi dalla  previsione legale dell’art. 6 L. 5 giugno 1990, n. 135 secondo cui: “E’ vietato ai datori di lavoro, pubblici e privati, lo svolgimento di indagini volte ad accertare nei dipendenti o in persone prese in considerazione per l’instaurazione di un rapporto di lavoro l’esistenza di uno stato di sieropositività “, con richiamo, al 2° comma,  delle conseguenze sanzionatorie di cui all’art. 38 Statuto dei lavoratori, in caso di trasgressione.

A parte l’opinabilità, per quanto innanzi espresso, delle conclusioni raggiunte a favore dell’esclusione dei riflessi penalistici per talune fattispecie di analisi e test praticati ai futuri lavoratori,  va rilevato che la Cassazione non ha -  evidentemente per l’epoca  cui risalivano i fatti addebitati al titolare della clinica privata cui gli esami erano stati fiduciariamente commissionati dalle aziende - potuto tener conto della nuova legge n. 675/1996 sulla “privacy” che inibisce dalla data di entrata in vigore, in aggiunta all’art. 8 della L. n. 300/’70 (afferente a fatti non rilevanti per la valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore e dell’aspirante all’assunzione), l’appropriazione da parte di terzi, senza il consenso informato e scritto dell’interessato e senza l’autorizzazione del Garante, di dati “sensibili” del cittadino, quali quelli afferenti allo stato di salute (intesa in senso lato e comprensiva anche delle modificazioni fisiologiche prodromiche della maternità). Alla luce di questa nuova normativa, la Cassazione – nel caso che avesse dovuto decidere di ipotesi di reato commesse posteriormente all’entrata in vigore della medesima – non avrebbe potuto che affermare la sussistenza dell’illegittimità, penalmente rilevante, della condotta aziendale e del titolare del centro privato di analisi mediche, che l’aveva praticate senza il consenso informato scritto dei candidati all’assunzione.

In proposito va rilevato come l’art. 22, comma  1°, della L. n. 675/1996 – afferente la cognizione dei dati sensibili del cittadino, tra i quali sono inclusi quelli afferenti lo stato di salute e la vita sessuale – stabilisce che il loro “trattamento” può avvenire  solo con il consenso dell’interessato e previa autorizzazione del Garante per la “privacy”. Ed  al riguardo quest’ultimo ha emesso  per il “trattamento dei dati sensibili nel rapporto di lavoro” – il provvedimento generalizzato di autorizzazione n. 1/1997 del 19.11. 1997 (20), espressamente includendo tra i soggetti “interessati ai quali i dati si riferiscono” (punto 2 dell’autorizzazione tipo), non solo i lavoratori dipendenti ma, al punto 2 d) anche i “candidati all’instaurazione di un rapporto di lavoro”, nei cui confronti vale l’autorizzazione in questione, ricorrendo il consenso informato scritto dell’interessato. Ed includendo, altresì, al punto 4) – specificante le categorie di dati “idonei a rivelare lo stato di salute”-  quelli “…raccolti  in riferimento a malattie professionali, invalidità, infermità, maternità e puerperio, a infortuni, a esposizioni  a fattori di rischio, all’idoneità psico-fisica a svolgere determinate mansioni o all’appartenenza a categorie protette”. Nelle “norme finali” della precitata autorizzazione n. 1/1997, si dispone la riconferma degli obblighi (e divieti) previsti nelle leggi speciali lavoristiche, fra queste l’art. 8 L. n. 300/’70, in tema di divieto di indagini sulle opinioni e su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore e del candidato all’assunzione, l’art. 6 L. n. 135/’90 sancente il divieto di accertamenti di sieropositività, nonché  gli obblighi previsti dalle “norme in  materia di pari opportunità o volte a prevenire discriminazioni”.

Quindi: a) relativamente ai test di sieropositività, la ricorrenza  del reato è indiscussa, per violazione dell’art. 6 L. n. 135/’90; b)  se gli accertamenti per il riscontro della tossicodipendenza, tramite test, non possono dirsi in astratto vietati – purché disposti con il consenso informato, in ossequio all’art. 22 L.n. 675/’96, e ad opera di strutture pubbliche, in ossequio all’art. 5 Statuto dei lavoratori – perché la cognizione  della  specifica condizione  di dipendenza dagli stupefacenti può essere “rilevante ai fini della valutazione dell’attitudine professionale”  del lavoratore o dell’aspirante all’impiego, per certe mansioni (implicanti, ad es.,  attività a contatto con il pubblico, pregiudicabili da crisi di astinenza, o l’espletamento di operazioni di precisione in processi meccanici o chimici che, se errate, possono comportare pregiudizio all’incolumità delle persone o alla sicurezza degli impianti), c) l’appropriazione datoriale, tramite test, dello stato di gravidanza delle lavoratrici e delle aspiranti all’assunzione – anche se avvenuto con il consenso informato scritto della donna – concretizza il reato ex art. 38 S.d.l. per violazione dell’art. 8  stessa legge, attesa l’irrilevanza della condizione fisiologica  indagata “ai fini della valutazione dell’attitudine professionale”, tenuta altresì presente la sussistenza di  un apparato legislativo tutorio (L. n. 1204/’71) delle condizioni di salute e di sicurezza della lavoratrice in gestazione, nella fase in cui lo svolgimento della normale prestazione sarebbe pregiudizievole per la stessa. Apparato legislativo che prevede, a tal fine, il divieto di adibizione a lavori di trasporto  e sollevamento pesi nonché a lavori pericolosi, faticosi ed insalubri durante il periodo della gestazione e fino a sette mesi dopo il parto (art. 3 L. n. 1204 cit.), oltreché  periodi di astensione obbligatoria dal lavoro e aspettative facoltative post-partum, per la cui fruizione è interesse della stessa lavoratrice documentare spontaneamente la propria condizione di gestante.

Una specifica protezione per le “aspiranti all’assunzione” viene poi  accordata dalla L. n. 903/’77, in tema di parità “uomo-donna”  che all’art. 1 dispone che “è vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro…  attuata attraverso il riferimento allo stato patrimoniale o di famiglia o di gravidanza”, costituendo la violazione reato sanzionabile con l’ammenda di cui all’art. 16 stessa legge. Ed allo scopo di reprimere le discriminazioni indirette, fondate sul sesso, anche “nella fase di accesso al lavoro”, è intervenuta la L. n. 125/’91 (rubricata “Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”). In questo contesto non si può che concludere nel senso che il controllo dello stato di gravidanza delle lavoratrici come delle aspiranti all’impiego costituisce inequivocabilmente atto antigiuridico, strutturante reato dal lato penale e legittimante azione civilistica di risarcimento di danno per l’ipotesi in cui dall’illecito datoriale sia discesa, con nesso di causalità, l’eventuale discriminazione costituita dalla mancata stipulazione del contratto di lavoro per l’aspirante all’impiego o le fattispecie della discriminazione nella progressione di carriera per le dipendenti o similari pregiudizi.

Va ancora detto che la stessa Cass., 3° sez. pen., n. 2635/’97, nelle ipotesi in cui ha escluso il reato penale, ha manifestato condivisibilità e correttezza nei confronti della tesi equiparativa lavoratori e candidati, con il ricorso all’analogia nella materia civilistica, legittimando implicitamente l’azione civile di risarcimento di danno, una volta che il lavoratore riesca a provare che dalle indagini o accertamenti sanitari effettuate da medici fiduciari aziendali (e non dalle strutture pubbliche disposte dall’art. 5, 3° comma, S.d.l.) sia discesa la mancata stipulazione (o, peggio, la risoluzione) del contratto di lavoro.

Pertanto il clamore giornalistico suscitato da questa divergenza d’indirizzo in sede giurisprudenziale (fra le sezioni penali e quelle civili della Cassazione) - peraltro ad opera di un’isolata decisione -  sembra invero  essere destinato ad un drastico ridimensionamento nell’attuale momento di sopraggiunta normativa tutoria dei diritti del cittadino e del lavoratore.

 

5 .La questione delle visite per “giudizio di idoneità” alla mansione  specifica nel D. Lgs .n. 626/1994

Una elusione della normativa imperativa dell’art. 5 , 3° co., S.d.l., in ordine alla sottrazione delle visite o accertamenti d’idoneità o attitudinali in preassunzione o nel corso del rapporto di lavoro, potrebbe, invero, discendere dall’applicazione pratica della normativa per il “miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori”, costituita dal D.Lgs. n. 626/’94.

In effetti l’art. 17 della citata normativa prevede la figura del “medico competente” – che l’art. 4, 4° co., lett.c) dispone sia espressamente “nominato” dal datore di lavoro – il quale svolge in azienda (cfr. art. 5, lett. a), b), c) la sua attività in qualità di: a) “dipendente di una struttura pubblica o privata, convenzionata con l’imprenditore; b) libero professionista; c) dipendente del datore di lavoro”. E fra i compiti del “medico competente”, a tutela della salute del lavoratore e dei compagni di lavoro, concretizzanti la c.d. “sorveglianza sanitaria”, l’art. 16 prevede: a) l’espletamento di “accertamenti preventivi, intesi a constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui i lavoratori sono destinati, ai fini della valutazione della loro idoneità alla mansione specifica”; b) l’espletamento di “accertamenti periodici per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica”.

Che gli accertamenti del “medico competente” non riguardino i soli lavoratori dipendenti, con rapporto in atto, ma anche potenziali candidati all’assunzione futura, lo si desume dal fatto che  l’art. 2 (“definizioni”) precisa, alla lett. a), che sono equiparati ai lavoratori “…gli allievi degli istituti di istruzione e universitari e i partecipanti a corsi di formazione professionale…” che, in posizione di stage, possono poi veder convertita la propria (precaria) condizione in quella di dipendenti dell’azienda.

Sebbene l’art. 5 dello Statuto dei lavoratori sia sorretto dall’esigenza della tutela della libertà, dignità e riservatezza del lavoratore e l’art. 17 D. Lgs. n. 626/’94 dalla diversa esigenza di controllare l’attitudine del lavoratore alla specifica mansione di assegnazione, è indubbio che le competenze sono caratterizzate da una linea di demarcazione troppo sottile che, in concreto, rischia di non essere rispettata con la conseguenza di una sovrapposizione dei compiti e con la possibilità che tramite il c.d. “medico competente” d’azienda – libero professionista o dipendente del datore di lavoro o di struttura pubblica o privata, convenzionate con l’impresa - si finisca per esautorare la competenza, in tema di accertamenti d’idoneità che il 3° co. dell’art. 5 S.d.l. ha inteso sottrarre al medico privato fiduciario, a garanzia del cittadino lavoratore o aspirante all’impiego, e riservare alle sole strutture pubbliche, considerate più neutre ed imparziali.

Senza intenzione di esaurire la questione ma con l’intento di sollevare un interesse problematico tra gli addetti ai lavori, il mancato o inadeguato coordinamento tra le due disposizioni del 1970 e del 1994, rischia – a nostro avviso – di ripristinare, ammodernata, la figura del “medico fiduciario datoriale o di fabbrica”  per gli accertamenti di idoneità specifica, sia preventiva che periodica, che lo Statuto intese bandire.

E già si sono registrati i primi contenziosi giudiziari tra le competenze del “medico competente” (che aveva giudicato inidonea al lavoro un’invalida civile avviata obbligatoriamente, ex  lege n. 482/1968, dall’Ufficio di collocamento di Biella, conseguentemente respinta dopo la diagnosi dal datore di lavoro) e, nel caso di specie, quelle del Collegio provinciale (ex art. 20, 1° co., L. n. 482/’68) che, all’opposto, giudicava successivamente idonea la lavoratrice respinta “in quanto la natura ed il grado della sua infermità non possono essere di pregiudizio alla salute ed alla incolumità dei compagni di lavoro e alla sicurezza degli impianti” (21). Il Pretore di Biella ha sollevato questione di costituzionalità dell’art. 16 cit. – per contrasto con gli artt. 35 e 38 Cost. – in quanto la valutazione del “medico competente” di inidoneità alle  mansioni dell’avviato al lavoro obbligatoriamente, vanificherebbe l’atto di avviamento al lavoro e svuoterebbe la competenza del Collegio medico provinciale.

Ne è seguita la decisione n. 354 del 21.11.1997 della Corte costituzionale (22) che, con sentenza interpretativa di rigetto, ha  negato la  sussistenza della questione di costituzionalità, affermando la legittimità della coesistenza del “medico competente” con il  Collegio medico provinciale, ex lege n. 482/’68,  attribuendo al giudizio di quest’ultimo valore di prevalenza (o gerarchico) nei confronti di quello del “ medico competente per la sorveglianza sanitaria” in azienda, di cui all’art. 16 D. Lgs. n. 626’94.

Siamo in attesa di vedere quali sorprese ci riserverà, nel futuro prossimo, la coesistenza tra le “strutture pubbliche” abilitate, dall’art. 5, 3° co., S.d.l. alle visite di idoneità ed il “medico competente” di cui all’art. 16 D.Lgs. n. 626/’94. Una cosa sembra scontata: le eventuali conseguenze conflittuali saranno ascrivibili ad un inadeguato coordinamento tra una legislazione del 1970 a connotazione prettamente nazionale ed una del 1994 d’impulso e derivazione comunitaria, ispirata da altra visuale, presupposti e contenuti.

Mario Meucci

(pubblicato in Lav. prev. Oggi 1998, 3, p. 1226)

******

Post scriptum:

A distanza di  poco più di un anno e precisamente con sentenza del 27 gennaio 1999, n. 1133 (in Lav. prev. Oggi, 1999, 1222) la III Sezione penale della Cassazione ritornava sui suoi passi e si rimangiava le precedenti, incondivisibili, considerazioni di cui alla sentenza n.2635/1997, depositata l’8 gennaio 1998 (sopra criticata). Nel commentare la decisione adesiva all’orientamento maggioritario – da noi condiviso – scrivevamo quanto segue nella nota dal titolo “La sostanziale e contingente indifferenza (politico-sindacale) per gli inoccupati non deve contagiare l’interpretazione della legge”, pubblicata in Lav. prev. Oggi, 1999, 1226:

“Dopo le innumerevoli critiche dottrinali subite da Cassazione, III Sezione penale, 8 gennaio 1998, n. 2635 (in Lav.prev.Oggi 1998, 3, 617, preceduta da ampio articolo di Meucci, Gli accertamenti medico-sanitari in preassunzione, ibidem 1998, 3, 417 e segg., decisione citata da altre Riviste anche con il n. 43/1998) che aveva limitato l'interpretazione del divieto degli accertamenti medici, tramite strutture private, ai soli lavoratori "già assunti" - la stessa III Sezione Penale della Cassazione effettua un rapido e risolutivo ripensamento, aderendo con documentata quanto argomentata convinzione all'opinione dottrinale maggioritaria ed all'orientamento giurisprudenziale prevalente, espresso eminentemente in sede civile, circa la sussistenza del divieto di cui all'articolo 5, comma 3, Statuto dei lavoratori sia per i lavoratori "dipendenti" - cioè per quelli con rapporto in atto – sia per i lavoratori "aspiranti o candidati all'assunzione". Superflua l'analisi degli argomenti giuridici usati per l'occasione a confutazione della pregressa tesi restrittiva, ora rifiutata, per la cui critica e prospettazione dei precedenti contrari si rinvia il lettore al precisato articolo di Meucci.

Merita invece sottolineare una "punzecchiatura" rivolta dalla Cassazione penale alle nostre forze sindacali e politiche laddove afferma che la  teoria restrittiva rifiutata (divieto di accertamenti privati solo per i "lavoratori occupati") risente del "dato spurio dell'accettazione da parte delle forze politiche e sociali, nell'attuale periodo storico, di un elevato tasso di disoccupazione, specie giovanile ". "Tale dato, proprio perché metagiuridico, non può indurre a ritenere la tutela dell'articolo 5, comma 3, riservata ai soli lavoratori dipendenti e a ribaltare la propensione della nostra legislazione ad assicurare eguale protezione giuridica a quanti il lavoro non ce l 'hanno e vi aspirino".

Si tratta di un pesante (quanto condivisibile) addebito di tolleranza o indifferenza per la situazione dei disoccupati e degli inoccupati rivolto alle forze sindacali e politiche attuali - che, in tale momento storico, privilegerebbero la tutela normativa degli occupati -, impostazione o atteggiamento metodologico che tuttavia non può essere, secondo la Cassazione, trasferito nell'opera di interpretazione della nostra normativa attuativa dei principi costituzionali, ai quali è estranea qualsiasi differenziazione (suscettibile di risolversi in inammissibile discriminazione) fra lavoratori occupati e lavoratori disoccupati o inoccupati, aspiranti alla realizzazione del diritto costituzionale al lavoro (ex articolo 4 Costituzione).

 

Mario Meucci

 

NOTE

(1) Trovasi in Riv. dir. lav. 1975, II, 231, con nota di Vallebona, Le visite di preassunzione di fronte al sistema dell’art. 5 dello statuto dei lavoratori, ed ivi, 1975, II, 687, con nota di D’Harmant-Francois, L’accertamento della idoneità fisica degli avviati al lavoro.

(2) Trovasi in Mass. giur. lav. 1976, 751, con nota di Tamburrino, L’art. 5 dello statuto dei lavoratori e la visita di inidoneità fisica anteriormente all’assunzione.

(3) Trovasi in Giust. civ. 1985, I, 119, con nota di M. Meucci, Sugli accertamenti medici d’idoneità in fase preassuntiva; vedila anche in Foro it. 1984, I, 1830, annotata da De Luca.

(4) Trovasi in Not. giurisp. lav. 1985, 420.

(5) Trovasi in Not. giurisp. lav. 1986, 318.

(6)Trovasi in Giust. civ. 1986, I, 1899 e in Giur. it. 1987, I, 1, 2059, con nota di Del Prato.

(7) Così Vallebona, op. cit., per il quale “sarebbe coerente con la ratio della norma stessa che il combinato disposto dei commi primo e terzo dell’art. 5 si riferisse non solo agli accertamenti dell’idoneità fisica del lavoratore già dipendente, ma anche alle visite preventive…(pag. 240), tuttavia “l’interprete non può sanare la interna contraddittorietà di una norma, disattendendone la lettera, quando questa sia precisa ed inequivocabile come nel caso di specie”(pag. 242).

(8) Così Tamburrino, op.cit. 754. Secondo l’autore, tutto il titolo I dello statuto tende a tutelare “il lavoratore, cioè chi può chiamarsi tale, in quanto lavori alle dipendenze di altri”, opinione ripresa dalla 3° sezione penale di Cass. n. 2635/1998, secondo la quale “lavoratore è colui che presta un’attività volta al conseguimento di un risultato determinato”. Sempre secondo Tamburrino, farebbero eccezione  alla regola generale gli artt. 8 e 15 della L. n. 300/’70, ove l’estensione della tutela al ‘lavoratore non occupato’ è affermata espressamente e senza ombra di equivoco. L’autore esprime pertanto l’avviso che “…è la tesi contraria (ed estensiva) a fondarsi essenzialmente sulla interpretazione meramente letterale, cioè sulla mancanza nel comma 3 dell’aggettivo ‘dipendente’ che si trova nel comma 1” (pag. 754, nota 16).

(9) Vedi, al riguardo, Bianca Guidetti Serra, Le schedature alla Fiat. Cronache di un processo ed altre cronache (con prefazione di Rodotà), Torino 1984.

(10) Ne fanno parte Caldiron, Gli accertamenti di idoneità del lavoratore nello statuto dei lavoratori, in Riv. dir. lav. 1974, I, 160; Pera, Interrogativi sullo statuto dei lavoratori, in Dir. lav. 1970, I, 198; Pera., in Assanti e Pera, Commento allo statuto dei lavoratori, Padova 1972, 60; Pera, Disposizioni processuali dello statuto dei lavoratori, in Riv. dir. proc. 1970, 369; Pera, Manuale di diritto del lavoro, Padova 1984, 583; Romagnoli, in Statuto dei lavoratori, nel Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma 1972, 29 e ss.; Mazzoni, Prime osservazioni sullo statuto dei lavoratori, in Dir. ec. 1970, 159; Mengoni, Due anni di applicazione dello statuto dei lavoratori, in Mass. giur. lav.  1972, 559; Amorth, In tema di formazione del contratto di lavoro: problemi relaivi alla visita sanitaria di idoneità, in Giur. it. 1973, II, 345; D’Harmant-Francois, L’accertamento, cit.,; Costanzo, Statuto dei lavoratori, Milano 1972, 54; Balducci, in Lo statuto dei lavoratori, Commentario diretto da Giugni, Milano 1979, 33 e s.s.

Contra: Tamburrino, op.cit., 621; Pucci, Gli accertamenti sanitari del lavoratore nella l. 20 maggio 1970 n. 300, in Riv. it. prev. soc. 1971, 235; Vallebona, Le “visite preassunzione”, cit.; in un certo qual modo Freni e Giugni, Statuto dei lavoratori, Milano 1970, 16 che, tuttavia, ritengono “opportuno” estendere agli avviati al lavoro la visita attitudinale ad opera di sanitari di strutture pubbliche “al fine di eliminare ogni dubbio sull’obiettvità dell’esame”; Miglioranzi, Aziende con esigenze di conformismo e art. 8 st. lav., in Dir. lav. 1973, II, 183.

(11) Così, Pera, in Assanti e Pera, Commento, cit., secondo il quale la formula “lavoratore dipendente” su cui si basa la tesi restrittiva  “è argomento, invero non trascurabile ma non decisivo, ché la dizione può essere stata impiegata come equivalente a quella tout court, di lavoratore (in senso di posizione sociale) subordinato”.

(12) Così, Mazzoni, op. cit., 159.

(13) Così Romagnoli, op.cit., 29.

(14) Così, Mengoni, op. cit., 559.

(15) Così, D’Harmant-Francois, op. cit., 691-692, secondo il quale “dal momento che è da registrare una certa tendenza giurisdizionale la quale individua, quale giustificato motivo di licenziamento, l’accertata inidoneità fisica del lavoratore, appare chiaro che il sacrificio del diritto al posto di lavoro si può comprendere giuridicamente solo nel rispetto dei limiti di legge e, per converso, non si può non porre sullo stesso piano il diritto all’assunzione”; Pera, Disposizioni processuali, cit. 369; Pera, Commento, cit., 60 e Interrogativi, cit., 198, secondo il quale la questione dell’equiparazione va risolta positivamente in quanto, osservate le ulteriori limitazioni introdotte dagli artt. 33 e 34 st. lav. al sistema della richiesta nominativa, il subordinare l’assunzione del lavoratore, richiesto numericamente, ad un accertamento del medico di fiducia equivarrebbe a condizionare l’assunzione ad una valutazione unilaterale.

(16) In Mon. giur. lav. 1973, 2475.

(17) Così, Vallebona, Le “visite preassunzione”, cit. 231; nello stesso senso Cass. 30 luglio 1984, n. 4561, in Mass. giur. lav. 1984, 322 e in Riv. it. dir. lav. 1985, II, 272, con nota di Stolfa, Patto di prova e collocamento: nuovi spunti per una riflessione unitaria sulla costituzione del rapporto di lavoro.

(18) Amorth, In tema di formazione del contratto di lavoro: problemi relativi alla visita sanitaria d’idoneità, cit., 351.

(19) Conf. sostanzialmente, Balducci, in Lo statuto, cit. 34, nota 1.

(20) Trovasi in G.U. 21. 11. 1997, n. 272 e in Guida al lavoro, n. 11/1997, 21.

(21) Vedine la sintesi nell’articolo  di Capurro, Legittimo il giudizio di idoneità al lavoro ex articolo 16 D. Lgs. 626/1994, in Guida al lavoro, 1998, 2, 28.

(22) Riportata in Guida al lavoro 1998, 2, 27.

 

(Ritorna all'elenco Articoli presenti sul sito)