Spunti giudiziari, documentali e testimoniali di
riflessione sulle tecniche di gestione del personale alle Poste Italiane SpA
I° SENTENZA
Trib.
Pisa, sez. lav. 1° grado, 13 luglio 2000 (ordinanza) - Giud.
Schiavone – UGL di Pisa (avv. G. Orsitto) c. Poste Italiane SpA (avv.
Alberto Niccolai e Luigi Fiorillo)
Circolare della Direzione Centrale Risorse Umane di Poste Italiane SpA che vieta sostanzialmente, per supposte ragioni di efficientismo aziendale, al personale direttivo di svolgere attività sindacale - Antisindacalità dell’atto in sé, aggravata dalla minaccia di rimozione dal ruolo e dalla preposizione e/o coordinamento e gestione di risorse umane sottordinate – Rimozione degli effetti ex art. 28 Stat. lav. – Ordine giudiziale di ritiro della circolare illegittima.
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Va dichiarata antisindacale (e quindi ne va ordinato il ritiro con addizionale pubblicizzazione in bacheca dell’accoglimento del presente ricorso ex art. 28 statuto dei lavoratori) la circolare n. 14/2000 della Direzione Centrale Risorse Umane di Poste Italiane SpA, la quale afferma: “(…) anche l’espletamento di incarichi nell’ambito (…) di OO.SS., ancorché consentito dalle vigenti previsioni di legge e di contratto, non può non correlarsi alle esigenze dell’azienda di ricevere prestazioni adeguate al livello di responsabilità richiesto. (…). Infatti i doveri e le responsabilità che competono ai lavoratori con (…) funzioni di carattere direttivo richiedono, (…), il presidio costante e continuativo della posizione di lavoro (…)", premurandosi poi di precisare che: “incarichi nell’ambito di OO.SS. risultano, per esempio, inconciliabili con le funzioni di responsabilità di gestione di risorse umane, a tutti i livelli della struttura organizzativa della Società" e che, comunque, nei confronti di quei funzionari direttivi che pervicacemente non volessero attenersi a queste disposizioni : “la Società si farà carico (…) di ricercare per i predetti lavoratori, nel rispetto delle formalità e condizioni eventualmente richieste dalla legge, altra posizione di lavoro, compatibile con le esigenze aziendali e coerente sia con l’inquadramento rivestito dal dipendente che con l’espletamento del mandato ricevuto”.
La violazione degli art. 14 (diritto di associazione e di attività sindacale), art. 15 (atti discriminatori), art. 22 (trasferimenti dei dirigenti delle RSA) dello Statuto dei lavoratori è di palmare evidenza ma prima di tutto quel che balza immediatamente alla vista è il totale disconoscimento dell’imperativo di cui all’art. 39 Cost., dettato a tutela della libertà sindacale tout court. La condotta datoriale si è posta automaticamente "in contrasto con le regole destinate a tutelare in via immediata e diretta lo svolgimento dell’attività sindacale e l’esercizio del diritto di sciopero, di talché l’antisindacalità della condotta è implicita né, al fine di integrarla, occorre uno specifico intento lesivo del datore di lavoro" (Cass. n. 6193/1998).
sezione monocratica del lavoro
Giudice : ( Dr. Gaetano SCHIAVONE )
ORDINANZA SCIOGLIMENTO RISERVA
CAUSA DI LAVORO N. 331/00 R. G. C.
promossa da
U.G.L. PISA in persona del seg. Prov.le Luigi Coscia ( Avv. G. ORSITTO )
contro
POSTE ITALIANE S. P. A. ( Avv.ti Alberto. NICCOLAI e Luigi FIORILLO )
Il Giudice del Lavoro, dr. G. Schiavone, sciogliendo la riserva di che a verbale d’udienza del 27. 06. 2000,
premette
1) con atto depositato l’8. 06. 2000, Luigi Coscia, Segretario Prov.le della U.G.L., ricorreva a questo Giudice per sentir dichiarare, ex art. 28 St. Lav., l’antisindacalità della condotta tenuta dalle POSTE ITALIANE spa -Direttore Centrale delle Risorse Umane - nel formare e disporre l’applicazione a tutto il personale della circolare n. 14/2000 del 17. 03. 2000, poiché la medesima: "contiene senza ombra di dubbio per non chiari e giustificati motivi l’ordine a tutto il personale con incarichi dirigenziali di non intraprendere attività sindacale o a rivestire incarichi sindacali all’interno dell’azienda pena il trasferimento ad altro servizio e/o sede". Era invocato, quindi, nel vantaggio delle spese di lite, un ordine di "revoca della medesima circolare previa idonea pubblicità dell’accoglimento dell’odierno ricorso";
2) ritualmente si costituiva in lite POSTE ITALIANE spa concludendo per l’inammissibilità del ricorso in quanto non era stato posto in essere alcun atto di concreta attuazione della circolare e, subordinatamente, per il rigetto del ricorso per infondatezza, con condanna di controparte alla refusione delle spese di giudizio;
conclude
A) LA CONDOTTA ANTISINDACALE.
L’art. 28 St. Lav. tutela le prerogative sindacali prevedendo una sanzione di carattere reale (rimozione degli effetti): "qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero".
In dottrina e giurisprudenza è pacifico che scopo della norma sia quello di garantire l’effettivo godimento dei diritti sindacali previsti dallo Statuto dei Lavoratori ovvero da altre norme, anche secondarie (usi). In sostanza la garanzia offerta è contro ogni attentato alla presenza del sindacato in azienda, all’effettivo rispetto delle libertà connesse ed all’attività sindacale lato sensu, sia pure affermatesi in base a consolidate prassi, che ne forgiano la sostanza.
Nel caso di specie può concludersi che la violazione sia consistita in una palese minaccia, attuale e non futura -ma su questo si veda oltre- sia contro le prerogative del sindacato, sia avverso lo stesso diritto di sciopero. Si legge, infatti, nella citata circolare: "(…) anche l’espletamento di incarichi nell’ambito (…) di OO.SS., ancorché consentito dalle vigenti previsioni di legge e di contratto, non può non correlarsi alle esigenze dell’azienda di ricevere prestazioni adeguate al livello di responsabilità richiesto. (…). Infatti i doveri e le responsabilità che competono ai lavoratori con (…) funzioni di carattere direttivo richiedono, (…), il presidio costante e continuativo della posizione di lavoro (…)".
Questo significa in altre parole che l’azienda reagirà se funzionari fra quelli indicati non presiederanno continuativamente il proprio posto di lavoro, cosa che puntualmente avviene in caso di partecipazione a manifestazioni di sciopero. E le affermazioni sono tanto più gravi se si tien conto che scientemente vengono fatte, "ancorché consentito dalle vigenti previsioni di legge e di contratto".
Insomma, nonostante la Costituzione, lo Statuto, il contratto, le POSTE spa intendono …
In chiave più generale, il datore di lavoro, dopo aver inquadrato l’attività sindacale e gli eventuali incarichi presso il sindacato alla stregua di "Attività extra lavorative", quasi a sottolineare l’estraneità di questi fatti dalla organizzazione e divisione del lavoro e a voler scrivere una pagina in radicale opposizione rispetto alla storia delle relazioni industriali italiane, almeno dell’ultimo trentennio e dopo aver affermato la necessità che ogni "attività extra lavorativa (…) ancorché consentita dalle vigenti previsioni di legge e di contratto, non può non correlarsi all’esigenza dell’Azienda di ricevere prestazioni adeguate al livello di responsabilità richiesto dalle specifiche posizioni di lavoro", chiarisce, qualora ve ne fosse bisogno, che "incarichi nell’ambito di OO.SS. risultano, per esempio, inconciliabili con le funzioni di responsabilità di gestione di risorse umane, a tutti i livelli della struttura organizzativa della Società".
Non pare che ci vogliano particolari doti ermeneutiche per capire che, fuor di metafora, il proponimento è esplicito: chi parteciperà ad attività sindacali non potrà mai aspirare ad incarichi organizzativi del personale, foss’anche una modesta squadra di lavoro (a tutti i livelli, si legge sopra).
E la circolare con intento, come dire, pedagogico, nel timore che non fosse stata sufficientemente esplicita, prosegue dicendo: "considerata detta evidente inconciliabilità, si rende necessario prevedere un diverso orientamento dei lavoratori in questione", id est: dimettetevi dal sindacato!
Ad ogni modo, quand’anche i lavoratori pervicacemente non volessero attenersi a quelle disposizioni, "la Società si farà carico (…) di ricercare per i predetti lavoratori, nel rispetto delle formalità e condizioni eventualmente richieste dalla legge, altra posizione di lavoro, compatibile con le esigenze aziendali e coerente sia con l’inquadramento rivestito dal dipendente che con l’espletamento del mandato ricevuto", come si legge nel penultimo capoverso. Ecco, dunque, appalesato il contenuto della sanzione prevista dalla società per il lavoratore ostinatamente sindacalizzato, cioè una collocazione in posizione relegata, lontana da qualsiasi responsabilità organizzativa del personale, a tutti i livelli, e per ciò solo coerente con i fini aziendali.
Ora, a parte il fatto che la circolare tradisce una concezione aziendalistica ampiamente superata dai tempi e piuttosto da anni cinquanta, a parte, però, il rilievo che ciascuno può gestire la propria azienda come più gli aggrada, salva la responsabilità verso la proprietà che, nella specie, è in mano pubblica, a parte ciò va detto che difficilmente si assiste ad un concentrato di violazioni ai diritti sindacali anche lontanamente paragonabile a quello posto in essere con la circolare in argomento e lo stupore è maggiore se si pensa che ad introdurre il presente ricorso sia stata una sola sigla sindacale e non tutte quelle aziendali. Ma tant’è.
Che innanzitutto sia attentato il diritto di sciopero è stato sopra dimostrato ma quel che non è assolutamente dubitabile è che prima ancora quel che viene minacciata è la libertà sindacale di proselitismo e esternazione del proprio programma che è l’essenza stessa dell’agire sindacale, una sorta di prius rispetto ad ogni altra. Con buon margine di certezza può affermarsi che, dopo la detta circolare, mai più alcun lavoratore delle POSTE penserà, se non con spirito sacrificale, di accostarsi ad un sindacato e nessun sindacalista mai più tenterà di allargare la propria base adesiva, essendo sottoposte tutte queste azioni alle ora viste conseguenze.
La violazione degli art. 14 (diritto di associazione e di attività sindacale), art. 15 (atti discriminatori), art. 22 (trasferimenti dei dirigenti delle RSA) dello Statuto dei lavoratori è di palmare evidenza ma prima di tutto quel che balza immediatamente alla vista è il totale disconoscimento dell’imperativo di cui all’art. 39 Cost., dettato a tutela della libertà sindacale tout court. La condotta datoriale si è posta automaticamente "in contrasto con le regole destinate a tutelare in via immediata e diretta lo svolgimento dell’attività sindacale e l’esercizio del diritto di sciopero, di talché l’antisindacalità della condotta è implicita né, al fine di integrarla, occorre uno specifico intento lesivo del datore di lavoro" (Cass. n. 6193/1998).
B) L’AMMISSIBILITA’ DEL RICORSO.
Da escludere in maniera radicale è che si possa parlare nella fattispecie di inammissibilità del ricorso per difetto di attualità della denunciata antisindacalità della circolare, ché, al più, potrebbe svolgere effetti de futuro.
Ora, innanzitutto va detto che l’obiettivo primario della circolare, quello di procurare diffuso timore per una propria adesione sindacale, può ritenersi raggiunto non appena quell’atto è stato portato a conoscenza dei lavoratori ma va anche aggiunto che se così fosse, se cioè non vi fosse alcun risvolto di violazione attuale delle prerogative sindacali nella condotta tenuta, se ne avrebbe un’immediata riconferma nell’impossibilità di dare concreta attuazione al comando del Giudice.
Va rammentato che, infatti, la norma in discussione è articolata in maniera tale da prevedere non solo l’accertamento e la dichiarazione dell’antisindacalità dell’atto o fatto, quanto, nel concreto, l’ordine di rimuoverne gli effetti. Va da sé, dunque, che se il danno fosse de futuro, nessuna immediata attuazione si potrebbe dare al comando giudiziale.
Le cose, però, non stanno in questi termini. Non v’è dubbio, infatti, che la rimozione possa e debba avere pronta attuazione mediante il comando di ritiro della circolare de qua, adeguatamente pubblicizzato.
Che la detta circolare abbia la potenzialità d’ingenerare il timore della rimozione od allontanamento del dirigente sindacalizzato è la stessa parte resistente ad ammetterlo a chiare lettere. Si legge infatti nella memoria di costituzione: "(…) né può comportare –se non come puro ipotetico timore- lo spostamento od il trasferimento di un dirigente della O.S. ricorrente" (Pag. 4). Così come è pure ammesso dalla resistente che una delle conseguenze della detta circolare sarà inevitabilmente il trasferimento del dipendente, poiché si scrive senza parafrasi o circonlocuzioni di sorta, che: "la Società si farà carico (…) di ricercare per i predetti lavoratori, nel rispetto delle formalità e condizioni eventualmente richieste dalla legge, altra posizione di lavoro, compatibile con le esigenze aziendali e coerente sia con l’inquadramento rivestito dal dipendente che con l’espletamento del mandato ricevuto".
C) LA RIMOZIONE DEGLI EFFETTI.
L’unico requisito che si richiede al provvedimento del Giudice è l’idoneità a ripristinare la legalità violata e, poiché, come visto questa violazione consiste nell’ingenerare timore nei lavoratori per la loro eventuale affiliazione sindacale, ovvero per l’assunzione di determinate cariche all’interno del sindacato, va da sé che la legalità potrà considerarsi ripristinata solo disponendo un ordine di contenuto eguale e contrario. Nella fattispecie tale ordine consiste non solo nel ritiro della circolare ma nell’ordine di dare pubblicità al presente provvedimento con le stesse modalità assegnate alla pubblicizzazione della circolare, cioè con diramazione ed affissione nella bacheca aziendale per un periodo di tempo pari a quello durante il quale la circolare è rimasta affissa.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P. Q. M.
Il Giudice del Lavoro DICHIARA l’antisindacalità del comportamento tenuto da POSTE ITALIANE spa nel formare e divulgare fra gli uffici dipendenti e i lavoratori subordinati la Circolare n. 14/2000 del 17. 03. 2000 a firma del Direttore delle Risorse Umane, DICHIARA conseguentemente la nullità del predetto atto perché formato in violazione dell’art. 28 St. Lav. ORDINANDO che del medesimo non sia tenuto conto alcuno a tutti i fini giuridici del rapporto di lavoro con i lavoratori dipendenti. ORDINA a POSTE ITALIANE spa di dare al presente decreto la medesima diffusione data alla predetta circolare, nonché che il medesimo rimanga affisso alle bacheche degli uffici dipendenti della provincia di Pisa per lo stesso periodo temporale di affissione della circolare n. 14/2000. CONDANNA le POSTE ITALIANE spa a rimborsare all’U.G.L. le spese di lite liquidate in £. 3.500.000 di cui £. 1.500.000 per diritti, £. 300.000 per spese ed il resto per onorari, oltre IVA e CAP di legge.
Pisa, 13. 07. 2000
IL GIUDICE d. L. dr. G. Schiavone
Tribunale di Pisa, sez. lav. (giudice unico di 1° grado) 2 ottobre 2002 – Est. Nisticò – Poste Italiane S.p.A (avv. Niccolai, Fiorillo) c. CL, segretario provinciale della UGL di Pisa (avv. Orsitto).
Direttive impartite con circolare dalla Direzione Centrale del Personale di Poste Italiane - Statuenti incompatibilità di svolgimento di attività sindacale per i dipendenti con funzioni direttive nell’area della gestione del personale – Concretizza attività antisindacale per il contenuto dissuasivo e confliggente con i diritti costituzionali del lavoratore ex art. 39 Cost., in tema di indifferenziato esercizio dell’attività sindacale.
A parere della “Direzione centrale risorse umane” di Poste Italiane s.p.a. la partecipazione ad attività sindacale di quanti lavorino negli uffici del personale sarebbe una attività “extralavorativa” confliggente con gli interessi dell’azienda.
La conclusione cui perviene il datore di lavoro e della quale appena si è detto non meriterebbe diffuse considerazioni, perché la storia del nostro sistema lavoristico è tutta nel senso contrario a questa affermazione, quantomeno per il dovuto rispetto a quella previsione della nostra Costituzione (art. 39) che assicura a tutti i lavoratori l’esercizio dei diritti sindacali e dell’attività sindacale, che, per la sua funzione di equilibrio, tutela e bilanciamento di forze, non può certo definirsi una attività extralavorativa, come quella di un qualsiasi furbo dopolavorista. Lo Statuto dei lavoratori – il cui contenuto sembra sconosciuto all’Autore del documento – rappresenta, infatti, la Carta del sindacalismo sul posto di lavoro ed assicura con diversi strumenti l’esercizio dell’attività in azienda, ovviamente secondo le modulazioni previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva. Certo è che ove il datore di lavoro – come sembra nel caso di specie – sia pervaso da avversità culturale nei confronti dell’attività sindacale di chi sia incaricato di compiti di gestione del personale potrà, di fatto, e nei limiti in cui non si violino i criteri di correttezza e buona fede e gli altri più rigidi di cui allo Statuto, selezionare i dipendenti meno sensibili a certe istanze per formare il suo ufficio personale o di relazione industriale od affidare tali compiti a chi condivida senza riserve l’operato datoriale. Quello che, però, non può fare è paventare l’allontanamento od il trasferimento ad altro incarico di chi già rivesta il ruolo di incaricato a quel servizio ed intenda, come gli assicura la Costituzione, occuparsi anche di questioni sindacali.
Fare gli “interessi” dell’azienda non significa sposare acriticamente ogni determinazione del datore di lavoro o doversi spogliare della propria dimensione collettiva . L’equivoco culturale che ha informato la determinazione datoriale di cui oggi si discute riposa, infatti, sul convincimento che occuparsi del personale debba necessariamente consistere nell’occuparsene “in un certo modo” e dunque in condizioni di conflittualità istituzionale con ogni tipo di istanza che provenga dai lavoratori; la qual cosa corrisponde ad una impostazione che non tiene conto del ruolo che il nostro ordinamento assegna alla dimensione collettiva in azienda, e cioè alla funzione istituzionale e fisiologica di indispensabile dialettica fra le parti al fine del raggiungimento proprio di quegli equilibri che meglio di ogni altra cosa concorrono a realizzare “ l’interesse” aziendale.
Per l'indubbia ed inequivocabile efficacia dissuasiva di cui è dotata la predetta circolare aziendale, sussiste comportamento antisindacale (e obbligo di rimozione degli effetti mediante revoca della medesima), atteso che il comportamento antisindacale tipizzato dall'art. 28 s.l. non si realizza, com'è noto, solo quando la parte datoriale ponga in essere atti concreti e materiali, ma anche quando - come certamente nel caso di specie - enuncia le sue determinazioni che abbiano quel carattere di potenzialità offensiva tale da determinare il convincimento nel destinatario della "convenienza" di evitare l'esercizio dei diritti sindacali.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto 13.7.2000 il Tribunale di Pisa - in esito ad un giudizio ex art. 28 s.l. promosso dal Segretario della UGL – riteneva l’antisindacalità del comportamento posto in essere dal datore di lavoro (Poste Italiane s.p.a.) consistito nell’adozione di una “circolare” (n. 14/2000) adottata dalla Direzione Centrale Risorse Umane/Relazioni industriali nella quale si enunciava il principio della sostanziale incompatibilità della attività sindacale svolta da dipendenti incaricati di funzioni direttive nell’area di gestione del personale. A sostegno dell’opposizione svolgeva numerose censure delle quali in motivazione.
Resisteva in giudizio il Rappresentante sindacale chiedendo il rigetto dell’opposizione.
All’udienza del 2.10.2002, senza l’assunzione di mezzi istruttori, il giudice decideva la causa dando pubblica lettura del dispositivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’opposizione è del tutto infondata.
In via preliminare il datore di lavoro lamenta che il giudice ex art. 28 abbia adottato il suo provvedimento senza tener conto che la circolare in questione avesse portata e rilevanza nazionale per il suo provenire dalla Direzione generale e che nessun organo periferico avesse adottato provvedimenti applicativi tali da radicare in Pisa un oggettivo comportamento censurabile.
L’argomento non è condivisibile. Nel prevedere l’intervento ai fini della repressione della condotta tipizzata dall’art. 28 s.l., il legislatore si è preoccupato, assegnando la gestione della speciale procedura ai rappresentati periferici dei sindacati , di disegnare una dimensione “locale” del conflitto avuto riguardo ai suoi effetti. Questo si ricava, oltre che dalle stesse finalità dello speciale procedimento destinato ad incidere nella concretezza, da quella costante affermazione giurisprudenziale secondo cui il luogo dove è posta in essere la condotta è quello in cui essa ha prodotto i suoi effetti ( fra le molte, Cass. 4220/94, Cass. 3622/93) e non dove l’eventuale atto deve essere adottato o sia stato adottato , compresa l’ipotesi di pluralità di violazione in astratto di cognizione di diverse circoscrizioni giudiziarie (Cass. 8673/93) o rilevante sul piano nazionale (Pret. Pisa 23.6.1992, Foro It., 1993, I, 977). Tesi, questa, del tutto condivisibile posto che lo speciale procedimento ha come intimo significato quello di affermare la violazione “sul territorio” e non dove, in astratto, si assumano le determinazioni di vertice.
D’altro canto, se fosse vera la tesi sostenute da Poste s.p.a. , quali sarebbero gli “organismi locali delle associazioni sindacali nazionali” (v. art. 28 cit.) legittimati a proporre il giudizio quando questa investa il contenuto di un atto di gestione del rapporto di lavoro destinata ad incidere sul tutto il territorio in cui un’azienda si trova ad operare ( e quindi sull’intero territorio del Paese nel caso delle Poste)?.
La mancanza di una soluzione a questa domanda conferma, allora, se ve ne fosse bisogno, la ammissibilità in (ogni) sede locale del procedimento ex art. 28 s.l. ancorché l’atto denunciato abbia valenza indifferenziata su tutto il territorio nazionale.
Nel merito è opinione di questo giudice che il contenuto della circolare 14/2000 del 17.3.2000 abbia una conclamata potenzialità lesiva ex art. 28 s.l.. Basterebbe riflettere sull’” oggetto” della circolare che dice della “incompatibilità” delle attività extralavorative, per individuare come attività extralavorative quelle subordinate in favore di terzi, quelle autonome in favore di terzi e…gli incarichi sindacali.
Esordisce, ancora, la “circolare” in questione rammentando che i dipendenti delle Poste (come quelli di qualsiasi datore di lavoro, ndr.) non possono svolgere attività contraria agli interessi dell’Azienda: e questo è vero e sacrosanto posto che lo dice il codice civile e lo suggerisce la struttura stessa del rapporto di lavoro subordinato. Da tale dovere di non confliggere con gli interessi dell’azienda il datore di lavoro trae alcune conseguenze: non si può svolgere attività alle dipendenze di terzi, non si può svolgere (se non a certe condizioni) attività autonoma e non si può svolgere attività sindacale quando si tratti di dipendenti che prestino servizio nell’area della gestione delle risorse umane (rectius: del personale, perché gli uomini non dovrebbero mai, neppure lessicalmente, essere definiti “risorse”, come un qualsiasi elemento materiale o finanziario dell’impresa).
Dunque, a parere della “Direzione centrale risorse umane” di Poste Italiane s.p.a. la partecipazione ad attività sindacale di quanti lavorino negli uffici del personale sarebbe una attività “extralavorativa” confliggente con gli interessi dell’azienda.
La conclusione cui perviene il datore di lavoro e dalla quale appena si è detto non meriterebbe diffuse considerazioni, perché la storia del nostro sistema lavoristico è tutta nel senso contrario a questa affermazione, quantomeno per il dovuto rispetto a quella previsione della nostra Costituzione (art. 39) che assicura a tutti i lavoratori l’esercizio dei diritti sindacali e dell’attività sindacale, che, per la sua funzione di equilibrio, tutela e bilanciamento di forze, non può certo definirsi una attività extralavorativa, come quella di un qualsiasi furbo dopolavorista. Lo Statuto dei lavoratori – il cui contenuto sembra sconosciuto all’Autore del documento – rappresenta, infatti, la Carta del sindacalismo sul posto di lavoro ed assicura con diversi strumenti l’esercizio dell’attività in azienda, ovviamente secondo le modulazioni previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva.
Certo è che ove il datore di lavoro – come sembra nel caso di specie – sia pervaso da avversità culturale nei confronti dell’attività sindacale di chi sia incaricato di compiti di gestione del personale potrà, di fatto, e nei limiti in cui non si violino i criteri di correttezza e buona fede e gli altri più rigidi di cui allo statuto, selezionare i dipendenti meno sensibili a certe istanze per formare il suo ufficio personale o di relazione industriale od affidare tali compiti a chi condivida senza riserve l’operato datoriale. Quello che, però, non può fare è paventare l’allontanamento od il trasferimento ad altro incarico di chi già rivesta il ruolo di incaricato a quel servizio ed intenda, come gli assicura la Costituzione, occuparsi anche di questioni sindacali.
Fare gli “interessi” dell’azienda non significa sposare acriticamente ogni determinazione del datore di lavoro o doversi spogliare della propria dimensione collettiva . L’equivoco culturale che ha informato la determinazione datoriale di cui oggi si discute riposa, infatti, sul convincimento che occuparsi del personale debba necessariamente consistere nell’occuparsene “in un certo modo” e dunque in condizioni di conflittualità istituzionale con ogni tipo di istanza che provenga dai lavoratori; la qual cosa corrisponde ad una impostazione che non tiene conto del ruolo che il nostro ordinamento assegna alla dimensione collettiva in azienda, e cioè alla funzione istituzionale e fisiologica di indispensabile dialettica fra le parti al fine del raggiungimento proprio di quegli equilibri che meglio di ogni altra cosa concorrono a realizzare “ l’interesse” aziendale . Al contrario Poste Italiane , con il documento denunciato dalla a.s. ricorrente , dimostra l’intenzione di confinare la dimensione collettiva a quelle fasce di lavoratori la cui posizione conflittuale appartenga allo svolgimento di mansioni ed incarichi non connotati da margini di responsabilità o partecipazione alle decisioni aziendali. Su questo equivoco sembra fondarsi, dunque, la equiparazione dell’attività sindacale alle attività extralavorative.
Nessun serio dubbio può sussistere sulla potenzialità lesiva della “circolare” in questione, che, ovviamente, va letta in tutto il suo contenuto, poiché se in premessa si dice che certi lavoratori non possono attivarsi sul piano sindacale, nel seguito di preannuncia il loro “ diverso orientamento” e dunque, in concreto, il mutamento di funzioni, non esclusa la possibilità del materiale trasferimento di sede.
In buona sostanza il datore di lavoro dice di non ritenere possibile che un addetto al personale od alle relazioni industriali possa porre in essere attività sindacale e che , ove questo si verifichi, il dipendente sarà rimosso da quell’incarico: si preannuncia, dunque, un esercizio dello ius variandi del tutto estraneo allo schema oggettivo di cui all’art. 2013 c.c..
Così stando le cose non vi sono dubbi sull’efficacia dissuasiva della determinazione datoriale, perché chiunque, fra i lavoratori, abbia del buon senso capisce che, se il suo incarico rientra fra quelli che Poste ritiene possa esse svolto solo dai “fedelissimi”, non potrà ( o quantomeno non gli converrà) svolgere attività sindacale, pena la rimozione dell’incarico o peggio. Il che realizza un clamoroso illegittimo tentativo di limitare (se non azzerare) l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti. Ed il comportamento antisindacale tipizzato dall’art. 28 s.l. come è noto, non si realizza solo quando la parte datoriale ponga in essere atti concreti e materiali, ma anche quando, come certamente nel caso di specie, enuncia le sue determinazioni che abbiano quel carattere di potenzialità offensiva tale da determinare il convincimento nel destinatario della “ convenienza” di evitare l’esercizio dei suoi diritti sindacali. E nel caso concreto, come evidenziato in esordio, la potenzialità offensiva rimane rafforzata dall’aver grossolanamente accumunato nella stessa fattispecie vietata la prestazione extralavorativa all’attività sindacale, quasi la seconda, come la prima, realizzasse l’espletamento di attività contraria a (malintesi) interessi aziendali.
Singolare è poi la considerazione sulla necessità che i lavoratori addetti al personale ed alle relazioni sindacali assicurino il “presidio costante e continuativo della posizione di lavoro per la realizzazione degli obiettivi di carattere tecnico-organizzativo e produttivo nonché di gestione delle risorse umane”. Sembra di capire (ma è proprio così) che – secondo gli intendimenti aziendali - questi lavoratori non abbiano diritto, come tutti gli altri, alle guarentigie previste dallo Statuto dei lavoratori (permessi, assemblea, altre attività ), perché non possono mai lasciare la “posizione di lavoro”; dunque una sorta di fedeltà anche fisica, il cui significato appare di un inequivoco contenuto di assoluta dedizione, che confligge, fra l’altro, con la regola costituzionale che subordina l’esercizio dell’impresa al rispetto della “libertà” e della “dignità umana” (art. 41 Cost.).
Il contenuto altamente dissuasivo che si evince dalla lettura di questo documento consente di ritenere, in definitiva, che la sua diffusione abbia avuto l’intento di realizzare una compromissione grave dello spazio collettivo che il nostro ordinamento e la Costituzione garantiscono a tutti i lavoratori indipendentemente dalla loro funzioni in azienda.
Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Giudice rigetta l’opposizione. Condanna
parte opponente al pagamento delle spese di lite che liquida in e 2500 oltre
iva e cap di cui € 1500 per onorari, e 990 per diritti ed e 10 per spese.
I
diritti sindacali competono a tutti, indistintamente, i lavoratori
1. Quello che il titolo
dell’articolo intende esprimere, sembra un’ovvietà, un concetto quasi
lapalissiano, ma nella concreta vita aziendale non lo è affatto.
L’alto management
aziendale, infatti, quando non è scarsamente sensibile dal lato sociale e
giuridico (come ci è accaduto di riscontrare nella maggior parte dei casi), è
comunque, sempre ed indiscutibilmente, pervaso da un efficientismo
totalizzante, oppressivo ed irrispettoso dei valori di “libertà”, “dignità”,
“solidarietà” umana, ecc. Pertanto nutre o preferisce coltivare, per
opportunità, la convinzione che l’esercizio dei diritti sindacali (diritto di
sciopero, permessi per cariche sindacali rivestite, assemblee, ecc.)
costituisca in primis una “perdita di tempo” per il personale, e,
secondariamente, di essi siano destinatari i lavoratori “proletari”, non certo
coloro che rivestono ruoli e responsabilità, giungendo addirittura a negarli aprioristicamente,
concettualmente e fattualmente a coloro che operano nelle Direzioni o Servizi
di gestione del Personale.
Al radicarsi di questa
convinzione nei vertici aziendali delle aziende del nostro Paese non è estranea
la responsabilità degli atteggiamenti “equivoci” della classe dei dirigenti e
direttivi che si sono sempre considerati dei (e comportati da) “diversi” dal
resto dei lavoratori a loro sottordinati (salvo riscoprire ed invocare la
comunanza di tutele dell’ordinamento lavoristico nel caso in cui si ritrovino,
superata l’età del rampantismo, demansionati dall’azienda o sottoposti a
pratiche vessatorie di mobbing, tese a sollecitare esodi incentivati o
prepensionamenti). Chi scrive ricorda come i dirigenti ed i direttivi abbiano
sempre considerato il diritto costituzionale di sciopero come strumento di contrapposizione dialettica di rango
“secondario” e come la dirigenza sindacale delle aziende industriali abbia
sempre anteposto a questo strumento di coazione l’iniziativa di pubblicare (es.
nel marzo/aprile 1997) su spazi a pagamento nei principali quotidiani lettere d’appello - e “con il cappello in
mano”, come si suol dire - agli imprenditori indisponibili, tramite Confindustria,
a rinnovare eminentemente la parte economica degli scaduti ccnl. In una lettera
su spazio a pagamento sui quotidiani del 15 aprile 1997 (che abbiamo impressa
nella memoria) essi ricordavano piagnucolosamente il loro ruolo di “partners”
degli imprenditori, la condivisione degli stessi valori e sembrava si
scusassero dell’essere stati indotti -
attraverso un’eventuale radicalizzazione delle posizioni conseguente allo
“schiaffo” confindustriale - a ”perdere
la serenità necessaria per concentrarsi meglio nell’espletamento delle proprie
funzioni: collaborare con l’imprenditore per il successo dell’azienda ...”.
Nessun accenno di
ricorso al primario strumento di contrapposizione costituzionalmente garantito
a tutti i lavoratori subordinati (ex art. 2094 c.c., contrattualmente
richiamato) per la difesa dei propri interessi, qual’è il (proletario,
evidentemente) diritto di sciopero, al quale invero in un’intervista del giorno
dopo (16 aprile 1997) la dirigenza sindacale industriale ammetteva di aver
fatto un pensierino, in quanto
“incoraggiata” dalla contingente discesa “in piazza telematica” degli
stessi industriali a difesa dei loro interessi suppostamente colpiti dalla
manovrina dell’allora governo Prodi. Protesta imprenditoriale verso il Governo
che avrebbe allineato le due iniziative di contrapposizione e avrebbe
pertanto privato quella dei dirigenti
d’azienda del sospetto di “sgarbo” e della carica di conflittualità “offensiva”
verso i loro imprenditori o datori di lavoro.
Questi atteggiamenti
hanno concorso a legittimare, in
qualche modo, la convinzione nei vertici aziendali (e via via scendendo per li
rami nei loro più ottusi ascari ed esecutori) che i diritti sindacali siano
“ritagliabili” a misura e convenienza, cioè a dire “circoscrivibili”, che riguardino
più che altro le basse qualifiche dell’organico aziendale, che costituisca atto
“disdicevole” il loro esercizio da parte del personale direttivo o dei
funzionari e che il loro uso sia inibito in assoluto ad aree di dipendenti (es.
per quelli con incarichi di gestione di sottordinati ed ancor più per coloro
che operano con responsabilità nelle c.d. Direzioni o Servizi di risorse umane)
che si ipotizza o si suppone “politicamente” allineati e orientati in senso
antagonista alle istanze rivendicative dei sindacati (delle cui acquisizioni
comunque beneficeranno senza batter ciglio!), considerati come acriticamente
schierati ed appiattiti su posizioni adesive alle determinazioni (giuste o meno
che siano) non tanto adottate ma solo “pensate” dal vertice aziendale.
Insomma si è nutrita la convinzione, divenuta poi pretesa oggettiva da parte dell’alto management, che talune aree di personale (rectius: manipoli di dipendenti) debbano atteggiarsi ed essere considerate come “gruppi di tendenza”, microrganismi endoaziendali paragonabili alle “organizzazioni di tendenza” (quali i partiti politici, i sindacati stessi, le testate giornalistiche di partito, gli enti di confessione religiosa e/o ideologica, tenuti all’adesione fideistica alla linea dell’organizzazione), con l’effetto della preclusione per i lavoratori operanti in tali settori di poter esercitare i “diritti sindacali” costituzionali, in quanto (erroneamente) ritenuti dialetticamente ed ideologicamente confliggenti con gli interessi aziendali o con le politiche dell’alta Direzione, suppostamene ispirate alla negazione o contrapposizione aprioristica verso qualunque istanza o rivendicazione sindacale. Ed anche se dovessero essere (del tutto impropriamente, si ripete) questi “nuclei aziendali di personale fiduciario” assimilati alle “organizzazioni o imprese di tendenza”, va subito precisato che i dipendenti delle imprese di tendenza sono pacificamente titolari (superata la consistenza dei 15 dipendenti) delle norme del Titolo III dello Statuto dei lavoratori, afferenti i diritti e le prerogative sindacali, esclusa soltanto – ex art. 4 l. n. 108/1990, e solo per quelle che non abbiano fine di lucro – la c.d. “tutela reale”, costituita dall’obbligo di reintegra in caso di licenziamento ingiustificato (il che significa che in queste imprese di tendenza, purchè senza fini di lucro, altrimenti anch’esse perdono il privilegio di esenzione dall’obbligo della tutela reintegratoria, il licenziamento è monetizzabile).
Sull’onda di questi
(infondati) convincimenti – infondati anche in ragione della sussistenza dell’
immanente obbligo codicistico di non
violare il segreto d’ufficio, ribadito spesso nella maggior parte dei ccnl,
anche per coloro che disimpegnino attività sindacale congiuntamente ad
incarichi e compiti delicati o riservati - si è assistito (e si assiste) alla
privazione di informazioni gestionali o al non conferimento di incombenze e
compiti di specifica e propria pertinenza mansionistica, nei confronti di
sindacalizzati dell’area gestione del personale, giustificando (come abbiamo
avuto modo di sentir dire da un Direttore del personale, in veste di teste in
una vertenza per demansionamento o inattività) la “privazione di incombenze e di
assegnazione di compiti al funzionario sindacalizzato del Servizio
gestione del personale in ragione della inconciliabilità del loro carattere
riservato con la carica sindacale da questi
rivestita”, che lo rendeva - a
suo dire - automaticamente inaffidabile (nonostante i premenzionati divieti di violazione degli obblighi di
riservatezza incombenti su tutti i lavoratori subordinati, sanzionabili in caso
di dismissione, a prescindere dal ruolo sindacale o meno).
Tanto singolarmente
quanto contraddittoriamente, questa supposta incompatibilità le aziende non
l’hanno, invero, mai opposta nei confronti di altri direttivi (o semplici
dipendenti) sindacalizzati, impegnati nella redazione dei bilanci aziendali,
nei settori fiscali interni, negli uffici di consulenza legale e di
contenzioso, nei settori di finanziamento all’industria o ad altri settori
produttivi, parimenti (se non ancor più) delicati e riservati del settore o
area della gestione del personale.
Allora delle due l’una: o in quest’ultima area la delicatezza e riservatezza deve essere intesa o tradotta più esplicitamente in pretesa di “complicità” od “omertà” nei confronti di assunzioni, promozioni, trasferimenti, assegnazione di incarichi, creazione di sentieri di carriera su impulso clientelare e non già meritocratico per riconosciuta professionalità,trattamenti sperequati nelle incentivazioni all’esodo (munifici con i segnalati, stringati con gli invisi), tolleranze clientelari a fronte di rimborsi di missione tanto fasulle quanto lucrative (caso Rai, ecc.), accrescimenti indebiti di stipendio tramite input al settore interno di elaborazione paghe (recentissimo caso del Comune di Napoli) e verso quant’altro di non imparziale o illecito viene effettuato su iniziativa del responsabile pro-tempore o, più spesso su sollecitazioni del vertice aziendale; ovvero non sussistendo questo coacervo di “illecite” esigenze, non esiste ragione e giustificazione alcuna nei confronti della privazione di lavoro, di compiti e di informazioni gestionali, per quanto delicate, a danno di dipendenti o funzionari/dirigenti sindacalmente impegnati, in organico nelle aree o settori di gestione del personale. E quando lo si compie, si incorre – limitandosi al versante civilistico e trascurando quello penalistico - nella violazione dell’art. 1218 c.c. (inadempimento alle obbligazioni), dell’art. 2103 c.c. (divieto di dequalificazione), dell’art. 15 lett. b dello Statuto dei lavoratori (discriminazione per motivi riprovevoli, nel caso sindacali, finalizzati a ledere, in via ritorsiva, la libertà sindacale ed attualizzando quindi condotta antisindacale ex art. 28 s.d.l.), oltrechè dei generali principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.
2. La diffusa concezione
soprariferita è stata incautamente formalizzata – e ciò dà il senso di quanto
la si ritenga (per quanto erroneamente) pacifica e fondata dall’alto management aziendale – in
una circolare del 17.3.2000 indirizzata Dalla Direzione risorse umane ai
dipendenti delle Poste italiane, a quanto si apprende dall’ordinanza del
Tribunale di Pisa (emessa in sede di procedimento antisindacale ex art. 28
s.d.l). In essa, a quanto riferisce tale ordinanza del 13 luglio 2000
(del Tribunale di Pisa), si affermava che :«[(…) anche l’espletamento di
incarichi nell’ambito (…) di OO.SS., ancorché consentito dalle vigenti
previsioni di legge e di contratto, non può non correlarsi alle esigenze
dell’azienda di ricevere prestazioni adeguate al livello di responsabilità
richiesto. (…). Infatti i doveri e le responsabilità che competono ai
lavoratori con (…) funzioni di carattere direttivo richiedono, (…), il presidio
costante e continuativo della posizione di lavoro (…)", premurandosi
poi da parte dell’estensore di precisare che “incarichi nell’ambito di
OO.SS. risultano, per esempio, inconciliabili con le funzioni di responsabilità
di gestione di risorse umane, a tutti i livelli della struttura organizzativa
della Società" e che, comunque, nei confronti di quei funzionari
direttivi che pervicacemente non
volessero attenersi a queste disposizioni “la Società si farà carico (…) di
ricercare per i predetti lavoratori, nel rispetto delle formalità e condizioni
eventualmente richieste dalla legge, altra posizione di lavoro, compatibile con
le esigenze aziendali e coerente sia con l’inquadramento rivestito dal
dipendente che con l’espletamento del mandato ricevuto”]». Il magistrato
che riscontrava, pacificamente, in essa un
carattere antisindacale, sottolineava, in relazione a quest’ultima
previsione :«Ecco, dunque, appalesato il contenuto della sanzione prevista
dalla società per il lavoratore ostinatamente sindacalizzato, cioè una
collocazione in posizione relegata, lontana da qualsiasi responsabilità
organizzativa del personale, a tutti i livelli, e per ciò solo coerente
con i fini aziendali. Ora, a parte il fatto che la circolare tradisce una
concezione aziendalistica ampiamente superata dai tempi e piuttosto da anni
cinquanta, a parte, però, il rilievo che ciascuno può gestire la propria
azienda come più gli aggrada, salva la responsabilità verso la proprietà che,
nella specie, è in mano pubblica, a parte ciò va detto che difficilmente si
assiste ad un concentrato di violazioni ai diritti sindacali anche lontanamente
paragonabile a quello posto in essere con la circolare in argomento e lo
stupore è maggiore se si pensa che ad introdurre il presente ricorso sia stata
una sola sigla sindacale e non tutte quelle aziendali. Ma tant’è. Che
innanzitutto sia attentato il diritto di sciopero è stato sopra dimostrato ma
quel che non è assolutamente dubitabile è che prima ancora quel che viene
minacciata è la libertà sindacale di proselitismo e esternazione del proprio
programma che è l’essenza stessa dell’agire sindacale, una sorta di prius
rispetto ad ogni altra. Con buon margine di certezza può affermarsi che, dopo
la detta circolare, mai più alcun lavoratore delle POSTE penserà, se non con
spirito sacrificale, di accostarsi ad un sindacato e nessun sindacalista mai
più tenterà di allargare la propria base adesiva, essendo sottoposte tutte queste
azioni alle ora viste conseguenze. ».
Nell’ordinanza del 13
luglio 2000 che accoglieva la richiesta di una sigla sindacale, il magistrato
pisano raggiungeva infine la conclusione che:«La violazione degli art. 14
(diritto di associazione e di attività sindacale), art. 15 (atti
discriminatori), art. 22 (trasferimenti dei dirigenti delle RSA) dello Statuto
dei lavoratori è di palmare evidenza ma prima di tutto quel che balza
immediatamente alla vista è il totale disconoscimento dell’imperativo di cui
all’art. 39 Cost., dettato a tutela della libertà sindacale tout court.
La condotta datoriale si è posta automaticamente "in contrasto con le
regole destinate a tutelare in via immediata e diretta lo svolgimento
dell’attività sindacale e l’esercizio del diritto di sciopero, di talché
l’antisindacalità della condotta è implicita né, al fine di integrarla, occorre
uno specifico intento lesivo del datore di lavoro" (Cass. n.
6193/1998)».
3. La società non
accettava la soccombenza ed in sede di opposizione le sue determinazioni –
esplicitate nella circ. n. 14 del 17.3.2000 a cura della Direzione centrale
risorse umane/Relazioni industriali – venivano ulteriormente stigmatizzate e
qualificate antisindacali, da altro magistrato del Tribunale pisano (investito
della decisione di merito), con argomentazioni e prosa talmente condivisibili
da assurgere – a nostro avviso – a “lezione di diritto sindacale” per i gestori
di vertice di qualsiasi azienda del Paese.
Con la recentissima sentenza del 2 ottobre 2002 il
Tribunale di Pisa statuiva in tal senso: «A parere della
“Direzione centrale risorse umane” di Poste Italiane s.p.a.[…] non si può
svolgere attività sindacale quando si tratti di dipendenti che prestino
servizio nell’area della gestione delle risorse umane (rectius: del personale,
perché gli uomini non dovrebbero mai, neppure lessicalmente, essere definiti
“risorse”, come un qualsiasi elemento materiale o finanziario dell’impresa) – in quanto, n.d.r. - la
partecipazione ad attività sindacale di quanti lavorino negli uffici del
personale sarebbe una attività “extralavorativa” confliggente con gli interessi
dell’azienda.
La conclusione cui perviene il datore di lavoro e della quale
appena si è detto non meriterebbe diffuse considerazioni, perché la storia del
nostro sistema lavoristico è tutta nel senso contrario a questa affermazione,
quantomeno per il dovuto rispetto a quella previsione della nostra Costituzione
(art. 39) che assicura a tutti i lavoratori l’esercizio dei diritti sindacali e
dell’attività sindacale, che, per la sua funzione di equilibrio, tutela e
bilanciamento di forze, non può certo definirsi una attività extralavorativa,
come quella di un qualsiasi furbo dopolavorista. Lo Statuto dei lavoratori – il
cui contenuto sembra sconosciuto all’Autore del documento – rappresenta,
infatti, la Carta del sindacalismo sul posto di lavoro ed assicura con diversi
strumenti l’esercizio dell’attività in azienda, ovviamente secondo le
modulazioni previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva. Certo è che
ove il datore di lavoro – come sembra nel caso di specie – sia pervaso da
avversità culturale nei confronti dell’attività sindacale di chi sia incaricato
di compiti di gestione del personale potrà, di fatto, e nei limiti in cui non
si violino i criteri di correttezza e buona fede e gli altri più rigidi di cui
allo Statuto, selezionare i dipendenti meno sensibili a certe istanze per
formare il suo ufficio personale o di relazione industriale od affidare tali compiti
a chi condivida senza riserve l’operato datoriale. Quello che, però, non può
fare è paventare l’allontanamento od il trasferimento ad altro incarico di chi
già rivesta il ruolo di incaricato a quel servizio ed intenda, come gli
assicura la Costituzione, occuparsi anche di questioni sindacali.
Fare gli “interessi” dell’azienda non significa sposare
acriticamente ogni determinazione del datore di lavoro o doversi spogliare
della propria dimensione collettiva . L’equivoco culturale che ha informato la
determinazione datoriale di cui oggi si discute riposa, infatti, sul
convincimento che occuparsi del personale debba necessariamente consistere
nell’occuparsene “in un certo modo” e dunque in condizioni di conflittualità
istituzionale con ogni tipo di istanza che provenga dai lavoratori; la qual
cosa corrisponde ad una impostazione che non tiene conto del ruolo che il
nostro ordinamento assegna alla dimensione collettiva in azienda, e cioè alla
funzione istituzionale e fisiologica di indispensabile dialettica fra le parti
al fine del raggiungimento proprio di quegli equilibri che meglio di ogni altra
cosa concorrono a realizzare “ l’interesse” aziendale. Singolare è poi la
considerazione sulla necessità che i lavoratori addetti al personale ed alle
relazioni sindacali assicurino il “presidio costante e continuativo della
posizione di lavoro per la realizzazione degli obiettivi di carattere
tecnico-organizzativo e produttivo nonché di gestione delle risorse umane”.
Sembra di capire (ma è proprio così) che – secondo gli intendimenti aziendali -
questi lavoratori non abbiano diritto, come tutti gli altri, alle guarentigie
previste dallo Statuto dei lavoratori (permessi, assemblea, altre attività ),
perché non possono mai lasciare la “posizione di lavoro”; dunque una sorta di
fedeltà anche fisica, il cui significato appare di un inequivoco contenuto di
assoluta dedizione, che confligge, fra l’altro, con la regola costituzionale
che subordina l’esercizio dell’impresa al rispetto della “libertà” e della
“dignità umana” (art. 41 Cost.).
Per l'indubbia ed
inequivocabile efficacia dissuasiva di cui è dotata la predetta circolare
aziendale, sussiste comportamento antisindacale (e obbligo di rimozione
degli effetti primariamente mediante revoca della medesima, n.d.r.), atteso
che il comportamento antisindacale tipizzato dall'art. 28 s.l. non si realizza,
com'è noto, solo quando la parte datoriale ponga in essere atti concreti e
materiali, ma anche quando - come certamente nel caso di specie - enuncia le
sue determinazioni che abbiano quel carattere di potenzialità offensiva tale da
determinare il convincimento nel destinatario della "convenienza" di
evitare l'esercizio dei diritti sindacali.»
Naturalmente questa
esecrabile concezione secondo la quale
i Servizi del personale debbono assolvere alla funzione dei “cani da guardia”
del Direttore Generale o dei “commessi della sua bottega” (l’azienda, vissuta
come esercizio “commerciale” proprio e personalistico), non è fortunatamente generalizzata anche se oramai
del tutto prevalente. In aziende dell’ex IRI e delle finanziarie di settore
(delle c.d. dimesse partecipazioni statali ove abbiamo operato con
soddisfazione e gratificazione professionale) i Servizi del personale erano
illuminatamente concepiti come organi di “magistratura imparziale interna”, ai
cui responsabili si richiedeva professionalità giuridica ed integrità morale,
con obblighi di diffusione di tale cultura al resto delle strutture gerarchiche
dell’azienda e con il compito di assicurare ai dipendenti tutti imparzialità,
uniformità di regole e interventismo a tutela nei confronti delle devianze dei
Capi o capetti di turno. Ma, ora che siamo maturi, quello che ci è sembrato e
resta un modello convincente, non sappiamo quanto fosse condiviso dall’ex IRI per intrinseca eticità
e quanto invece dipendesse dal fatto che le Direzioni del Personale delle
singole aziende erano di fatto la longa manus dell’ente di
gestione o delle finanziarie dei vari settori merceologici, le quali temevano
lo strapotere locale dei capi delle singole aziende (amministratori delegati e
direttori generali) e quindi avevano interesse e convenienza acchè i Direttori
del personale riscuotessero, a tutela dell’immagine dell’ente di gestione, il
consenso dei dipendenti e si rendessero garanti del contenimento delle
eventuali iniziative di prevaricazione ed ingiustizia sovente poste in essere
dai capi struttura locali. Ma così era, e così dovrebbero essere concepiti e funzionare i Servizi del Personale.
Roma, 30 ottobre 02
Marco Ruini
Tribunale di Pisa (sezione lavoro, 1° grado) 6 novembre
2002 – Giud. Nisticò - BPP, PR, CC e MI (avv. Luca Ciampi, Lorenzoni, Mosca) c.
Poste Italiane SpA (avv. Luigi Fiorillo, Alberto Niccolai)
Promozioni per merito comparativo – Inosservanza della regola della
trasparenza e di principi di correttezza e buona fede nel compimento di atti di
gestione privatistica del rapporto di lavoro– Risarcimento di danni da perdita
di chance promotiva – Sussistenza.
E’ ius
receptum il principio secondo il quale il datore di lavoro, pur nell’esercizio
dei diritti derivanti dal disposto dell’art. 41 della Costituzione, debba
osservare le regola che impone di dare esecuzione al contratto “secondo buona
fede”(art. 1375 c.c.) e che tale regola si risolva, nel contratto di lavoro, in
un doveroso comportamento “trasparente”, tale che il controllo giudiziale possa
verificare che nell’esercizio della discrezionalità non si utilizzino strumenti
od intenti obliqui che siano di pregiudizio al lavoratore per il mancato
rispetto di criteri oggettivi che attengano alla professionalità maturata (sul
punto v. ampiamente Cass. 12897/02 in atti, Cass. 15819/01, Cass. 8468/00,
Cass. 14547/99, Cass. 1078/99, Cass. 7810/98 e molte altre).
Tutto ciò consente di rimuovere la suggestione determinata da
quanto oggi si va affermando da più parti sulla pretesa inversione di tendenza
nell’ordinamento lavoristico a favore di criteri di massima discrezionalità
datoriale anche nelle scelte che riguardano lo sviluppo professionale dei
dipendenti (in inglese, si chiama spoils system) e di ritenere, al contrario,
che ove vi siano spazi di discrezionalità (come senza dubbio nella scelta del
dirigente) lì maggiore sia l’obbligo di dar conto dell’esercizio del relativo
potere, perché l’escluso o gli esclusi possano verificare che la scelta non
derivi da ragioni diverse di quelle riconducibili al criterio della buona fede
di cui all’art. 1375 c.c. o che non si tratti di scelte discriminatorie
addirittura sollecitate da ragioni che un giudice investito di analoga controversia
(Pret. Bologna, n. 462/98, in atti) ha definito “inconfessabili”.
Svolgimento del processo
Con ricorso 15.10.1998 i ricorrenti indicati
in epigrafe (ad eccezione di Costa Cetrina che rinunciava nel corso del
giudizio) chiedevano la condanna della Poste Italiane s.p.a. al risarcimento
del danno per perdita di chance , derivante dalla mancata selezione per la
nomina dirigenziale, spiegando che il datore di lavoro non avesse utilizzato
criteri oggettivi e controllabili.
Poste Italiane resisteva in
giudizio negando la pretesa ed illustrando e chiedendo di provare la piena
legittimità del proprio comportamento.
Dato ingresso in parte alla
prova ed autorizzate note scritte, all’udienza del 6.11.2002, sulle conclusioni
delle parti, la causa veniva discussa e decisa come da dispositivo del quale
veniva data pubblica lettura.
Motivi della decisione
E’ ius receptum il
principio secondo il quale il datore di lavoro , pur nell’esercizio dei diritti
derivanti dal disposto dell’art. 41 della Costituzione, debba osservare le
regola che impone di dare esecuzione al contratto “secondo buona fede”(art.
1375 c.c.) e che tale regola si risolva, nel contratto di lavoro, in un
doveroso comportamento “trasparente”, tale che il controllo giudiziale possa
verificare che nell’esercizio della discrezionalità non si utilizzino strumenti
od intenti obliqui che siano di pregiudizio al lavoratore per il mancato
rispetto di criteri oggettivi che attengano alla professionalità maturata (sul
punto v. ampiamente Cass. 12897/02 in atti, Cass. 15819/01, Cass. 8468/00,
Cass. 14547/99, Cass. 1078/99, Cass. 7810/98 e molte altre).
Tali criteri di garanzia trovano ,nel settore del contratto
di lavoro, un rafforzamento normativo non solo a livello primario, posto che
l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di tutelare anche la personalità
morale del lavoratore, ma soprattutto a livello di previsione
costituzionale, se è vero che lo stesso art. 41, nel proclamare la libertà di
impresa, la subordina, fra l’altro, anche al rispetto della dignità umana.
Né può trascurarsi come da ultimo anche la normativa Continentale ( v. la c.d.
Carta di Nizza) abbia enunciato – quantomeno con valore ricognitivo dei
principi fondamentali tradizionalmente condivisi dagli stati membri - analoghi
principi, inserendoli nel capo IV dedicato alla “solidarietà”, e così
valorizzando la tutela della persona -lavoratore.
Tutto ciò - sul piano della sistemazione generale dei criteri
valutativi che questo giudice è tenuto ad utilizzare nella presente
controversia – consente di rimuovere la suggestione determinata da quanto oggi
si va affermando da più parti sulla pretesa inversione di tendenza
nell’ordinamento lavoristico a favore di criteri di massima discrezionalità
datoriale anche nelle scelte che riguardano lo sviluppo professionale dei
dipendenti (in inglese, si chiama spoils system) e di ritenere, al
contrario, che ove vi siano spazi di discrezionalità (come senza dubbio nella
scelta del dirigente) lì maggiore sia l’obbligo di dar conto dell’esercizio del
relativo potere, perché l’escluso o gli esclusi possano verificare che la
scelta non derivi da ragioni diverse di quelle riconducibili al criterio della
buona fede di cui all’art. 1375 c.c. o che non si tratti di scelte
discriminatorie addirittura sollecitate da ragioni che un giudice investito di
analoga controversia (Pret. Bologna , n. 462/98, in atti) ha definito
“inconfessabili”.
Ha un suo rilievo anche in
questo giudizio, perché dimostra all’evidenza come Poste s.p.a. intenda dare
contenuto al suo potere di scelta, segnalare una nota “riservata” (19.6.2000)
del Direttore della Direzione Centrale Risorse Umane, nella quale, con il
corredo dei nominativi di tutti i “quadri” che hanno promosso giudizi per
ottenere il risarcimento da “perdita di chance” (come l’attuale) , si dice
testualmente: “ riteniamo opportuno portare a Vostra conoscenza (cioè a
conoscenza dei vertici aziendali, ndr.) che nel corso degli ultimi anni sono
stati proposti numerosi ricorsi giudiziari, da parte di dipendenti con la
qualifica di quadro, volti ad ottenere cospicue somme di denaro a titolo di
risarcimento per i danni subiti a causa del presunto illecito comportamento
della società per averli esclusi dalle selezioni per le promozioni alla
qualifica dirigenziale. A tale proposito si segnala alle strutture in indirizzo
come, relativamente a tale tipologia di contenzioso, c.d. per perdita di
chance, la scrivente ha potuto constatare che alcuni ricorrenti rivestono
attualmente , all’interno della società, la qualifica di Responsabile dell’Area
Risorse Umane di Filiale, di altra Area di pari rilevanza nonché di ispettori
ed Avvocati. E’ evidente la controindicazione di carattere generale a
che dipendenti, con incarichi di responsabilità e delicatezza, instaurano o
proseguano un giudizio contro la società, ponendosi così in atto un
comportamento non in linea con gli incarichi di responsabilità e di estrema
fiducia che la società ha loro accordato. Si vuole, altresì, richiamare
l’attenzione sul fatto che a molti dei ricorrenti in questione è stata data la
procura notarile per presenziare alle udienze in qualità di parte sostanziale,
per conciliare e transigere vertenze in materia di lavoro, nonché come nel caso
di avvocati è stato loro conferito il mandato generale per la tutela in
giudizio degli interessi della società. Si invitano, pertanto, le strutture in
indirizzo a rimuovere gli interessati dai posti di funzione attualmente
occupati, preavvertendoli che se sarà loro intenzione proseguire la causa
instaurata contro la società, verranno loro revocate le procure conferite per
presenziare alle udienze relative e a cause di lavoro, alle riunioni presso le
Direzioni provinciale del Lavoro nonché per la tutela in giudizio degli
interessi della società(omissis).”
La cosa non abbisogna di
commenti, tanto questa determinazione datoriale (cioè di rimuovere
dall’incarico il dipendente che non sia
stato tanto fedele da promuovere una causa o da proseguirla) dimostra
l’avversità culturale di Poste Italiane per il legittimo esercizio della tutela
giudiziaria da parte di chi , qualunque ruolo rivesta, intenda far valere un
proprio diritto. E d’altro canto per analoghi comportamenti Poste Italiane ha
già subito la censura giudiziaria – in sede di art. 28 s.l. e del relativo
giudizio di opposizione – per aver adottato una diversa “circolare” che tendeva
ad escludere da incarichi di responsabilità – nel settore del personale – i
lavoratori che svolgessero attività sindacale (v. Tribunale di Pisa 2.10.2002,
giud. Nisticò, Coscia c. Poste Italiane s.p.a.).
Fatte queste premesse, si
rileverà che in concreto il potere discrezionale del datore di lavoro di lavoro
di scegliere i suoi dirigenti appare limitato e definito in sede contrattuale
dalla 2° clausola “transitoria” del CCNL Dirigenti applicabile ratione temporis.
Qui si dice che “per le future necessità di personale dirigente l’Ente
limiterà il ricorso a nuove assunzioni e si avvarrà in via prioritaria delle
risorse interne appartenenti alla ex carriera direttiva delle quali favorirà la
crescita professionale. A partire dall’agosto 1994 l’Ente realizzerà, a tale
scopo, una valutazione del potenziale sviluppo che evidenzi le possibili
candidature per la promozione a dirigente da effettuarsi quando se ne verifichi
la necessità organizzativa”.
Il tenore della clausola
contrattuale è chiaro e consente subito di escludere che si tratti di una
clausola operante solo in fase di “prima applicazione” (come oggi sostiene
Poste s.p.a.). Che non sia tale lo si ricava in primo luogo da un elemento
letterale negativo e cioè che la regola non è enunciata come regola di prima
applicazione (come di norma avviene nella ordinaria contrattazione collettiva
che fa riferimento frequentemente a tale dizione). Ma che si tratti di una
clausola dalla operatività cronologicamente limitata è escluso – in positivo –
dal fatto che essa si riferisce “alle future necessità” senza altro
aggiungere e dal fatto che, la seconda parte, impone un certo tipo di selezione
“a partire dall’agosto 1994” senza indicare alcun termine finale.
Ma vi è anche un argomento
logico che è quello secondo il quale – correttamente – il datore di lavoro
pensa di valorizzare le “risorse”( cioè i lavoratori) interne, quantomeno per
la professionalità specifica maturata e questo non ha senso in fase di prima
applicazione, ma sempre.
Come , poi, siano andate le
cose, ce lo dice il rappresentante in udienza del datore di lavoro, le cui
dichiarazione vale la pena riportare integralmente, quantomeno per contare le
volte che il Nostro si è visto costretto a rispondere “non so”, “non so dire” o
simili, quando gli si chiedeva di spiegare gli “interna corporis” della
selezione. Ci dice, dunque, il dr. F*** (ud. 10.2.2000): “ Le poste avevano
una popolazione di Q1 di circa 3.400 unità. Alla società di consulenza fu dato
incarico di monitorare l’intera popolazione, ma non so dire se fu
indicata una percentuale da selezionare. Le Poste concordarono con la società
di consulenza i criteri per la selezione, in base ai quali predisporre una
prima lista di evidenze. I criteri erano i seguenti: età anagrafica (mi pare
fra i trenta e cinquanta anni), anzianità di servizio(almeno otto anni di
servizio), titolo di studio ed infine le singole e diverse esperienze
professionali. Non so dire se fra le Poste e la società di consulenza fu
concordata la valenza da dare ad ognuno di questi criteri. Sulla base di questi
criteri la società di consulenza individuò 831 nominativi.Non so dire
perché furono individuati circa 800 nominativi e non 10 o 1000. Mi risulta che
tutti e quattro gli odierni ricorrenti erano stati inseriti negli 831. La
società di consulenza operò , poi, una seconda scrematura individuando 240
nominativi. Anche questa seconda selezione è stata fatta su base documentale.Non
so dire perché la società di consulenza ha individuato 240 nominativi
invece che 10 o 500. I quattro ricorrenti non appartengono al gruppo dei 240.Ovviamente
non so il perché. Non so se i quattro criteri di massima concordati
furono rigidamente applicati dalla società di consulenza, ivi compreso quello
dell’età anagrafica.
I 240 furono sottoposti a delle simulazioni in gruppi di otto
con la presenza di due consulenti. Alla fine di queste selezioni le poste
nominarono 17 dirigenti.
Questo primo progetto partì nell’aprile del 1996 (omissis). A
giugno del 1996 ce ne fu un secondo sempre affidato alla stessa società di
consulenza che non portò a nessuna nomina. Questo secondo progetto fu fatto con
metodologia diversa. Fu dato incarico ai direttori delle sedi di segnalare il
personale che aveva raggiunto le migliori performance sempre attingendo
all’area quadri di primo livello. Ai direttori delle sedi fu dato un
questionario dalla società di consulenza in base al quale operare la selezione.
I selezionati furono sottoposti ad una intervista di circa tre ore da parte della
società di consulenza, ma il secondo progetto non portò alla nomina di alcun
dirigente.
Come ho già detto la questione della Bocconi riguardò un terzo
progetto che partì nell’autunno del 1997. La prima selezione fu fatta sulla
base di segnalazioni dei direttori di sede. I selezionati furono sottoposti a
due metodologie diverse: una da parte della società di consulenza mediante
intervista e l’altra da parte dell’Università Bocconi per gli aspetti più
tecnici. Ho ragione di presumere che i criteri che il direttore di sede doveva
applicare sono stati determinati dalla società di consulenza mediante il
questionario.Non so quali siano stati questi criteri. All’esito di
questo monitoraggio vennero nominati 90 dirigenti.”
Non vi è ragione ,
ovviamente , per non credere alla versione fornita dal rappresentante della
convenuta il quale ci dice, in buona sostanza, di non sapere se di fatto siano
stati utilizzati criteri oggettivi, se la società di consulenza se ne abbia
dati di altri, quanta valenza ad ognuno dei criteri veniva assegnata; insomma,
nulla o quasi, di come siano andate le cose o degli esiti della valutazioni. Di
certo c’è un primo elemento di sospetto che consiste nel verificare che mentre
una prima selezione sulla base di criteri bene o male almeno enunciati aveva
portato alla nomina di appena 17 dirigenti, una seconda, tutta fondata sulle
“segnalazioni” dei direttori di sede aveva portato alla nomina di ben 90
dirigenti. Questo ci lascia intendere che di fatto la segnalazione del
direttore di sede ( non si sa sulla base di che) abbia determinato un buon 85% delle nomine dirigenziali.
Questa prima affermazione
ben si coniuga con quanto dichiarato in udienza dal teste R***( responsabile
dell’ufficio contenzioso del lavoro alla direzione generale del personale, ud.
20.12.2000): “è vero che fra questi dirigenti nominati nel 1995 (dovrebbe
trattatasi di 17 dirigenti, ndr.) c’erano alcuni dipendenti che erano figli
di ex direttori centrali o vice direttori centrali o direttori compartimentali.
Fra questi io stessa, RR, VA, BM, SL…io ero una della più giovani e gli altri
avranno avuto 40/45 anni”.
Dubbi di nepotismo a parte,
la stessa R*** ( nominata dirigente all’età di 33 anni) ci dice e più volte di non
sapere di quali criteri abbia fatto uso la Commissione incaricata di
selezionare fra tutti i quadri quelli per i quali era possibile valutare la
promozione; ed aggiunge di non sapere se la stessa commissione si fosse
data un numero da selezionare o se avesse valorizzato il criterio
dell’anzianità; e ci dice anche che alla Bocconi ( e dunque nella terza fase di
selezione) erano stati mandati solo dipendenti segnalati dai capi delle
strutture e che “qualcuno è stato mandato a fare l’intervista più volte” ed
infine di non ricordare se fra i 90 dirigenti selezionati dalla Bocconi
ci fossero figli di persone che rivestivano cariche importanti presso Poste
s.p.a..
L’assoluta mancanza di
trasparenza in ordine ai criteri utilizzati per le selezioni risulta confermata
anche dalla lettura delle dichiarazioni rese dal teste L*** (direttore generale
della Società di consulenza incaricata, ud. 20.12.2000) il quale ci dice di
aver predisposto delle schede di valutazione che facessero da guida alle
segnalazioni dei capi delle strutture, ma di tali schede non ha riferito il contenuto.
D’altro canto lo stesso ha aggiunto che fra i segnalati dai capi delle
strutture vi erano dipendenti che già, nella prima selezione, erano stati
esclusi, spiegando la cosa con la acquisizione di meriti “sul campo”. Dunque
non solo il datore di lavoro non è stato in grado di fornire alcuna notizia sui
contenuti delle segnalazioni, ma risulta provato che Poste s.p.a. ha finito per
far rientrare nelle selezioni dipendenti addirittura esclusi dalla prima
“sgrossatura”. Ed anzi, uno di questi ha avuto la nomina dirigenziale in corso
di giudizio (CC, rinunciante agli atti) ancorché, come è già stata acclarato,
sia stata esclusa dalla prima selezione.
Appare, dunque, evidente
come non di discrezionalità abbia fatto uso il datore di lavoro ma di scelta incontrollabile
e come tale arbitraria, nell’evidente mancato rispetto non solo delle clausole
generali legali( art. 1175, art. 1375 c.c.), ma dello stesso impegno assunto in
sede di contrattazione collettiva.
Consegue , verificata la
lesione del diritto soggettivo dei dipendenti esclusi, il risarcimento del
danno per la c.d. “perdita di chance”, che, tenuto conto delle probabilità di
successo (in relazione soprattutto all’elevato numero di concorrenti) e
rilevato che esso non può corrispondere alle eventuali retribuzioni non
percepite, appare equo quantificare nella somma di 30.000,00 € ciascuno.
Le spese di lite, liquidate
come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il giudice dichiara estinto il giudizio promosso da CC.
Accoglie la domanda
avanzata dagli altri ricorrenti e per l’effetto condanna parte convenuta a
corrispondere a ciascuno di essi a titolo di risarcimento del danno la somma di
€ 30.000,00 oltre accessori dalla data della sentenza al saldo effettivo.
Condanna parte convenuta al pagamento delle spese di lite che liquida in complessive € 7.000 oltre Iva e Cap di cui € 5.000 per onorari, € 1.900 per diritti ed e 100 per spese.
IV° SENTENZA
Corte
di Cassazione, sez. lav. 5 settembre 2002, n. 12897 (ud. 29 maggio 2002) –
Pres. Mercurio – Rel. Lamorgese – Bonanni Salvatore (avv. Centofanti,
Bernardinetti) c. Poste Italiane SpA (avv. L. Fiorillo)
Promozioni
proceduralizzate tramite CCNL, accordo integrativo e circolare aziendale
attuativa – Dovere di trasparenza – Conseguente obbligo di motivazione delle
scelte, secondo merito comparativo e non secondo insindacabile discrezionalità
del datore di lavoro.
Una
procedura che – per effetto di pattuizioni del ccnl, completate da accordo
integrativo e da autolimitazione, con prefissione dei criteri da osservare nella
selezione dei candidati, esplicitata in circolare aziendale - privilegi
l'obiettività e la trasparenza esige che siano manifestate all'esterno le
motivazioni che sorreggono la scelta di un candidato piuttosto che di un altro,
ancorchè senza la necessità della redazione di verbali delle operazioni di
selezione e della formazione di graduatorie.
Selezione vuol dire vaglio della posizione di ciascun candidato e scelta
motivata del candidato preferito. Nella
specie, l'obbligo di osservare tali precetti si presentava ancor più stringente
dal momento che si era voluto che la procedura selettiva rispondesse a requisiti
di obiettività e trasparenza (in conseguenza delle lacune riscontrate nella
decisione del tribunale che aveva astrattamente asserito la legittimità delle
immotivate e non sindacabili scelte aziendali delle quali la S. corte non è
riuscita a rendersi conto alcuno, la sentenza viene cassata con rinvio ad altra
Corte ai fini del l’accoglimento delle doglianze del ricorrente).
Svolgimento del processo
Con la sentenza indicata in epigrafe, il Tribunale di Terni,
respingendo l'appello dell'odierna parte ricorrente. ha confermato la sentenza
del locale Pretore con la quale ne era stata rigettata la domanda di
risarcimento danni nei confronti dell'Ente Poste Italiane per la mancata
promozione alla qualifica di Quadro o, in subordine, per la perdita di chance,
domanda fondata sul mancato rispetto, nelle operazioni di selezione del
personale promuovendo, dei principi di trasparenza ed obiettività e dei criteri
di valutazione dettati dal contratto collettivo.
Il tribunale premesso in limine che l'Ente Poste aveva
accettato il contraddittorio sulla nuova causa
petendi dedotta dall'appe'lante
e premesso altresì nel merito, che il datore di lavoro, nell'esercizio del suo
potere discrezionale in materia di promozioni, può obbligarsi al rispetto di
regole procedimentali convenute con le controparti, ha osservato che nella specie
il contratto collettivo 26 novembre 1994, all'art. 50, stabilisce criteri
generali e di massima ispirati ai principi di trasparenza e obiettività, nonché
vincolati a procedure di accertamento per l'individuazione di specificate qualità
dei selezionandi, senza però fornire specifiche indicazioni sulla concreta
metodologia da seguire nelle procedure di accertamento professionale e di
selezione del personale. Tale
lacuna è stata colmata con l'accordo integrativo aziendale del 26 ottobre 1995,
con il quale è stato demandato all' azienda di stabilire le metodologie di
accertamento dei requisiti degli aspiranti.
Tale competenza è stata esercitata dall'azienda con la circolare n. 35
del 7 novembre 1995, che ha previsto per la copertura dei posti di Quadro un
accertamento professionale imperniato su due fasi: la prima, affidata al
dirigente della sede locale, di preselezione del personale nella misura del 120%
dei posti da coprire secondo criteri di massima rappresentati dal titolo di
studio, dall'esperienza lavorativa in azienda e fuori, dalla partecipazione a
corsi professionali interni ed esterni; la seconda, costituita da un colloquio
finalizzato all'accertamento professionale per l'area Quadro di secondo livello.
Questa procedura - ha argomentato il Tribunale - risulta rispettosa
dell'accordo integrativo e non si pone in contrasto con i- criteri dettati
dall'art. 50 del contratto, perché ha come suo momento peculiare
l'accertamento delle capacità, potenzialità, attitudini, livello
culturale e curriculum lavorativo dei selezionandi.
Per converso, nessuna fonte contrattuale prevede che si debba procedere a
redazione di verbali e alla formazione di graduatorie per ogni fase della
procedura, essendo ciò previsto dall'accordo integrativo solo per la copertura
dei posti di cui alle lettere A) ed B) e non per la copertura dei posti di cui
alle lettere C) ed E) che interessano la presente controversia, per quali
l'accordo integrativo prevede solo la istituzione di una Commissione centrale
con il compito di redigere una graduatoria, ma solo successivamente alla
preselezione effettuata dagli organi locali.
La parte soccombente ha proposto ricorso per cassazione seguito da
memoria. Poste Italiane S.p.A. ha
resistito con controricorso.
Motivi della decisione
Con l'unico complesso motivo di ricorso, denunciando violazione
degli artt. 1174, 1175, 1321, 1322, 1323, 1324, 1362, 1363, 1364, 1365, 1366,
1369, 1371, 1372, 1375 cod.civ., in relazione all'art. 50 CCNL 26 novembre 1994,
all'accordo integrativo 26 ottobre 1995, alla circolare 7 novembre 1995 n. 35 e
agli atti della Direzione Regionale dell'Umbria, nonché dell'art. 115 cod.
proc.civ. e vizio di motivazione, parte ricorrente critica l'impugnata sentenza
per non avere il Tribunale motivato sufficientemente sulla valenza da attribuire
all'accordo integrativo, il quale aveva demandato alla stessa azienda di
stabilire le metodologie di accertamento dei requisiti posseduti dai candidati
alla promozione, nel rispetto dei criteri fissati dall'art. 50 del CCNL.
Aggiunge che il Tribunale ha male interpretato la circolare n. 35 del 7
novembre 1995, facendone derivare un'ampia discrezionalità del dirigente della
struttura locale nella preselezione dei candidati, in contrasto con le
prescrizioni dell'art. 50, che imponevano di agire in ogni fase della procedura
con trasparenza e obiettività e secondo criteri prefissati. Inoltre, il
Tribunale non avrebbe rilevato che mancava ogni prova di un'avvenuta valutazione
comparativa dei candidati; che non risultavano prefissati criteri oggettivi di
valutazione e fissati i relativi punteggi; che non risultava avvenuta alcuna
valutazione personale di ciascun concorrente; che non erano state indicate, per
ciascuno di essi, le ragioni della sottovalutazione, in un quadro comparativo
della sua esclusione; che da tutti gli elementi acquisiti risultava che il
direttore regionale aveva operato la selezione sulla base di una sua personale e
totalmente soggettiva decisione. Infine,
il Tribunale non aveva tenuto nel debito conto: che secondo l'accordo
integrativo 26 ottobre 1995 la Commissione centrale avrebbe dovuto redigere e
approvare una graduatoria anche per i posti di cui alle lettere C) ed E); che
dalle prescrizioni imposte dall’art. 50 discendeva
l’obbligo per l'azienda di documentare tutti- i passaggi della
procedura di selezione; che il brevissimo tempo impiegato dal direttore
regionale nell'indicare, tra i tanti concorrenti (n. 152+1036), i prescelti, era
chiara dimostrazione che nessuna valutazione era stata compiuta; che
l'arbitrarietà delle decisioni aziendali aveva trovato ampia eco sulla stampa.
Il ricorso va accolto alla stregua delle considerazioni seguenti.
Preliminarmente, deve ritenersi che non sussista il mutamento della causa
petendi, ravvisato dal Tribunale nell'abbandono, da parte dell'appellante,
della tesi, sostenuta in primo grado, dell'inosservanza, da parte dell'Ente
Poste, della circolare, e, nella contemporanea prospettazione della tesi
dell'inadempimento, sempre da parte dell'Ente - attuatosi anche attraverso
l'adozione di atti interni, quale la circolare n. 35 del 7 novembre 1995 -
rispetto agli obblighi contrattualmente assunti con la sottoscrizione degli
accordi collettivi.
In-fatti, l'asserito mutamento della causa petendi - l'accettazione della quale sarebbe stata
irrilevante ai sensi dell'art. 437 c.p.c. (v. Cass. 27 dicembre 1997 n.13049) non sussiste, perché se, come si
ricava dalla stessa sentenza, le ragioni sottostanti alla domanda introduttiva
si concretano nell' inadempimento agli obblighi procedimentali, la questione non
muta se, anziché fare riferimento alla circolare, si
invochino gli accordi collettivi che ne sono l'antecedente e dei quali la
stessa è esplicazione o attuazione. Il
Tribunale ha premesso che oggetto della presente controversia è la verifica del
rispetto o meno, da parte dell'Ente datore di lavoro, delle regole contrattuali
con le quali questi aveva autolimitato il proprio potere di organizzazione e di
gestione e che, nella specie, sono rappresentate essenzialmente dalle clausole
contenute nell'art. 50 CCNL e
nell'accordo sindacale del 26 ottobre 1995.
Ha poi aggiunto che l'art. 50, intitolato "Criteri di accesso alle
aree", dopo aver demandato genericamente all'Area di Gestione
"Personale e Organizzazione" (P.O.) il compito della selezione del
personale, da attuarsi con l'utilizzazione di procedure idonee a garantire la
massima trasparenza e obiettività, ha previsto, con specifico riferimento
all'area Quadri, che qui interessa, "procedure di accertamento e selezione
che individuino le capacità, le potenzialità, le attitudini ed il livello
culturale dei selezionandi", tenendosi conto anche del "curruculum
lavorativo". Ha quindi
ritenuto che fondamentale importanza assume l'accordo integrativo aziendale in
data 26 ottobre 1995, nel quale viene espressamente pattuito che « Per
l'accesso alla Aree Quadri, l'Area P.O. stabilirà, secondo quanto previsto
dall'art. 50 CCNL, le metodologie di accertamento delle capacità, del
potenziale, delle attitudini e dei livello culturale degli aspiranti, nonché
quelle di valutazione dei curricula lavorativi compreso in esso
l'espletamento di funzioni superiori".
Ha infine precisato che, essendosi demandato con l'accordo integrativo al
datore di lavoro il compito di stabilire le metodologie della selezione, l'Ente
ha adempiuto tale onere attraverso l'elaborazione della circolare n. 35 del 7
novembre 1995, che ha previsto, per la copertura dei posti di cui alle lettere
C) ed E), che riguardano la presente controversia, un accertamento
professionale basato sulla valutazione dei titoli di studio, dell'esperienza
lavorativa in azienda e fuori, della partecipazione a corsi professionali
interni ed esterni, nonché su di un colloquio da tenersi presso l'Area P.O..
Proposta tale descrizione delle fasi procedimentali richieste dal
contratto collettivo, dall'accordo integrativo e dalla circolare, il Tribunale
ha ritenuto che tale metodologia sia "corretta sul piano formale" e
che la normativa predetta non comporti l'obbligo di redigere verbali e
graduatorie.
Osserva la Corte che risulta evidente il vizio di motivazione della
sentenza. Posto che l'Ente si era
obbligato all'osservanza di determinate procedure, il Tribunale non spiega come
tale obbligo sia stato assolto. Non
era in discussione la legittimità della procedura concordata, nella cui
illustrazione la sentenza si attarda. La
contestazione riguardava la mancata attuazione di
essa. Anche la fase di
preselezione in sede locale richiedeva il rispetto dei principi di obiettività
e trasparenza, ma il Tribunale non spende una parola per chiarire in quali atti
del direttore provinciale essi abbiano trovato espressione.
L'osservanza delle regole dettate dall'art. 50 CCNL, dall'accordo
integrativo e dalla circolare n. 35 postulava che i concorrenti fossero valutati
in base a specifici requisiti (titolo di studio, ecc.), e pertanto un giudizio
sui candidati alla selezione rispettoso dei principi di trasparenza e obiettività
avrebbe richiesto che il soggetto designato a tale operazione rendesse note le
ragioni della sua scelta, che era si discrezionale, ma sottoposta a vincoli
predeterminati. Anche su tale
questione la sentenza impugnata tace del tutto.
E' evidente che una procedura che privilegi l'obiettività e la
trasparenza esige che siano manifestate all'esterno le motivazioni che
sorreggono la scelta di un candidato piuttosto che di un altro, ancorché senza
la necessità della redazione di verbali delle operazioni di selezione e della
formazione di graduatorie. Selezione
vuol dire vaglio della posizione di ciascun candidato e scelta motivata del
candidato preferito. Nella specie,
l'obbligo di osservare tali precetti si presentava ancor più stringente dal
momento che si era voluto che la procedura selettiva rispondesse a requisiti di
obiettività e trasparenza. Di
tutto ciò la sentenza non dà conto, esaurendosi la motivazione in un'astratta
considerazione della validità della procedura prefissata, senza alcun
riferimento al modo con il quale essa sarebbe stata attuata.
Non vale obiettare che la richiesta di danno per la perdita di chance
richiede che sia dimostrato dal dipendente il nesso di causalità tra
l'inadempimento (che è la causa
petendi prospettata) e la mancata promozione, mediante l'indicazione
specifica e concreta degli elementi idonei a far ritenere che il regolare
svolgimento delle Procedure selettive avrebbe comportato un'effettiva e non
ipotetica possibilità di vittoria del candidato pretermesso, onere probatorio
nella specie non assolto, perché una tale affermazione presuppone che una
procedura selettiva vi sia stata e che essa abbia deviato dai canoni prescritti.
Nel caso in esame, dalla sentenza impugnata non risulta in alcun modo che
una procedura di selezione sia stata eseguita. L'assenza di qualsiasi motivazione in ordine a tale punto
decisivo della controversia conferisce consistenza alla doglianza di parte
ricorrente, la quale lamenta sostanzialmente di essere stata esclusa dalla
selezione, formalità del tutto omessa e sostituita da una libera scelta
imprenditoriale sottratta a qualsiasi vincolo.
Deve quindi cassarsi la sentenza impugnata e rinviarsi la causa per
nuovo esame, ad altro giudice, designato nella Corte d’appello di Perugia,
cui, ai sensi dell'art. 385, terzo comma, c.p.c., si demanda altresì la
disciplina delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia
la causa, anche per le spese, alla Corte d'appello di Perugia.
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