PATTO PER L'ITALIA - PRIME VALUTAZIONI

 

Parlando del Patto per l'Italia sottoscritto dal Governo e da CISL - UIL, si deve necessariamente partire dalla modifica dell'art. 18 S.L., che rappresenta sicuramente l'elemento qualificante dell'accordo e giustamente, quindi, il dibattito e l'informazione che hanno ad oggetto il Patto si concentrano soprattutto su di essa.

Con riferimento a tale questione, bisogna subito chiarire le cose: non si tratta di semplice modifica dell'art. 18, ma della sua radicale abrogazione, facendo solamente salvi (peraltro con alcuni limiti di cui si dirà) i diritti già acquisiti. Questa affermazione può sembrare in contrasto con la campagna d'informazione che ha riguardato il Patto per l'Italia e con gli obiettivi dichiarati dalle stesse parti firmatarie.

Effettivamente, il Patto asserisce - con grande solennità - che la modifica (per ora la si chiama ancora così) dell'art. 18 S.L. "ha lo scopo di promuovere nuova occupazione regolare" e "rappresenta una misura promozionale per incentivare nuove assunzioni regolari a favore di soggetti che attualmente sono esclusi da ogni tutela a partire dal vero bene primario che è il diritto al lavoro".

In buona sostanza, si parte dall'assunto che l'art. 18 S.L. (che come è noto attualmente prevede la reintegrazione al lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, ma che si applica ai soli datori di lavoro che occupino più di 15 dipendenti) rappresenti un freno alla espansione occupazionale delle aziende che si collocano al di sotto di quella soglia: tali aziende non assumerebbero nuovo personale per evitare di soggiacere alla disciplina della norma in questione. Pertanto, la modifica avrebbe lo scopo di rimuovere l'ostacolo alla crescita dimensionale delle imprese e, al contempo, alla crescita occupazionale.

E' preferibile lasciare agli economisti la spiegazione del motivo per cui un imprenditore che, assumendo nuovi dipendenti, potrebbe espandere la produzione e quindi il profitto, rinuncerebbe a questa possibilità per  paura dell'art. 18. Tanto più che, attualmente, esistono forme di lavoro flessibile che consentono di produrre al contempo occupazione e profitto, senza provocare alcun innalzamento della soglia dimensionale dell'impresa agli effetti dell'art. 18.

In questa sede, conviene invece chiarire che, al di là delle intenzioni dichiarate, la riforma legislativa concretamente proposta va al di là di quella semplice modifica così solennemente dichiarata. Infatti, come Allegato 2 al Patto, è contenuto il testo di una legge delega che conferirà al Governo il potere di modificare l'art. 18 S.L., prevedendo la non computabilità, ai fini della soglia dimensionale ivi prevista, delle nuove assunzioni a tempo indeterminato effettuate nei tre anni successivi all'entrata in vigore del decreto legislativo di riforma. Questo principio generale, secondo il testo della legge delega allegato al Patto, incontra due sole eccezioni: i datori di lavoro che, al momento dell'entrata in vigore della legge delega (non del decreto legislativo emanato dal Governo), già rientrano nel campo di applicabilità dell'art. 18 S.L., nonché le ipotesi di sostituzione di un'impresa ad un'altra nell'esecuzione di un appalto.

Delle due eccezioni contemplate dal testo concordato della legge delega è soprattutto importante la prima, e giova ribadirla: la regola generale non vale solo con riferimento ai datori di lavoro che attualmente rientrino nel campo di applicazione dell'art. 18 S.L.. Questo significa che tutte le aziende costituite dopo la legge delega non rientrano nell'eccezione contemplata dalla legge delega; che le assunzioni effettuate da queste aziende sono nuove; che pertanto i lavoratori assunti da tali aziende non saranno computabili ai fini della soglia prevista dalla norma, e ciò a prescindere dal fatto che la nuova azienda assuma alle proprie dipendenze 10, 100 o 1000 lavoratori.

Per questo motivo si diceva che non si tratta di una modifica, ma di una vera e propria abrogazione, con la sola salvaguardia dei diritti attualmente acquisiti: a far tempo dall'entrata in vigore della legge delega, tutte le nuove aziende sfuggiranno all'applicazione dell'art. 18 S.L..

A ben guardare, anche la salvaguardia dei diritti acquisiti dai lavoratori attualmente in forza non è poi così certa. Qui entra in gioco la seconda eccezione alla regola generale: come si è visto, la seconda eccezione fa riferimento alle assunzioni derivanti dal subingresso in un contratto di appalto ma non, per esempio, da una cessione d'azienda o di un suo ramo autonomo. Questo significa che, entrata in vigore la nuova legge, il datore di lavoro può fittiziamente costituire una nuova società, alla quale cedere (altrettanto fittiziamente) la propria azienda e tutti i propri dipendenti; costoro, in quanto assunti dopo la legge di riforma da un datore di lavoro che già non era obbligato al rispetto dell'art. 18 S.L., perderanno la tutela offerta da quella norma.

L'ipotesi sopra indicata è tanto più realistica se si pensa che, al contempo, il Patto prevede una riforma anche in tema di cessione di ramo d'azienda che, ancora una volta, sembra piccola, ma che invece ha una portata dirompente. Infatti, attualmente la legge prevede che la cessione dell'azienda, o di un suo ramo autonomo, possa avvenire (con conseguente cessione di tutti i relativi rapporti di lavoro) solo a condizione che la stessa azienda (o il ramo autonomo) preesista al trasferimento. La riforma concordata nel Patto prevede invece che l'autonomia funzionale del ramo d'azienda sussista anche solo nel momento in cui viene attuato il trasferimento. Ciò evidentemente vuol dire che il datore di lavoro può organizzare una pluralità di lavoratori, che nulla hanno a che fare tra di loro, in un unico ufficio o reparto, costituito solo in vista della cessione e al momento della stessa: questi lavoratori saranno quindi automaticamente ceduti all'esterno, anche se, prima della cessione, non facevano parte di un ramo autonomo dell'azienda.

Come si vede, la portata della cosiddetta modifica dell'art. 18 è tutt'altro che marginale e destinata a coinvolgere tutti i lavoratori dipendenti, tanto quelli futuri quanto quelli attuali, sia quelli che lavorano nelle piccole imprese che quelli che operano nelle grandi. Bisogna ripeterlo: non è una modifica, ma è un'abrogazione.

Tuttavia, quello che maggiormente sconcerta è altro. In primo luogo, il fatto che una riforma di così ampia portata avvenga sotto silenzio e venga contrabbandata per una modifica di poco conto: chi vuole abrogare l'art. 18 S.L. dovrebbe per lo meno avere il coraggio di dirlo apertamente e non dovrebbe sortire l'effetto mediante sotterfugi e inganni.

In secondo luogo, il fatto che la sostanziale abrogazione dell'art. 18 S.L. non sia accompagnata da una revisione del sistema sanzionatorio. Con ciò non si vuole dire che la sanzione pecuniaria sia una soluzione preferibile alla reintegrazione, che resta comunque la sanzione più idonea a prevenire licenziamenti illegittimi. Tuttavia, una volta che sia aperta la strada dell'abrogazione della sanzione reintegratoria, ci si aspetta che, quanto meno, si preveda un adeguato risarcimento in denaro. Invece, su questo problema il Patto non spende una parola e il testo della legge delega non contempla questa ipotesi. Conseguentemente, è destinato a restare in vigore l'attuale sistema sanzionatorio pecuniario, che peraltro è pressoché simbolico (da un minimo di 2,5 a un massimo di 6 mensilità) in quanto previsto per le sole piccole imprese. Pertanto, un'azienda che, per effetto della riforma, sfugga all'applicabilità dell'art. 18, e che licenziasse senza giusta causa e senza giustificato motivo, correrebbe il rischio di essere condannata a pagare una somma di denaro che, nella misura massima, sarà di sei mensilità, e questo quand'anche quell'azienda avesse alle proprie dipendenze mille lavoratori.

Tanto per restare alle cose che sconcertano, ci si aspetterebbe che, in una situazione come quella sopra descritta (abrogazione della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo, non accompagnata da adeguate sanzioni pecuniarie), uno Stato sociale che sia tale nei fatti e non a parole prevedesse un serio sistema di sostegno ai disoccupati involontari. Questo è quanto dovrebbe fare il nostro Stato, giacché nello stesso Patto il Governo invoca il Welfare to work (Stato sociale per il lavoro).

Ebbene, il Patto siglato con il Governo che afferma di rappresentare un Welfare to work prevede sì un rafforzamento del sostegno ai disoccupati involontari, ma in questa misura: 60% dell'ultima retribuzione per sei mesi, 40% nei tre mesi successivi, 30% nei tre mesi ancora successivi; il sussidio può comunque essere corrisposto per un periodo non superiore a 24 mesi (30 mesi nel Mezzogiorno) nell'arco di un quinquennio.

Quello che si è visto sopra è il massimo cui potrà aspirare un lavoratore licenziato: il sussidio di disoccupazione accomuna chi è stato licenziato con una valida giustificazione e chi no; quest'ultimo potrà aspirare, in aggiunta, ad un risarcimento da parte del datore di lavoro nella misura massima di sei mensilità. Saranno i fatti a dire se queste nuove regole sono idonee a creare nuova occupazione; certamente, l'occupazione (quella nuova ma verosimilmente anche quella vecchia) sarà precaria e senza diritti, perché un lavoratore che rischia di perdere il posto di lavoro non protesterà a fronte di nessuna violazione dei propri diritti.

Peraltro, il Patto prevede una più complessiva revisione dell'attuale normativa in tema di diritto del lavoro, non limitata quindi alle misure già concordate in tema di art. 18 e trasferimenti d'azienda. Infatti, è prevista l'istituzione di una commissione che realizzi uno Statuto dei Lavori, di fatto abrogando l'intero Statuto dei Lavoratori, e non solo l'art. 18: si apre così uno scenario in cui tutti gli attuali diritti dei lavoratori (in primo luogo, quelli di natura sindacale, ma più in generale quelli che disciplinano lo svolgimento del rapporto) rischiano di essere messi in discussione. Tanto più che la commissione convocherà "le parti sociali per avviare il confronto che dovrà accompagnare tutto il processo di elaborazione e di decisione relativo a questo atto fondamentale". Come insegna l'esperienza tratta proprio con il Patto per l'Italia, c'è il rischio fondato che, ancora una volta, si prosegua su tavoli separati, escludendo dal confronto, o quanto meno dalla decisione finale, il sindacato che, nei fatti, è il più rappresentativo dei lavoratori italiani.

Se non bastasse quanto detto fin qui, si consideri che lo scenario non sarà caratterizzato solamente (si fa per dire) dalla diminuzione dei diritti, ma anche da ostacoli alla tutela giudiziaria di quelli che sopravvivranno al processo di "riforma". Infatti, il Patto prevede anche il ricorso (evidentemente ancor più generalizzato di quanto oggi sia possibile) alla conciliazione e all'arbitrato che, come è noto, non garantiscono la stessa imparzialità offerta dall'autorità giudiziaria.

Resta da capire il motivo per cui due sindacati importanti come CISL e UIL abbiano deciso di sottoscrivere un Patto che, come si è visto, rappresenta un significativo passo indietro nella tutela dei diritti dei lavoratori. Da questo punto di vista, non si può mancare di osservare che il Patto prevede la co - partecipazione del sindacato (e, in primo luogo, di quei sindacati che hanno sottoscritto il Patto) alle future e delicate fasi della riforma dell'intero diritto del lavoro, nonché ad organismi bilaterali di futura istituzione e che pure rappresenteranno istanze importanti nel governo concreto dei rapporti di lavoro. Infatti, sotto quest'ultimo punto di vista si prevede la realizzazione di "un moderno ed efficiente sistema di servizi pubblici e privati" per la gestione del collocamento e, a tal fine, si "incoraggia la gestione di questi servizi anche a cura delle stesse parti sociali". Ancora, sono previste forme integrative di protezione contro la disoccupazione involontaria (in aggiunta al sussidio di disoccupazione di cui si è già detto), "gestite da organismi bilaterali di natura privatistica".

Insomma, sembra chiara la contropartita offerta dal Governo ai sindacati che hanno deciso di firmare il Patto: l'indebolimento dei diritti dei lavoratori è compensata da un ampliamento delle attribuzioni e delle attività che, da domani, caratterizzeranno l'azione sindacale. Il problema è che l'allargamento di quelle attribuzioni e di quelle attività non dipende da una reale forza rappresentativa dei sindacati, ma semplicemente da un generoso quanto innaturale (e di sinistra memoria neo - corporativa) riconoscimento da parte dell'autorità politica. Insomma, l'inevitabile perdita di consensi che può produrre l'adesione al Patto viene accettata perché compensata dal riconoscimento del ruolo di interlocutore ufficiale del Governo. Si tratta di una compensazione davvero di basso profilo, giacché il sindacato dovrebbe trarre la propria forza dal consenso dei lavoratori e non da riconoscimenti formali e burocratici. Tuttavia, questa è l'unica chiave di lettura possibile dello scambio giuridico – politico che caratterizza il Patto, e che dovrebbe far riflettere tutti (in primo luogo, i lavoratori) su come alcuni sindacati tutelino gli interessi dei loro rappresentati.

 

Mario Fezzi

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