Né patteggiamento né rinvio a giudizio giustificano il licenziamento del lavoratore
 
1. Premessa
Sono intervenute in aprile e in settembre del 2003 due sentenze -  rispettivamente Cass. 16 aprile 2003 n.  6047, afferente al patteggiamento e Cass.  10 settembre 2003 n. 13294, attinente a fattispecie di rinvio a giudizio – che hanno affermato principi garantistici contro i provvedimenti espulsivi dei lavoratori, intrapresi dalle aziende, costituiti dai licenziamenti per giusta causa ex art. 2119 c.c.
Non ci compete, in questa sede, prendere posizione sulla condivisibilità (o meno) – in punto di comune buon senso – in ordine ai corretti principi di diritto occassionati dalle due decisioni. Ci preme, invece, evidenziare oggettivamente i principi statuiti, ad evitare che direzioni aziendali – in buona fede ma con poca dimestichezza di diritto – adottino provvedimenti espulsivi a fronte di comportamenti dei lavoratori (sfociati sia in patteggiamento di condanna sia in rinvio a giudizio) con la sorpresa per le aziende, e con il fastidio per i ricorrenti, di  incorrere  nella loro invalidazione, a seguito di giudicati di merito o di legittimità.
 
2. La sentenza n. 6047 dell’aprile 2003
Esaminiamo, quindi, distintamente il contenuto delle due decisioni.
Nel caso sottoposto all’esame di Cass. 16 aprile 2003 n. 6047 – afferente alla rivendicazione di riconoscimento in capo ad un datore di lavoro, consulente del lavoro, di un rapporto di lavoro subordinato da parte di un supposto praticante – questo consulente del lavoro aveva in sede penale patteggiato una pena per supposta simulazione fraudolenta di dipendenza del ricorrente da altra ditta (mentre invece quest’ultimo accampava la dipendenza diretta dal consulente del lavoro, con un rapporto non già di praticantato ma di subordinazione vera e propria). Il ricorrente adduceva, nella richiesta di riesame da parte della Cassazione, che l’aver il consulente del lavoro (suo presunto datore di lavoro) patteggiato in sede penale una condanna al fine di sottrarsi alla diversa pena acclarabile per aver falsamente dichiarato che lo pseudo-dipendente era invece in organico presso altra ditta, costituiva “comportamento confessorio” dal quale il giudice doveva trarre concludenti convinzioni sia in ordine alla inattendibilità dei testi che erano stati escussi da parte del consulente del lavoro sia in ordine alla costituzione di un rapporto di lavoro con esso.
Prima di rassegnarne le conclusioni, ci sia consentito menzionare un precedente similare in tema di patteggiamento, costituito da una sentenza di merito che ha esaminato il caso di un lavoratore – dipendente a part-time verticale, 6 mesi all’anno – il quale nei 6 mesi liberi si era recato negli USA e qui (incappato in reato di detenzione di stupefacenti) aveva patteggiato una condanna, che il datore di lavoro italiano aveva utilizzato per licenziarlo, per infirmazione del rapporto fiduciario.  La sentenza in questione era stata duramente stigmatizzata in sede dottrinale, notandosi che il patteggiamento non costituiva affatto ammissione prodromica di colpevolezza (“nucleo minimo di colpevolezza dell’imputato”, diceva la sentenza in questione), ma costituiva solo una rinunzia alla difesa ed alla trattazione della causa al fine di beneficiare di una condizione di libertà, e, quindi, era  da considerarsi illegittimo e da ribaltare nel grado di appello, il licenziamento fondato sulla presunzione di colpa da patteggiamento.
Nella decisione della Cassazione n. 6067/2003, la Cassazione perviene alle stesse considerazioni critiche sopra enunciate e delinea compiutamente l’istituto del patteggiamento, quale misura deflattiva nel procedimento penale accompagnata da un supporto premiale per finalità di snellimento della giustizia. Essa giunge a negare che il patteggiamento costituisca ammissione di colpa in sede penale e che, pertanto, le risultanze possano essere utilizzate in sede civile o amministrativa – per qualsiasi conseguente effetto, ivi inclusa la procedura disciplinare sanzionatoria – in perfetta linea con il disposto dell’art. 445, 1 comma, c.p.p., secondo cui la sentenza applicativa della pena richiesta dalle parti “non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi”.
Il Consiglio di stato nella sua decisione del 12 dicembre 1997 n. 1416 (1) ha asserito – conformemente alla Cassazione – che la sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. “in quanto mancante di un effettivo accertamento dei fatti e tenuto conto della pena su richiesta concordata tra le parti non implica necessariamente un riconoscimento di colpevolezza, non costituisce sentenza di condanna”. E Cass. n. 6047/2003 reitera lo stesso concetto, affermando che: “Invero la sentenza con la quale il giudice applica all'imputato la pena da lui richiesta e concordata con il P.M., pur essendo equiparata a una pronuncia di condanna ai sensi e agli effetti di cui all'articolo 445, primo comma, c.p.p., non è, tuttavia, ontologicamente qualificabile come tale, traendo essa origine essenzialmente da un accordo delle parti caratterizzato, per quanto attiene l’imputato, dalla rinuncia di costui a contestare la propria responsabilità”...”In altri termini l'applicazione di pena su richiesta delle parti non comporta un accertamento positivo e costitutivo della responsabilità dell’imputato, ma soltanto la rinuncia di questa a far valere le proprie eccezioni e difese.
Ne consegue che non può farsi discendere dalla sentenza di cui all'articolo 444 c.p.p. la prova della ammissione di responsabilità da parte dell'imputato e ritenere che tale prova sia utilizzabile nel procedimento civile (v. Cass. pen., Sez. VI, 5 settembre 1995, n. 93321)”.
In buona sostanza  e riassuntivamente (per le ragioni che di seguito esporremo) nella giurisprudenza della Cassazione è prevalso l’orientamento che ha ravvisato la necessità, in altre sedi giurisdizionali, di un accertamento e di una valutazione autonomi, in ordine al fatto-reato oggetto della sentenza di patteggiamento, senza accordare automatica rilevanza a quanto riconosciuto in ambito penale.
La Corte costituzionale, intervenuta sul tema (2), ha sottolineato che la componente negoziale propria dell’istituto del patteggiamento è amplificata da un effetto saliente dell’accordo, rappresentato dalla “garanzia per l’imputato patteggiante che il suo diritto di difesa sarebbe rimasto integro in tutti i successivi giudizi (civili, amministrativi e disciplinari) nei quali il medesimo fatto avesse avuto rilievo”.
Come è stato rilevato, dei cinque riti alternativi, il patteggiamento è considerato il più flessibile in quanto applicabile in tutto il percorso del giudizio, dalle indagini preliminari all’apertura del dibattimento. Tale rito consiste in un procedimento speciale pre-dibattimentale  che si attiva con un accordo transattivo delle parti non solo sul rito, ma anche sulla pena da irrogare, e presuppone perciò, un’implicita ammissione di colpevolezza. Il fatto che possa essere richiesta tanto dall’imputato quanto dal p.m. o addirittura tramite una “richiesta  congiunta”, rivela già dei poteri negoziali in capo alle parti, circa la gestione della res iudicanda, sollecitati poi da forti incentivi premiali, tanto é vero che  la pena è “diminuita fino a un terzo” (articolo 444, comma 1°, c.p.p.).
L’oggetto di questa negoziazione può consistere in una sanzione sostitutiva, una pena pecuniaria o anche detentiva purchè, in tal caso (sola o congiunta alla pena pecuniaria convertita) non superi i due anni di arresto o di reclusione.
Tuttavia, nonostante i marcati tratti negoziali, l’accordo tra le parti non è sufficiente alla condanna: occorre che il giudice sulla base degli atti raccolti nelle indagini preliminari ritenga corrette la qualificazione giuridica del fatto, l’applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, nonché congrua la pena richiesta (articolo 444, comma 2, c.p.p.).
Va detto, infine, che la proposta unilaterale o congiunta, del pubblico ministero e dell’imputato, diventa irrevocabile una volta prodotta al giudice; la sentenza con cui quest’ultimo accoglie la richiesta è impugnabile solo in Cassazione, ossia, è sempre inappellabile, salvo che da parte del pubblico ministero il quale abbia opposto il suo dissenso.
Ne consegue, conclusivamente che, attesa la natura  non costitutiva di condanna della sentenza di patteggiamento, il giudice del lavoro non potrà fondare – come  sancito da Cass. n. 6047/2003 che ha rigettato il motivo avanzato dallo pseudo-dipendente dello studio di consulenza del lavoro (del tutto probabilmente tale, ma non comprovabile giuridicamente adducendo il patteggiamento del suo datore di lavoro) – sul patteggiamento né un riconoscimento di ammissione di un rapporto di lavoro subordinato, né (nel caso sopra trattato in congiunzione e per contiguità di problematica) la legittimazione al licenziamento per patteggiamento negli USA. Per pervenire a tali conclusioni, il giudice del lavoro dovrà  addossarsi l’onere – dietro altre e più consistenti prove – di un accertamento autonomo, diverso dall’infondata presunzione di colpevolezza riscontrabile nella sentenza di patteggiamento in sede penale.
 
3. La sentenza n. 13294 del settembre 2003
Con la sentenza 13294 del 10 settembre 2003, la Cassazione ha – similmente al caso precedente – negato che il “rinvio a giudizio” di un dipendente (già condannato in via non definitiva in primo grado, per reati estranei al rapporto di lavoro, consistenti in bancarotta fraudolenta, false comunicazioni sociali ed uso privato dei fondi sociali nella sua qualità di presidente di una cooperativa, sospeso cautelarmente dalla banca nella quale era in organico ed infine licenziato per pregiudizio all’immagine della stessa, tenuto altresì conto delle lungaggini processuali conseguenti al rinvio a giudizio, finalizzato all’emissione di una sentenza da passare in giudicato), costituisse legittimo titolo per la Banca alla rescissione del rapporto di lavoro per licenziamento per giusta causa ex art. 2119 c.c.
La vicenda si era svolta in quel di Messina, la condotta extralavorativa del dipendente era presuntivamente infamante – per gli addebiti mossegli e per la prima condanna ricevuta a 300.000 lire di multa e ad un anno di reclusione – ed era stata accompagnata da manifestazioni di soci contro l’interessato tenutesi  davanti alla sede della Banca dalle quali, indubitabilmente, era scaturito un danno d’immagine nel contesto cittadino.
La Banca si era avvalsa dell’istituto contrattuale della sospensione cautelare – tipizzato nell’art. 34 del ccnl del credito - che la contempla non necessariamente estesa a tutto il periodo dell’accertamento giudiziale, peraltro in forma retribuita (trattandosi di dispensa unilaterale dal lavoro) e con effetti di maturazione dell’anzianità ai fini legali e contrattuali, consentendone la durata per il tempo necessario ad acclarare i fatti ma non oltre il momento in cui sia divenuta irrevocabile la decisione del giudice penale. Avvalendosi della facoltà discrezionale di por fine alla sospensione cautelare, la Banca – resasi conto che la sospensione del processo avrebbe comportato un notevole allungamento dei tempi per la definizione della vicenda, con l’inevitabile deterioramento dell’immagine dell’istituto di credito – aveva provveduto alla risoluzione del rapporto  per giusta causa ex art. 2119 c.c., fondandola sul venir meno del rapporto fiduciario a seguito di rinvio a giudizio del lavoratore (colpevole secondo la banca, tra l’altro ed addizionalmente, di non aver portato a conoscenza, come disposto dal ccnl, un provvedimento dell’autorità giudiziaria a suo carico che la difesa del lavoratore aveva abilmente ritenuto “fatto non rilevante ai fini dell’attitudine professionale del dipendente” la cui cognizione per la  banca datrice di lavoro era inibita dall’art. 8 Stat. lav., oltreché dalla normativa sulla privacy).
La risoluzione era stata giustificata dalla banca sulla base di quell’orientamento giurisprudenziale che, pur assertore dell’irrilevanza  in astratto sul rapporto di lavoro di comportamenti tenuti dal dipendente nella vita privata, puntualizza che essi possono venire in rilievo “allorché abbiano natura e gravità tali da far ritenere il lavoratore professionalmente inidoneo alle peculiari mansioni da esso disimpegnate in azienda”.
La Cassazione censura le decisioni dei primi giudici che avevano avallato il licenziamento disciplinare, in quanto – senza aver svolto alcun accertamento giudiziale sulla veridicità e gravità dei fatti addebitati – si sono basati sulla presunta “responsabilità oggettiva della condotta del dipendente”, desunta dal rinvio a giudizio per i fatti pubblicamente emersi e sottoposti al vaglio del magistrato per una sentenza definitiva.
La Cassazione ha negato validità al licenziamento disciplinare adottato dalla Banca, formulando le seguenti statuizioni di principio: « l'avvenuta formulazione a carico del lavoratore di un'imputazione per reati connessi con il rapporto di lavoro non costituisce giusta causa di licenziamento, ove non sia anche dimostrata la colpevolezza del dipendente, anche perché il datore di lavoro, finché non sia fornita la prova degli addebiti contestati in sede penale, è sufficientemente tutelato dalla sospensione cautelare, da lui adottabile in base alla disciplina collettiva o nell'esercizio del potere direttivo e organizzativo (Cass. 21 marzo 1986 n. 2022, 19 maggio 1986 n. 3319, 21 ottobre 1987 n. 7778, 24 febbraio 1990 n. 1410, 22 marzo 1996 n. 2517)», aggiungendo che « il giudice davanti a cui sia impugnato un licenziamento disciplinare intimato per giusta causa a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore con l'imputazione di gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario ancorché non commessi nello svolgimento del rapporto, deve accertare l'effettiva sussistenza di fatti, riconducibili alla contestazione, idonei ad evidenziare, per i loro profili oggettivi e soggettivi, l'adeguato fondamento di una sanzione disciplinare espulsiva, mentre non può ritenere integrata la giusta causa di licenziamento sulla base del solo fatto oggettivo del rinvio a giudizio del lavoratore e di una ritenuta incidenza di quest'ultimo sul rapporto fiduciario e sull'immagine dell'azienda».
Nel rinviare per un nuovo esame alla Corte d’Appello di Catania, ha, conclusivamente, stigmatizzato – più che le deficienze del  comportamento aziendale -  la superficialità dei colleghi dei gradi inferiori, nella quale non è né saltuario né occasionale avere l’occasione di imbattersi.
 
Roma, dicembre 2003 (pubblicato in Consulenza, n. 42/2003, Buffetti ed.)
 
Mario Meucci
NOTE
(1) Trovasi, tra l’altro, in “Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni”, 1998,61.
(2) Trattasi di Corte cost. 10 luglio 2002, n. 394, in Giust. civ. 2002, I, 2377.

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