Discriminazione indiretta nella progressione di carriera delle lavoratrici  a part-time nell’istituto di credito IMI S.p.A (nota al testo del parere del Collegio Istruttorio del Comitato Nazionale Pari Opportunità del 30.11.1994)

 

NOTA

Per la rilevanza che il rapporto a tempo parziale riveste nel contesto lavorativo, si ritiene opportuno pubblicare qui di seguito, il parere - reso in data 30 novembre 1994 - del Collegio del Comitato Nazionale Pari Opportunità, costituito in seno al Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale.

Il collegio Istruttorio del Comitato precisato è espressamente previsto dall'art. 7 della L. n. 125/1991 (Azioni positive per la realizzazione della parità uomo - donna nel lavoro) e risulta così composto: a) dal vice Presidente del Comitato, che lo presiede; b) da un magistrato...fra quelli che svolgono funzioni di giudice del lavoro; c) da un dirigente superiore ...dell'Ispettorato del lavoro; d) da esperti in materie giuridiche...con competenze in materia di lavoro; e) dal consigliere regionale di parità.

Il parere che si riporta è stato notificato all'Azienda (in specie, Istituto Mobiliare Italiano S.p.A., Roma) e alle lavoratrici a tempo parziale alle dipendenze della stessa, le quali avevano sottoposto all'esame del Comitato Nazionale pari opportunità - dopo il rifiuto aziendale alle loro richieste - il riscontro della sussistenza di una supposta «discriminazione indiretta» concretizzata dal reiterato criterio (o prassi) adottato dall'IMI S.p.A. di «allungare», per i lavoratori part-time, i tempi contrattuali di progressione in carriera, definiti negli accordi sindacali vigenti dal 1981 in poi, in misura direttamente proporzionale al minor orario settimanale di lavoro rispetto ai prestatori d'opera a tempo pieno (25 ore settimanali part-time, contro le 37,30 ore a tempo pieno).

E tale «prolungamento» - ai fini di maturare il grado di Capo reparto, Vice Capo Ufficio, Capo Ufficio, Quadro e Quadro super - si addizionava alla corrispettiva decurtazione proporzionale della retribuzione, in ragione del ridotto orario lavorativo.

Le lavoratrici ( che costituivano, con la sola eccezione di un maschio, la totalità dei fruitori del part-time in IMI) sostenevano che la prassi di c.d. «riproporzionamento al rialzo» dei tempi per l'acquisizione dei gradi e qualifiche impiegatizie superiori - pur presentandosi apparentemente come un criterio neutrale - finiva, in fatto, per produrre effetti proporzionalmente più svantaggiosi e pregiudizievoli per il «gruppo» delle lavoratrici di sesso femminile, strutturante la quasi totalità dei lavoratori a tempo parziale per intuitive ragioni socio-familiari.  Il criterio del «prolungamento» era, oltretutto, non «essenziale» ai fini della maturazione della professionalità necessaria all'avanzamento nei gradi della carriera impiegatizia, stante l'invarianza qualitativa delle mansioni disimpegnabili nei superiori gradi acquisibili e la sufficienza dell'esperienza maturata in ragione della prestazione per 5 ore continuative giornaliere ( in luogo delle 7,30 dei lavoratori full-time).

Adducevano, pertanto, le lavoratrici che si era concretizzata a loro danno la fattispecie della «discriminazione indiretta» per ragioni di sesso nella progressione di carriera, di cui all'art. 4, comma 2, L. n. 125/ 1991 in congiunzione alla violazione dell'art. 3, comma 1, L. n. 903/ 1977 di c.d. «parità uomo-donna».  In tale convincimento erano confortate da una decisione della Corte di giustizia C.E.E., resa in una controversia attivata da una lavoratrice part-time (sentenza 7 febbraio 1991, causa 189/89, Helga Nimz c. Freie und Hansestadt di Amburgo, in Rass. giur.  Corte giust.  Cee, 1991,I,297) ove l'Alta Corte aveva riconosciuto l'illegittimità del computo «in termini ridotti» (rispetto ai lavoratori full time) della di lei anzianità di servizio si fini della progressione economica di carriera ed aveva disposto, in via sanzionatoria, la parificazione dei criteri di computo della sua anzianità di servizio con quelli adottati per i lavoratori a tempo pieno.  Il Collegio istruttorio del Comitato Nazionale Pari Opportunità, insediato presso il Ministero del lavoro, preso atto delle rivendicazioni e delle considerazioni delle lavoratrici part-time dell'IMI, sentiti in una specifica audizione i competenti incaricati aziendali della gestione delle risorse, per le necessarie controdeduzioni, accoglieva - nel parere sotto riportato - le richieste delle lavoratrici, in ragione del riscontro della fattispecie della «discriminazione indiretta» nella prassi aziendale di «prolungamento» dei tempi contrattuali per l'avanzamento nei gradi impiegatizi ed alla qualifica di Quadro.

Al riguardo il Collegio rilevava - per tali lavoratrici part-time (svolgenti due terzi dell'orario giornaliero) - la non «essenzialità» del requisito del disimpegno temporale integrale, massimo, full time (e del conseguente criterio del «prolungamento» dei tempi contrattuali, per gli addetti part-time), ai fini dell'acquisizione della professionalità necessaria alla progressione in carriera, adeguatamente garantita o non pregiudicata dalla modesta riduzione di un terzo della prestazione oraria normale; riduzione destinata a sfumare ed a perdere rilevanza negli archi temporali pluriennali convenuti in sede sindacale per la progressione di carriera (nel caso di mansioni di lett. b, 2 anni per acquisire il grado di Capo Reparto, più ulteriori 2 anni per Vice Capo ufficio, più altri 4 anni per Capo Ufficio, più altri 3 anni per la qualifica di Quadro, più un altro anno per Quadro super).  Ove, peraltro, la proficuità dell'esperienza maturata nel disimpegno delle mansioni risultava acclarata dalle positive «note di qualifica», attribuite dall'IMI S.p.A. alle lavoratrici, in base alle prescrizioni del CCNL dei settore credito.

All'invalidazione della prassi si coniugava la dichiarazione dei diritto delle lavoratrici - per il passato e per il futuro - a vedersi ricostruiti, ed a conseguire, i vari steps di progressione di carriera negli stessi tempi contrattuali dei lavoratori full time, secondo una tecnica sanzionatoria ormai consolidata.

Sulla tematica specifica si rinvia, in dottrina, a BALLESTRERO, La nozione di discriminazione nella legge 125/1991, in Riv. crit. dir. lav. 1992,773; SCARPONI, Le nozioni di discriminazione, in GAETA E ZOPPOLI (a cura di), Torino 1992, 43; EADEM, Criteri obiettivi di selezione e valutazione del personale e discriminazione indiretta, in Le discriminazioni di sesso nei rapporti di lavoro, in Quad. dir. lav. rel. ind., Torino 1990, 49; TATARELLI, La donna nel rapporto di lavoro, Padova, 1994, 46 e ss.

In un'ottica di ricondizionamento, in favore delle esigenze dell'impresa, delle impostazioni della dottrina prevalente, BASENGHI, Note in tema di discriminazione indiretta, in Il lavoro nella giurisprudenza, n. 12/ 1994, 1225.

 

mario meucci

 

TESTO DEL PARERE DEL COLLEGIO ISTRUTTORIO EX ART. 7, L. N. 125/1991.

Lavoro a tempo parziale, progressione di carriera, discriminazione.

 

1. OGGETTO DELLA CONTROVERSIA

 

Le dipendenti dell'IMI lavorano a tempo parziale, secondo l'orario giornaliero di 5 ore (orario normale 7,30 ore) per cinque giorni settimanali.  Esse lamentano che sia stata data un'errata applicazione alle previsioni contenute nel contratto aziendale che regolamentano l'accesso alle qualifiche di vice capoufficio e capoufficio (cia 1981) e di quadro e quadro super (cia 1988).

I requisiti richiesti per l'accesso alla qualifica di vice capufficio consistono da un lato nell'acquisizione di esperienza nello svolgimento di alcune mansioni, specificate dallo stesso contratto e propri del livello di appartenenza, per periodi di durata fra i 3 e i 4 anni, a seconda del tipo di mansioni individuate dallo stesso contratto aziendale nella «nota a verbale»; d'altro lato nella maturazione di un'anzianità minima nella qualifica immediatamente inferiore (rispettivamente di 18 mesi e di 2 anni).  Per la promozione alla qualifica di capufficio sì prevede il possesso della qualifica di vice capufficio e l'ulteriore svolgimento delle stesse mansioni per ulteriori periodi rispettivamente di 1 anno e 4 anni, e l'essere in grado di svolgere in piena autonomia compiti di più rilevante o significativo contenuto professionale.

Per la promozione al livello di quadro si prevede lo svolgimento delle mansioni previste per il grado di CU per un ulteriore periodo di 3 anni, in piena autonomia e con riconosciuto merito, e per la promozione al livello di quadro super un ulteriore anno di proficua esperienza nelle stesse mansioni di quadro.

Tali previsioni non contengono alcuna specificazione rispetto allo svolgimento di lavoro a tempo parziale.

Le dipendenti con tale regime di orario si sono viste applicare una condizione ulteriore, al fine della promozione, ovvero il prolungamento del periodo previsto in misura proporzionale al minor numero di ore prestate, considerate valide solo al 67%.

Esse hanno contestato la correttezza di tali prassi, facendo rilevare che la loro prestazione, sotto il profilo del contenuto, dell'impegno professionale, dei risultati raggiunti (attestati dalle note di qualifica) equivale a quella di chi svolge lavoro a tempo pieno. Non si giustifica pertanto, a loro avviso, alcuna distinzione rispetto al trattamento riservato ai dipendenti a tempo pieno, salvo naturalmente il riproporzionamento della retribuzione secondo il principio di corrispettività.

Ad ulteriore sostegno della loro tesi ricordano che la disciplina prevista dal contratto nazionale di categoria in materia di lavoro a tempo parziale (art. 5, ccnl settore del credito, finanziario etc.) equipara la anzianità rispetto ai dipendenti a tempo pieno ai fini del calcolo di vari istituti (malattia, ferie, preavviso, scatti) tra cui la progressione automatica di carriera disciplinata dallo stesso contratto collettivo.

Negano inoltre che possa loro applicarsi la previsione contenuta nella stessa disciplina che prevede il riproporzionamento dell'anzianità per gli istituti diversi da quelli menzionati (art. 5., ult. comma) in quanto, da un lato, tale clausola riguarderebbe esclusivamente gli istituti disciplinati dallo stesso contratto nazionale (es. premi connessi al raggiungimento di una determinata anzianità) e non sarebbe estendibile al contratto aziendale in mancanza di specifico richiamo; d'altro lato tale clausola, se interpretata nel senso voluto dall'azienda, si porrebbe comunque in contrasto con il divieto di discriminazione, secondo i principi contenuti in una sentenza della Corte di Giustizia (Nimz, 1991).

Secondo la società datrice di lavoro, al contrario, proprio quest'ultima clausola, legittima il trattamento riservato alle lavoratrici, tenuto conto altresì che il riconoscimento del grado di esperienza raggiunto non consiste soltanto nelle note di qualifica, ma in un ulteriore specifico giudizio sul merito lavorativo del soggetto (lett.  IMI 30/ 9193).  Pertanto, ad avviso dell'IMI si è data corretta applicazione alla disciplina contrattuale complessiva, a nulla rilevando che la differenza di trattamento comporti effetti pregiudizievoli per le lavoratrici.

 

2. VALUTAZIONE DELLA QUESTIONE SOTTO IL PROFILO DELLA DISCRIMINAZIONE INDIRETTA

 

Il Collegio istruttorio è invitato a valutare la eventuale sussistenza di una discriminazione indiretta ai sensi dell'art.4, comma2, L. n. 125.  La nozione contenuta nella norma citata ha un rilievo preminente nella tutela antidiscriminatoria, in quanto consente di reprimere ì fenomeni di discriminazione connessi all'applicazione di criteri apparentemente neutri, e dunque formalmente ineccepibili, che tuttavia provochino un impatto sproporzionalmente più sfavorevole nei confronti dei lavoratori dell'uno o dell'altro sesso, a meno che non riguardino requisiti essenziali all'attività lavorativa.  Si prendono in considerazione in tal modo i trattamenti che producono una disparità di effetti, pregiudizievoli nei confronti delle lavoratrici, in violazione del principio di parità fra uomini e donne, e con l'obiettivo di realizzare la piena eguaglianza formale e sostanziale a favore delle lavoratrici, secondo l'enunciato contenuto nell'art. 1 della legge.  Proprio in virtù del collegamento strumentale con tali principi costituzionali la corte costituzionale (sent. n. 163/93) ha confermato la legittimità della nozione di discriminazione indiretta.  Prima di esaminare la fattispecie sottopostaci, occorre sottolineare che la giurisprudenza comunitaria ha elaborato la nozione di discriminazione indiretta con particolare riferimento al principio della parità retributiva. nonché ai regimi applicati alle lavoratrici a tempo parziale.  Essa costituisce quindi un punto di riferimento importante per la valutazione del caso.  In più occasioni essa ha ribadito il principio secondo cui, essendo il rapporto a tempo parziale un istituto che viene applicato per la stragrande maggioranza alle donne, le differenze di trattamento che lo caratterizzano devono essere considerate con particolare rigore, in quanto suscettibili di configurare forme indirette di discriminazione.

Nella sentenza richiamata anche dalle lavoratrici (Nimz, 7/2/91), la Corte ha esaminato un caso attinente alla materia delle progressioni di carriera fondato su di un sistema semi - automatico in base all'anzianità, disciplinato dalla contrattazione collettiva.  In quel caso, le lavoratrici a tempo parziale con orari pari ai due terzi erano parificate al regime di orario normale, mentre per le altre si prevedeva un periodo di tempo proporzionalmente più lungo per la maturazione dell'anzianità necessaria.  La Corte di Giustizia ha affermato in primo luogo il principio secondo il quale la elevata percentuale delle dipendenti a tempo parziale comporta la necessità di valutare se le differenze di trattamento siano obiettive ed estranee ad ogni discriminazione di sesso.  Inoltre. secondo un orientamento consolidato, afferma la irrilevanza della fonte negoziale collettiva ai fini del sindacato giudiziale.  Infine, sul merito della questione ritiene non sufficienti, in via generale, le giustificazioni della parte datoriale circa la maggiore esperienza e maggiori capacità conseguite dai lavoratori a tempo pieno.  Secondo la Corte le osservazioni in proposito costituiscono semplici generalizzazioni formulate per intere categorie di lavoratori, e non consentono dì evincere criteri obiettivi e soprattutto estranei alla discriminazione di sesso.

Secondo tale principio, spetta poi ai giudici nazionali valutare se e in qual misura una regolamentazione quale quella ricordata sia obiettiva e non discriminatoria, in relazione alla particolare natura della prestazione e al tipo di esperienza che l'esercizio delle mansioni fa acquisire dopo un certo numero di ore di lavoro.  Nel caso, la Corte enuncia anche il principio secondo il quale il rimedio applicabile consiste nella parificazione del trattamento riservato alle lavoratrici rispetto a quello dei dipendenti a tempo pieno, secondo il criterio dell'eguagliamento delle posizioni lese a quello più vantaggioso previsto per i dipendenti in maggioranza uomini ai sensi dell'art. 119 Trattato CEE.

Dalla sentenza citata si ricava pertanto la doverosità dì apprezzare nel caso concreto, al di fuori di aprioristici e generalizzati riferimenti alla maggiore esperienza e capacità derivanti dalla maggiore anzianità di lavoro, se la differenza di trattamento applicata alle lavoratrici a tempo parziale sia compatibile con il divieto di discriminazione, a seconda del tempo di esperienza richiesto e raggiunto per ciascuna mansione ai fini della progressione di carriera.

Tenuto conto della sentenza citata e della disciplina legislativa di cui all'art. 4 L. n. 125, alcuni elementi costitutivi della fattispecie in esame appaiono di agevole inquadramento.  In particolare:

a)        la natura di "trattamento" rivestita dalla prassi applicativa seguita dall'IMI nei confronti delle lavoratrici a tempo parziale, in quanto rientrano nell'ambito considerato dalla legge tutti gli aspetti rilevanti del rapporto di lavoro;

b)    la sussistenza di effetti sproporzionalmente più svantaggioso nel confronti delle lavoratrici, a parità di mansioni con i dipendenti di sesso maschile.

Ciò risulta dai dati statistici richiamati dalle lavoratrici, e non smentiti dall'IMI, secondo i quali il 98% dei dipendenti che lavorano a tempo parziale sono donne.  Tale elemento dì fatto costituisce un fattore probatorio di indubbia rilevanza, codificato secondo la nuova disciplina di cui all'art. 4, comma 6, proprio al fine di ricostruire l'impatto differenziato su cui si fonda la nozione di discriminazione indiretta.  In proposito, secondo l'orientamento dominante sia in giurisprudenza (Corte Cost. n. 163/93) e in dottrina (BALLESTRERO 1991, BARBERA 1994, SCARPONI 1992, TREU 1991) e già applicato da un parere reso da questo stesso Comitato, l'accertamento degli effetti sfavorevoli in modo sproporzionate nei confronti di uno dei due generi deve essere operato in concreto sulla base della situazione in cui si trovano i soggetti che lamentano il danno subito;

c)    la irrilevanza del fatto che tali effetti dipendano da disciplina di fonte collettiva. Ciò alla luce della portata imperativa del precetto antidiscriminatorio, e della nozione oggettiva accolta dalla definizione contenuta nell'art. 4, nonché di fatto che le clausole dei contratti collettivi, anche se in astratto appaiono corretti, possono produrre effetti discriminatori con riferimento alla situazione concreta in cui versano le lavoratrici nei singoli contesti aziendali.

Sotto tale profilo, di conseguenza, è infondata la pretesa dell'IMI di considerare comunque legittima la prassi applicativa sulla base della clausola del c.c.n.l. che ammette in alcuni casi il prolungamento dell'anzianità per i dipendenti a part-time (art. 5, ult. comma citato).  A prescindere dall'interpretazione di tale clausola e dal suo ambito applicativo (se cioè si riferisca esclusivamente agli istituti disciplinati da quel contratto o se si estenda anche a quelli introdotti dai contratti aziendali) l'elemento determinante è costituito dal fatto che il regime riservato ai dipendenti a tempo parziale, in questo caso, determina effetti sproporzionatamente più sfavorevoli nei confronti delle lavoratrici.

Occorrerà quindi valutarne la portata discriminatoria e procedere all'accertamento circa la eventuale "essenzialità" del requisito richiesto allo svolgimento dell'attività lavorativa.

 

                3.        INSUSSISTENZA DI UN REQUISITO ESSENZIALE ALL'ATTIVITA’ LAVORATIVA

 

Va preliminarmente rilevato come la dottrina e la giurisprudenza prevalenti considerino l'onere probatorio circa la natura essenziale del requisito a carico del datore di lavoro, come conseguenza necessaria della struttura tipica della fattispecie di discriminazione indiretta.  Tale regole è del resto codificata anche dall'art. 4, L. n. 125, comma 5. Spetta pertanto al datore di lavoro l'onere di provare che la differenza di orario riveste una tale pregnanza da costituire un requisito essenziale per lo svolgimento dell'attività lavorativa e da giustificare di conseguenza il prolungamento del periodo necessario per l'acquisizione del grado o qualifica superiore.

Già in questa fase è possibile tuttavia formulare alcune valutazioni, per completare il quadro degli elementi di fatto che conducono alla ricostruzione complessiva del caso sottoposto al giudizio del Collegio Istruttorio . A tal fine sono utili i dati forniti dalla documentazione allegata dalle lavoratrici circa le modalità del loro lavoro, le osservazioni formulata dall'IMI, e l'istruttoria già compiuta dal Collegio.  E' stata inoltre effettuata un'apposita audizione dei rappresentanti dell'IMI.

In base ai dati emersi si possono sottolineare alcuni fattori rilevanti al fini della valutazione del caso, secondo i principi legislativi.

Al riguardo, la scelta del termine"essenziale allo svolgimento dell'attività lavorativa" è volutamente restrittiva ed esclude che possono essere considerate sufficienti mere esigenze obiettive dell'impresa o di maggiore proficuità della prestazione, trattandosi piuttosto di accertare se i requisiti richiesti, e produttivi di effetti sproporzionalmente più sfavorevoli nei confronti di uno dei generi, siano davvero indispensabili per lo svolgimento dell'attività lavorativa.  La disciplina italiana è infatti più precisa di quanto non sia lo stesso diritto comunitario, che pure, come si ù visto analizzando la sentenza della Cotte di giustizia, non considera giustificazione legittima quella riferita alla maggiore esperienza derivante dallo svolgimento delle mansioni quale criterio generalizzato per il prolungamento dell'anzianità.

Nel caso in esame, già secondo tale criterio interpretativo sorgono forti dubbi di illegittimità della prassi aziendale denunciata dalle lavoratrici, trattandosi di un regime applicato in via generale per intere categorie di lavoratori (rectius lavoratrici) senza alcuna specificazione o articolazione.

Ma ancor più illegittima risulta tale prassi secondo il parametro di "essenzialità"definito dall'art. 4. Dalle circostanze addotte, infatti, il minor numero di ore lavorative non appare tale da pregiudicare irrimediabilmente lo svolgimento della prestazione.  Si consideri infatti che:

a)        le lavoratrici svolgono un orario pari ai due terzi di quello normale e la esperienza comunque richiesta secondo la disciplina contrattuale copre un arco pluriennale;

b)        la progressione di carriera, nello specifico contesto aziendale, si basa sullo svolgimento delle stesse mansioni, individuate dal contratto aziendale, in cui le lavoratrici acquisiscono maggiore professionalità e responsabilità autonoma, come si evince dalla relativa disciplina sia per gli impiegati (CR VCU e CU, secondo il contratto aziendale 1981 art. 1 e 2) sia per i quadri e i quadri super (contratto aziendale 1988, cap. 1, art. 2 e 3).

Il grado e la qualifica superiori quindi non determina modifiche apprezzabili nella gamma di mansioni loro attribuite.

c)        la disciplina contrattuale non considera quale parametro necessario lo svolgimento effettivo ed ininterrotto delle mansioni per un numero minimo di ore, ma, come si è già sottolineato, l'esperienza accumulata in un certo periodo;

d)        il giudizio ulteriore, a cui secondo l'IMI vengono sottoposti i dipendenti prima dell'attribuzione del grado o qualifica superiore, viene realizzato dopo che comunque sono stati prolungati i termini del calcolo secondo le percentuali di riproporzionamento come è stato confermato dai rappresentanti dell'azienda.

Il giudizio comunque non è condizione prevista dai contratti integrativi aziendali.  Solo per l'accesso alla qualifica di quadro il contratto prevede lo svolgimento per un periodo ulteriore di 3 anni dei compiti contemplati per l'attribuzione del grado di capo-ufficio in piena autonomia e con riconosciuto merito.  Ma appunto di "merito" si tratta, e di conseguenza non si vede per quale motivo non possa essere valutato a tal fine il conseguimento di positive note di qualifica, che le lavoratrici possiedono;

e)    le lavoratrici a tempo parziale sono tutte donne, ad eccezione dì un caso recente, e la attività a tempo parziale si prolunga per un minimo di un anno, rinnovabile;

f)     le mansioni finora attribuite consistono in quelle, meno qualificate professionalmente, di cui alla lett. b) del CIA.

Alla luce di tali circostanze la progressione di carriera risulta fondata su un sistema semiautomatico, che presuppone da un lato una certa anzianità nel grado di inquadramento immediatamente inferiore, l'acquisizione di esperienza commisurata a periodo medio-lunghi di tempo tale da rendere il lavoratore in grado di svolgere le stesse mansioni a un adeguato livello di autonomia e responsabilità,e un giudizio formulato sulla base della segnalazione positiva del superiore.

Sembra da escludere pertanto che l'orario più ridotto seguito dalle lavoratrici comporti un tale gap di professionalità da essere considerato essenziale ai fini dell'attività lavorativa e imporre il prolungamento riproporzionato della durata prevista contrattualmente. Del resto è ormai acquisito che il rapporto a tempo parziale non si differenzia sotto il profilo della professionalità dai rapporti a tempo pieno.  La diversità della durata della prestazione non influisce sulle caratteristiche fondamentali del rapporto di lavoro, cui in via di principio si applica la stessa disciplina prevista per i dipendenti a tempo pieno, salvi ovviamente i riproporzionamenti retributivi derivanti dal minor numero di ore prestate.

L'ulteriore accertamento sul merito delle lavoratrici non ha rilevanza né sotto il profilo ricostruttivo, per le ragioni già viste, né sotto il profilo dei rimedi.

Né avrebbe pregio l'obiezione che in tal modo si avvantaggerebbero le lavoratrici a tempo parziale rispetto agli altri lavoratori.  Va ricordato infatti che si verte nell'ambito della disciplina inderogabile di legge ancorata al principio di non discriminazione, definito nei termini già visti, e improntato alla realizzazione dell'eguaglianza sostanziale tra uomini e donne.  In tale visione il rapporto di lavoro a tempo parziale ha una connotazione particolare, in quanto è uno degli strumenti più utilizzati per rendere possibile l'armonizzazione della vita familiare e professionale nei confronti delle donne.

La sua disciplina deve essere pertanto improntata a tale precetto fondamentale sancito anche dall'art. 37, comma 1, Cost.

Alla luce dell'istruttoria compiuta e delle osservazioni svolte, la prassi aziendale denunciata dalle lavoratrici appare discriminatoria e in contrasto con l'art. 4, comma 2, L. n. 125, nonché con l'art. 3, comma I. L. n. 903177 circa il divieto di discriminazione nella progressione di carriera.  Ad esse spetta di conseguenza, per il passato e il futuro, il riconoscimento dei gradi e qualifiche superiori, e dei corrispondenti livelli retributivi, negli stessi tempi previsti per i lavoratori a tempo pieno.

 

(pubblicato in Lavoro e previdenza Oggi, n.2/1995, p. 386 e ss.)

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