La parità di trattamento (nuovamente negata dalla Cassazione)
sommario:
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1.
Premessa
E’ dovere dello scrivente -
sebbene dissenta dalle affermazioni giurisprudenziali che si appresta ad illustrare
- documentare i lettori anche su quelle sentenze di carattere restauratore,
tramite cui si attualizzano regressioni nel cammino verso l’affermazione dei
principi di trasparenza, correttezza e
pari dignità in seno alle aziende, com’è il caso della seconda sentenza delle sezioni unite della Cassazione n. 4570 del 17.5.1996
(1)che, a distanza di tre anni dalle conformi Cass. sez. un. n. 6030 - 6034 del
29.5.1993 (2), si è riproposta di richiamare all’ordine le dissenzienti e non
uniformi decisioni della sezione lavoro della Suprema corte.
Compito nostro è infatti anche
quello di informare – oltre che di prendere posizione in adesione o dissenso da
certi orientamenti - i lavoratori, allo scopo di metterli in guardia
dall’intraprendere azioni giudiziarie che, alla distanza, possono risolversi in
clamorosi insuccessi, in ragione di orientamenti consolidati a livello delle
più elevate giurisdizioni.
2. L’orientamento giurisprudenziale prima di
Corte Cost. n. 103/1989
Prima della sentenza della
Corte costituzionale n. 103 del 1989 (3), la giurisprudenza unanime della Corte
di cassazione a sezioni unite era
consolidata nel senso che nel nostro ordinamento giuridico non esiste un
principio generale di parità di trattamento nei negozi intersoggettivi privati,
tale da precludere all’autonomia collettiva o individuale la possibilità di
determinare, aldilà di certe condizioni minime garantite dall’art. 36 Cost. e
salvo limiti particolari, differenziate posizioni retributive e tale, quindi,
da imporre l’attribuzione di un identico trattamento economico, a parità di
qualifica o di mansioni, a tutti i lavoratori dipendenti da una stessa impresa.
Secondo tale pregressa
giurisprudenza (ora resuscitata), il principio di parità di trattamento non ha
alcun sostegno nelle fonti legislative, anche di diritto comunitario e
internazionale, recepite dall’ordinamento italiano e non è in particolare
deducibile nè dall’art. 36 Cost. (che si limita a fissare il criterio della
proporzionalità ed adeguatezza della retribuzione, prescindendo da ogni
comparazione intersoggettiva) nè dall’art. 3 Cost. (che stabilisce soltanto
l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma non certo nell’ambito dei
rapporti privatistici, quali appunto i rapporti di lavoro privato).
3. La posizione di Corte cost. n. 103/1989
Questa costante giurisprudenza
comincia ad essere posta in discussione dopo la sentenza 9 marzo 1989 n. 103 della Corte costituzionale. Con tale
pronuncia interpretativa di rigetto viene dichiarata non fondata, in riferimento
all’art. 41 Cost., la questione di legittimità costituzionale di una serie di
articoli del codice civile, nella parte in cui non consentono all’imprenditore
di attribuire ai dipendenti, a parità di mansioni e nello stesso reparto,
diversi livelli o categorie generali di inquadramento retributivo.
La Corte costituzionale, dopo
aver ricordato i divieti per il datore di lavoro di atti discriminatori (ivi compresi i trattamenti di miglior
favore), nell’impiego del lavoratore, nell’organizzazione del lavoro e nella
gestione del rapporto e specificatamente nell’assegnazione di qualifiche e
mansioni, sviluppa illuminanti considerazioni. Nella sostanza dopo aver
riepilogato i limiti legali al potere organizzativo dell’impresa ed i
correlativi diritti dei lavoratori discendenti da principi costituzionali e da
norme ordinarie, asserisce che le differenziazioni di trattamento (es.
retributivo o d’inquadramento) tra gli stessi, a parità di mansioni, “sono
tollerabili ...semprechè siano giustificate e comunque ragionevoli”, alla
stregua della nostra Carta costituzionale e della legislazione ordinaria. Pur
non toccando direttamente nè esplicitamente smentendo l’orientamento prevalente
della Cassazione circa l’inesistenza di un principio paritario nei rapporti
interprivati, la Corte costituzionale introduce robuste crepe in questa
cementata costruzione. Infatti - recependo le più nobili istanze della
coscienza sociale e democratica - finisce per ancorare la liceità dei
trattamenti categoriali e retributivi differenziati - a parità di mansioni e di
posizione di lavoro - alla loro “giustificatezza e razionalità”. Cioè a
dire, in buona sostanza, li ritiene “tollerabili” (tale è l’aggettivo
usato) al ricorrere di motivate e giustificabili causali meritocratiche,
riposanti sulla più elevata professionalità, competenza o rendimento, idonee a
consentirne l’attribuzione in capo ai beneficiati e a precluderli nei confronti
degli esclusi, al ricorrere delle cui causali gli stessi restano privi di un
fondato diritto di reclamo o di rivendicazioni giudiziali.
Le affermazioni della Corte
costituzionale vennero interpretate nel senso dell’introduzione di un principio
di parità di trattamento, sia in dottrina sia da parte di diverse decisioni
della sezione lavoro della Cassazione. Nutriti e frontali vennero, tuttavia,
gli attacchi naturalmente da parte di coloro che si erano fatti sostenitori (o
erano ideologicamente schierati a favore) del convincimento di un’illimitata
libertà di azione dell’impresa nella gestione dei rapporti di lavoro. Si giunse,
dimentichi che ogni comportamento è soggetto ad un giudizio quantomeno etico,
inverecondamente a dire (4) che: a) l’imprenditore non è assolutamente tenuto
“a dichiarare i criteri che assume per determinare i trattamenti di favore”;
b) che, con le proprie sostanze “è perfettamente libero (anche) di
sbagliare, concedendo un trattamento più favorevole a chi non lo merita”.
Infine, nel lasciare per tal via ampio spazio ai trattamenti più favorevoli
anche (e spesso) di natura clientelare, di cordata o correntizia, rapito da una
visione idilliaca della gestione dei rapporti di lavoro nell’impresa,
affermava:” Le regole vengono sempre richieste da chi, non riuscendo a
conquistarsi il miglioramento, trova comodo immaginare congiure ed attribuire
ai compagni di lavoro - che sono riusciti (con quali mezzi?, n.d.r.)
dove egli non è stato capace - i peggiori compromessi, pur di non ammettere che
sono professionalmente migliori di lui”. Dove le (avversate) regole
garantiste richieste dalla Corte costituzionale, erano, per l’appunto,
finalizzate non già alla burocratizzazione del rapporto di lavoro ma alla
garanzia civile del rendere trasparente il modo in cui i beneficiari dei
miglioramenti o dei superiori inquadramenti, a parità di mansioni, erano
“riusciti” a “conquistarseli”.
4. L’intervento restauratore di Cass. sez. un n. 6030/1993
e i perduranti dissensi della sezione lavoro
Secondo la regola che più in
alto si arriva e più al vecchio ci si rimette, più si è sicuri di incontrare
l’avversione al nuovo e di realizzare la restaurazione di ataviche concezioni,
della questione vennero investiti i vegliardi giudici delle sezioni unite della
Cassazione che con le decisioni n. 6030 - 6034 del 1993, statuì che gli art. 3
e 41 della Cost. non possono considerarsi - pur dopo Corte cost. n. 103/1989 -
come precetti idonei a fondare un principio di comparazione soggettiva fra i
lavoratori, alla stregua dei quali coloro che svolgono identiche mansioni
abbiano diritto all’attribuzione della stessa retribuzione o del medesimo
inquadramento. Non si riscontrano, infatti, nella Costituzione e nella
legislazione ordinaria, norme imperative che accolgano la regola della parità
di trattamento economico e normativo, con particolare riguardo ai lavoratori
subordinati.
Le norme della legislazione
speciale, soprattutto dello Statuto dei lavoratori - asserirono le sezioni
unite - sanciscono il divieto di atti discriminatori, che si caratterizzano per
l’illiceità del motivo, consistenti della diversificazione del trattamento di
soggetti che (per sesso, lingua, religione, motivi politico-sindacali, ecc.)
versano in una situazione di particolare debolezza. Solo tali diversificazioni,
il cui onere probatorio dell’essere discriminatorie incombe sul lavoratore,
sono vietate dal nostro diritto positivo.
Nè è possibile invocare, al
fine di affermare la sussistenza di una parità di trattamento, l’esigenza di
tutela della dignità umana - proseguono le sezioni unite - in quanto la stessa
non può farsi dipendere dalle condizioni di trattamento economico, ove non si
intenda erroneamente ravvisare nella retribuzione l’oggetto di un diritto
assoluto della personalità. Ai sensi dell’art. 41 Cost., soltanto la legge e
non anche il giudice può imporre limiti
all’autonomia privata per la realizzazione di interessi socialmente
rilevanti. In mancanza, il datore di lavoro - sono sempre le sezioni unite che
parlano - può esplicare il suo potere discrezionale di trattamento dei
lavoratori nei limiti stabiliti dalle norme di legge e dalle disposizioni dei
contratti collettivi.
Nè deve sottostare
all’obbligo di uguale trattamento dei dipendenti secondo un parametro di
ragionevolezza, che si palesa contraddittorio con la sua libertà di valutazione
e decisione ed apre la strada ad un inammissibile potere del giudice di
esercitare il suo controllo di opportunità sul contenuto delle determinazioni
adottate dai privati.
In ordine al controllo di
ragionevolezza degli inquadramenti definiti pattiziamente dall’autonomia
collettiva, le sezioni unite rilevano che la dinamica contrattuale complessiva
- sottoposta talora anche a lacerazioni - ben difficilmente è ricostruibile a
posteriori in un giudizio di razionalità, per i quali sono parzialmente
noti al magistrato gli elementi di fatto ai fini di una corretta valutazione.
Non mancherà il lettore di
rilevare quanto siano carenti di
modernità di vedute e di rispetto
dell’esigenza della trasparenza queste considerazioni formalistiche, viziate
altresì di contraddittorietà quando - in assenza di determinazione contrattuale
del periodo di comporto per le malattie plurime - le stesse sezioni unite della
Cassazione hanno invece, nell’interesse datoriale al licenziamento dei
lavoratori, legittimato l’intervento creativo del giudice per determinare gli archi temporali o c.d.
limiti “interno” ed “esterno” (non
precisati o non voluti dalle parti, a differenza di quelli per la malattia
unitaria ed ininterrotta) entro cui stabilire un limite di tolleranza per le
malattie intermittenti. In questo caso, e del tutto singolarmente, le sezioni unite
della Cassazione non si sono poste il problema della lesione dell’autonomia
collettiva!
Per queste ed
altre ragioni numerose decisioni della
sezione lavoro si discostavano dal pensiero delle sezioni unite (ispirato
all’affermazione del principio di nomofilachia
o di uniformità delle decisioni)
statuendo in particolare che l’attribuzione - anche da parte della
contrattazione collettiva - di differenze retributive a parità di mansioni,
comportava violazione dei principi di correttezza e buona fede, ove il datore
di lavoro non giustificasse o motivasse tali differenze (5), nonchè conseguenze di tipo risarcitorio a favore
dei lavoratori nei cui confronti il differenziato trattamento non risultasse
ispirato ai precitati criteri di ragionevolezza.
5. Il secondo intervento restauratore di
Cass. sez. un. n. 4570/1996
A comporre il dissenso
intervengono, a distanza di 3 anni, di nuovo i giudici delle sezioni unite
della Cassazione, con la decisione n. 4570 del 17.5.1996. Il loro pensiero -
riassertore dell’inesistenza di un principio di parità di trattamento e della
piena discrezionalità datoriale in materia di gestione del rapporto di lavoro
(ove non concretizzi discriminazioni vietate dall’ordinamento ovvero non
infranga procedure di comparazione definite nei contratti collettivi o
autolimitative, ad es. in ordine ai concorsi per l’ammissione all’impiego, alle
promozioni, alle note di qualifica, ecc.) -
si fonda su questi capisaldi che, in sintesi, elenchiamo:
a) la previsione di
trattamenti individuali differenziati rispetto alla contrattazione collettiva è
espressamente sancita dal codice civile, all’art. 2077, che prevede la
sostituzione delle clausole individuali con quelle collettive, solo ove
quest’ultime siano più favorevoli al lavoratore;
b) il potere del
giudice di incidere sugli assetti degli interessi realizzati a livello
contrattuale è, di norma, quello “repressivo” che si risolve con la
dichiarazione di nullità (totale o parziale) di un contratto o di singole
clausole dello stesso, cui consegue un vuoto di disciplina e non l’estensione
ad altri di un trattamento preferenziale. E’ anche previsto un intervento
“integrativo”, ma tale funzione non può, in alcun caso, essere manipolativa o
correttiva. Mediante la funzione integrativa del contratto, non lo si modifica,
ma si aggiunge ad esso qualcosa, semprechè le ulteriori conseguenze che se ne
fanno derivare dalla legge, dagli usi o dall’equità, corrispondano all’intento
pratico voluto dalle parti, ma rimasto inespresso;
c) una funzione
“correttiva” non può essere ammessa nei confronti del contratto collettivo,
sottraendosi questo a qualsiasi controllo di ragionevolezza, in quanto ciò
implicherebbe un potere del giudice di “rompere”, sulla base di proprie
convinzioni, un equilibrio contrattuale di carattere globale che coinvolge
tutte le clausole del ccnl e non può essere posto in discussione con
riferimento ad un singolo istituto o aspetto;
d) la ritenuta
sindacabilità del contratto collettivo quando sono in comparazione diritti o
aspettative dei lavoratori (licenziamenti collettivi, Cigs, promozioni,
concorsi, ecc.) non inficia quanto sopradetto, in quanto queste ipotesi nelle
quali viene ammesso concordemente un controllo di razionalità, sono già ab
initio caratterizzate da limitazioni introdotte dalla legge o dalla
contrattazione collettiva o da autolimitazioni del datore di lavoro, per cui è
la preesistenza del limite a giustificare il controllo, in assenza del quale
l’atto del datore di lavoro non necessita di alcuna motivazione e si sottrae a
qualsiasi controllo, a prescindere dalle esigenze di “trasparenza” o similari,
pur socialmente meritevoli;
e) l’esigenza di
motivazione dei trattamenti preferenziali non discende neppure dall’esigenza
del singolo di comparare il valore riconosciuto dal datore di lavoro alla sua
prestazione in raffronto con quella dei compagni di lavoro con i quali si trova
a vivere ed operare nella “comunità di lavoro”, poichè questa concezione
“comunitaria” di origine germanica non ha mai trovato accoglienza (neppure in
sede dottrinaria) nel nostro Paese, dove
a fondamento del rapporto di lavoro permane una “causa di scambio” e non
“associativa”. E ne è riprova di ciò la mancata attuazione del principio
codificato nell’art. 46 Cost. relativo alla c.d. ”cogestione” delle aziende;
f) l’unica strada per
l’estensione dei trattamenti preferenziali ad altri è quella della sussistenza
di un uso aziendale, in ragione della generale diffusione fra i lavoratori e
della costante reiterazione nel tempo di
tali trattamenti. Ma integrando gli usi aziendali il contratto individuale, la
strada prescelta dalle sezioni unite è quella della sussistenza di un obbligo
interno al contratto e non già dell’applicazione del (categoricamente negato)
principio della parità di trattamento.
6. Conclusioni
Conseguenza pratica di questo
regressivo orientamento è che il datore di lavoro sarà perfettamente libero di
negare ad un lavoratore (subentrato nella posizione di lavoro di un uscito o
trasferito) non solo lo stesso trattamento retributivo ma lo stesso inquadramento
(7),
laddove non sia stato espressamente sancito dal contratto collettivo - come di
norma non avviene atteso che il ccnl
procede per esemplificazioni non esaustive dell’intera realtà aziendale - che a
quella posizione professionale corrisponde inequivocamente una certa qualifica.
Sarà impossibile, inoltre, per il lavoratore
addurre - a sostegno della sua pretesa - una comparazione
intersoggettiva con la qualifica rivestita dal predecessore, atteso che proprio
l’orientamento restauratore delle sezioni unite (portato avanti
dell’onnipresente consigliere relatore dr. Genghini) negano rilevanza al
procedimento del raffronto, del tutto irrilevante in un contesto in cui è
assente la “parità di trattamento”. Sarà possibile al datore di lavoro, nel
rispetto dei minimi contrattuali, differenziare - senza dover rendere conto ad alcuno all’interno e tantomeno al
giudice esterno investito della controversia - il trattamento retributivo di
fatto (attraverso la soppressione di certi superminimi o indennità) o quello
previdenziale, fra anziani svolgenti (o che hanno svolto) una certa mansione e
giovani che nella stessa sono subentrati per avvicendamento generazionale.
Vengono infatti ritenuti insussistenti gli obblighi di motivazione degli atti
datoriali (non proceduralizzati per legge o per contratto), che la Corte
costituzionale (n.103/1989) e diverse decisioni della sezione lavoro avevano
preteso per verificare se il comportamento dell’impresa rispondesse a
“ragionevolezza” o fosse ispirato al mero capriccio o arbitrio e vengono
accolte in toto le tesi, innanzi
riferite, del defunto “falco confindustriale”.
Non v’è chi non veda come
l’orientamento delle sezioni unite si renda funzionale o, al limite,
fiancheggiatore delle posizioni confindustriali ed imprenditoriali che
sollecitano la deregulation, all’insegna della flessibilità dei rapporti
di lavoro che è sinonimo di riappropriazione di un ampia ed illimitata
discrezionalità, volta alla precarizzazione dei rapporti stessi e ad infliggere
un colpo durissimo alle conquiste storiche del sindacato, da sempre operante
nella direzione dell’uniformità tendenziale dei trattamenti (salvo specifici e
documentati meriti individuali) nonchè dell’introduzione e del rispetto di
regole garanti di trasparenza e di pari dignità dei lavoratori nell’impresa.
Post scriptum - Ad articolo
compiuto apprendiamo dal quotidiano confindustriale “Il Sole - 24 Ore” del 12
novembre 1996 (6) che in Francia, la locale Corte di Cassazione avrebbe -
secondo l’estensore dell’articolo - “fatto un importante passo indietro nel
suo atteggiamento rispetto alle politiche di personalizzazione salariale,
oramai abitualmente in atto in tutte le imprese”. Nella sostanza, la
Cassazione francese avrebbe seguito l’orientamento espresso nel nostro Paese da
Corte cost. n. 103/’89 e da conformi giudicati della sezione lavoro della
Cassazione, affermando in una sentenza del 29 ottobre 1996 (di cui ha dato
notizia la rivista “Liaisons sociales”)
afferente ad una vertenza promossa da una lavoratrice contro la Società
Delzongle di Balma (Haute Garonne), che “a lavoro uguale deve corrispondere
salario uguale” e che pertanto “il datore di lavoro è obbligato a
garantire uguaglianza di remunerazioni tra tutti i dipendenti, dell’uno o
dell’altro sesso, quando questi si trovino in posizioni professionali identiche”.
L’autore dell’articolo
ospitato dal quotidiano confindustriale esprime tutta la sua sorpresa mista a
disappunto, affermando che “si
tratta di una svolta del tutto inattesa
visto che negli ultimi tempi la Cassazione aveva assunto un atteggiamento molto
più pragmatico”, con il facoltizzare la discrezionalità datoriale
nell’attribuzione di trattamenti differenziali per le stesse mansioni, una
volta rispettati i minimi contrattuali, senza necessità di motivazione o giustificazione
alcuna. “D’ora in poi invece - lamenta l’estensore del citato articolo -
sarà il datore di lavoro a dover motivare le sue decisioni “ sottolineando
come giuristi di fama (e di parte, n.d.r.) si siano espressi
negativamente su questo “passo indietro” che priverebbe, a loro dire, “il datore di lavoro dei margini
di manovra per giudicare il modo in cui lavora un suo dipendente”.
Come si vede, l’ottica di
giudizio è completamente distorta perché la Cassazione francese - come fece da
noi Corte cost. n. 103/’89 e sentenze conformi della S. corte - non ha, per
quel che sappiamo, vietato affatto trattamenti differenziali eccedenti i minimi
contrattuali ma li ha subordinati ad una loro giustificazione di merito la cui
prova deve, naturalmente, essere fornita dal datore di lavoro che li
attribuisce, al fine di sottrarsi al sospetto di erogazioni immeritate o
clientelari o sorrette da altro motivo illecito.
E, pertanto, secondo noi il “passo
indietro” lo hanno compiuto in Italia le sezioni unite della Cassazione,
mentre la Cassazione francese ha, invece, compiuto un “passo in avanti”
in direzione progressiva, legittimando la deroga all’eguaglianza retributiva a
parità di posizioni professionali, tramite il conferimento di superminini, solo
in presenza di motivati, documentati e reali meriti specifici, atti a
sorreggere e a rendere accettabili dalla coscienza sociale i trattamenti
differenziali meritocratici.
(pubblicato in Lavoro e previdenza Oggi, n.
11/1997, p. 2020)
(1) In Lav. giur. 1996, 722 con nota di D’Avossa.
(2) In Riv. it. dir. lav. 1993, II, 653 con nota di
Del Punta.
(3) In Riv. it. dir.
lav. 1989, II, 389, con nota di Pera.
(4) Da parte del defunto Mortillaro, in “Il Sole - 24 Ore”
del 16 maggio 1989, in un articolo titolato “Spetta all’impresa e non al
giudice stabilire gli aumenti di merito”, ora riproposto a pag.280 del
volume di raccolta postuma degli scritti politico/sindacali, titolato “La
via italiana al capitalismo”, ed. 1997 de “Il Sole-24 Ore” a cura di
Sapelli e con “incredibile” prefazione laudativa post mortem di G. Giugni.
Sorprende veramente che qualcuno transitato dalla Federmeccanica alla direzione
dell’Agens – ma indubbiamente deve
trattarsi di beneficiato da Mortillaro per la dismissione della propria dignità
e per l’accettata condizione di servile sudditanza psicologica, quando altri
(come chi scrive) per non aver mai inteso abdicare a tali valori decise, in
buona compagnia dei primi e dei migliori colleghi, di sottrarsi
all’insostenibile collaborazione con questo
tristo personaggio tramite le dimissioni dalla Federmeccanica - abbia sentito
la necessità della raccolta degli
scritti “da polemista”(addirittura anticipando quella dei di lui scritti a
connotazione giuridica) . Tra di essi spiccano: a) l’accanita e pretestuosa stroncatura (vedila a p. 203
del citato volume) del libro “La dimensione dell’impresa nel diritto del
lavoro”, Milano 1978, dell’eccellente giuslavorista Marco Biagi, al quale
Mortillaro giunge addirittura ad
imputare una poco diligente correzione delle bozze occasionante un “infortunio”
grafico (stroncatura prontamente
rintuzzata da Pera, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1978, 1321, che in una
specifica recensione rileva come “Il libro di Biagi è sorretto da
un’ideologia che può dirsi accentuatamente…’progressiva’. Essendo la monografia
di Biagi tutta intrisa di questa “filosofia”, si comprende come taluno, che
programmaticamente sta sulla sonda opposta, possa prender, come suol dirsi
cappello. Si spiega così l’attacco, talora di cattivo gusto – non si spreca il
piombo per insistere su un evidente errore di stampa – del direttore generale
della Federmeccanica (v. Il Sole-24Ore del 4 maggio 1978)”, nonché, b),
le intransigenti prese di posizione
(vedi da pag 710 a 717 del citato volume gli articoli titolati: “Vescovi, zero
in economia” e “Il mercato senza
qualità”) contro l’interventismo, sub specie di libera manifestazione di
opinione, nei conflitti e nelle
tematiche di lavoro da parte degli uomini della Chiesa, in particolare del
Cardinale di Milano Martini, dei vescovi lombardi e della Cei, a difesa dei
valori dell’uomo-lavoratore, nello spirito della migliore dottrina sociale.
(5) Così Cass. n. 11515/1995; Cass. n. 6448/1994; Cass. n. 3024/1994; Cass.
n. 1530/1994, ecc.
(6) In un articolo emblematicamente titolato “Lavori uguali, salari uguali: i francesi tornano indietro”.
(7) Conf. recentissimamente Cass. sez. lav. 22 giugno 2006 n. 14465 (inedita allo stato) che legittima la differenziazione a meno che non sia motivata da intenti discriminatori (legislativamente tipizzati nelle leggi ordinarie).
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