La parità di trattamento (nuovamente negata dalla Cassazione)

 

sommario:

1. Premessa
2. L’orientamento giurisprudenziale prima di Corte Cost. n. 103/1989
3. La posizione di Corte Cost. n 103/1989
4. L’intervento restauratore di Cass. sez. un. n.6030/1993 e i perduranti dissensi della sezione lavoro
5. Il secondo intervento restauratore di Cass. sez. un. n. 4570/1996
6. Conclusioni.

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1. Premessa

E’ dovere dello scrivente - sebbene dissenta dalle affermazioni giurisprudenziali che si appresta ad illustrare - documentare i lettori anche su quelle sentenze di carattere restauratore, tramite cui si attualizzano regressioni nel cammino verso l’affermazione dei principi di trasparenza, correttezza e  pari dignità in seno alle aziende, com’è il caso della  seconda sentenza delle sezioni  unite della Cassazione n. 4570 del 17.5.1996 (1)che, a distanza di tre anni dalle conformi Cass. sez. un. n. 6030 - 6034 del 29.5.1993 (2), si è riproposta di richiamare all’ordine le dissenzienti e non uniformi decisioni della sezione lavoro della Suprema corte.

Compito nostro è infatti anche quello di informare – oltre che di prendere posizione in adesione o dissenso da certi orientamenti - i lavoratori, allo scopo di metterli in guardia dall’intraprendere azioni giudiziarie che, alla distanza, possono risolversi in clamorosi insuccessi, in ragione di orientamenti consolidati a livello delle più elevate giurisdizioni.

 

2. L’orientamento giurisprudenziale prima di Corte Cost. n. 103/1989

Prima della sentenza della Corte costituzionale n. 103 del 1989 (3), la giurisprudenza unanime della Corte di cassazione a sezioni unite era  consolidata nel senso che nel nostro ordinamento giuridico non esiste un principio generale di parità di trattamento nei negozi intersoggettivi privati, tale da precludere all’autonomia collettiva o individuale la possibilità di determinare, aldilà di certe condizioni minime garantite dall’art. 36 Cost. e salvo limiti particolari, differenziate posizioni retributive e tale, quindi, da imporre l’attribuzione di un identico trattamento economico, a parità di qualifica o di mansioni, a tutti i lavoratori dipendenti da una stessa impresa.

Secondo tale pregressa giurisprudenza (ora resuscitata), il principio di parità di trattamento non ha alcun sostegno nelle fonti legislative, anche di diritto comunitario e internazionale, recepite dall’ordinamento italiano e non è in particolare deducibile nè dall’art. 36 Cost. (che si limita a fissare il criterio della proporzionalità ed adeguatezza della retribuzione, prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva) nè dall’art. 3 Cost. (che stabilisce soltanto l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma non certo nell’ambito dei rapporti privatistici, quali appunto i rapporti di lavoro privato).

 

3. La posizione di Corte cost. n. 103/1989

Questa costante giurisprudenza comincia ad essere posta in discussione dopo la sentenza 9 marzo 1989  n. 103 della Corte costituzionale. Con tale pronuncia interpretativa di rigetto viene dichiarata non fondata, in riferimento all’art. 41 Cost., la questione di legittimità costituzionale di una serie di articoli del codice civile, nella parte in cui non consentono all’imprenditore di attribuire ai dipendenti, a parità di mansioni e nello stesso reparto, diversi livelli o categorie generali di inquadramento retributivo.

La Corte costituzionale, dopo aver ricordato i divieti per il datore di lavoro di atti discriminatori  (ivi compresi i trattamenti di miglior favore), nell’impiego del lavoratore, nell’organizzazione del lavoro e nella gestione del rapporto e specificatamente nell’assegnazione di qualifiche e mansioni, sviluppa illuminanti considerazioni. Nella sostanza dopo aver riepilogato i limiti legali al potere organizzativo dell’impresa ed i correlativi diritti dei lavoratori discendenti da principi costituzionali e da norme ordinarie, asserisce che le differenziazioni di trattamento (es. retributivo o d’inquadramento) tra gli stessi, a parità di mansioni, “sono tollerabili ...semprechè siano giustificate e comunque ragionevoli”, alla stregua della nostra Carta costituzionale e della legislazione ordinaria. Pur non toccando direttamente nè esplicitamente smentendo l’orientamento prevalente della Cassazione circa l’inesistenza di un principio paritario nei rapporti interprivati, la Corte costituzionale introduce robuste crepe in questa cementata costruzione. Infatti - recependo le più nobili istanze della coscienza sociale e democratica - finisce per ancorare la liceità dei trattamenti categoriali e retributivi differenziati - a parità di mansioni e di posizione di lavoro - alla loro “giustificatezza e razionalità”. Cioè a dire, in buona sostanza, li ritiene “tollerabili” (tale è l’aggettivo usato) al ricorrere di motivate e giustificabili causali meritocratiche, riposanti sulla più elevata professionalità, competenza o rendimento, idonee a consentirne l’attribuzione in capo ai beneficiati e a precluderli nei confronti degli esclusi, al ricorrere delle cui causali gli stessi restano privi di un fondato diritto di reclamo o di rivendicazioni giudiziali.

Le affermazioni della Corte costituzionale vennero interpretate nel senso dell’introduzione di un principio di parità di trattamento, sia in dottrina sia da parte di diverse decisioni della sezione lavoro della Cassazione. Nutriti e frontali vennero, tuttavia, gli attacchi naturalmente da parte di coloro che si erano fatti sostenitori (o erano ideologicamente schierati a favore) del convincimento di un’illimitata libertà di azione dell’impresa nella gestione dei rapporti di lavoro. Si giunse, dimentichi che ogni comportamento è soggetto ad un giudizio quantomeno etico, inverecondamente a dire (4) che: a) l’imprenditore non è assolutamente tenuto “a dichiarare i criteri che assume per determinare i trattamenti di favore”; b) che, con le proprie sostanze “è perfettamente libero (anche) di sbagliare, concedendo un trattamento più favorevole a chi non lo merita”. Infine, nel lasciare per tal via ampio spazio ai trattamenti più favorevoli anche (e spesso) di natura clientelare, di cordata o correntizia, rapito da una visione idilliaca della gestione dei rapporti di lavoro nell’impresa, affermava:” Le regole vengono sempre richieste da chi, non riuscendo a conquistarsi il miglioramento, trova comodo immaginare congiure ed attribuire ai compagni di lavoro - che sono riusciti (con quali mezzi?, n.d.r.) dove egli non è stato capace - i peggiori compromessi, pur di non ammettere che sono professionalmente migliori di lui”. Dove le (avversate) regole garantiste richieste dalla Corte costituzionale, erano, per l’appunto, finalizzate non già alla burocratizzazione del rapporto di lavoro ma alla garanzia civile del rendere trasparente il modo in cui i beneficiari dei miglioramenti o dei superiori inquadramenti, a parità di mansioni, erano “riusciti” a “conquistarseli”.

 

4. L’intervento restauratore di Cass. sez. un n. 6030/1993 e i perduranti dissensi della sezione lavoro

Secondo la regola che più in alto si arriva e più al vecchio ci si rimette, più si è sicuri di incontrare l’avversione al nuovo e di realizzare la restaurazione di ataviche concezioni, della questione vennero investiti i vegliardi giudici delle sezioni unite della Cassazione che con le decisioni n. 6030 - 6034 del 1993, statuì che gli art. 3 e 41 della Cost. non possono considerarsi - pur dopo Corte cost. n. 103/1989 - come precetti idonei a fondare un principio di comparazione soggettiva fra i lavoratori, alla stregua dei quali coloro che svolgono identiche mansioni abbiano diritto all’attribuzione della stessa retribuzione o del medesimo inquadramento. Non si riscontrano, infatti, nella Costituzione e nella legislazione ordinaria, norme imperative che accolgano la regola della parità di trattamento economico e normativo, con particolare riguardo ai lavoratori subordinati.

Le norme della legislazione speciale, soprattutto dello Statuto dei lavoratori - asserirono le sezioni unite - sanciscono il divieto di atti discriminatori, che si caratterizzano per l’illiceità del motivo, consistenti della diversificazione del trattamento di soggetti che (per sesso, lingua, religione, motivi politico-sindacali, ecc.) versano in una situazione di particolare debolezza. Solo tali diversificazioni, il cui onere probatorio dell’essere discriminatorie incombe sul lavoratore, sono vietate dal nostro diritto positivo.

Nè è possibile invocare, al fine di affermare la sussistenza di una parità di trattamento, l’esigenza di tutela della dignità umana - proseguono le sezioni unite - in quanto la stessa non può farsi dipendere dalle condizioni di trattamento economico, ove non si intenda erroneamente ravvisare nella retribuzione l’oggetto di un diritto assoluto della personalità. Ai sensi dell’art. 41 Cost., soltanto la legge e non anche il giudice può imporre limiti  all’autonomia privata per la realizzazione di interessi socialmente rilevanti. In mancanza, il datore di lavoro - sono sempre le sezioni unite che parlano - può esplicare il suo potere discrezionale di trattamento dei lavoratori nei limiti stabiliti dalle norme di legge e dalle disposizioni dei contratti collettivi.

Nè deve sottostare all’obbligo di uguale trattamento dei dipendenti secondo un parametro di ragionevolezza, che si palesa contraddittorio con la sua libertà di valutazione e decisione ed apre la strada ad un inammissibile potere del giudice di esercitare il suo controllo di opportunità sul contenuto delle determinazioni adottate dai  privati.

In ordine al controllo di ragionevolezza degli inquadramenti definiti pattiziamente dall’autonomia collettiva, le sezioni unite rilevano che la dinamica contrattuale complessiva - sottoposta talora anche a lacerazioni - ben difficilmente è ricostruibile a posteriori in un giudizio di razionalità, per i quali sono parzialmente noti al magistrato gli elementi di fatto ai fini di una corretta valutazione.

Non mancherà il lettore di rilevare quanto siano  carenti di modernità  di vedute e di rispetto dell’esigenza della trasparenza queste considerazioni formalistiche, viziate altresì di contraddittorietà quando - in assenza di determinazione contrattuale del periodo di comporto per le malattie plurime - le stesse sezioni unite della Cassazione hanno invece, nell’interesse datoriale al licenziamento dei lavoratori, legittimato l’intervento creativo del giudice per  determinare gli archi temporali o c.d. limiti  “interno” ed “esterno” (non precisati o non voluti dalle parti, a differenza di quelli per la malattia unitaria ed ininterrotta) entro cui stabilire un limite di tolleranza per le malattie intermittenti. In questo caso, e del tutto singolarmente, le sezioni unite della Cassazione non si sono poste il problema della lesione dell’autonomia collettiva!

Per queste ed altre ragioni  numerose decisioni della sezione lavoro si discostavano dal pensiero delle sezioni unite (ispirato all’affermazione del principio di nomofilachia  o di uniformità delle decisioni)  statuendo in particolare che l’attribuzione - anche da parte della contrattazione collettiva - di differenze retributive a parità di mansioni, comportava violazione dei principi di correttezza e buona fede, ove il datore di lavoro non giustificasse o motivasse tali differenze (5), nonchè  conseguenze di tipo risarcitorio a favore dei lavoratori nei cui confronti il differenziato trattamento non risultasse ispirato ai precitati criteri di ragionevolezza.

 

5. Il secondo intervento restauratore di Cass. sez. un. n. 4570/1996

A comporre il dissenso intervengono, a distanza di 3 anni, di nuovo i giudici delle sezioni unite della Cassazione, con la decisione n. 4570 del 17.5.1996. Il loro pensiero - riassertore dell’inesistenza di un principio di parità di trattamento e della piena discrezionalità datoriale in materia di gestione del rapporto di lavoro (ove non concretizzi discriminazioni vietate dall’ordinamento ovvero non infranga procedure di comparazione definite nei contratti collettivi o autolimitative, ad es. in ordine ai concorsi per l’ammissione all’impiego, alle promozioni, alle note di qualifica, ecc.) -  si fonda su questi capisaldi che, in sintesi, elenchiamo:

a) la previsione di trattamenti individuali differenziati rispetto alla contrattazione collettiva è espressamente sancita dal codice civile, all’art. 2077, che prevede la sostituzione delle clausole individuali con quelle collettive, solo ove quest’ultime siano più favorevoli al lavoratore;

b) il potere del giudice di incidere sugli assetti degli interessi realizzati a livello contrattuale è, di norma, quello “repressivo” che si risolve con la dichiarazione di nullità (totale o parziale) di un contratto o di singole clausole dello stesso, cui consegue un vuoto di disciplina e non l’estensione ad altri di un trattamento preferenziale. E’ anche previsto un intervento “integrativo”, ma tale funzione non può, in alcun caso, essere manipolativa o correttiva. Mediante la funzione integrativa del contratto, non lo si modifica, ma si aggiunge ad esso qualcosa, semprechè le ulteriori conseguenze che se ne fanno derivare dalla legge, dagli usi o dall’equità, corrispondano all’intento pratico voluto dalle parti, ma rimasto inespresso;

c) una funzione “correttiva” non può essere ammessa nei confronti del contratto collettivo, sottraendosi questo a qualsiasi controllo di ragionevolezza, in quanto ciò implicherebbe un potere del giudice di “rompere”, sulla base di proprie convinzioni, un equilibrio contrattuale di carattere globale che coinvolge tutte le clausole del ccnl e non può essere posto in discussione con riferimento ad un singolo istituto o aspetto;

d) la ritenuta sindacabilità del contratto collettivo quando sono in comparazione diritti o aspettative dei lavoratori (licenziamenti collettivi, Cigs, promozioni, concorsi, ecc.) non inficia quanto sopradetto, in quanto queste ipotesi nelle quali viene ammesso concordemente un controllo di razionalità, sono già ab initio caratterizzate da limitazioni introdotte dalla legge o dalla contrattazione collettiva o da autolimitazioni del datore di lavoro, per cui è la preesistenza del limite a giustificare il controllo, in assenza del quale l’atto del datore di lavoro non necessita di alcuna motivazione e si sottrae a qualsiasi controllo, a prescindere dalle esigenze di “trasparenza” o similari, pur socialmente meritevoli;

e) l’esigenza di motivazione dei trattamenti preferenziali non discende neppure dall’esigenza del singolo di comparare il valore riconosciuto dal datore di lavoro alla sua prestazione in raffronto con quella dei compagni di lavoro con i quali si trova a vivere ed operare nella “comunità di lavoro”, poichè questa concezione “comunitaria” di origine germanica non ha mai trovato accoglienza (neppure in sede dottrinaria) nel nostro Paese, dove  a fondamento del rapporto di lavoro permane una “causa di scambio” e non “associativa”. E ne è riprova di ciò la mancata attuazione del principio codificato nell’art. 46 Cost. relativo alla c.d. ”cogestione” delle aziende;

f) l’unica strada per l’estensione dei trattamenti preferenziali ad altri è quella della sussistenza di un uso aziendale, in ragione della generale diffusione fra i lavoratori e della costante reiterazione  nel tempo di tali trattamenti. Ma integrando gli usi aziendali il contratto individuale, la strada prescelta dalle sezioni unite è quella della sussistenza di un obbligo interno al contratto e non già dell’applicazione del (categoricamente negato) principio della parità di trattamento.

 

6. Conclusioni

Conseguenza pratica di questo regressivo orientamento è che il datore di lavoro sarà perfettamente libero di negare ad un lavoratore (subentrato nella posizione di lavoro di un uscito o trasferito) non solo lo stesso trattamento retributivo ma lo stesso inquadramento (7), laddove non sia stato espressamente sancito dal contratto collettivo - come di norma non avviene atteso che  il ccnl procede per esemplificazioni non esaustive dell’intera realtà aziendale - che a quella posizione professionale corrisponde inequivocamente una certa qualifica. Sarà impossibile, inoltre, per il lavoratore  addurre - a sostegno della sua pretesa - una comparazione intersoggettiva con la qualifica rivestita dal predecessore, atteso che proprio l’orientamento restauratore delle sezioni unite (portato avanti dell’onnipresente consigliere relatore dr. Genghini) negano rilevanza al procedimento del raffronto, del tutto irrilevante in un contesto in cui è assente la “parità di trattamento”. Sarà possibile al datore di lavoro, nel rispetto dei minimi contrattuali, differenziare  - senza dover rendere conto ad alcuno all’interno e tantomeno al giudice esterno investito della controversia - il trattamento retributivo di fatto (attraverso la soppressione di certi superminimi o indennità) o quello previdenziale, fra anziani svolgenti (o che hanno svolto) una certa mansione e giovani che nella stessa sono subentrati per avvicendamento generazionale. Vengono infatti ritenuti insussistenti gli obblighi di motivazione degli atti datoriali (non proceduralizzati per legge o per contratto), che la Corte costituzionale (n.103/1989) e diverse decisioni della sezione lavoro avevano preteso per verificare se il comportamento dell’impresa rispondesse a “ragionevolezza” o fosse ispirato al mero capriccio o arbitrio e vengono accolte in toto le tesi, innanzi  riferite,  del  defunto “falco confindustriale”.

Non v’è chi non veda come l’orientamento delle sezioni unite si renda funzionale o, al limite, fiancheggiatore delle posizioni confindustriali ed imprenditoriali che sollecitano la deregulation, all’insegna della flessibilità dei rapporti di lavoro che è sinonimo di riappropriazione di un ampia ed illimitata discrezionalità, volta alla precarizzazione dei rapporti stessi e ad infliggere un colpo durissimo alle conquiste storiche del sindacato, da sempre operante nella direzione dell’uniformità tendenziale dei trattamenti (salvo specifici e documentati meriti individuali) nonchè dell’introduzione e del rispetto di regole garanti di trasparenza e di pari dignità dei lavoratori nell’impresa.

 

Post scriptum - Ad articolo compiuto apprendiamo dal quotidiano confindustriale “Il Sole - 24 Ore” del 12 novembre 1996 (6) che in Francia, la locale Corte di Cassazione avrebbe - secondo l’estensore dell’articolo - “fatto un importante passo indietro nel suo atteggiamento rispetto alle politiche di personalizzazione salariale, oramai abitualmente in atto in tutte le imprese”. Nella sostanza, la Cassazione francese avrebbe seguito l’orientamento espresso nel nostro Paese da Corte cost. n. 103/’89 e da conformi giudicati della sezione lavoro della Cassazione, affermando in una sentenza del 29 ottobre 1996 (di cui ha dato notizia la rivista “Liaisons sociales”)  afferente ad una vertenza promossa da una lavoratrice contro la Società Delzongle di Balma (Haute Garonne), che “a lavoro uguale deve corrispondere salario uguale” e che pertanto “il datore di lavoro è obbligato a garantire uguaglianza di remunerazioni tra tutti i dipendenti, dell’uno o dell’altro sesso, quando questi si trovino in posizioni professionali identiche”.

L’autore dell’articolo ospitato dal quotidiano confindustriale esprime tutta la sua sorpresa mista a disappunto,  affermando che “si tratta  di una svolta del tutto inattesa visto che negli ultimi tempi la Cassazione aveva assunto un atteggiamento molto più pragmatico”, con il facoltizzare la discrezionalità datoriale nell’attribuzione di trattamenti differenziali per le stesse mansioni, una volta rispettati i minimi contrattuali, senza necessità di motivazione o giustificazione alcuna. “D’ora in poi invece - lamenta l’estensore del citato articolo - sarà il datore di lavoro a dover motivare le sue decisioni “ sottolineando come giuristi di fama (e di parte, n.d.r.) si siano espressi negativamente su questo “passo indietro  che priverebbe, a loro dire, “il datore di lavoro dei margini di manovra per giudicare il modo in cui lavora un suo dipendente”.

Come si vede, l’ottica di giudizio è completamente distorta perché la Cassazione francese - come fece da noi Corte cost. n. 103/’89 e sentenze conformi della S. corte - non ha, per quel che sappiamo, vietato affatto trattamenti differenziali eccedenti i minimi contrattuali ma li ha subordinati ad una loro giustificazione di merito la cui prova deve, naturalmente, essere fornita dal datore di lavoro che li attribuisce, al fine di sottrarsi al sospetto di erogazioni immeritate o clientelari o sorrette da altro motivo illecito.

E, pertanto, secondo noi il “passo indietro” lo hanno compiuto in Italia le sezioni unite della Cassazione, mentre la Cassazione francese ha, invece, compiuto un “passo in avanti” in direzione progressiva, legittimando la deroga all’eguaglianza retributiva a parità di posizioni professionali, tramite il conferimento di superminini, solo in presenza di motivati, documentati e reali meriti specifici, atti a sorreggere e a rendere accettabili dalla coscienza sociale i trattamenti differenziali meritocratici.

 

Mario Meucci

(pubblicato in Lavoro e previdenza Oggi, n. 11/1997, p. 2020)

 

NOTE

(1) In Lav. giur. 1996, 722 con nota di D’Avossa.

(2) In Riv. it. dir. lav. 1993, II, 653 con nota di Del Punta.

(3) In Riv. it. dir. lav. 1989, II, 389, con nota di Pera.

(4) Da parte del defunto Mortillaro, in “Il Sole - 24 Ore” del 16 maggio 1989, in un articolo titolato “Spetta all’impresa e non al giudice stabilire gli aumenti di merito”, ora riproposto a pag.280 del volume di raccolta postuma degli scritti politico/sindacali, titolato “La via italiana al capitalismo”, ed. 1997 de “Il Sole-24 Ore” a cura di Sapelli e con “incredibile” prefazione laudativa post mortem di G. Giugni.

Sorprende veramente che qualcuno transitato dalla Federmeccanica alla direzione dell’Agens  – ma indubbiamente deve trattarsi di beneficiato da Mortillaro per la dismissione della propria dignità e per l’accettata condizione di servile sudditanza psicologica, quando altri (come chi scrive) per non aver mai inteso abdicare a tali valori decise, in buona compagnia dei primi e dei migliori colleghi, di sottrarsi all’insostenibile collaborazione con  questo tristo personaggio tramite le dimissioni dalla Federmeccanica - abbia sentito la necessità della raccolta  degli scritti “da polemista”(addirittura anticipando quella dei di lui scritti a connotazione giuridica) . Tra di essi spiccano: a) l’accanita  e pretestuosa stroncatura (vedila a p. 203 del citato volume) del libro “La dimensione dell’impresa nel diritto del lavoro”, Milano 1978, dell’eccellente giuslavorista Marco Biagi, al quale Mortillaro giunge  addirittura ad imputare una poco diligente correzione delle bozze occasionante un “infortunio” grafico (stroncatura  prontamente rintuzzata da Pera, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1978, 1321, che in una specifica recensione rileva come “Il libro di Biagi è sorretto da un’ideologia che può dirsi accentuatamente…’progressiva’. Essendo la monografia di Biagi tutta intrisa di questa “filosofia”, si comprende come taluno, che programmaticamente sta sulla sonda opposta, possa prender, come suol dirsi cappello. Si spiega così l’attacco, talora di cattivo gusto – non si spreca il piombo per insistere su un evidente errore di stampa – del direttore generale della Federmeccanica (v. Il Sole-24Ore del 4 maggio 1978)”, nonché, b), le  intransigenti prese di posizione (vedi da pag 710 a 717 del citato volume gli articoli titolati: “Vescovi, zero in economia” e  “Il mercato senza qualità”) contro l’interventismo, sub specie di libera manifestazione di opinione, nei conflitti  e nelle tematiche di lavoro da parte degli uomini della Chiesa, in particolare del Cardinale di Milano Martini, dei vescovi lombardi e della Cei, a difesa dei valori dell’uomo-lavoratore, nello spirito della migliore dottrina sociale.

(5) Così Cass. n. 11515/1995; Cass. n. 6448/1994; Cass. n. 3024/1994; Cass. n. 1530/1994, ecc.

(6) In un articolo emblematicamente titolato “Lavori uguali, salari uguali: i francesi tornano indietro”.

(7) Conf. recentissimamente Cass. sez. lav. 22 giugno 2006 n. 14465 (inedita allo stato) che legittima la differenziazione a meno che non sia motivata da intenti discriminatori (legislativamente tipizzati nelle leggi ordinarie).

 

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