L’elevazione dell’età pensionabile per la donna può risolversi in una “parità a perdere”

 

1. La diversa età per il pensionamento fra i sessi non attualizza alcuna discriminazione

Si assiste da tempo – specie dopo la sentenza della Corte di Giustizia europea del 13 novembre 2008 (causa C-46/07) - ad una richiesta di allineamento (al rialzo) dell’età pensionabile della donna a quella dell’uomo (65 anni) giustificandola dietro esigenze antidiscriminatorie, quindi paritarie fra i sessi. La sentenza sulla quale ci intratterremo in prosieguo al punto 4) non ha – a nostro avviso - pienamente compreso l’odierno ordinamento previdenziale del nostro Paese ed i media non specializzati alimentano da tempo la confusione fra l’opinione pubblica.

Conviene allora fare innanzitutto chiarezza al riguardo.

L’ordinamento previdenziale pubblico e privato – per effetto della riforma Dini di cui alla l. n. 335/1995 – è indifferenziato fra i sessi ed alla donna, del tutto libera di lavorare oltre i requisiti per il conseguimento della pensione di vecchiaia (40 anni di contribuzione) e fino alla stessa età pensionabile dell’uomo (65 anni), viene consentito di recedere anticipatamente dal lavoro a 60 anni su base volontaria. Ciò si traduce in una agevolazione negata all’altro sesso. Quindi il recesso ai 60 anni per la donna non è una imposizione dell’ordinamento ma una scelta della donna, facoltizzata ex lege a proseguire nel lavoro fino alla stessa età di pensionamento dell’uomo, allo stato fissata nei 65 anni.

Per rendersene conto basta leggere l’art. 30 (Divieti di discriminazione nell'accesso alle prestazioni previdenziali) del D. Lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (codice delle pari opportunità tra uomo e donna), il quale specificamente prevede che «le lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia, possono optare per la prosecuzione della prestazione di lavoro fino al raggiungimento degli stessi limiti di età previsti per gli uomini dalle disposizioni vigenti, di legge, regolamentari o contrattuali, previa comunicazione al datore di lavoro da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia».

Quindi tramite semplice atto di opzione – insindacabile e non ricusabile dal datori di lavoro pubblico e privato – pacificamente le donne lavoratrici possono prestare lavoro fino ai 65 anni.

Come è stato da altri detto: «Risulta chiaro quindi, che per le donne lavoratrici, ritirarsi dal lavoro a 60 anni, costituisce l’esercizio di un diritto (soggettivo) e non una imposizione normativa. Si tratta semplicemente di una possibilità, di una facoltà, che, in quanto tale, risulta esercitabile o meno, sulla base di una libera scelta, dettata da necessità e condizioni personali, che solo la lavoratrice interessata è in grado di valutare. Pertanto, se nessuna lavoratrice deve ritenersi obbligata a lasciare il lavoro al compimento dei 60 anni ed andare in pensione, non si vede la ragione per cui questa opportunità legislativamente garantita ormai da lunghi anni, attualmente, invece, costituirebbe una penalizzazione o addirittura una discriminazione, tanto da renderne necessaria al più presto l’abolizione, immolandola quale vittima sacrificale sull’altare dell’adeguamento dell’ordinamento interno alle disposizioni comunitarie»[1].

Ma v’è di più. Le donne lavoratrici possono permanere al lavoro oltre i 60 anni anche senza sottostare al modesto onere burocratico di effettuare un’opzione da notificare al datore pubblico o privato, proprio per essere - in tutto e per tutto -  parificate all’uomo cui questa opzione è preclusa e quindi di questo onere non è, intuitivamente, gravato.

 

2. Il falso problema dell’onere di opzione della donna per lavorare fino a 65 anni

L’inesistenza di tale onere burocratico di comunicazione dell’opzione da parte della donna (re-introdotto dal legislatore “pasticcione” nell’art. 30 d.lgs. n. 198/06 sopracitato, in parte qua costituzionalmente invalido) venne pacificamente asseverato  dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 498/88, investita espressamente di pronunciarsi  sull’indebito onere di comunicazione – a pena di decadenza – per la fruizione del diritto alle garanzie di stabilità in ordine alla cessazione del rapporto fino alla stessa età dell’uomo, fissate all’epoca nell’art. 4 della l. n. 903/77 di parità uomo-donna. Nella sentenza l'onere di comunicazione dell'opzione, addossato alle donne, venne dichiarato incostituzionale. Così motivando: «L'art. 4 della legge n. 903 del 1977, ora censurato, attribuisce alla donna lavoratrice, nonostante che sia in possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia, la possibilità di continuare a prestare la sua opera negli stessi limiti di durata del rapporto di lavoro prevista per l'uomo lavoratore da disposizioni legislative regolamentari, contrattuali. Ma per la sola donna richiede un'opzione in tal senso e la sua comunicazione al datore di lavoro, da farsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto alla pensione. E' evidente che la lavoratrice, rispetto al lavoratore, ha avuto un trattamento diverso che non ha alcuna ragionevole giustificazione proprio per i principi affermati più volte da questa Corte sulla parità uomo-donna in materia di lavoro e, in particolare, per quelli posti a fondamento della sentenza n. 137 del 1986. Con la suddetta sentenza, dichiarandosi la illegittimità costituzionale dell'art. 11 della legge n. 604 del 1966, che prevedeva la possibilità di licenziamento ad nutum della donna al cinquantacinquesimo (ora sessantesimo, ndr) anno di età e non al sessantesimo (ora sessantacinquesimo, ndr), come per l'uomo, si è sancito il diritto della prima alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino alla stessa età prevista per l'uomo e le si è, correlativamente, assicurata la stabilità nel posto di lavoro fino a tale età. Ora, nella fattispecie, siccome la richiesta opzione discrimina la donna rispetto all'uomo per quanto riguarda l'età massima di durata del rapporto di lavoro stabilita da leggi, regolamenti e contratti, e, quindi, la protrazione del rapporto, sussiste la violazione dell'art. 3 Cost., non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e dell'art. 37 Cost., risultando leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro, e va, quindi, dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui prevede l'opzione. Si ribadisce così che l'età lavorativa deve essere eguale per la donna e per l'uomo, mentre rimane fermo il diritto della donna a conseguire la pensione di vecchiaia al cinquantacinquesimo (ora sessantesimo, ndr) anno di età, onde poter soddisfare esigenze peculiari della donna medesima, il che non contrasta con il fondamentale principio di parità, il quale non esclude speciali profili, dettati dalla stessa posizione della lavoratrice, che meritano una particolare regolamentazione. La protrazione della durata del rapporto di lavoro, cioé dell'età lavorativa, consente anche alla donna lavoratrice di conseguire i relativi vantaggi, come, ad esempio, gli aumenti retributivi e i conseguenti aumenti di pensione».

Il combinato disposto delle sentenze costituzionali nn.137/86 e 498/88, seguite dall’ordinanza di rigetto n. 256/2002, aveva così introdotto nell’ordinamento la regola chiara e precisa, secondo cui l’età lavorativa della donna deve coincidere con quella dell’uomo, cosicché la prima fruisce del regime di stabilità del rapporto fino a quando ne fruisce il secondo, senza alcun onere di comunicazione burocratica dell’opzione. Dopo l’elevazione a 65 anni della massima età pensionabile, il principio paritario è stato  riaffermato anche in sede di magistratura di legittimità, da Cass. sez. lav. 1.6. 2006 n. 13045[2] (est. Di Nubila), la cui massima recita:«Per quanto concerne le lavoratrici dipendenti, premesso che in base al combinato disposto delle disposizioni di legge che si sono succedute nel tempo deve distinguersi tra età pensionabile ed età massima lavorativa, entità non coincidenti in quanto nell’attuale ordinamento l’età massima lavorativa, più elevata, corrisponde all’età pensionabile stabilita per i lavoratori dell’altro sesso, la tutela obbligatoria, unitamente a quella reale (ricorrendo di questa le condizioni di legge) deve ritenersi estesa a tutte le lavoratrici che, pur avendo raggiunto l’età pensionabile, non hanno ancora conseguito l’età massima lavorativa, con la conseguenza che alle stesse compete il diritto di proseguire il rapporto di lavoro anche dopo il compimento dell’età pensionabile e fino al giorno del raggiungimento dell’età massima lavorativa, senza necessità di alcun onere di comunicazione, da parte loro, al datore di lavoro, e con l’ulteriore conseguenza che a quest’ultimo è fatto divieto di esercitare il recesso ad nutum nell’arco di tempo indicato».

 

3. Le diseguaglianze di fatto incidenti sulla scelta del pensionamento anticipato della donna

Assodata l’inesistenza di una imposizione dell’ordinamento italiano al pensionamento obbligatorio al compimento del 60esimo anno anagrafico della donna nonché l’inesistenza di un  condizionamento alla comunicazione preventiva al datore di lavoro dell’intendimento di voler proseguire il rapporto fino alla  età lavorativa massima dei 65 anni – espresso  chiaramente nei precitati orientamenti costituzionali – il ritiro anticipato al 60esimo anno si  risolve in una scelta della donna medesima. Scelta volontaria in termini di stretto diritto, ma – secondo condivisibili opinioni – spesso imposta dalla situazione di fatto caratterizzata da una carente condivisione degli oneri di cura dei figli e  di assistenza degli anziani in seno alla famiglia e dall’inesistenza di strutture di supporto da parte dello Stato tese ad alleviare i disagi  dei servizi di cura nell’ambito della cd. famiglia  allargata.

Non sono affatto irrealistiche talune considerazioni secondo le quali «ricade prevalentemente sulle donne il lavoro domestico e familiare sia per quanto riguarda la crescita dei figli sia per l'assistenza degli anziani e dei parenti portatori di handicap o non auto-sufficienti», considerazioni giunte fino a sostenere che il beneficio della facoltà di pensionamento anticipato della donna sarebbe funzionale ad una società maschilista in cui la donna, sposando solitamente un  uomo più anziano di lei, sarebbe quindi costretta a pensionarsi anticipatamente per star dietro ed accudire al marito già pensionato, oltre che ai genitori non autosufficienti. Quindi il privilegio attuale sarebbe un “vantaggio peloso”.

A ciò si aggiunge che la circoscritta protezione della maternità (5 mesi di astensione obbligatoria contributivamente coperta ma con contribuzione figurativa inesistente durante l’aspettativa facoltativa e durante i permessi per  malattia del bambino) nonché l’inesistente sostegno alla famiglia nell’assistenza ai familiari anziani invalidi (tramite, ad es., concorso alle spese dei badanti e simili), fanno sì che la lavoratrice sia “sollecitata” dalla dura realtà della vita a ritirarsi prima dal lavoro e quindi a fruire di una pensione ridotta e tutt’altro che parificata a quella dell’uomo, anche in ragione di trattamenti stipendiali inferiori correlati ad una meno favorevole carriera, rispetto al collega di sesso maschile (anche se ex post le donne risultano beneficiarie del 90% delle pensioni di riversibilità).

Secondo coloro che hanno sviluppato questi riscontri e queste considerazioni, lo sconto dell’anticipazione di 5 anni per il pensionamento della donna sarebbe quindi una “tutela fittizia” – pagata dalla donna medesima tramite la costrizione  ad impegnarsi da neo pensionata sessantenne nella cura degli anziani – oltreché una comoda  soluzione (o alibi) per il nostro legislatore volta a tacitare la  propria coscienza, trincerandosi dietro un'impropria misura “compensativa”, il cd. sconto d'età pensionabile, prospettata come scelta volontaria della donna, in realtà imposta dalle inefficienze delle misure di sostegno alla famiglia tipiche del nostro welfare.

Da questa constatazione congiunta al risparmio conseguente all’allineamento  coattivo graduale dell’età pensionabile all’età dell’uomo -  secondo i calcoli fatti dall’Inps, ammontante a quasi 500 milioni di euro già dal 2008, ad 1 miliardo l’anno a regime e, alzando gradualmente l’età a 62 anni, raggiungente i 4,7 miliardi nel 2045 – nasce la  propensione nelle donne più ideologizzate e meno pragmatiche a rifiutare l’attuale disallineamento dell’età pensionabile fra i due sessi e dei politici ad annullarlo.

 

4. La sentenza dell’Alta Corte di giustizia europea del 2008

In questo contesto “cade a fagiolo” – nel senso che emotivamente rinsalda la propensione all’elevazione dell’età pensionabile della donna  e viene abilmente sfruttata come pretesto da coloro che si sono ripromessi di far cadere la condizione di favore  strutturata dalla facoltà per la donna di recedere con un anticipo di 5 anni rispetto all’età di pensionamento di vecchiaia dell’uomo – una sentenza della Corte di Giustizia europea, resa  il 13 novembre 2008 (causa C-46/07). La sentenza scaturisce da un ricorso proposto dalla Commissione delle Comunità Europee nei confronti dello Stato italiano, teso ad ottenere dalla Corte medesima la dichiarazione del mancato adempimento dell’Italia rispetto agli obblighi previsti dall’art. 141 del trattato istitutivo della C.E. - che vieta qualsiasi discriminazione in materia di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici, qualunque sia il meccanismo generatore dell’ineguaglianza –  per avere consentito il nostro Paese la vigenza di una normativa riconoscente il diritto dei pubblici dipendenti al trattamento pensionistico di vecchiaia, con differenziazione dell’età pensionabile a seconda del sesso.

La Corte di Giustizia giunge a  dichiarare che l’età pensionabile di 65 anni per gli uomini e di solo 60 per le donne – ma limitatamente al regime del pubblico impiego – deve ritenersi in contrasto con il citato art. 141 del trattato C.E.. Tuttavia fonda il proprio convincimento su tre assunti, se non errati, per noi non agevolmente condivisibili:

a) il primo discendente dal travisamento (o quantomeno dall’inadeguata comprensione) del nostro regime pensionistico che garantisce un’età massima per il pensionamento di vecchiaia paritaria tra i due sessi, con facoltà di scelta della donna di recedere con un anticipo di 5 anni rispetto all’uomo, con ciò accordando alla donna un potenziale beneficio rispetto al collega di sesso maschile;

b) il secondo rappresentato dalla convinzione che i trattamenti pensionistici erogati dall’Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti dell’Amministrazione Pubblica (I.N.P.D.A.P.) in favore dei propri iscritti, avrebbero natura di retribuzione differita e non sarebbero invece da ritenersi delle vere e proprie prestazioni previdenziali. La Corte ritiene che l’ordinamento previdenziale INPDAP non sia un regime legale, bensì “professionale” (nel senso codificato dall’ordinamento comunitario che designa come “professionale” un regime che non ha valenza generale ma concerne una categoria particolare di lavoratori, le donne del settore pubblico gestite in quiescenza dall’Inpdap, nel caso di specie) – per di più discriminatorio - e che, pertanto, i trattamenti erogati dall’Istituto siano da ritenersi comparabili a quelli che verserebbe un datore di lavoro privato ai suoi ex dipendenti;

b) il terzo riposante sul vizio di non tenere conto delle evoluzioni legislative medio tempore intervenute nel nostro ordinamento previdenziale (in particolare, del processo di parificazione normativa della disciplina giuslavoristica del pubblico impiego a quello privato, avviata ormai da oltre quindici anni) ed altresì dell'avvenuta riconduzione del regime previdenziale pubblico nell’ambito del sistema di regole e di calcolo vigenti per l’assicurazione generale obbligatoria Inps. Talché l’imposizione ex lege della stessa rigida età di pensionamento di vecchiaia per i due sessi - per adeguamento alla sentenza - non potrà essere circoscritta al settore del pubblico impiego preso in esame dalla Corte di giustizia, se non a rischio certo di introdurre  un trattamento discriminatorio incostituzionale fra lavoratori pubblici e dipendenti privati.

Va detto che dopo l’istituzione dell’Inpdap (D. Lgs n. 479/94), quale polo previdenziale pubblico e dopo la riforma operata con la Legge 17 agosto 1995 n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) - norma che ha consentito l’armonizzazione dei vari ordinamenti previdenziali esistenti, sottoponendoli alle medesime regole - non esistono più differenze nelle condizioni di accesso alla quiescenza tra lavoratori pubblici e privati, come pure non sussistono particolari diversità, se non per la specificità di alcune prestazioni non pensionistiche (es. per l’Inpdap trattamenti di fine servizio, di fine rapporto, prestiti e mutui ecc., e per l’Inps, assegno nucleo familiare, cassa integrazione guadagni, ecc.), tra le funzioni e attività istituzionali dell’Ente previdenziale pubblico, Inpdap e quello privato, Inps.

Riguardo all’asserita  natura retributiva della pensione del dipendente pubblico, è stato correttamente osservato che: «attribuire alla pensione del dipendente pubblico la natura di retribuzione differita, quale prosecuzione del trattamento stipendiale, risulta anacronistico, poiché ancora in aderenza ai principi ed alle norme tipiche del diritto amministrativo che un tempo ormai lontano regolavano il rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione. In effetti, una volta la pensione poteva ritenersi un’appendice dello stipendio, quando era competenza del medesimo ufficio - ossia dell’allora esistente Direzione Provinciale del Tesoro - erogare prima lo stipendio di buona parte dei dipendenti pubblici e poi, al termine del servizio, la pensione, tramite delle partite denominate di ”spese fisse”, gravanti tutte sul bilancio dello Stato. Poiché tale condizione non è ormai più esistente da circa dieci anni, non c’è più la possibilità di confondere l’Ente pubblico datore di lavoro con l’Istituto previdenziale dei pubblici dipendenti, il quale ha una propria autonomia e personalità giuridica, al pari dell’Istituto previdenziale per i dipendenti privati. Non vi è dubbio alcuno, che entrambi eroghino prestazioni pensionistiche nascenti da un rapporto giuridico previdenziale, che sorge al momento del verificarsi dei medesimi requisiti stabiliti dalla legge, il quale, a sua volta, scaturisce da un pregresso rapporto contributivo intrattenuto durante l’attività lavorativa tra il datore di lavoro e l’ente previdenziale[3]». A scusante della Corte di giustizia CE, va detto però che essa ha come riferimento giuridico una nozione di retribuzione diversa dalla nostra, una nozione fondata sull’art. 141 CE (nell’interpretazione ad esso fornita in numerosi precedenti dalla stessa Corte) secondo cui anche le pensioni di categorie professionali costituiscono retribuzione.

La Corte ha inoltre rigettato – ed in ciò incontra la nostra condivisione - l’argomentazione del Governo italiano secondo cui la concessione di un pensionamento anticipato ai 60 anni per la donna costituiva una misura compensativa delle eventuali presunte discriminazioni in corso di rapporto. A tale scopo argomentando che: «Anche se l’art. 141, n. 4, CE autorizza gli Stati membri a mantenere o a adottare misure che prevedano vantaggi specifici, diretti a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali, al fine di assicurare una piena uguaglianza tra uomini e donne nella vita professionale, non se ne può dedurre che questa disposizione consente la fissazione di una tale condizione di età diversa a seconda del sesso. Infatti, i provvedimenti nazionali contemplati da tale disposizione debbono, in ogni caso, contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo. (…) Ora, la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione d’età diversa a seconda del sesso non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando queste donne nella loro vita professionale e ponendo rimedio ai problemi che esse possono incontrare durante la loro carriera professionale».

Il pensiero dell’Alta corte di giustizia europea suona quindi come sollecitazione a porre in atto – da parte del legislatore italiano – effettive misure riequilibratrici degli svantaggi e dei disagi per la donna lavoratrice, non riconoscendo emblematicamente al cd. “sconto” d'età pensionabile carattere in alcun modo compensativo per la donna lavoratrice.

 

5. Iniziative parlamentari ed opinioni sull’equiparazione coattiva dell’età pensionabile

Prendendo a pretesto questa sentenza è ripartita, a fine 2008-inizio 2009, la campagna per l’elevazione - in rigida egualizzazione con l’uomo - dell’età pensionabile della donna, giustificandola da un lato con l’esigenza di adeguarsi ad una sentenza dell’Alta corte di giustizia europea (quantomeno relativamente al pubblico impiego), dall’altro con l’esigenza di non svalutare il dato statistico della più elevata aspettativa di vita media della donna rispetto all’uomo, la quale - nonostante l’eliminazione dell’attuale beneficio - consentirebbe comunque alla donna la fruizione della pensione di vecchiaia per un tempo sensibilmente superiore a quello del pensionato di sesso maschile.

Fiutando l’esito della sentenza – anticipato mediaticamente e a più riprese dalla parlamentare Emma Bonino – la compagine governativa presentava in data il 16 giugno 2008, una proposta di legge (AS. n. 1299), passata pressoché in sordina, di iniziativa, tra gli altri, del sen. Cazzola (ex segretario della Fiom-Cgil, passato al P.d.l., attivo in campo previdenziale e noto per essere stato promotore della restrizione dei benefici previdenziali da esposizione ad amianto). In essa si prevede l’elevazione graduale,  nel regime contributivo a partire dal 2014 (allorquando dovrebbe essere entrato a regime in modo parziale o totale il sistema pensionistico contributivo), a sessantadue anni dell’età pensionabile di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti, autonome e libere professioniste appartenenti a tutti i regimi, in ragione di un anno ogni due, a decorrere dal 1° gennaio 2010. Al tempo stesso si propone, con gradualità, di istituire per i lavoratori e le lavoratrici cui si applica il sistema contributivo, un pensionamento unificato di vecchiaia che - fermo restando il diritto al pensionamento con quaranta anni di contributi, indipendentemente dall’età anagrafica - promuova l’allungamento della vita lavorativa e garantisca una flessibilità di opzioni per il requisito anagrafico di quiescenza, compreso tra un minimo di 62 ed un massimo di 67 anni.

Tra i sostenitori della modifica normativa in tema di allineamento dell’età pensionabile della donna, troviamo il giuslavorista del Pd Tiziano Treu, per il quale l’innalzamento è “utile”. Le donne, secondo l’ex Presidente della Commissione Lavoro del Senato, vivono infatti più a lungo e hanno la possibilità di continuare a lavorare. Per riconoscere alla popolazione femminile il “ruolo familiare”, inoltre, bisogna tuttavia sostenerle di più nella fase della vita in cui curano i figli, garantendo loro contributi figurativi o bonus per assicurare una continuità di versamenti previdenziali.

Tra l’opinione pubblica  e i soggetti istituzionali, si registra l’opposizione dei sindacati che ritengono che l’elevazione dell’età pensionabile della donna pur “non costituendo un tabù” (Cisl) “non sarebbe affatto una priorità nell’attuale situazione di crisi e comunque andrebbe affrontata con una soluzione volontaria e non impositiva di un obbligo” (Cgil e sen. Lanzillotta).

Dalle interviste dei media ad esponenti del mondo femminile risulta prioritaria e condicio sine qua non la soluzione di una “parità prima dei 60 anni”, attraverso pari opportunità di carriera, sostegno dello Stato ai servizi di cura familiare e assistenziali degli anziani invalidi, il tutto assicurato durante la vita lavorativa anteriore ai 60 anni.

Per parte nostra esprimiamo l’avviso che, se è innegabilmente nella natura delle cose una inarrestabile parificazione dell’età pensionabile – mediante l’eliminazione dell’attuale pensionamento volontario anticipato – le esponenti più ideologizzate delle donne dovranno dismettere l’utopia che, rimosso dall’ordinamento il beneficio  dell’anticipo ai 60 anni, ne consegua più o meno automaticamente la parità in seno alla famiglia ed alla società. Devono essere ben consapevoli che, invece, si ritroveranno nella stessa condizione di prima, peggiorando la situazione di coloro (es. le nubili, le più fortunate che non hanno parenti inabili da accudire, ecc.) le quali, invece, dal ritiro anticipato possono fruire di un più prolungato periodo di pensionamento in condizioni di serenità. Conseguentemente dovranno farsi “pragmatiche” per non incorrere in una “rimessa secca”. Non dovranno pertanto dividersi ma essere solidali nel  non (privarsi o) farsi privare di questo beneficio se non si sono  ottenuti - meglio in precedenza piuttosto che contestualmente e come sollecita indirettamente la Corte di Giustizia CE - impegni o realizzazioni di effettiva o quantomeno tendenziale parità retributiva e di carriera in corso di rapporto, nonché contribuzioni figurative a fronte dei periodi di cura e assistenza familiare idonee a sottrarle all’attuale penalizzazione nel trattamento pensionistico. Solo se lo Stato avrà provveduto all’eliminazione o perlomeno al ridimensionamento di queste diseguaglianze di fatto, si potrà convenire, senza rimetterci, sulla modificazione dell’età pensionabile  delle donne. Altrimenti si tratta - come è stato incisivamente detto - di “parità a perdere” (On. le Prestigiacomo).

Il nostro pensiero quindi collima con quanto affermato – e letto  sulla stampa – in un’intervista resa dalla coordinatrice di donne Manager Italia, secondo cui:« Sarò favorevole solo nel momento in cui esisteranno delle tutele per le donne: una vera parità nei ruoli familiari e nella carriera, senza che gli impegni a casa arrestino la crescita professionale, oltre a politiche sociali e strutture che supportino la lavoratrice nella cura dei figli e degli anziani. Allora potremo parlare di parità nelle pensioni. Oggi è prematuro. Oggi il lavoro femminile è più logorante di quello maschile, per i tanti ruoli che la donna deve assumere, in ufficio e a casa. Quella dell’età pensionabile sarebbe una finta parità, perché di nuovo ci verrebbe chiesto più di quanto si pretende dagli uomini. Non è che dobbiamo dare per poi ottenere: noi abbiamo già dato. Perché non guardiamo ai Paesi nordici, dove le tasse sono si la metà dello stipendio ma esistono servizi efficienti di supporto alla maternità e alla cura degli anziani?[4]».

 

Mario Meucci

Roma 15 febbraio 2009  (pubblicato su Confronti e Intese n. 250/2009)

 

[1] Così D’Amore A., La questione dell’età pensionabile delle donne-lavoratrici, in Osservatorio del lavoro, rivista telematica dell’Un. Milano Bicocca, 1/2009.

[2] In Not. giurisp. lav. 2006, 493. Tale decisione ripercorre tutti i precedenti della Corte costituzionale sul tema (n. 137/86, n. 498/88, n. 256/2002) e aderisce  all’analogo significativo precedente di Cass. 24.4.2003 n. 6535 (in Foro it., 2003, I, 2577).Contra, per l’onere comunicativo: Cass. 6.2.2006 n. 2472 (est. Vidiri), in Not. giurisp. lav. 2006, 369.

[3] Così incisivamente, D’Amore A., op.cit. nt. 1.

[4] Così Montegiovi M. , Ma le donne vogliono davvero la pari anzianità?, in Io donna (Corriere della sera), 24 febbraio 2007.

(Torna all'elenco Articoli nel sito)