Ulteriori opinioni dottrinali sulla “legge delega per la riforma del mercato del lavoro”
R. Crociara - Testina di ragazza
Il disegno di legge delega
in materia di mercato del lavoro e la riforma della disciplina del
licenziamento individuale
Sommario:
1. Premessa: il progetto di deroga all’art. 18
St. lav.- 2. La sospensione della tutela reale nel caso di emersione dal lavoro
sommerso.- 3. La trasformazione dei rapporti di lavoro da tempo determinato a
tempo indeterminato.- 4. L’incoraggiamento alla crescita dimensionale delle
imprese minori.- 5. La riforma dell’arbitrato e il regime dei licenziamenti.-
6. La riforma della disciplina dei licenziamenti
individuali e i principi costituzionali, internazionali e comunitari.
1.
Il presente scritto è rivolto ad analizzare le parti del disegno di legge
delega in materia di mercato del lavoro - approvato dal Consiglio dei Ministri
il 15 novembre 2001 - che, in modo specifico, toccano l’area del regime
sanzionatorio del licenziamento ingiustificato. Anzitutto, l’art. 10 del
disegno di legge delega contiene significative modifiche alla disciplina dei
licenziamenti individuali. La disposizione è intitolata “delega al Governo in
materia di altre misure temporanee e sperimentali a sostegno dell’occupazione
regolare, nonché incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato”. Secondo tale
previsione, “ai fini di sostegno e incentivazione della occupazione regolare e delle
assunzioni a tempo indeterminato, il Governo è delegato a introdurre in via
sperimentale, entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della
presente legge, disposizioni relative alle conseguenze sanzionatorie a carico
del datore di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato ai sensi della
legge 15 luglio 1966, n. 604 e successive modifiche, in deroga all’articolo 18
della legge 20 maggio 1970, n. 300 prevedendo in alternativa il risarcimento
alla reintegrazione, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a)
conferma dei divieti attualmente vigenti in materia di licenziamento
discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300,
licenziamento della lavoratrice in concomitanza con il suo matrimonio a norma
degli articoli 1 e 2 della legge 9 gennaio 1963, n. 7 e licenziamento in caso
di malattia o maternità a norma dell’articolo 2110 del codice civile; b)
applicazione in via sperimentale della disciplina per la durata di quattro anni
dall’entrata in vigore dei decreti legislativi, fatta salva la possibilità di
proroghe in relazione agli effetti registrati sul piano occupazionale; c)
identificazione delle ragioni oggettive connesse a misure di riemersione,
stabilizzazione dei rapporti di lavoro sulla base di trasformazioni da tempo
determinato a tempo indeterminato, politiche di incoraggiamento della crescita
dimensionale delle imprese minori, non computandosi nel numero dei dipendenti
occupati le unità lavorative assunte per il primo biennio, che giustifichino la
deroga all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300”.
Pertanto, l’intenzione sarebbe quella di sospendere, per un periodo
provvisorio (ma prorogabile), l’applicazione dell’art. 18 St.lav. in presenza
di tre specifiche ragioni. Beninteso, va detto che la sospensione dell’art. 18
St.lav. determinerebbe che nei casi previsti il lavoratore, licenziato senza
giusta causa o giustificato motivo, avrebbe diritto solo ad una tutela
risarcitoria.
Orbene,
va osservato che la suddetta sospensione dovrebbe essere prevista “ai fini di
sostegno e incentivazione della occupazione regolare e delle assunzioni a tempo
indeterminato”. Pertanto, è evidente l’obiettivo che il Governo intende
perseguire attraverso la parziale eliminazione della tutela reale. Il presupposto
di tale progetto è quindi la concezione secondo la quale la rigidità della
tutela del lavoro comprime la crescita dell’occupazione e di conseguenza un
allentamento delle garanzie avrebbe l’effetto di favorire l’espansione della
base occupazionale, stimolando le imprese ad effettuare nuove assunzioni.
Tuttavia, tale concezione, sebbene alquanto diffusa, non riesce a trovare
nessuna valida dimostrazione empirica, benché da parecchio tempo gli economisti
si arrovellino nel tentativo di supportarne la base giustificativa. Vero è
invece che le ricerche disponibili – come quelle dell’ultraliberista OCSE –
segnalano che il grado di rigidità della legislazione a tutela dell’impiego non
presenta alcuna evidente correlazione con il tasso di disoccupazione, bensì può
influenzare solo la composizione demografica della distribuzione della medesima
percentuale di disoccupazione, nonché sembra incidere sul rapporto tra
occupazione e popolazione in età lavorativa e sul turnover nel mercato del
lavoro.
In
altri termini, la crescita della disoccupazione non pare dipendere dalla
maggiore o minore rigidità della normativa a tutela dell’impiego, ma la
flessibilità di quest’ultima può incidere sulla composizione demografica della
disoccupazione - e cioè sui livelli di disoccupazione dei maschi adulti, delle
donne e dei giovani –, e tendenzialmente anche sul tasso di occupazione (che è
una cosa ben diversa dal tasso di disoccupazione) e sul turnover tra
disoccupati e occupati, vale a dire sulla frequenza del passaggio tra stati di
occupazione e di disoccupazione. Comunque, dagli studi disponibili si trae il
risultato che la deregolazione del mercato del lavoro non rappresenta la
ricetta perfetta per creare occupazione ed abbattere i tassi di disoccupazione,
ma anzi può produrre effetti opposti a quelli desiderati.
Sotto
questo profilo la scelta governativa appare alquanto draconiana nell’adottare
una linea di politica del lavoro che non trova adeguato supporto nei dati e
nelle ricerche attualmente esistenti. Insomma, la sensazione è quella che si
cerchi di mascherare un provvedimento che (sicuramente) abbassa l’attuale
livello delle garanzie per molti lavoratori con la giustificazione che esso
produrrà in futuro l’effetto (estremamente incerto) di favorire la crescita
dell’occupazione.
2.
Beninteso, vanno esaminate le tre specifiche “ragioni oggettive” a cui, secondo
il Governo, sarebbe connessa la sospensione dell’applicazione dell’art. 18 St.
lav.
La
prima di queste è quella, assai genericamente individuata, delle “misure di
riemersione”. E’ logico ritenere che verrebbe prevista la deroga alla
soggezione alla tutela reale per i datori di lavoro che adottano misure di
emersione dal lavoro sommerso: in questo modo, i datori di lavoro avrebbero la
forte agevolazione ad emergere rappresentata dall’attenuazione del regime di
tutela nei confronti del licenziamento ingiustificato. Probabilmente,
l’agevolazione verrebbe costruita stabilendo la non applicazione dell’art. 18
St. lav. ai datori di lavoro che applicano le misure di riemersione (che
appunto emergono) e superano la fatidica soglia dei quindici dipendenti a
livello di ogni unità produttiva o dei sessanta dipendenti nell’ambito
dell’organizzazione complessiva. Pertanto, è difficile che l’agevolazione possa
essere sfruttata da imprese totalmente in nero: perché molto rari sembrano
essere i casi di imprese che superano la soglia dei quindici dipendenti in una
unità produttiva e riescono ad operare completamente in sommersione. Più in
generale, i dati disponibili non riescono ad offrire una completa radiografia
della consistenza occupazionale delle imprese sommerse: e quindi gli effetti
dell’incentivo proposto sono valutati senza alcuna base affidabile di
riferimento. Anche se non va trascurato che è possibile l’esistenza di datori
di lavoro sommersi che abbiano alle proprie dipendenze più di quindici
lavoratori distribuiti nel territorio di uno stesso comune: e in questo caso
potrebbe prodursi qualche effetto positivo. Comunque, al di là di alcuni casi
eclatanti, il sommerso più diffuso è rappresentato da piccolissime unità
produttive con pochi addetti, nel settore dei servizi, dell’edilizia,
dell’agricoltura, e del tessile. E’ più probabile quindi che l’incentivo sia
usufruibile da quelle imprese emerse, ma che utilizzano in nero parte del loro
personale la cui regolarizzazione sarebbe ostacolata dal diffuso timore del
datore di dovere sopportare in futuro oneri eccessivi.
Va
poi osservato che non appare affatto equo scaricare i costi dell’emersione
delle imprese – il cui operare in nero provoca danni all’intera società – sui
lavoratori da esse impiegati che invece molto spesso si trovano a dovere
accettare l’occupazione sommersa come unica alternativa. Forse sarebbe più
opportuno prevedere vere misure di sostegno non solo all’emersione, ma
soprattutto alla stabilizzazione delle imprese emerse che sovente hanno estrema
difficoltà nel reggere i nuovi costi provocati dal rispetto della legalità e
dall’operare alla luce del sole.
Peraltro,
va posta adeguata attenzione sul modo con cui è costruita questa parte del
provvedimento. In effetti, esso si limita a prevedere un nuovo (seppure
discutibile) incentivo a favore delle imprese che usufruiscono di “misure di
riemersione”. Attualmente, in Italia, la misura più importante del genere è quella
contenuta nella legge n. 383/2001 (che fa parte del pacchetto dei cosiddetti
“cento giorni” del Governo). Il sistema da essa previsto è a termine: nel senso
che entro una certa data l’impresa deve manifestare la sua volontà di emergere,
dichiarando anche il numero dei lavoratori sommersi. Il nuovo incentivo
all’emersione, rappresentato dalla sospensione dell’art. 18 St. lav., mira a
rendere ancora più favorevole il pacchetto di notevoli benefici contenuto nella
legge n. 383/2001. E proprio tutto questo determina la necessità che il termine
per l’adesione a tale sistema agevolativo non venga prorogato né riaperto con
successivi provvedimenti. Perché altrimenti si creerebbe una ingiustificata
disparità di trattamento a danno delle imprese regolari e un forte stimolo ad
operare in modo irregolare, con la sicura certezza dell’arrivo in futuro di un
provvedimento di sanatoria.
Sicché,
ciò che sembra fortemente deprecabile è l’idea – che risalta da questa parte
del provvedimento – che l’emersione delle imprese sia ostacolata dal sistema
delle garanzie a favore del lavoro e che quindi sia necessario abbassare il
livello delle tutele per ottenere, con effetto immediato, la tendenza alla
regolarizzazione dei rapporti di lavoro. Attendendo smentite da ricerche più recenti,
attualmente sembra alquanto difficile dimostrare tale teorema.
Peraltro,
come s’è già accennato, la sospensione dell’art. 18 St. lav. non appare un
incentivo adatto a colpire quei fenomeni di sommersione particolarmente diffusi
nelle zone depresse del Paese, specie nel Mezzogiorno: qui v’è una miriade di
piccole e piccolissime imprese che operano in nero o in parziale sommersione,
ma che hanno livelli dimensionali ben lontani dalla fatidica soglia dei
quindici dipendenti: e che quindi anche nel caso di una loro regolarizzazione
resterebbero soggette alla più labile tutela obbligatoria/risarcitoria. Semmai,
lo strumento proposto potrà essere adeguatamente utilizzato dalle più solide
imprese del Centro-Nord, che hanno livelli dimensionali vicini alla soglia
citata e che avrebbero uno stimolo efficace a regolarizzare gli eventuali
rapporti di lavoro aggiuntivo che vengono gestiti in modo non corretto
(soprattutto utilizzando i lavoratori formalmente a part-time, ma in realtà a
tempo pieno, oppure pensionati o cassaintegrati) e che determinerebbero il
superamento della suddetta soglia. Ma se fosse veramente così il provvedimento
mancherebbe l’obiettivo per cui è stato escogitato: che appunto dovrebbe essere
quello di favorire la crescita dell’occupazione regolare. In altre parole,
esponenti politici vicini al mondo delle imprese e autorevoli protagonisti
delle associazioni rappresentative di queste non perdono occasione di
rappresentare tale specifica misura come la chiave di volta per ridurre gli
endemici elevati tassi di occupazione sommersa italiana. In verità, questo
aspetto del provvedimento corre il rischio di assomigliare ad un forte premio
concesso a limitati settori dell’apparato produttivo, vale a dire alle piccole
imprese, che con la formale giustificazione di regolarizzare bassissime
percentuali di occupazione irregolare (non è escluso l’accesso fraudolento al
meccanismo agevolativo) potrebbero varare piani di incremento occupazionale per
raggiungere soglie dimensionali vicine a quelle delle imprese medio-grandi che
invece resterebbero soggette all’applicazione dell’art. 18 St. lav. In questo
modo, con l’avallo del legislatore, si giustificherebbe una sorta di
concorrenza sleale – perché basata sulla riduzione dei costi del lavoro – a
danno delle imprese medio-grandi che invece hanno sempre operato nella
legalità. Di conseguenza, il legislatore avrebbe ulteriormente contribuito alla
frantumazione del mercato del lavoro e alla differenziazione delle tutele: e
cioè alla balcanizzazione delle garanzie e delle regole della concorrenza: cosa
del tutto diversa dalla dichiarata intenzione di volere favorire la crescita
economica e occupazionale all’interno di un quadro di regole semplici ed eque.
3.
L’altra ipotesi in cui dovrebbe operare la sospensione dell’art. 18 St. lav. è
quella della “stabilizzazione dei rapporti di lavoro sulla base di
trasformazione da tempo determinato a tempo indeterminato”. In altri termini,
il beneficio della non applicazione della tutela reale verrebbe concesso alle
imprese che assumono a tempo indeterminato lavoratori già in forza in base a
contratti a tempo determinato.
La
misura appare alquanto preoccupante per una serie di ragioni. Anzitutto, è
evidente che in questo modo anche lo stesso contratto a tempo indeterminato verrebbe
precarizzato, in quanto il datore potrebbe licenziare il lavoratore senza
alcuna valida giustificazione, con il solo prezzo dell’onere risarcitorio.
Peraltro, si innescherebbe un meccanismo di tipo diffusivo, tale per cui i
datori sarebbero incentivati ad effettuare tutte le assunzioni a termine, in
modo tale che la conversione dei rapporti a tempo indeterminato possa comunque
permettere di godere della sospensione dell’art. 18 St. lav. Va ricordato che
uno degli effetti più significativi della recente riforma della disciplina del
contratto a tempo determinato (con il d.lgs. n. 368/2001) è quello di
comprimere fortemente la possibilità per la contrattazione collettiva di
fissare dei limiti quantitativi (e cioè di personale) all’utilizzazione del
contratto a termine. Pertanto, grazie all’effetto combinato dell’incentivo
della sospensione dell’art. 18 St. lav. e della nuova disciplina sul contratto
a termine, il legislatore aprirebbe la strada alla diffusione pressoché totale
di un nuovo modello di contratto di lavoro a tempo indeterminato del tutto
precario, e cioè non garantito da un adeguata tutela in caso di licenziamento
ingiustificato.
In
effetti, sembra evidente che la misura proposta sia contrastante con
l’obiettivo che essa dovrebbe perseguire: se infatti il Governo intendesse
veramente favorire le assunzioni a tempo indeterminato avrebbe dovuto prevedere
appositi benefici per la stipula di tali rapporti. Ma perseguire l’obiettivo
della “stabilizzazione dei rapporti di lavoro” attraverso la riduzione delle
garanzie tipiche del contratto a tempo indeterminato in verità realizza una
situazione del tutto paradossale: e cioè il passaggio da un rapporto a tempo
determinato a uno a tempo indeterminato non determinerebbe alcuna
“stabilizzazione” del rapporto, bensì manterrebbe una condizione di estrema
precarietà dello stesso; a tal punto, che sarebbe più stabile il contratto a
tempo determinato, dato che la risoluzione del medesimo sarebbe possibile solo
per giusta causa.
I
sostenitori della misura in esame sostengono che essa troverebbe il suo
precedente in analoghi provvedimenti varati di recente dal Governo spagnolo. Il
paragone tuttavia non coglie esattamente i termini della questione. Anzitutto,
la Spagna presenta da tempo le più alte percentuali d’Europa quanto
all’utilizzazione del contratto a termine. Tale situazione ha provocato grossi
problemi sia dal lato dei lavoratori sia delle imprese: gli uni si trovano
inseriti in rapporti che non offrono nessuna certezza per il futuro e quindi
non permettono di programmare momenti fondamentali della vita personale; le
altre, in presenta di una elevata mobilità del personale, si trovano di
conseguenza in una condizione di forte instabilità e hanno la difficoltà di
predisporre programmi di innovazione tecnologica e organizzativa e di
formazione che presuppongono l’esistenza di un nucleo di lavoratori stabili e
radicati nell’impresa. Pertanto, il governo spagnolo ha cercato di ridurre le
percentuali di utilizzo dei contratti a tempo determinato, favorendo la stipula
di contratti a tempo indeterminato. Ciò è stato realizzato abbassando i costi
della tutela in caso di licenziamento ingiustificato per i rapporti a tempo
indeterminato. In Spagna la tutela reale è confinata in alcuni casi specifici,
e la forma di tutela generale è quella risarcitoria sul modello della legge n.
604/1966: e così con le recenti riforme sono state ridotte le indennità
spettanti ai lavoratori, assunti a tempo indeterminato, in caso di
licenziamento ingiustificato. Ma attenzione: le indennità attualmente previste
restano molto più elevate rispetto a quelle previste dal sistema di tutela
obbligatoria della legge n. 604/1966. Ciò significa che il lavoratore spagnolo
anche se gode di una tutela solo risarcitoria, si trova in una condizione ben differente
dal collega italiano cui si applicano le scarne indennità della legge n.
604/1966: e quindi, come si vede, il paragone con il sistema spagnolo per
giustificare lo strumento proposto non è per niente adeguato.
4.
La terza ipotesi in cui dovrebbe operare la deroga all’art. 18 St. lav. sarebbe
quella delle “politiche di incoraggiamento della crescita dimensionale delle
imprese minori, non computandosi nel numero dei dipendenti occupati le unità
lavorative assunte per il primo biennio”. Però, va subito detto che nel
testo della disposizione manca qualsiasi indicazione su che cosa s’intenda per
“imprese minori” la cui crescita dimensionale andrebbe incoraggiata con la
sospensione dell’art. 18 St. lav. Comunque, un punto di riferimento è nella stessa
disposizione che si vorrebbe congelare. Infatti, com’è noto, l’art. 18 St.
lav., dopo la riforma operata dalla legge n. 108/1990, prevede l’applicazione
della tutela reale da esso regolata allo scattare di una soglia di occupati
riferita alla singola unità produttiva (che è di sedici dipendenti o di sei per
le imprese agricole) o “in ogni caso” di una soglia che considera il complesso
dei prestatori di lavoro occupati (che è di sessantuno dipendenti). Se
l’incentivo fornito dall’art. 10 del disegno di legge delega è limitato alle
“imprese minori” è logico ritenere che, nell’esercizio della delega, si dovrà
elaborare una nozione di impresa minore coordinata con la norma sospesa e con
la comune concezione di “impresa minore”. Sembra quindi pensabile – anche in considerazione
della storia applicativa della disciplina del campo di applicazione dell’art.
18 St. lav. e tenendo conto le dichiarazioni provenienti dai membri del Governo
e degli esperti ad esso vicini – che la programmata sospensione della tutela
reale si riferirà ai datori di lavoro che supereranno la soglia dei quindici
dipendenti nelle singole unità produttive fino ad arrivare a sessanta occupati
nell’organizzazione aziendale complessiva. Quest’ultimo limite dimensionale,
cioè quello dei sessanta dipendenti, dovrebbe risultare invalicabile dal
legislatore delegato, perché altrimenti verrebbe favorita un’impresa
assolutamente non considerabile come “minore” e quindi ci si troverebbe di
fronte ad un caso di eccesso di delega che esporrebbe la legislazione delegata
al vizio di incostituzionalità per contrasto con l’art. 76 della Costituzione.
Se
si condivide che quelle poc’anzi esposte siano le modalità necessarie di
individuazione dell’impresa minore beneficiata dalla sospensione dell’art. 18
St. lav. – anche se non se ne possono escludere altre, che però esigono
operazioni ermeneutiche più complesse e meno giustificabili -, vanno esaminate
le ragioni per cui dovrebbe essere introdotta la citata sospensione. In
sostanza, è diffusa l’idea che la soglia dei quindici dipendenti costituisca un
ostacolo per le scelte di crescita delle imprese e quindi si vorrebbe
incoraggiare tale sviluppo con la temporanea non considerazione dei lavoratori
neoassunti per un determinato periodo di tempo, in modo tale da congelare
(formalmente) il dato dimensionale al di sotto della soglia da cui scatta
l’applicazione dell’art. 18 St. lav.
Tuttavia,
va detto che diverse ricerche dimostrano come la scelta delle imprese di
effettuare nuove assunzioni, e quindi di ampliare le proprie dimensioni, non
sia direttamente, o quantomeno esclusivamente, influenzata dal timore di subire
l’applicazione di normative lavoristiche più rigide: tra cui in primo luogo
viene in rilievo proprio la disciplina in materia di licenziamenti individuali,
che determina, all’atto del superamento della soglia dei quindici dipendenti,
l’operatività dell’art. 18 St. lav. al posto della più labile tutela
risarcitoria di cui all’art. 8 della legge n. 604/1996. Se ciò è vero, o
comunque stante l’incertezza dei dati disponibili, ci si sarebbe aspettato
maggiore prudenza da parte del Governo che invece ha optato, in modo drastico,
per l’idea che l’alleggerimento della rigidità delle tutele dei lavoratori
possa automaticamente produrre nuova occupazione. D’altronde, è a tutti noto
che i fattori fondamentali dei processi di sviluppo sono costituiti anche da
elementi immateriali come la fiducia e la stabilità del quadro economico:
perciò, forse sarebbe stato più opportuno limitarsi ad avviare un ampio
pacchetto d’interventi volti a creare condizioni favorevoli alle scelte
d’investimento, come specifici programmi d’assistenza e misure fiscali
ritagliati sulle esigenze delle piccole imprese, ovvero l’effettiva attivazione
di quelli già esistenti, come lo sportello unico. Anche qui emerge il sospetto
che le esigenze politiche abbiano prevalso sulla ragionevolezza: e che si sia
deciso di offrire alle piccole imprese un incentivo il cui costo viene
integralmente scaricato sui lavoratori coinvolti.
Peraltro,
la misura appare non condivisibile anche sotto il profilo della disparità di
trattamento che andrebbe a determinare tra gli stessi datori di lavoro.
Infatti, potrebbe verificarsi l’ipotesi in cui alcune imprese raggiungano, in
tempi brevi, dimensioni pari a quelle di altre che da tempo operano in quelle
condizioni. Le une sarebbero avvantaggiate rispetto dalle altre, perché
ovviamente godrebbero di una maggiore flessibilità nella gestione della stessa
forza lavoro. Tale elemento critico sarebbe enfatizzato dalla circostanza che la
deroga potrebbe operare fino a quando l’impresa, pur partendo nel suo processo
di crescita da una sola unità lavorativa, non arrivi a superare i sessanta
dipendenti. Anche sotto questo profilo si coglie come l’incoraggiamento
della crescita dimensionale delle imprese minori, per evitare di creare
disparità di trattamento, debba essere realizzato in modo equo: e cioè,
mediante incentivi diretti agli investimenti, che quindi siano usufruibili,
senza produrre discriminazioni, da tutti i soggetti presenti nel mercato, e
semmai proporzionalmente al capitale investito ovvero alla capacità innovativa
dei progetti avviati.
Infine,
un appunto di carattere tecnico. Il nuovo campo di applicazione della tutela
reale come risulta regolato dall’at. 18 St. lav., dopo le modifiche introdotte
dalla legge n. 108/1990 si determina, in forza delle esplicite parole del
legislatore, con riferimento al numero di dipendenti occupati dal datore di
lavoro “imprenditore e non imprenditore”. La progettata deroga all’art. 18 St. lav.,
stabilita alla lettera c) dell’art. 10 del disegno di legge delega, considera
soltanto le “imprese minori”. Pertanto, anche qui potrebbe essere individuato
un limite all’esercizio della delega: e cioè che la deroga all’art. 18 St. lav.
andrebbe prevista solo a favore dei datori di lavoro imprenditori, lasciando
inalterato il regime preesistente a carico dei datori di lavoro non
imprenditori. Ma è evidente che tale soluzione introdurrebbe una nuova
differenziazione difficilmente giustificabile.
5. Beninteso,
il testo del disegno di legge delega – la cui analisi completa meriterebbe
notevole spazio – presenta un altro aspetto profondamente collegato alla tutela
nei confronti del licenziamento ingiustificato. Infatti, l’art. 12 del progetto
contiene una delega “in materia di arbitrato nelle controversie individuali di
lavoro”. Viene così proposta una radicale riforma della disciplina
dell’arbitrato in materia di lavoro che contiene alcuni elementi non
condivisibili.
Anzitutto,
tra i principi e criteri direttivi dell’esercizio della delega viene
menzionata, alla lettera a) della disposizione, “la natura volontaria della
compromissione in arbitri delle controversie individuali di lavoro,
direttamente ovvero a opera delle associazioni rappresentative dei datori e
prestatori di lavoro cui essi aderiscano o conferiscano mandato”. La norma
sembra ribadire il carattere volontario e individuale della scelta della via
arbitrale, ma subito dopo pare ammettere la possibilità che l’opzione per la
via arbitrale possa essere effettuata anche dall’organizzazione sindacale cui
il lavoratore aderisca. Se questo punto non verrà chiarito, si profila il
rischio che i datori in futuro possano premere per inserire nei contratti
collettivi clausole che prevedono il deferimento delle controversie al giudizio
arbitrale; e sulla base di questa previsione arrivare a ritenere obbligato il
lavoratore ad accettare la via arbitrale per il solo fatto che il suo rapporto
sia regolato dal medesime contratto collettivo ovvero in quanto egli è
iscritto al sindacato che ha accettato quella clausola con la stipula del
contratto in questione. E’ evidente che questa parte del progetto fa sorgere il
forte dubbio della sua compatibilità con il principio costituzionale della
tutela giudiziaria dei diritti e il conseguente divieto di arbitrato
obbligatorio.
La
convenienza per i datori della scelta della via arbitrale, in effetti, è
enfatizzata dai punti successivi del progetto di riforma. Infatti, tra i vari principi
e criteri direttivi di attuazione della delega, alla lettera d) della
disposizione, si stabilisce il “superamento del divieto di compromettibilità in
arbitri delle controversie individuali aventi ad oggetto diritti dei lavoratori
derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti colletti,
affermandosi conseguentemente il lodo secondo equità, nel rispetto dei principi
generali del nostro ordinamento”. Il rischio è quello che attraverso la
possibilità che l’arbitro decida secondo equità venga del tutto disarticolato
il sistema di tutele e di garanzie attualmente previsto dalle disposizione
delle leggi e dei contratti collettivi.
Ancora
più grave è il criterio indicato dalla lettera f) della disposizione che parla
di “alternatività fra risarcimento del danno con quantificazione interamente
rimessa al giudizio arbitrale e reintegrazione nel posto di lavoro, a
discrezione del collegio arbitrale, in deroga a quanto previsto dall’articolo
18, legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni”. In sostanza,
verrebbe consentita l’eventualità che il collegio arbitrale, davanti cui sia
impugnato un licenziamento, opti per la tutela risarcitoria invece che per
quella reale. E questa alternativa avrebbe una portata generale e non limitata
ai tre casi per i quali il precedente art. 10 ipotizza la sospensione
dell’applicazione dell’art. 18 St. lav. Peraltro, questa nuova procedura
arbitrale sarebbe operativa anche
nell’area del lavoro pubblico, posto che l’art. 11 del progetto si limita a
stabilire che “le disposizioni degli articoli da 1 a 10 non si applicano al
personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente
richiamate” e quindi non menziona espressamente il successivo art. 12, dov’è
contenuta la riforma dell’arbitrato, la cui formulazione è tanto generale da
ritenere che l’esercizio concreto della delega ne determinerà l’estensione
anche al lavoro pubblico. Inoltre, nell’art. 12 del progetto l’alternatività
della scelta tra risarcimento e tutela reale è configurata in termini così ampi
da potere essere estesa anche ai casi di licenziamento discriminatorio, per
matrimonio, per malattia e maternità, per i quali il precedente art. 10
mantiene il tradizionale regime di divieto di licenziamento e di conseguente
nullità. Oppure lo stesso risultato potrebbe essere raggiunto attraverso la
pronuncia del lodo secondo equità, la quale disancora da criteri oggettivi lo
spazio di valutazione del collegio arbitrale.
In
estrema sintesi, mediante la suggerita riforma del sistema dell’arbitrato è
prefigurabile il rischio che la tutela reale venga di fatto espunta
dall’ordinamento e che il complesso dei diritti inderogabili dei lavoratori sia
reso privo di alcuna effettività.
6.
Nella delega contenuta nell’art.10 del progetto in esame, l’attribuzione di
potere legislativo al Governo sembra riguardare non solo la possibilità di
sospensione dell’art. 18 St. lav. nei casi esaminati, ma anche “le conseguenze
sanzionatorie a carico del datore di lavoro in caso di licenziamento
giustificato... prevedendo in alternativa il risarcimento alla reintegrazione”.
E cioè è possibile che la delega vada a modificare anche la conformazione della
tutela risarcitoria rispetto al modo in cui oggi è regolata dalla legge n.
604/1966 e a seguito delle innovazioni apportate dalla legge 108/1990. S’è già
accennato che il “nuovo regime” dovrebbe essere introdotto “in via
sperimentale” per “la durata di quattro anni” e “fatta salva la possibilità di
proroghe in relazione agli effetti registrati sul piano occupazionale”. Ora, si
profila l’eventualità che la nuova tutela risarcitoria possa essere prorogata
per un tempo illimitato e anche che possa essere estesa a tutti i casi di
licenziamento ingiustificato, qualora si dovessero registrare gli auspicati
effetti positivi sul piano occupazionale. Perciò, pare importante spendere
qualche parola sulle modalità attraverso le quali dovrebbe essere costruita (e
quindi riformata) la tutela risarcitoria.
Anzitutto,
va detto che la Corte costituzionale (sent. n. 46/2000) ha escluso che la
tutela reale di cui all’art. 18 St. lav. rappresenti “l’unico possibile
paradigma attuativo” dei principi di cui agli artt. 4 e 35 della Costituzione.
E così, dichiarando ammissibile la richiesta di referendum abrogativo dell’art.
18 St. lav., la Consulta ha aggiunto che “l’eventuale abrogazione della
cosiddetta tutela reale avrebbe il solo effetto di espungere uno dei modi per
realizzare la garanzia del diritto al lavoro, che risulta ricondotta, nelle
discipline che attualmente vigono sia per la tutela reale che per quella
obbligatoria, al criterio di fondo della necessaria giustificazione del
licenziamento”. Peraltro, “una volta rimosso l’art. 18 della legge n. 300/1970”
non “verrebbe meno ogni tutela in materia di licenziamenti illegittimi, in
quanto resterebbe, comunque, operante nell’ordinamento, anche alla luce dei
principi desumibili dalla Carta sociale europea, ratificata e resa esecutiva
con legge 9 febbraio 1999, n. 30, la tutela obbligatoria prevista dalla legge
15 luglio 1966, n. 604, come modificata dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, la
cui tendenziale generalità deve essere qui sottolineata”. Secondo l’art. 24
della Carta sociale europea, le Parti contraenti, “per assicurare l’effettivo
esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento” si impegnano a
riconoscere “il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un
congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”.
Sulla
base dell’argomentazione della Corte costituzionale è possibile affermare che
il legislatore delegato non goda di una illimitata libertà nel riformare anche
l’assetto della tutela risarcitoria. Anzi, si potrebbe arrivare a sostenere che
indirettamente la Corte costituzionale abbia lasciato intendere che l’attuale
assetto della tutela obbligatoria di cui alla legge n. 604/1966 rappresenti un
limite invalicabile per l’azione riformatrice del legislatore delegato, nel
senso che non potrebbe essere prevista una tutela risarcitoria di entità
inferiore a quanto stabilito dall’art. 8 della legge n. 604/1996. D’altra
parte, come risulta dalla Carta sociale europea l’indennizzo in caso di
licenziamento ingiustificato deve essere “congruo”, a meno che non sia prevista
altra “adeguata riparazione”.
Peraltro, il quadro normativo di carattere generale s’è
arricchito con la recente Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea,
proclamata a Nizza nel dicembre 2000, il cui art. 30 prevede che “ogni
lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato,
conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”;
mentre il comma 2 dell’art. 33 stabilisce che “al fine di poter conciliare vita
familiare e vita professionale, ogni individuo ha il diritto di essere tutelato
contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità”. Vero è che
il rinvio “alla legislazioni e prassi nazionali”, lascia agli Stati membri un
ampio ventaglio di opzioni circa le modalità attuative del diritto alla “tutela
in caso di licenziamento ingiustificato” di cui all’art. 30 della Carta, tuttavia
anche qui lo spazio d’azione non è illimitato. Infatti, l’art. 52 del documento
precisa che “eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà
riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e
rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà”. Pertanto, è
agevole ritenere che il contenuto essenziale del diritto alla “tutela in caso
di licenziamento ingiustificato”, non vada identificato soltanto nel principio
di giustificazione sostanziale del licenziamento, ma anche in un principio
volto ad imporre la congruità o l’adeguatezza del regime sanzionatorio del
licenziamento ingiustificato. Ciò perché la mancanza di una tutela
sanzionatoria efficace priverebbe di valore il diritto sostanziale riconosciuto
a monte, e quindi lederebbe il contenuto essenziale del diritto di cui all’art.
30. Certo, attualmente il valore giuridico della Carta dei diritti fondamentali
di Nizza resta incerto e ancora da precisare, ma di fatto essa, fin dal momento
della sua proclamazione, influenza l’attività degli organi comunitarie e degli
Stati membri. E’ consigliabile quindi che il Governo italiano non riponga
eccessiva fiducia esclusivamente sul potere conferitole dalla maggioranza
parlamentare che lo sostiene, ma tenga conto che la sua azione può
legittimamente svolgersi solo entro il quadro delle compatibilità fornito dai
principi del diritto costituzionale e del diritto internazionale e comunitario.
(professore straordinario di Diritto del lavoro nell’Università
di Palermo)
(fonte: www.di-elle.it/approfondimenti_frameset.htm)
DIECI TESI SUL DIRITTO DEL LAVORO AL BIVIO. RIFORMA O RESTAURAZIONE?
1. Il diritto del lavoro al bivio
E’evidente che il diritto del
lavoro italiano è ormai a un bivio, nel senso che la sua direzione di
svolgimento è sottoposta alla scelta tra indirizzi alternativi. Ciò vale
peraltro per molte altre cose in quel piccolo orto che si chiama “Italia”:
l’assetto costituzionale, il sistema politico, il rapporto con l’Europa.
Nessun
ragionamento sul diritto del lavoro può essere quindi attendibile se non
nell’ambito di una analisi sistemica che consideri i più generali problemi
della politica istituzionale. Questo è il limite, ma anche la virtù, del
diritto del lavoro. A differenza di altri rami del diritto, il diritto del
lavoro obbliga a ragionare immediatamente, e non mediatamente, in termini
complessivi. Perché il diritto del lavoro non è una disciplina specifica e
settoriale, ma una disciplina trasversale, come abbiamo detto infinite volte.
Basti ripensare
l’evoluzione della disciplina giuslavoristica degli ultimi trenta anni (fase
statuto, fase emergenza, fase smantellamento automatismi, fase della
concertazione e della flessibilità).
Schematizza e critica proposte
libro bianco e legge delega. Rispondere a questo progetto in maniera settaria
o, al contrario, rapsodica è sbagliato. Occorre contrapporre una alternativa
complessiva, un disegno strategico, che abbia chiare le alternative in gioco.
Perciò qui si sono usate due parole fortemente simboliche: “ri-forma” allude a
un disegno in positivo, “re-staurazione” significa puro e semplice ritorno
all’indietro. A questa parola potrebbe aggiungersene forse un’altra, largamente
usata, questa volta, dalla destra e non dalla sinistra: “ri-voluzione” è la
parola impiegata ripetutamente dal presidente del governo in carica, con cui si
allude, a quanto si intende, a un rovesciamento integrale della situazione
data.
2. Dieci tesi
2.1. Diritto nazionale e globalizzazione
La globalizzazione è un dato di
fatto, come fu una volta il capitalismo. Non ha quindi senso opporsi alla
globalizzazione: sarebbe come contrapporsi a una forza della natura, come
pretendere di attraversare a nuoto l’oceano. Si può invece provare a
contrastarne le forme più negative e aberranti. A questo fine occorre un
pensiero critico, che muova da presupposti radicali per convergere su opzioni
riformiste credibili. Globalizzazione significa anzitutto competizione su
mercati aperti, in base a una legge comune fondata sulla logica di merce. Questa
logica va criticata a priori: un mondo che compete solo su valori di merce, e
che quindi si identifica solo nella merce-consumo come valore, non solo è
invivibile e inaccettabile, ma è destinato all’autodistruzione. Al valore
esclusivo delle merci, che riduce a merce anche il lavoro, va contrapposto
quindi un altro valore: la supremazia del diritto delle persone contro il
vincolo della logica mercantile. Questa è quindi la prima tesi qui sostenuta: “difendere
i diritti della persona e i meccanismi della coesione sociale è una regola
primaria se si ragiona in termini globali”.
2.2. Diritto nazionale e Europa
L'integrazione europea è un
meccanismo complesso, che non può essere declinato in termini semplificati. Già
Federico Mancini, citando un famoso detto di Madison (“federate i loro
portafogli e la loro mente e il loro cuore vi seguiranno”) aveva svolto una
critica essenziale alla dimensione puramente economicista della unificazione
europea. In particolare è inaccettabile una declinazione dell’Europa al fine di
abbassare il minimo comune denominatore della garanzia dei diritti e delle
protezioni sociali. Questa è l’operazione inaccettabile svolta per l’appunto
dal “libro bianco del lavoro” del governo Berlusconi. Quella tesi va
rovesciata, nei seguenti termini: “il modello sociale europeo costituisce
un elemento essenziale di identità del progetto di Unione europea; il modello
sociale europeo è complesso e non univoco; esso si fonda tuttavia su un
principio di fondo, che ne segna il tratto differenziale indeclinabile rispetto
al modello americano: le garanzie, la protezione sociale e le strategie di
inclusione sociale sono un elemento strutturale dei sistemi pubblici europei:
questo modello va aggiornato, e non liquidato”.
2.3. L’articolazione del diritto nazionale
(sistema delle fonti) : in specie federalismo e diritto del lavoro
L’intera
evoluzione del processo di riforme istituzionali svoltosi in Italia nel corso
degli anni ’90 va sottoposta a un radicale ripensamento critico. In particolare
vanno ripensati i seguenti termini: assetto del sistema politico e elettorale
(maggioritario spurio e incompiuto o proporzionale con clausola di sbarramento,
sistema di partito o sistema di coalizioni), forma di governo (sistema
presidenziale, con formule di elezione diretta del capo dello Stato o del
presidente del consiglio, o sistema parlamentare rafforzato, sulla base di un
modello di cancellierato), assetto istituzionale interno verso Europa
(federalismo cooperativo contro pseudo-federalismo anarcoide). In ogni caso è
escluso che attraverso le riforme istituzionali imperfette (quali la legge
cost. n.3 del 2001) si possa ipotizzare una differenziazione territoriale dei
diritti, a dimensione endonazionale, come ipotizza irresponsabilmente il “libro
bianco del lavoro”. “Il federalismo italiano va concepito come federalismo
essenzialmente amministrativo, mirato a una più efficace implementazione degli
assetti normativi attraverso la articolazione dei modelli organizzativi e
gestionali, e non come strumento di differenziazione delle normative. In
particolare è escluso che il diritto del lavoro possa essere differenziato a
scala regionale: il diritto del lavoro italiano deve restare una disciplina
nazionale, orientata alla integrazione virtuosa con un più avanzato modello
europeo”.
2.4. Il sistema sindacale: attuazione degli
artt.39 e 46 della Costituzione
Nonostante i cambiamenti del
mercato del lavoro e il declino del modello fordista le forme collettive di
rappresentanza degli interessi del lavoro dipendente continuano a costituire un
elemento vitale e insostituibile della logica democratica. I diritti sindacali
e il sistema della rappresentanza collettiva di tipo sindacale vanno quindi
sostenuti con una efficace legislazione di sostegno. Parte essenziale di questa
legislazione è costituita da una disciplina della rappresentanza,
rappresentatività sindacale e delle condizioni di attribuzione di efficacia
giuridica generale ai contratti collettivi di lavoro, che può ispirarsi a
quanto già realizzato nel pubblico impiego. In proposito, appare necessaria una
valutazione degli effetti attuativi della riforma del pubblico impiego, in
specie sul versante dei modelli contrattuali e di rappresentanza: questa è una
delle principali carenze del “libro bianco del lavoro” del governo Berlusconi.
“E’ quindi necessario mettere mano a un intervento legislativo in attuazione
della parte seconda dell’art.39 cost. il quale definisca le condizioni
giuridiche, in termini di rappresentatività dei soggetti negoziali, ai fini
della attribuzione di efficacia giuridica generale ai contratti collettivi. Si
dovrebbe anche mettere mano a una attuazione dell’art.46 della cost. dando vita
a un serio meccanismo partecipativo sul modello della codeterminazione tedesca”.
2.5. La concertazione: rapporti tra sistema
sindacale e sistema politico
Il metodo della concertazione, nel
bene e nel male, ha svolto in Italia una funzione essenziale, dal punto di vita
della capacità di combinare innovazione e garanzia della coesione sociale.
Basti riandare con la memoria agli accordi triangolari della seconda metà degli
anni ’70, negli anni della inflazione a due cifre, che disboscarono il sistema
degli automatismi retributivi, semplici e composti (dagli scatti di anzianità
alla indennità di liquidazione), fino alla complessa vicenda che portò alla
eliminazione della indennità di contingenza, per approdare, con l’accordo del
luglio 1993, a una politica di controllo dei salari che ha costituito il vero
pilastro, in una fase di grande turbolenza degli assetti politici, delle
politiche di ingresso dell’Italia nell’Euro. Ora il governo di centrodestra
dice che la concertazione è finita, perché non serve più una politica
concertata dei redditi, ma una politica di competitività. Si tratta di un grave
errore. Al di là delle forme che essa nelle singole circostanze storiche può
assumere, la concertazione infatti è un metodo utile al governo dell’Italia. Un
paese diviso e contraddittorio come l’Italia può trovare infatti una forma di
identità o di coordinamento nazionale solo attraverso la convergenza di volontà
tra grandi rappresentanze di interessi e governo politico. “La
concertazione, vale a dire la ricerca di un accordo di fondo tra grandi
rappresentanze di interessi e governo politico, per l’Italia costituisce un
valore e uno strumento essenziale. Liquidare questo metodo costituisce una
scelta avventurista”.
2.6. La riforma del diritto (individuale) del
lavoro italiano: linee di fondo
Il diritto del lavoro italiano
deve essere ampiamente riformato. Non nel senso tuttavia della direzione
indicata dal “libro bianco del lavoro” del governo Berlusconi, che propone una
de-strutturazione nel segno di una americanizzazione “senza radici”, ma nel
senso di una ri-forma coerente con i presupposti e l’impianto della tradizione
storica del diritto del lavoro italiano, secondo le linee di seguito indicate.
“Il diritto (individuale) del lavoro italiano va ri-formato in coerenza con
i suoi principi fondativi e con la sua storica tradizione, e non
de-stabilizzato attraverso una innovazione dissennata e senza principi”.
2.7. Gli strumenti di intervento sul mercato del
lavoro
Abolito il vecchio collocamento
pubblico, e superato lo stesso monopolio pubblico delle assunzioni, va avviata
una efficace competizione tra strumenti pubblici e privati di gestione e
orientamento del mercato del lavoro. Va anzitutto effettuato un serio
monitoraggio degli esiti attuativi della riforma e del decentramento del
collocamento disposto con la legge n.59 del 1997 e il d. lgs. n.469 del 1998.
E’ sbagliato quindi riformare quella riforma, come propone l’art.1 della
legge-delega sul mercato del lavoro. Bisogna prima verificare lo stato di
implementazione della precedente riforma. “In ordine agli strumenti di
intervento sul mercato del lavoro non si deve procedere a una indiscriminata
privatizzazione. Bisogna prima verificare e implementare il grado di attuazione
della riforma introdotta con il d. lgs. n.469/1998”.
2.8. La tipologia dei lavori flessibili
L’idea che il problema in Italia oggi
consista nell’incrementare e addirittura inflazionare le forme flessibili di
accesso all’impiego è sbagliata in radice. Si tratta di fare esattamente
l’inverso, agli antipodi di ciò che propongono il “libro bianco del lavoro” e
la legge delega del governo Berlusconi. Tutti gli indicatori mostrano infatti
che il problema oggi, per il mercato del lavoro italiano, non consiste in un
deficit di forme flessibili dell’impiego, quanto esattamente nel contrario.
Almeno per gli italiani (altra cosa è naturalmente il discorso per i lavoratori
extracomunitari, che sono il vero corpo “vile” della più brutale flessibilità)
tutte le ricerche indicano la necessità di puntare a un lavoro di qualità, a
contenuto formativo e orientato alla stabilizzazione. La retorica della
flessibilità va quindi rovesciata, almeno per i giovani italiani, a vantaggio
di ciò che è stato definito “elogio della stabilità” (Mario Napoli). “Bisogna
porre termine alla retorica della flessibilità. La flessibilità non è un valore
in sé, salvo il caso –rarissimo- che possa essere governata discrezionalmente
dal singolo individuo. La stabilità è invece un valore: chi ha un lavoro
stabile può programmare i tempi della sua vita, e ciò è quanto basta. Va perciò
promossa una ri-stabilizzazione dei lavori flessibili, riducendo i lavori
flessibili ad alcune essenziali figure (lavoro a tempo determinato, lavoro a
part-time, lavoro in formazione), lasciando inalterato il nucleo definitorio e
normativo del lavoro subordinato classico e promovendo una tutela selettiva per
i rapporti di lavoro semi-autonomi o para-subordinati: si deve lavorare a un
nuovo statuto di “tutti i lavoratori”, centrato sulla essenzialità della
dimensione soggettiva del lavoro, e non a uno “statuto dei nuovi lavori” inteso
come proiezione formale della oggettivazione delle forme di lavoro in chiave
vetero-corporativa”.
2.9. Il nucleo del rapporto individuale di
lavoro: licenziamento e dintorni
L’aspetto più odioso, ed anche
insidioso, delle proposte formulate dal governo di centrodestra, con il “libro
bianco” prima, e poi con la legge delega, riguarda la disciplina del
licenziamento. Non si ha il coraggio di proporre la pura e semplice abrogazione
del sistema di tutela reale contro il licenziamento, stabilito dall’art.18
dello Statuto dei lavoratori. Ma si propone quella disciplina di aggirarla e di
svuotarla dall’interno. Il tutto in ragione della necessità di promuovere una
politica attiva della occupazione. Quella tesi è infondata in radice. Basti
muoverle la seguente semplice obiezione: come mai la tutela reale contro il
licenziamento ingiustificato non ha impedito la piena occupazione nel Nord,
tanto piena che quel mercato del lavoro può funzionare solo attraverso la
crescente immissione di lavoratori extracomunitari? Se il tasso di attività è
più basso nel Sud, e lì sono addensate le percentuali più alte di
disoccupazione, forse che questo dipende dalla disciplina del licenziamento, e
non da altre bazzecole quali il problema della legalità e della sicurezza, le
scarse infrastrutture, la mancanza di risorse fondamentali, come l’acqua per la
Sicilia, la scarsa capacità amministrativa locale ecc.? Da ciò si ricava la
seguente conclusione.”La disciplina del licenziamento va lasciata così
com’è. Da essa non deriva infatti nessuna conseguenza negativa per
l’occupazione. Vanno favoriti invece i mezzi più rapidi di soluzione delle
controversie di lavoro, a partire dall’arbitrato volontario, subordinato al
rispetto delle discipline inderogabili di legge e contratto collettivo”.
2.10. L’idea del diritto del lavoro: diritto/i
del lavoro e valori
Il diritto del lavoro è una disciplina laica, nel senso
che chiunque la coltiva può farlo a modo suo, senza dover sottomettersi a
obblighi di fedeltà personali, e tanto meno a vincoli di obbedienza ideologica.
Ciò non impedisce, a chi ha frequentato il diritto del lavoro per lungo tempo,
cercando di usare il diritto del lavoro non come disciplina autoconclusa ma
come chiave di osservazione del grande mondo, di formulare una tesi ultima. Il
diritto del lavoro è una disciplina che nasce nel mercato, e si è
persino sviluppata in funzione del mercato. Ma essa è anche una
disciplina costituita contro il mercato. Così mi pare che si debba
guardare oggi al diritto del lavoro. Questa è quindi la mia ultima tesi. “Il
diritto del lavoro serve, in ultima istanza, ad affermare i diritti della
persona che lavora anche contro i vincoli della economia data. Nel diritto del
lavoro è iscritta quindi una istanza di liberazione indeclinabile, che durerà
quanto la storia dell’uomo”.
Bologna, febbraio 2002
Luigi
Mariucci
(Professore Ordinario di Diritto del lavoro)
(fonte: www.unicz.it/lavoro/NOVITA.htm ove reperibile altresì un articolato e condivisibile saggio,
sul «libro bianco» del Ministero del lavoro, del Prof. M. Rusciano, in formato pdf)
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