Gli oneri probatori per il “requisito dimensionale” a fini di reintegrazione e per il “patto di dequalificazione” del lavoratore

 

Si esamina il riparto del regime probatorio gravante in contenzioso sulle parti nel rapporto di lavoro, partendo dalle affermazioni della fondamentale decisione n. 15353/2001 delle Sezioni unite della Cassazione, riconfermate nella loro persistente validità da Cass. sez. un. n. 141 del 10 gennaio 2006, in tema di spettanza a carico del datore di lavoro di dimostrare il cd. “requisito dimensionale” ai fini di sottrarsi alla reintegrazione del lavoratore ingiustificatamente licenziato nonché per giustificare la mancata assegnazione a mansioni equivalenti del lavoratore parzialmente inidoneo per sopravvenuta infermità alle mansioni originarie, qualora sussistenti in azienda.

 

di Mario Meucci – Giuslavorista in Roma

 

1. Introduzione

Due recenti decisioni della  Cassazione - la prima a sezioni unite, la seconda da parte della sezione lavoro - rispettivamente Cass. sez. un. n. 141 del 10 gennaio 2006 e Cass. sez. lav. n. 19686 del 10 ottobre 2005, si sono occupate di fare il punto e necessaria chiarezza, in presenza di un contrasto giurisprudenziale, sulle questioni di cui al titolo del presente articolo.

Il tutto – quantomeno per la prima decisione – sulla scia e nella riconfermata validità delle fondamentali statuizioni, in tema di riparto dell’onere probatorio tra creditore e convenuto nelle obbligazioni corrispettive, affermate da Cass. sez. un. 30 ottobre 2001, n. 13533 (in Foro it. 2002, I, 769 n. Lanzetta). Prima di esaminare, nel merito, le affermazioni di principio effettuate dalla due sopracitate decisioni,  conviene  intrattenersi sul contenuto della decisione “caposaldo” in tema di ripartizione degli oneri probatori nel rapporto di lavoro, cioè nell’ambito di un contratto a prestazioni sinallagmatiche, in cui le parti (lavoratore, da un lato, e azienda, dall’altro) versano, a secondo dei casi, in posizione di creditori e debitori l’un verso l’altra.

 

2. I diritti di cui sono creditori il lavoratore e il datore di lavoro nel rapporto

Il rapporto di lavoro subordinato  - intercorrente sia con datore di lavoro privato che pubblico - è inquadrabile nella fattispecie civilistica del contratto con obbligazioni corrispettive, in cui a fronte della prestazione intellettuale o manuale del  lavoratore (tutelato da norme di diritto positivo e costituzionali) corrisponde una controprestazione retributiva  da parte del datore di lavoro che  di essa fruisce. Il rapporto di lavoro dà quindi vita ad  un contratto caratterizzato da obbligazioni  in capo alle due parti, che  si trovano, a secondo dei casi, in  posizione di creditori e debitori rispettivamente di determinati diritti ed obblighi.

Il lavoratore è, esemplificativamente, creditore oltrechè del diritto alla retribuzione quale compenso dell’opera prestata, del diritto al disimpegno della prestazione, con pienezza ed effettività, secondo la qualifica e le mansioni di assunzione o quelle successivamente acquisite (art. 2103 c.c.),  del diritto alla autorealizzazione della propria personalità  nel lavoro  che svolge  nell’impresa intesa come formazione sociale (art. 2  e  3, comma 2 Cost.), del diritto a non essere discriminato  per sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche e condizioni personali e sociali (artt. 3 Cost., comma 1, e 37 Cost., poi specificati in leggi ordinarie), del diritto alla tutela della immagine professionale e della dignità (art. 2, 3, 41 Cost.),  del diritto alla salvaguardia della integrità fisica e della personalità morale, da parte del datore di lavoro, (ex art. 2087 c.c.) che versa in  posizione di debitore, nonchè del diritto, in un rapporto a tempo indeterminato, alla continuità del medesimo (che può essere interrotta solo da licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, ex art. 1, l. n. 604/66, con dimostrazione della ricorrenza delle causali rescissorie da parte del datore di lavoro, ex art. 5 della stessa legge), del diritto ad essere reintegrato nel rapporto, ex art. 18 l. n. 300/’70, in caso di licenziamento ingiustificato, nelle unità produttive che occupano ciascuna  più di 15 dipendenti o nelle unità produttive di organico inferiore ma appartenenti a datore di lavoro, imprenditore e non, che occupa alle sue dipendenze più di 60 prestatori di lavoro.

Il datore di lavoro è  invece creditore del diritto a comportamenti del lavoratore improntati a diligenza (art. 2104 c.c.) – costituenti obblighi di fare in positivo per il debitore  – e ad obblighi di non fare del lavoratore in veste di debitore, quali  quelli codificati nell’art. 2105 c.c.  afferente all’obbligo di fedeltà ( specificati nel “non  trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore, non divulgare notizie attinenti all’organizzazione o ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da recare ad essa pregiudizio”).

Vi sono comunque tutta una serie di altre obbligazioni intercorrenti tra le parti, ma per l’esame che ci siamo ripromessi, quelle sopracitate  ci appaiono – seppur incomplete – del tutto necessarie e vengono quindi riferite a titolo non esaustivo ma  meramente esemplificativo.

Per la tematica che  andiamo ad approfondire, va focalizzata l’attenzione sulle obbligazioni di fare del datore di lavoro, in forma di impegno/dovere di garantire  al lavoratore creditore :

a)    pienezza ed effettività della prestazione (salvo ricorrenza di causa  non imputabile al datore, da  documentare ex art. 1218 c.c.);

b)     il disimpegno della prestazione secondo la qualifica e le mansioni d’assunzione o quelle  corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita (art. 2103 c.c.);

c)      il diritto ad un trattamento paritario con i  suoi simili, non in senso assoluto, ma indipendente dalle diversità di sesso, razza, lingua ecc., diritto che rifluisce nel corrispondente divieto, per il datore di lavoro in veste di debitore, di discriminare per motivi c.d. “pravi” o “riprovevoli” per la coscienza sociale;

d)     il diritto di essere pienamente ed attivamente tutelato dal datore di lavoro nella sfera dell’integrità della salute psico-fisica e dell’integrità  della propria  personalità morale (ricomprendente, dignità, immagine, reputazione e similari valori  riconducibili nel novero degli inviolabili, di cui all’art. 2 Cost. comma 1);

e)    il diritto, in caso di sopravvenuta inidoneità parziale alle mansioni d’assunzione o alle ultime espletate, a non essere licenziato per g.m.o. se non previa ricerca da parte del datore di lavoro di mansioni equivalenti  ex art. 2103 cod. civ., e,  in caso di documentata inesistenza nella truttura organizzativa dell’impresa, di poter esse spostato – dietro consenso – a mansioni inferiori (tramite cd. “patto di declassamento”) in vista della salvaguardia del superiore interesse alla conservazione dell’occupazione;

f)      il diritto, in un rapporto di lavoro garantito dalla c.d. “stabilità reale” (nelle aziende oltre i 60 dipendenti o nelle unità produttive oltre i 15 dipendenti), ad essere reintegrato in caso di licenziamento ingiustificato, cioè a dire non sorretto né da giusta causa né da giustificato motivo.

Tutti questi diritti concretizzano obbligazioni di fare di cui il lavoratore è creditore nei confronti del  datore di lavoro debitore e solo  una incondivisibile lettura nella forma del divieto – che è il rovescio della medaglia di ogni diritto del creditore – può farle prospettare piuttosto come frutto di divieto, cioè a dire di obbligazione di non fare per il datore di lavoro debitore, per originare la conseguenza di un accollo sul lavoratore dell’onere probatorio [(così, per il mobbing discendente o verticale, suppostamente individuandone la fonte in un divieto e non già un obbligo datoriale in positivo conseguente all’art. 2087 c.c., Vallebona, Il mobbing senza veli, in Dir. rel. ind. n. 4/2005, 1 e ss., che a supporto  non convincente richiama, R. Del Punta, ne Il mobbing: l’illecito e il danno, in P.Tosi ( a cura di), Il mobbing (quaderno Cesifin n. 16) Giappichelli 2004, secondo cui sarebbe insito nell’art. 2087, norma statuente un’obbligazione positiva, “un implicito divieto legislativo” di vessare il lavoratore)].

 

2. Il riparto probatorio nelle obbligazioni sinallagmatiche

La precisazione sopra effettuata è, secondo noi, importante giacché  l’individuazione di appartenenza al novero delle obbligazioni di fare (positive) o di non fare (negative) influisce sul riparto dell’onere probatorio sul creditore ed il debitore, come ha avuto modo di precisare opportunamente Cass. sez. un. 30 ottobre 2001, n. 13533 .

La massima di questa fondamentale decisione – che ha così risolto un contrasto interno alla Cassazione tra un orientamento maggioritario ed uno minoritario, aderendo a quest’ultimo – così recita: « Il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto (ed eventualmente del termine di scadenza), limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, su cui incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’adempimento». E nella motivazione, più diffusamente, si  afferma: «Dall’art. 2697 c.c., che richiede all’attore la prova del diritto fatto valere ed al convenuto la prova della modificazione o dell’estinzione del diritto stesso, si desume il principio della presunzione di persistenza del diritto. Ed il principio - pacificamente applicabile all’ipotesi della domanda di adempimento, in relazione alla quale il creditore deve provare l’esistenza della fonte negoziale o legale del credito e, se previsto, del termine di scadenza, in quanto si tratta di fatti costitutivi del diritto di credito, ma non l’inadempimento, giacché è il debitore a dover provare l’adempimento, fatto estintivo dell’obbligazione -, deve trovare applicazione anche alle ipotesi in cui il creditore agisca per la risoluzione o per il risarcimento del danno da inadempimento richiesto in via autonoma (sent. n. 973/96; n. 3232/98; n. 11629/99). Siffatta estensione trova giustificazione nella considerazione che, dovendo le norme essere interpretate secondo un criterio di ragionevolezza, appare irrazionale che di fronte ad una identica situazione probatoria della ragione del credito, e cioè dell’esistenza dell’obbligazione contrattuale e del diritto ad ottenerne l’adempimento, vi sia una diversa disciplina dell’onere probatorio, solo perché il creditore sceglie di chiedere (la risoluzione o) il risarcimento in denaro del danno determinato dall’inadempimento in luogo dell’adempimento, se ancora possibile, o del risarcimento in forma specifica (sent. n. 973/96).

L’esenzione del creditore dall’onere di provare il fatto negativo dell’inadempimento in tutte le ipotesi di cui all’art. 1453 c.c. (e non soltanto nel caso di domanda di adempimento), con correlativo spostamento sul debitore convenuto dell’onere di fornire la prova del fatto positivo dell’avvenuto adempimento, è conforme al principio di riferibilità o di vicinanza della prova. In virtù di tale principio, che muove dalla considerazione che il creditore incontrerebbe difficoltà, spesso insuperabili, se dovesse dimostrare di non aver ricevuto la prestazione, l’onere della prova viene infatti ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione. Ed appare coerente alla regola dettata dall’art. 2697 c.c., che distingue tra fatti costitutivi e fatti estintivi, ritenere che la prova dell’adempimento, fatto estintivo del diritto azionato dal creditore, spetti al debitore convenuto, che dovrà quindi dare la prova diretta e positiva dell’adempimento, trattandosi di fatto riferibile alla sua sfera di azione (sent. n. 973/96; n. 3232/98; n. 11629/99).

L’orientamento minoritario riceve l’approvazione di larga parte della dottrina, che svolge analoghe argomentazioni. Il contrasto va composto aderendo all’indirizzo minoritario.

L’identità del regime probatorio, per i tre rimedi previsti dall’art. 1453, merita di essere affermata anche per palesi esigenze di ordine pratico.

La difficoltà per il creditore di fornire la prova di non aver ricevuto la prestazione, e cioè di fornire la prova di un fatto negativo (salvo che si tratti di inadempimento di obbligazioni negative), è superata dai sostenitori dell’orientamento maggioritario con l’affermazione che nel vigente ordinamento non vige la regola secondo la quale "negativa non sunt probanda", ma opera il principio secondo cui la prova dei fatti negativi può essere data mediante la prova dei fatti positivi contrari.

Si tratta tuttavia di una tecnica probatoria non agevolmente praticabile: il creditore che deduce di non essere stato pagato avrà serie difficoltà ad individuare, come oggetto di prova, fatti positivi contrari idonei a dimostrare tale fatto negativo; al contrario, la prova dell’adempimento, ove sia avvenuto, sarà estremamente agevole per il debitore, che di regola sarà in possesso di una quietanza (al rilascio della quale ha diritto: art. 1199 c.c.) o di altro documento relativo al mezzo di pagamento utilizzato.

Si rivela quindi conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore a reagire all’inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore adempiente, fare applicazione del principio di riferibilità o di vicinanza della prova, ponendo in ogni caso l’onere della prova a carico del soggetto nella cui sfera si è prodotto l’inadempimento, e che è quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore, sia questa diretta all’adempimento, alla risoluzione o al risarcimento del danno, fornendo la prova del fatto estintivo del diritto azionato, costituito dall’adempimento.

In conclusione, deve affermarsi che il creditore, sia che agisca per l’adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e, se previsto, del termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento della controparte: sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento».

 

3. Applicazione in concreto e nel rapporto di lavoro dei principi sanciti dalle sezioni unite

Nel caso di violazione sia dell’art. 2103  c.c. -  cioè di un obbligazione di fare del debitore datore di lavoro, rifluente nel diritto del lavoratore creditore ad una  prestazione da essere resa con pienezza ed effettività e conforme alle mansioni in suo possesso per contratto d’assunzione o successivamente acquisite in relazione alla superiore categoria  (senza erosioni, sottrazioni non corrisposte da addizioni  equivalenti né tantomeno di essere confinato in forzata inattività), così  come  nel caso  di violazione dell’art. 2087 c.c. per effetto di inflizione di  vessazioni persecutorie per mobbing, implicante violazione dell’obbligazione datoriale di fare, inteso come prevenzionale ed  impeditivo dell’altrui sottoposizione a vessazioni persecutorie, l’inadempimento datoriale è pacificamente attinente ad obbligazioni contrattuali, con il regime di responsabilità per inadempimento di cui all’art. 1218 c.c., nel senso specificato dalle sezioni unite.

L’art. 1218 c.c. così dispone: « Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile». Per inciso va ricordato come – per il mobbing e le sue iniziative vessatorie – la natura contrattuale dell’inadempimento è stata recentemente confermata da Cass.  sez. un. civ. 4 maggio 2004 n. 8438 (in http://dirittolavoro.altervista.org/mobbing_sezioniunite.html).

In termini di oneri probatori spetterà, quindi, nell’ipotesi del demansionamento (con sottrazione o avocazione di compiti a danno del lavoratore e, solitamente, a favore di altri privilegiati o preferiti) sul lavoratore ricorrente l’onere di allegare l’inadempimento del datore di lavoro, documentare i fatti costitutivi dell’inadempimento (naturalmente quelli costituiti da condotte  attive datoriali, strutturanti le sottrazioni di incombenze di pertinenza del ricorrente), mentre graverà indiscutibilmente sul datore di lavoro debitore l’onere di dimostrare di non aver demansionato o dequalificato  tramite la sottrazione qualitativo/quantitativa di sfere di competenza e relative funzioni, documentando, in tale ottica, i lavori resi dal lavoratore, dimostrando per converso la pienezza della prestazione, l’impegno desumibile da quanto da egli prodotto e pacificamente in possesso datoriale, che,  nel caso si tratti eminentemente di produzione intellettuale, è solitamente conservata negli archivi  aziendali. Qualora poi il lavoratore sia stato confinato in forzata inattività, al lavoratore creditore di una prestazione effettiva e piena incomberà solo l’onere di allegare l’inadempimento (cioè, la non assegnazione di lavoro) non già di provarlo (trattandosi di fatto negativo, cioè di un non fare irragionevolmente non documentabile, secondo Cass. sez. un.  n. 13533/2001) mentre incomberà sul datore di lavoro la prova di dimostrare, a contrario, di averlo impegnato con pienezza ed assiduità, allegando e documentando in giudizio i prodotti dell’impegno del lavoratore creditore, essendo tale onere ragionevolmente assolvibile dall’azienda che resta detentrice dell’intera produzione del lavoratore. Nel caso in cui l’esibizione da parte aziendale dei prodotti atti a documentare la pienezza e l’effettività della prestazione di un lavoratore che alleghi la sostanziale inattività forzata, si riveli insufficiente o inconsistente, il magistrato dovrà trarre le debite conclusioni in ordine all’insufficienza o  al non assolvimento dell’onere probatorio dell’azienda convenuta.

 

3. Le statuizioni di Cass. sez. un. n. 141/2006 e di Cass. sez. lav. n. 19686 /2005

In questo stesso ordine di idee si sono mosse le sezioni unite nella recentissima sentenza n. 141 del 10 gennaio 2006  (est. Roselli).

In presenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla parte (attrice o convenuta) sulla quale incombesse la prova – nel caso di annullamento giudiziale del licenziamento ingiustificato - di dimostrare i requisiti dimensionali dell’unità produttiva o del complesso aziendale (occupante più di 15 dipendenti, nel primo caso o più dei 60, nel secondo), ai fini di beneficiare della misura della reintegrazione nel rapporto, ex art. 18 Stat. lav., le sezioni unite hanno optato per ricondurre l’incombenza a carico del datore di lavoro.

A tal fine hanno operato una consapevole quanto condivisibile scelta a favore dell’indirizzo minoritario più recentemente affermatosi, dando conto al tempo stesso dei tre indirizzi sussistenti nella specifica tematica ed affermati sia in sentenze maggioritarie antecedenti che in dottrina, sottoposti convincentemente a critica, tramite le seguenti argomentazioni:

1) La maggior parte delle sentenze di questa Corte impone al lavoratore-attore in giudizio l’onere di provare il requisito, ravvisandovi un elemento costitutivo del “diritto alla reintegrazione” dedotto in giudizio e facendo conseguente e piana applicazione dell’articolo 2697, comma 1, cod. civ. (Cassazione, Su, n. 2249/88, Sezione lavoro, n. 3229/88, n. 786/91, n. 1815/93, n. 4048/91, n. 2268/96, n. 4337/95, n. 12375/98, n. 4948/98, n. 12579/03, n. 12747/03).

La dottrina che appoggia questo orientamento adduce, quale argomento di rinforzo, un asserito carattere “generale” della tutela obbligatoria, ed il connesso carattere eccezionale della tutela reale, che sarebbe reso palese dalle espressioni letterali usate dal legislatore nello stesso articolo 18 Stat. lav. e che addosserebbe al lavoratore l’onere di provare il suo diritto ad ottenere il rimedio più intenso, ma eccezionale.

2) L’imposizione al prestatore di lavoro dell’onere di fornire al giudice dati relativi al personale dell’impresa è apparso eccessivo ad una parte della giurisprudenza, la quale, precisando doversi aver riguardo al numero medio degli occupati in relazione alle normali esigenze produttive e non al numero nel momento di intimazione del licenziamento, chiede all’imprenditore la relativa prova (Cassazione, n. 1815/93), così come fa nei casi di esclusione della tutela reale per le cosiddette organizzazioni di tendenza, indicate nel già citato articolo 4, comma 1, legge 108/90 (Cassazione, n. 4337/95).

3) In tempo recente la Corte si è espressa in senso opposto, ossia ha ritenuto gravare sul datore di lavoro, non importa se attore o convenuto in giudizio, l’onere di provare l’inesistenza del requisito occupazionale e perciò l’impedimento all’applicazione dell’articolo 18 legge 300/70 (Cassazione, n. 7227/02).

In questa pronunce la Corte osserva che la tutela reintegratoria è più vicina alle scelte di valore del legislatore in tema di responsabilità contrattuale, mentre la attenuata tutela risarcitoria si distacca maggiormente da quelle scelte.

Secondo questa giurisprudenza fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti dell’articolo 18 sopra detti, costituirebbero, insieme al giustificato motivo del licenziamento (articolo 5 legge 604/66), fatti impeditivi del diritto soggettivo dedotto in giudizio e dovrebbero essere perciò provati dal datore di lavoro. Con l’assolvimento di quest’onere probatorio il datore dimostrerebbe che l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto di lavoro non è a lui imputabile (articolo 1218 cod. civ.) e che comunque il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio al risarcimento pecuniario.

A questo argomento le sentenze n. 613/99 e n. 7227/02 aggiungono, per porre a carico del datore di lavoro l’onere della prova, la necessità di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del lavoratore, la quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della “disponibilità” dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa.

4) Le Sezioni unite ritengono di dover seguire il terzo degli orientamenti ora descritti. Cass. sez. un. n. 13533/01 ha imposto alla parte, attrice in giudizio per la risoluzione del contratto per inadempimento, il solo onere di provare il contenuto del negozio, ossia il suo credito, insieme all’onere di allegare l’inadempimento, mentre ha gravato il debitore-convenuto dell’onere di provare l’adempimento. In tal modo la Corte ha ripartito il peso della prova facendo espresso riferimento al principio della riferibilità, o vicinanza, o disponibilità del mezzo (è più facile al debitore dimostrare il fatto positivo di avere adempiuto che non al creditore di dimostrare l’opposto fatto negativo); principio riconducibile all’articolo 24 Costituzione, che connette al diritto di azione in giudizio il divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio (Corte costituzionale 114/00) e sul quale, come s’è detto, si fondano anche la sopra richiamate sentenze di questa Corte 613/99 e 7227/02.

Spetta in conclusione al giudice-interprete, quando il legislatore non vi abbia provveduto espressamente, di ricostruire la fattispecie sostanziale controversa, identificando gli elementi costituitivi del diritto soggettivo dedotto in giudizio e richiedendo all’attore la relativa prova.

Si tratta pertanto di stabilire se il cosiddetto e qui più volte evocato “requisito dimensionale”, o “di occupazione” sia o no da considerare fra gli elementi costituitivi del diritto soggettivo a conservare il posto di lavoro, vale a dire ad esservi reintegrato una volta dichiarata l’illegittimità del licenziamento.

Per la risposta positiva una parte della dottrina sostiene che oggetto della tutela giudiziaria di questo diritto sarebbe, in via di regola, l’obbligo di risarcimento pecuniario e soltanto in via di eccezione l’obbligo di reintegrazione di cui al comma 1 dell’articolo 18 Stat. lav.. In sostanza il regime ordinario sarebbe, secondo questa dottrina, quello della stabilità obbligatoria, ossia della tutela risarcitoria, in cui non occorrerebbe provare il requisito dimensionale, mentre il regime della stabilità reale costituirebbe, quale eccezione, l’oggetto di un distinto diritto soggettivo, di cui la dimensione occupazione sarebbe elemento costitutivo, con prova a carico del lavoratore-attore in giudizio.

Conseguenza di tutto ciò sarebbe che l’accoglimento della domanda di reintegrazione conseguirebbe alla duplice prova del licenziamento e del requisito ora detto.

Ma questa tesi, che considera la tutela per equivalente del diritto soggettivo coma la regola e la tutela specifica come l’eccezione, non può essere condivisa.

5) Oggi l’obbligazione di ricostruire la situazione di fatto anteriore alla lesione del credito rendendo così possibile l’esatta soddisfazione del creditore, non tenuto ad accontentarsi dell’equivalente pecuniario, costituisce la traduzione nel diritto sostanziale del principio, affermato già della dottrina processuale degli anni trenta e poi ricondotto all’articolo 24 Costituzione (Corte costituzionale n. 253/94, n. 483/95), secondo cui il processo (ma potrebbe dirsi: il diritto oggettivo, in caso di violazione) deve dare alla parte lesa tutto quello e proprio quello che le è riconosciuto dalla norma sostanziale (da ultimo Cassazione, Su, n.12270/04).

Né la difficoltà o l’impossibilità materiale di attuare in sede esecutiva questo principio costituzionalmente rilevante, dovute all’inesistenza nel nostro ordinamento di un sistema atipico di misure coercitive, può incidere sulla questione sostanziale qui in esame, relativa al rapporto regola-eccezione fra risarcimento specifico e per equivalente; la difficoltà di preporre norme esecutive di più intensa garanzia del creditore non può influire sullo statuto civilistico del rapporto obbligatorio.

6) Questa conclusione valida sul piano generale serve a maggior ragione nel diritto del lavoro non solo perché qualsiasi normativa settoriale non deve derogare al sistema generale senza necessità, ma anche perché il diritto del lavoratore al proprio posto, protetto dagli articoli 1, 4 e 35 Costituzione, subirebbe una sostanziale espropriazione se ridotto in via di regola al diritto ad una somma. Da ciò la necessità non solo di interpretare restrittivamente l’articolo 2058 comma 2 cod. civ., ma anche di considerare come eccezionali le norme che escludono o limitano la tutela specifica. In tal senso va intesa la sentenza della Corte costituzionale n. 46/2000, secondo cui la tutela reale del lavoratore può essere limitata discrezionalmente dal legislatore: questi effettua il bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti e ben può ritenere, come nella materia qui in esame, che le ragioni dell’impresa di piccole dimensioni debbano prevalere sulla tutela specifica del lavoratore illegittimamente licenziato. Non v’è però ragione di negare che questa limitazione del diritto al lavoro debba essere affidata al soggetto interessato ossia al datore di lavoro, e di affermare al contrario che essa debba aggiungersi agli elementi costituitivi di quel diritto, con conseguenze in ordine alla ripartizione dell’onere della prova.

7) Per quanto riguarda infine il criterio di distribuzione dell’onere della prova basato sulla vicinanza o disponibilità dei relativi strumenti e valorizzato sul piano generale da queste Sezioni unite con la riportata sentenza n. 13533/01 nonché, nell’interpretazione dell’articolo 18 legge 300/70, dalle sentenza n. 613/99 e n. 7227/02, esso tanto più deve valere quando trattasi del “requisito occupazionale”, vale a dire della forza-lavoro dell’impresa, risultante non soltanto dal numero degli occupati ma anche ed eventualmente dal loro status nell’impresa, o anche personale, come risulta espressamente dal comma 2 dell’articolo 18 Stat. lav.

A fianco ed in parallelo alla riferita decisione si pone la precedente  Cass. sez. lav.  n. 19686 del 10 ottobre 2005, che ha cassato la sentenza della corte di appello la quale – in una fattispecie in cui il lavoratore inabile alle mansioni ultimamente disimpegnate di autista,  inquadrate nel sesto livello, aveva aderito ad un patto di dequalificazione al nono livello  poi impugnato per asserita sussistenza in azienda di mansioni equivalenti o intermedie rispetto  a quelle cui era impossibilitato per infermità a disimpegnare – aveva accolto la tesi datoriale, addebitando al lavoratore il vizio di non aver  indicato espressamente, prima di aderire al patto di dequalificazione, le mansioni  equivalenti o alternativamente intermedie, suppostamente esistenti in azienda.

La Cassazione ha rilevato che, a seguito della sentenza n. 7755  della Cassazione a sezioni unite del 7 agosto 1998 che ha recepito un orientamento dottrinale minoritario ma socialmente progressista - sostenuto pervicacemente quanto in ristrettissima compagnia da chi scrive: cfr. l’articolo intitolatoIl diritto alla flessibilità delle mansioni accordato dall’art. 2103 c.c. all’impresa e negato ai lavoratori colpiti da sopravvenuta inidoneità psico/fisica”, in D&L, Riv. crit. dir. lav. 1996, 35 nonché in http://dirittolavoro.altervista.org/inidoneitsopravvenuta.html - il datore di lavoro è stato onerato dell’obbligo di cd. repêchage del lavoratore inidoneo per infermità, in luogo di procedere automaticamente ex art. 1464 cod. civ. al licenziamento per impossibilità sopravvenuta al disimpegno delle mansioni originarie. Repêchage che si traduce nel reperimento, primariamente, di mansioni equivalenti ex art. 2103 e, alternativamente, in caso di comprovata inesistenza in azienda,e sussidiariamente nell’obbligo di concordare con il prestatore inidoneo il cd. “patto di dequalificazione” con l’assegnazione a mansioni (ed eventualmente a trattamento retributivo) inferiori, nell’ottica di salvaguardargli la fonte di sussistenza personale e familiare costituita dal mantenimento dell’occupazione. La Cassazione, nella sentenza n. 19868/2005 in esame, precisa di non essersi mai spinta al punto di sostenere che l’obbligo di repêchage in mansioni equivalenti (o intermedie con le inferiori) era comunque condizionato alla prospettazione  o indicazione espressa da parte del prestatore di posizioni equivalenti o posti di lavoro similari in azienda che egli avrebbe potuto rivestire (come ha fatto la corte di appello), prima di essere mantenuto nella struttura tramite il patto consensuale di demansionamento (cioè a dire di “occupazione al ribasso”).

Con la conseguenza che ne è uscita l’affermazione di principio secondo la quale: « Il datore di lavoro che adibisca il lavoratore, divenuto inidoneo alle mansioni da ultimo espletate, a mansioni di livello inferiore, con il consenso del dipendente, ha l’onere di provare, a norma dell’art. 2697 cod. civ., pur con le ragionevoli limitazioni imposte dal caso concreto e dalle mancate allegazioni del dipendente, l’impossibilità o la non convenienza aziendale di adibire il lavoratore ad altre mansioni equivalenti a quelle da ultimo espletate o a mansioni di livello intermedio».

Sulla specifica decisione ci limitiamo a questi pochi accenni, essendo stata già trattata da altro autore sul n. 1/2006 di questa Rivista, con il titolo ”Inidoneità alla mansione e onere della prova per il demansionamento”, cui si rinvia per approfondimenti.

 

(pubblicato in Consulenza, Buffetti ed. n.5/2006)

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