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- Molestie sessuali e mobbing, determinanti dimissioni della lavoratrice per giusta causa – Danno contrattuale
“esistenziale” e danno morale extracontrattuale (per atti di libidine molesta) –
Sussistenza del diritto al risarcimento – Responsabilità in solido del datore di
lavoro e del molestatore per il danno “esistenziale”, in violazione dell’art.
2087 c.c. – A carico del solo molestatore, per il danno morale da reato.
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- Il riferimento codicistico (art. 2087 c.c.) e Costituzionale
(art. 41, 2 co., attinente al divieto per l’iniziativa economica
privata di arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana) alla
necessaria tutela anche della personalità morale e della dignità umana da parte del datore di lavoro
consente di qualificare come illecito contrattuale ogni comportamento che
cagioni ingiustificatamente al lavoratore un pregiudizio alla sua
personalità umana. Normativa ordinaria
e costituzionale dunque approntano una
tutela all’uomo in sé, sanzionando con il risarcimento ogni atteggiamento che
travalichi il diritto ad ottenere dal lavoratore una corretta prestazione, nel presupposto, ovvio, che si tratti
della parte più debole del rapporto e quindi, in astratto, disposta (o
costretta) a subire pressioni od umiliazioni pur di mantenere la sua fonte di
reddito.
- Lo status di soggezione
anche meramente psicologica - che diventa ingravescente quando il rapporto di sottordinazione si
realizza fra soggetti di sesso diverso (proprio perché ognuno si porta dietro la sua natura , anche quando va
a lavorare) - comporta l’obbligo giuridico del datore di lavoro di vigilare affinché nel contesto organizzativo nessuno
approfitti della sua posizione gerarchica per acuire lo stato di soggezione del
sottordinato, imponendo comunque il
rispetto della personalità, soprattutto nei confronti dei soggetti più deboli (minori,
donne lavoratrici, lavoratori con contratti precari, lavoratori cui sono
affidate mansioni semplici ) e conseguentemente più esposti ad ogni tipo di
pressione , o, se si vuole, di
ricatto, in ragione della necessità di
non perdere il lavoro.
- Il danno conseguente alla
violazione dell’art. 2087 c.c. , per la parte in cui tutela la personalità
morale del lavoratore, non corrisponda
sempre e solo al c.d. danno biologico, cioè a quel danno che comprometta la
capacità di relazionare nella vita civile, mediante la causazione di un pregiudizio
fisico o psichico; quello del danno per lesione della personalità morale è
concetto più ampio del c.d. danno biologico quale oggi è inteso dalla
giurisprudenza e consiste nell’oggettivo travalicamento del potere di eterodirezione o gerarchico che si concretizzi in un pregiudizio “morale” (quindi non
necessariamente psichico). Si può correttamente qualificate tale danno – né
biologico né morale – come danno “esistenziale “, eventualmente in concorso con
il danno alla vita di relazione e quello – di natura extracontrattuale – che
tradizionalmente si riconduce alla figura del danno morale, correlata alla
ricorrenza del reato (in fattispecie individuabile negli atti di libidine
molesta). Se si ritenesse l’
inconfigurabilità del danno esistenziale per la violazione dell’art. 2087 c.c.,
quest’ultima norma risulterebbe
inutiliter data, nelle ipotesi,
frequentissime, di pregiudizio alla personalità morale che non cagioni
un vero e proprio danno psichico con conseguenze permanenti nella vita di
relazione.
- Per
il danno “esistenziale” o alla vita di relazione, conseguente a violazione dell’art. 2087 – liquidabile equitativamente
in 30 milioni (utilizzando il parametro delle 15 mensilità opzionali previste
indennitariamente ex art. 18 stat. lav. per il licenziamento ingiustificato) - sono responsabili in solido il molestatore (per comportamento
commissivo) e l’azienda (per comportamento omissivo), mentre per il danno
morale, liquidabile in 15 milioni, è responsabile esclusivamente l’autore del
reato di molestie.
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- Svolgimento del
processo
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- Con
ricorso 28 settembre 1999 Tosca Fulceri
esponeva di aver lavorato alle dipendenze della Autogrill s.p.a., presso
una unità di Pisa, dal 1993 fino alla fine del 1998, a seguito di dimissione
per giusta causa determinate da molestie sessuali poste in essere nei suoi
confronti dal vicedirettore Francesco Rigo. In particolare segnalava un primo episodio
verificatosi nel 1994 (seguito da altri e comunque da un atteggiamento
vessatorio) e quindi un secondo nel
maggio del 1998, in esito al quale il
datore di lavoro comminava al Rigo la sanzione disciplinare della sospensione
per cinque giorni. Ritenendo il datore di lavoro responsabile ex art. 2049 c.c., chiedeva la condanna, in solido
con il Rigo, al risarcimento del danno patrimoniale, biologico e morale,
allegando di aver contratto una malattia psichica come conseguenza dei fatti
descritti.
- Resisteva
in giudizio la Autogrill s.p.a. spiegando come all’atto delle dimissioni
la ricorrente non avesse allegato alcuna circostanza costituente giusta
causa. Aggiungeva che in occasione del primo episodio il Direttore dell’unità
di Pisa aveva rimproverato aspramente il Rigo “ponendo
in discussione il suo ruolo all’interno dell’esercizio”. Quindi
spiegava come nulla fosse più successo fino al 1998 e che anzi i rapporti
fra i due dipendenti si erano rasserenati fino al punto di lasciar
presumere che fra di essi esistesse un rapporto di amicizia e confidenza.
Riteneva inveritiero l’episodio relativo al maggio del 1998 e spiegava
che comunque in esito ad esso l’azienda aveva adottato una sanzione
disciplinare ed aveva provveduto a trasferire a Massa il vicedirettore.
Negava ogni responsabilità e contestava ogni nesso fra il comportamento
del Rigo e la presunta malattia psichica della ricorrente.
- Il Rigo, costituitosi in
giudizio, negava ogni comportamento e spiegava che il datore di lavoro non
aveva dato corso alla sanzione disciplinare ed aveva revocato il trasferimento
subito dopo le dimissioni della Fulceri. Contestata pure la sussistenza della
malattia, concludeva per il rigetto della domanda.
- Esperito
infruttuosamente il tentativo di conciliazione, interrogate le parti e
sentiti tutti i testi indicati dalle parti, il giudice autorizzava note
scritte, dopo di chi , all’udienza del 3.10.2001,
sulle conclusioni delle parti, decideva la causa dando pubblica lettura
del dispositivo.
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- Motivi della decisione
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- 1)
Con un clamoroso mutamento della costruzione difensiva, il Rigo, che si
era costituito in giudizio negando di aver mai posto in essere
comportamenti irriguardosi nei confronti della ricorrente, in sede di
interrogatorio (ud. 8.11.2000), ha ammesso
di aver tentato – nel 1994 -
di baciare la sua collega di lavoro in ascensore,
spiegando la cosa con un
rapporto di “tenerezza”; necessariamente richiesto di meglio
specificare in che cosa fosse consistita tale relazione, il convenuto ha
spiegato che,
qualche giorno prima dell’episodio, i due si erano visti nella sua auto
dove si erano intrattenuti in “un
rapporto sessuale orale”. Ha, poi, aggiunto, che dopo la serata in
macchina i rapporti si erano raffreddati, perché la Fulceri “aveva dei
problemi”(“suo
marito era andato a letto con la sorella e lei di questa cosa ne soffriva.
Andava anche dicendo che dopo il parto
era tornata vergine perché le era stata suturata la vagina”) , spiegando
che la relazione con la Fulceri
era durata lo spazio “della sera al parcheggio della Standa…”.
- Poiché
la Fulceri, nel suo interrogatorio, aveva aggiunto che il Rigo aveva fatto
oggetto delle sue attenzioni un’altra ragazza, Rigo ha dichiarato (che la stessa, ndr.) “
aveva avuto un rapporto sentimentale
con il (mio) collega Barsella Silvestro : entrambi erano fidanzati con altri e
(a me) capitava di dover coprire le
loro scappatelle”.
- Tenuto
conto che, come subito si dirà, appare del tutto certo che il Rigo abbia
posto in essere i comportamento contestati con la Fulceri e con un’altra
dipendente (v. infra), è del tutto evidente come la sua
strategia difensiva – tardivamente meditata -
sia consistita nel descrivere l’ambiente
di lavoro come connotato da una
sconcertante elasticità di rapporti interpersonali fra i lavoratori di
sesso diverso, nel tentativo di giustificare i suoi comportamenti in un
contesto lavorativo caratterizzato da estrema disinvoltura e tolleranza,
dove tutti facevano un po’ di tutto, scappatelle e convegni amorosi in
auto.
- Operazione, questa,
maldestramente risoltasi nel solo
effetto di ulteriormente qualificare il suo comportamento.
- Ciò
premesso, quanto occorrerà verificare è se gli episodi lamentanti dalla
Fulceri siano veri e se, a parte la responsabilità del Rigo ( di cui
questo giudice può processualmente conoscere per ragioni di connessione
ex art. 40 c.p.c.), vi sia responsabilità (omissiva) del datore
di lavoro.
- La
ricorrente ha confermato, con dovizia di particolari, l’uno e l’altro
episodio (febbraio 1994 ed aprile 1998) spiegando anche che – prima e
dopo i fatti del 1994 - il Rigo non perdeva occasione per “strusciarsi”
e metterle le mani addosso, atteggiamento, questo, tenuto anche nei confronti di un’altra
ragazza. Vale la pena qui riportare quasi integralmente le dichiarazioni
rese dalla teste Simona Giannessi:
“Ricordo che una sera (nel 1994) la ricorrente venne sul mio posto di
lavoro e piangeva. Le chiesi cosa fosse successo ed
all’inizio lei non mi voleva dir nulla. La presi da parte e la Fulceri
mi raccontò che la sera prima era
stata assalita dal Rigo nell’ascensore. Io ci ho subito creduto perché
anche io ero stato oggetto di attenzioni da parte del Rigo. Ogni momento
era buono per toccare, con una scusa o con un’altra… Il primo episodio si
verificò quando io ero intenta a
mettere a posto dei bicchieri in un posto alto. Il Rigo mi venne dietro e
mi abbracciò all’altezza del seno. In quella occasione io mi misi a
piangere. Un’altra volta, nel 1995 verso maggio o giugno, mentre stavo
tagliando una torta in cucina il Rigo mi venne da dietro e mi toccò, nel
senso che si strusciò pesante”.
- Non
vi è ragione alcuna per dubitare delle dichiarazioni del tutto
disinteressate della Giannessi: esse, tuttavia, hanno trovato una sicura
conferma in quanto dichiarato dall’allora Direttore del negozio (Di
Pretoro, ud. 5.12.2000: “verso la fine di maggio dell’anno 1995 fui chiamato da dei colleghi di lavoro perché
la Giannessi piangeva. Chiesi alla Giannessi cosa fosse successo e lei mi
disse che mentre era in cucina e preparava delle creme cotte sentì una
certa pressione al bacino da parte del Rigo. Convocai immediatamente il
Rigo e lui mi disse che si era semplicemente
sporto a vedere cosa facesse la
Giannessi e che la Giannessi facendo mezzo passo indietro l’aveva urtato”),
dalla dipendente Fernanda Giometti (ud. 6.2.2001: “preciso meglio che
una volta di sfuggita la Giannessi mi parlò di molestie…Simona mi ha
detto che il Rigo l’aveva molestata…”) e dal dipendente
Barsella (teste all’ud. del 17.7.2001: “ non ho fatto caso a chi mi avesse detto che
il Rigo si era strusciato. Certo ho avuto l’impressione che tutti lo
sapessero”), dal teste Garlani Mauro (ud. 6.2.2001: “Il direttore non
mi informò dell’episodio del 1994. Mi informò, invece, di un episodio che riguardava la Giannessi
credo nel 1995, sempre con il Rigo protagonista…”).
- E’,
dunque, sicuro che il Rigo abbia posto in essere atti di molestia nei
confronti della Giannessi e questo consente di non
dubitare della stessa quando riferisce di sé e della sua collega, oggi
ricorrente.
- Che
la Fulceri abbia detto la verità nel suo ricorso e nel suo interrogatorio
risulta anche – oltre che dalla dichiarazioni della Giannessi - da una
serie di elementi ulteriori: il direttore Di Pretoro ha confermato che il
futuro suocero della Giannessi sia era recato in azienda per contestare l’episodio
dell’ascensore e che la stessa Giannessi se ne fosse lamentata (ud.
5.12.2000), il dipendente Bianconi ha ammesso di essere venuto a
conoscenza dell’episodio del 1994, e così la dipendente Rosellini (ud.
6.2.2001).
- E,
dunque certo, che il Rigo si sia reso protagonista dell’episodio (dell’ascensore)
del 1994: la reazione della Fulceri, poi, verificata dall’allora
Direttore del negozio, riferita dalla Giannessi
e dagli altri testimoni consente di ritenere che sicuramente la ricorrente
non fosse consenziente: ce lo dice, nella sua contorta versione, lo stesso
Rigo quando ammette che quel “rapporto
di tenerezza” si era esaurito nell’arco
di una serata, con un veloce e sbrigativo incontro nella sua auto: ma ce lo dice anche il buon senso , poiché, se fosse stato come
dice il Rigo (e cioè se la Fulceri fosse stata anche tacitamente
consenziente), sicuramente la stessa , a pochi giorni dell’incontro in
auto, non avrebbe esposto al direttore del negozio l’aggressione in
ascensore, a meno di non rischiare che la cosa venisse fuori, come logica
vuole, nelle prevedibili difese del Rigo. E non è neppure ipotizzabile
che, per una sorta di ritorsione (del tutto immotivata, poiché il Rigo
nulla allega su tale possibile motivazione) la ragazza corresse il rischio di far sapere
nel suo posto di lavoro della sua disponibilità ad incontri fugaci.
- Non
vi sono neppure dubbi sull’episodio del 1998, poiché, intanto, dalla
certezza del primo e dalla certezza sui
fatti subiti dalla teste Giannessi si ricava una verisimile linea di
comportamento del Rigo, a questo punto avvezzo ad atteggiamenti
scorretti. Ma l’episodio è confermato ancora una volta dalla Giannessi
(“So anche che il Rigo ci ha riprovato con la ricorrente di recente:
la Fulceri mi disse: è risuccesso, e mi spiegò che il fatto si era
verificato mentre era alla cassa”) ed indirettamente dal direttore
Giusto (ud. 5.12.2000: “il 27 maggio del 1998 io facevo il mio turno
pomeridiano e mi ha subito avvicinato la
signora Fulceri che mi disse quanto era successo la mattina”) e dal
teste Garlani (loc. ult. cit.) il quale ha riferito che, relativamente all’episodio
del 1998, il Rigo si era limitato
a “minimizzare” la cosa, spiegando che si era trattato di un “contatto
fortuito”.
- Si può, allora, tenere per
acquisito che il Rigo si sia reso responsabile di atti di molestia nei
confronti della ricorrente.
-
- 2) A questo punto c’è da chiedersi cosa
abbia fatto il datore di lavoro per impedire il perpetrarsi del
comportamento del Rigo, posto che, come meglio si vedrà in seguito, era
suo obbligo salvaguardare la personalità morale della dipendente (art.
2087 c.c.).
- E’
certissimo che il direttore del negozio nel 1994 fosse venuto a conoscenza
del primo episodio, perché ce lo dice lui stesso (teste Di Pretoro, ud. 5.12.2000); è certissimo, perché ancora una volta ce lo dice Di
Pretoro(loc. ult. cit.), che egli fosse a conoscenza anche della molestie
subite dalla Giannessi. E’ certo, ancora, che il direttore abbia
informato i superiori, quantomeno relativamente alle
molestie subite da quest’ultima.
- I
provvedimenti presi in questa occasione si sono limitati ad un rimprovero
verbale ed all’allontanamento fisico della Fulceri. Nessuna sanzione
disciplinare è stata adottata nei confronti del Rigo e
la spiegazione è semplice perché il datore non aveva dato peso alla
questione (riferisce il teste Garlani, loc.ult.cit., “Il direttore
non mi informò dell’episodio del 1994 perché non lo riteneva grave”).
- Ma
il datore di lavoro non aveva dato peso neppure al secondo episodio: dice
al proposito Garlani: “non avevamo la prova certa della
responsabilità del Rigo perché c’era la sua parola contro quella della
Fulceri. Tuttavia, siccome l’azienda è particolarmente severa e sensibile (sic!
ndr) al problema decidemmo di comminare una sanzione conservativa e poi
di trasferire il Rigo”.
- Ma
ci spiega lo stesso Rigo (v. interrogatorio) che la sanzione si era
risolta in un provvedimento meramente formale, privo di contenuti
effettivi: “il Garlani mi disse che mi avrebbe dato cinque giorni di
sospensione e che mi avrebbe trasferito a Massa solo per calmare un po’
le acque: difatti la sanzione non è stata mai eseguita e per Massa mi
hanno sempre rimborsato tutte le spese. Il capoarea mi aveva assicurato
che sarai tornato a Pisa appena possibile”.
- Dunque il provvedimento
punitivo del datore di lavoro è un mero provvedimento di facciata, mai
eseguito, il che è in linea con il convincimento della modesta portata lesiva del comportamento del Rigo.
- Il
datore di lavoro sa benissimo fin dal 1994 che il suo vicedirettore
mantiene quell’atteggiamento con la Fulceri e con altre, sa, ancora, che
quel comportamento si ripete a distanza di anni e si limita ad adottare
uno pseudoprovvedimento disciplinare assolutamente inadeguato rispetto
alla estrema gravità del fatto, concorrendo omissivamente a cagionare
nella dipendente sottordinata all’autore delle molestie quello stato di
estremo disagio concretizzatosi addirittura in una malattia psichica.
- Né
ha pregio la tesi difensiva di Autogrill s.p.a. che si trincera nell’affermazione
di aver avuto la parola della Fulceri contro la parola del Rigo; tesi del
tutto grossolana, se si considera che non vi era ragione alcuna perché
una ragazza montasse un tale polverone esponendosi reiteratamente in prima
persona, coinvolgendo i familiari, le organizzazioni sindacali, i vertici
aziendali e se si considera che il datore di lavoro sapeva che quei “contatti
occasionali” erano stati rivolti anche ad un’altra dipendente. Né il
Rigo né il datore di lavoro danno una spiegazione plausibile del
comportamento della Fulceri, salvo affermare del tutto gratuitamente che
la dipendente “avesse dei problemi”: ma questi problemi li aveva anche
la Giannessi? E cosa poteva pretendere il datore di lavoro di più di
questa enorme serie di riscontri, posto che normalmente il molestatore non
molesta davanti a testimoni ?
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- 3) La
fattispecie astratta alla quale deve essere parametrata la domanda della Fulceri è quella di cui all’art. 2087 c.c. secondo cui “
l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del
lavoro, l’esperienza e la tecnica , sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità
morale dei prestatori di lavoro”.
- Quanto
oggi, dunque, si va attribuendo all’istituto
– di importazione nordeuropea – del c.d. mobbing appartiene,
da tempi non sospetti, alla cultura giuridica del nostro sistema
lavoristico già dal 1942 e trova una conferma – a livello
costituzionale – nell’art. 41, 2 co., Cost. dove, come è noto, si
dice che
l’iniziativa economica privata “non
può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar
danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
- Il
riferimento alla necessaria tutela anche della personalità morale e della
dignità umana da parte del datore di lavoro consente di qualificare come
illecito contrattuale (art. 2087 c.c.) ogni comportamento che cagioni ingiustificatamente al
lavoratore un pregiudizio alla sua personalità
umana e dunque appronta una tutela all’uomo in sé, sanzionando con il
risarcimento ogni atteggiamento che travalichi il diritto ad ottenere dal
lavoratore una corretta
prestazione, nel presupposto, ovvio, che si tratti della parte più debole
del rapporto e quindi, in astratto, disposta (o costretta) a subire
pressioni od umiliazioni pur di mantenere la sua fonte di reddito.
- Intesa
in tal modo, la norma codicista (supportata dal disposto costituzionale) appronta un diaframma ben preciso fra gli obblighi contrattuali
inerenti al sinallagma ed ogni
manifestazione di supremazia datoriale che al quel sinallagma non sia
funzionale e che, nell’immanente squilibrio fra le due parti, consenta a
chi offre il lavoro di pretendere da chi lo presta
qualcosa in più rispetto alla corretta prestazione od addirittura,
secondo alcune istanze attuali,
una sorta di partecipazione totale al momento imprenditoriale, se non
addirittura di devozione.
- La
regola, dunque, impedisce ogni forma
di pressione rivolta al lavoratore che
sia estranea all’esecuzione della prestazione e sconfini nella pretesa
di fagocitare all’impresa la persona del dipendente, che tale rimane, ancorché necessariamente
inserita nel contesto della sua
azienda, dovendo a quest’ultima nient’altro che una
prestazione lavorativa.
- In
tale contesto normativo il fenomeno del c.d. mobbing verticale si
configura, allora, come obbligo del datore di lavoro di rispettare la
personalità del suo lavoratore evitando ogni comportamento che, pur
formalmente corretto, possa risolversi in una forma di pressione , di “accerchiamento”,
sì che il lavoratore possa avvertire questa sorta di presenza costante,
il fiato sul collo, la consapevolezza che ogni manifestazione della sua personalità non
gradita al datore possa
comportare conseguenze pregiudizievoli sul piano del rapporto
contrattuale.
- In
definitiva si può affermare che nel rapporto lavorativo è vietato ogni
comportamento datoriale che realizzi una
compromissione della personalità del lavoratore, posto che quest’ultima
deve rimanere estranea alla prestazione e non è versata,
in tutte le sue componenti (come da qualche parte oggi si pretende) nel
sinallagma , ma mantiene la sua
destinazione al patrimonio individuale, lontanissima
del potere di sovraordinazione ed eterodirezione datoriale.
- La
norma codicistica, poi, impone al datore di lavoro un comportamento
attivo: egli deve approntare le misure di sicurezza finalizzate a tutelare
l’integrità fisica del lavoratore e
deve porre in essere tutti gli accorgimenti
necessari a tutelarne la personalità morale.
- In
tale contesto il datore di lavoro che sa che un suo dipendente realizza
comportamenti vessatori od addirittura comportamenti che si
concretizzano in fattispecie delittuose di estrema gravità (come le
molestie, o, se si vuole, gli
atti di libidine molesta) è
tenuto a porre in essere, secondo
il tradizionale criterio della “massima sicurezza fattibile”(che
appartiene, come è noto, allo schema dell’art. 2087 c.c.) , quanto
necessario per impedire il reiterarsi del comportamento illecito. E questo
a maggior ragione quanto sa che tali comportamenti sono posti in essere
approfittando della condizione di sottordinazione della vittima.
- Il
contesto lavorativo, se si fa eccezione dei rari casi in cui si ha la
fortuna si svolgere un lavoro (veramente) gratificante, è in sé un
contesto organizzato secondo criteri verticistici, nel quale la
personalità individuale del singolo lavoratore soffre necessariamente di
tutte le restrizioni connaturate alla organizzazione ed è notorio che
tanto più si acuisce il fenomeno quanto più si discuta di soggetti
incaricati di mansioni semplici e comunque plurisottordinati. Benché si
vada sostenendo che il lavoro è il luogo di realizzazione della
personalità (al punto che si è
anche visto di qualche singolare progetto volto a concentrare nel luogo di
lavoro anche le altre manifestazione di vita della persona), questo è
vero solo per chi ha la ventura di interessarsi di cose che in qualche
modo coincidano con la manifestazione della sua personalità: non vale –
ancorché da più parti (interessatamente) si sostenga il contrario- nei
casi (che sono la maggioranza) in cui il lavoro, per la sua gravosità o
per
il suo modesto contenuto, rappresenti solo un mezzo per procurarsi un
reddito di sopravvivenza, posto che, per restare al caso di specie,
nessuno “si realizza” lavando piatti, o servendo le pizze ai tavoli.
- Allora
è proprio in questi casi (nei casi, cioè, nei quali vi
è una frattura netta fra la personalità del
lavoratore ed il lavoro) che l’operatività dell’obbligo datoriale di
rispettare la “personalità morale” del lavoratore assume contenuto
massimo, poiché la condizione di soggezione è massima quando il lavoro
è solo fatica.
- Ma vi
è di più, perché, come dimostra la questione oggi sottoposta all’attenzione
di questo giudice, lo status
di soggezione anche meramente
psicologica diventa ingravescente
quando il rapporto di sottordinazione si realizza fra soggetti di sesso
diverso, e questo proprio perché ognuno si
porta dietro la sua natura , anche quando va a lavorare.
- E’,
allora, obbligo giuridico del datore di lavoro vigilare affinché
nel contesto organizzativo nessuno approfitti della sua posizione
gerarchica per acuire lo stato di soggezione del sott’ordinato (v. Cass. 8.1.2000, n.
143 e Cass. 17.7.1995, n. 7768), imponendo comunque il rispetto della
personalità, soprattutto nei confronti dei soggetti più deboli (minori,
donne lavoratrici, lavoratori con contratti precari, lavoratori cui sono
affidate mansioni semplici ) e conseguentemente più esposti ad ogni tipo
di pressione , o, se si vuole, di
ricatto, in ragione della necessità di non perdere
il lavoro.
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- 4)
Ciò premesso , è opinione di questo giudice che il danno conseguente
alla violazione dell’art. 2087 c.c. , per la parte in cui tutela la
personalità morale del lavoratore, non corrisponda sempre e solo al c.d. danno
biologico, cioè a quel danno che comprometta la capacità di relazionare
nella vita civile, mediante la causazione di un pregiudizio fisico o
psichico. La legge, infatti, non tutela l’integrità psichica, ma la “personalità morale”
del lavoratore, che è cosa diversa, la prima essendo riconducibile al
generico obbligo di non recare pregiudizio alla salute (e quindi alla
integrità fisica); sicché, per esempio, può ben
capitare che vi sia una evidente
lesione della personalità morale senza alcun danno psichico, quando il soggetto destinatario della pressione o
della vessazione, per sua fortuna, possegga risorse proprie che gli
consentano di superare indenne il comportamento vietato, così sicuramente
avvertendo una compromissione della sua “personalità” ma senza alcuna
conseguenza permanente nelle sue capacità psichiche. Dunque quello del
danno per lesione della personalità morale è concetto più ampio del
c.d. danno biologico quale oggi è inteso dalla giurisprudenza e consiste
nell’oggettivo travalicamento del potere di eterodirezione o gerarchico che si concretizzi in un pregiudizio “morale” (quindi non
necessariamente psichico).
- Né
questa ricostruzione soffre della apparente difficoltà di determinate l’ammontare
di tale danno (che sfugge naturalmente alla grossolana determinazione “
a punti”), poiché il giudice ai sensi del combinato disposto degli artt.
2056 e 1226 c.c. può determinarlo equitativamente.
- Né,
ancora, vi è il rischio, sul piano sistematico di “duplicare” il
danno morale, che, come è noto consegue – secondo i criteri di
responsabilità extracontrattuale – ai casi in cui il fatto lesivo sia
qualificato dal nostro ordinamento come ipotesi di reato.
- Per
scongiurare il pericolo basta considerare che la logica che sorregge il danno morale è quella di restaurare “il prezzo
del dolore” nei casi in cui la lesione
sia di tale gravità da comportare l’applicazione astratta (anche)
della sanzione penale, in mancanza di una norma, legale o pattizia, che
descriva come obbligatorio un certo comportamento; ipotesi,
questa, diversa dalla nostra nella quale si discute della violazione dell’obbligo
contrattuale (art. 2087 c.c.) di rispettare la personalità morale del
lavoratore, così trattandosi di una forma risarcitoria ex se, che concorre sia con il risarcimento patrimoniale, sia con il
risarcimento alla vita di relazione, sia con il risarcimento da fatto
delittuoso (c.d. danno morale).
- Certo
è che il comportamento posto in essere con violazione dell’art. 2087
c.c., quando si tratta di omessa tutela della personalità morale, può
realizzarsi senza che si verifichi alcun danno biologico (v. supra)
e senza che il fatto costituisca reato.
- Si pensi, per accedere ad una
fattispecie di attualità, al caso di reiterazione ingiustificata di
accertamenti sullo stato di malattia, ritenuta vessatoria dalla Suprema Corte
di Cassazione (Cass. n. 475/1999 ):
comportamento, questo, che né costituisce reato né appare oggettivamente
idoneo a provocare permanenti pregiudizi psichici nel destinatario della
condotta vietata.
- In
tal senso, allora, si può correttamente qualificate tale danno – né
biologico né morale – come danno “esistenziale” (da ultimo Trib.
Forlì 15 marzo 2001, Rivista Critica di
diritto del lavoro,2001, 411), eventualmente in concorso con il danno alla
vita di relazione e quello – di natura extracontrattuale – che
tradizionalmente si riconduce alla figura del danno morale (per il
concorso del danno contrattuale con quello extracontrattuale v. Pret.
Milano 25.5.1997, ibidem, 1997, 157 e Pret.
Milano 31.1.1997, ibidem, 619).
- Tutto
ciò rimane confermato da una ulteriore considerazione: se, infatti,
si ritenesse la
inconfigurabilità del danno esistenziale per la violazione dell’art.
2087 c.c., quest’ultima norma risulterebbe inutiliter data, nelle ipotesi, frequentissime, di pregiudizio alla personalità morale che non
cagioni un vero e proprio danno psichico con conseguenze permanenti nella
vita di relazione.
- Ovviamente, poi, quando le fattispecie ( come nel caso di
specie, per quanto infra)
concorrono, concorrerà anche la distinta determinazione del danno.
-
- 5)
L’applicazione delle regole astratte ora enunciate al caso di specie
comporta - dimostrata la responsabilità commissiva del Rigo e quella
omissiva del datore di lavoro – la loro responsabilità in solido in
ordine alla fattispecie risarcitoria contrattuale (Pret. Milano 31.1.1997, cit.) per quanto concerne
la violazione dell’obbligo legale di tutela della personalità morale, a
questo punto assumendo rilievo del tutto attenuato accertare se il
comportamento illegittimo abbia (anche) cagionato un danno psichico e se
vi sia nesso fra detto comportamento e l’evento (ancorché dalla
certificazione medica in atti si evinca che lo stato depressivo patito
dalla Fulceri sia insorto in concomitanza cronologica con gli episodi di
molestia).
- Come accennato, infatti,
qui si tratta di risarcire il danno c.d. esistenziale.
- Questo
giudice, anche nelle ipotesi di danno biologico non condivide
la determinazione del danno “a
punti”, che non tiene conto della numerose sfumature che di norma
caratterizzano i casi concreti. A maggior ragione tale criterio non appare
utilizzabile nel caso di danno esistenziale, dove non si tratta di
accertare la diminuzione di capacità lavorativa e/o
relazionale . Soccorre, al contrario, il criterio equitativo che tenga
conto della gravità del fatto, del numero degli episodi, della
potenzialità offensiva del comportamento, movendo da un parametro che
può essere mutuato dalla forma risarcitoria legislativa per il
licenziamento illegittimo, e cioè dalle quindici mensilità che, come è
noto, rappresentano un indennizzo forfetario idoneo
in astratto a restaurare il pregiudizio derivante dalla ingiustificata
cessazione del rapporto. Tale parametro, che appartiene sul piano positivo
al nostro ordinamento, consente di verificare la congruità dell’operato
giudiziario anche in forme risarcitorie ex art. 1226 c.c. , ovviamente con
tutti gli adattamenti del caso concreto.
- Nel nostro, sulla scorta
di tali indicazioni, il danno può essere quantificato nella somma di L. 30.000.000.
- Poiché
la fattispecie esaminata in astratto configura una ipotesi delittuosa, sul
piano extracontrattuale il solo Rigo – autore del fatto – deve essere
condannato al risarcimento dei danni morali che, tenuto conto delle
circostanze concrete e della reiteratezza degli episodi, può essere
quantificato in L. 15.000.000. Tale risarcimento non può essere posto a
carico anche del datore di lavoro, nei
cui confronti non è ipotizzabile alcuna violazione
di ipotesi penalmente rilevanti.
- Le spese di lite, liquidate
come in dispositivo, devono essere poste a carico solidale delle parti.
-
- P.Q.M.
-
- Il
giudice accoglie la domanda avanzata dalla ricorrente nei confronti dei
convenuti e per l’effetto li condanna in solido al risarcimento del
danno
alla vita di relazione ex art. 2087 c.c., quantificato in L. 30.000.000; condanna il solo Rigo
Francesco a risarcire alla ricorrente anche il danno morale quantificato
in ulteriori L. 15.000.000.
- Condanna i convenuti in solido al
pagamento delle spese di lite che liquida in L. 10.000.000 oltre Iva e Cap di
cui L. 6.000.000 per onorari, L. 3.900.000 per diritti e L. 100.000 per spese,
oltre Iva e Cap.
- Dichiara la presente sentenza provvisoriamente esecutiva.
- Pisa li 3.10.2001 (depositata
il 7.10.2001)