Molestie sessuali e irrilevanza presistente struttura labile della personalità del danneggiato

 

Tribunale di Milano 21 aprile 1998Pres. Ruiz - Est. De Angelis - C. (avv.Manzoli) c. F. (avv. Pepe) e c. Sant'Andrea 9 Srl (avv.  Zambrano).

 

Molestie sessuali - Domanda di risarcimento del danno biologico ex art. 2043 c.c. - Competenza del giudice del lavoro - Sussiste.

Molestie sessuali - Art. 2043 c.c. - Danno biologico - Preesistente struttura labile di personalità del danneggiato - Danno imprevedibile - Obbligo risarcitorio – Sussiste - Molestie sessuali - Responsabilità solidale del datore di lavoro - Limiti.

 

Il giudice del lavoro è competente a decidere sulla domanda di risarcimento del danno biologico derivante da molestie sessuali avanzata da una lavoratrice subordinata contro il suo superiore gerarchico in quanto la dizione «controversie relative a» contenuta nell'art. 409 n. 1 c.p.c. ricomprende le domande in cui i rapporti ivi indicati, pur non costituendo la causa petendi della pretesa, sono presupposti necessari e non occasionali della situazione di fatto in ordine alla quale sia invocata la tutela giudiziale.

Nell'ambito dell'illecito aquiliano, l'autore delle molestie sessuali è tenuto a risarcire il danno biologico che comprende anche il danno imprevedibile consistente nelle ulteriori conseguenze che l'evento dannoso ha causato al danneggiato la cui preesistente struttura di personalità era caratterizzata da labilità e incapacità ad elaborare situazioni stressanti. La responsabilità solidale del datore di lavoro con il dipendente che abbia effettuato molestie sessuali ai danni di altro dipendente ha natura contrattuale che deriva dalla violazione dell'art. 2087 c.c. e che limita l'obbligo risarcitorio del datore stesso al solo danno biologico subito dal soggetto molestato.

 

(Omissis) – 1. Il Tribunale ritiene, con il Pretore, l'applicabilità, anche alla domanda proposta da F. contro C., della L. 533/73, con le sue regole di competenza e rito.

Questo, però, per ragioni differenti da quelle enunciate del primo giudice.

Sicuramente fuori gioco nella specie il ricorrere di «causa accessoria» (art. 31 c.p.c.), a tacer d'altro per l'assorbente rilievo che essa postula identità di parti (cfr. ad es., Cass. 6/12/91 n. 13165, in Rep. Foro it. 1991, voce «Competenza civile», n. 99; 20/5/83 n. 3496, in Rep. Giust. civ. 1983, voce «Contratti agrari [procedimento in materia di]», n. 14), neppure il testo novellato dell'art. 40, 3° comma dello stesso codice ha alcuna incidenza sulla competenza a conoscere la domanda in questione.  Infatti, il cumulo soggettivo - di queste si tratta nel caso in esame - è espressamente tenuto fuori da tale norma, la quale richiama gli artt. 31, 32, 34, 35, 36, e non l'art. 33 c.p.c.

D'altronde, l'art. 40, 3° comma, cit. si limita a disciplinare il rito delle cause cumulate, nulla dicendo sulla competenza, neppure territoriale.

La soggezione alla L. 553 cit. deriva, però, ad avviso del Tribunale, dal rientrare, la domanda di F., nell'ambito di previsione dell'art. 409 n. 1 del codice di rito.

In proposito si osserva che, sulla base dell'ampia formulazione letterale del l° comma di tale articolo («controversie relative a»), già si è pervenuti a fornirne una lettura ampia, secondo la quale il rapporto richiamato dall'art. 409 (nella specie, quello di lavoro subordinato), pur non costituendo la causa petendi della pretesa, sia presupposto necessario e non occasionale della situazione di fatto in ordine alla quale sia stata invocata la tutela giudiziale: cfr., ad es., Cass. 8/4/94 n. 3311, in Rep. Foro it. 1994, voce «Lavoro (controversia)», n. 61, che ha ritenuto tale soggezione con riguardo alla causa promossa per far valere la responsabilità, ex artt. 67 c.p.c. e 2395 e 2043 c.c., del soggetto che, custode sequestratario giudiziale e amministratore della società datrice di lavoro, abbia posto in essere comportamenti idonei a pregiudicare il credito retributivo del dipendente.  Ovvero relativamente alle domande proposte dall'ausiliario dell'appaltatore nei confronti del committente ai sensi dell'art. 1676 c.c. per conseguire, nei limiti di quanto dovuto dal committente medesimo all'appaltatore, il soddisfacimento del suo credito retributivo (Cass. 24/10/96 n. 9303, in Rep. Foro it. 1996, voce ult. cit., n. 39).

E vero, al riguardo, che nelle fattispecie di cui alle sentenze su indicate, nelle quali comunque una parte non era il datore di lavoro, si facesse valere indiscutibilmente una relazione giuridica subordinata, rispetto alla quale, nella ratio decidendi sottesa alla pronuncia più recente, il contratto d'appalto rilevava solo strumentalmente.

Ma è pur vero, tornando al caso in parola, che C., come è stato prospettato nella domanda contro di lui, fosse il responsabile della boutique presso cui lavorava F. (oltre che componente del consiglio di amministrazione della società), con poteri gerarchici nei confronti delle dipendenti.  E proprio di questo abusasse - sempre nella prospettazione - nel porre in essere la condotta denunciata come fonte di danni.

In tale visione viene qui in gioco, allora, un connotato tipico del rapporto di lavoro subordinato (v. artt. 2104, 2° comma, 2086 c.c.), che fa superare alla domanda di risarcimento extracontrattuale proposta la soglia dell'occasionalità con il rapporto di lavoro subordinato.

In altri termini, ad avviso del Tribunale la citata dizione «controversie relative a» presente nell'art. 409 comprende le domande nelle quali sia fatta valere come profilo cruciale delle stesse una situazione giuridica propria dei rapporti ivi indicati, pur non costituendo, questi ultimi, la causa petendi della pretesa.

2.      Ai fini della ricostruzione dei fatti ha importanza fondamentale la testimonianza di Mela, commessa come F. nel negozio di v. S. Andrea della società Giorgio Armani Retail.  Ella ha dichiarato di avere visto spesso C. sfiorare o toccare il seno in modo non violento alla ricorrente, che si ritraeva.  Lo ha anche ascoltato rivolgerle, nel corso di una telefonata a casa durante un'assenza per malattia della lavoratrice, frasi del tipo: «stanotte ti ho sognato e me lo hai fatto venire duro, immagina il mio cazzo tra le tue tette ecc....».

Mela ha anche riferito che quegli indirizzasse battute e sfioramenti anche alle altre commesse, tra cui lei stessa, che ha reagito «mettendolo a posto».

Tale deposizione, attendibile per la sua puntualità e per provenire da teste che non risulta avere ragione di inimicizia nei confronti di chicchessia, trova riscontro nell'altra di Di Benedetto, nei cui confronti la prima, a sua volta, scioglie i dubbi connessi ai difficili, documentati rapporti tra Di Benedetto stessa e C..

Di Benedetto, appunto, ha riferito di avere ascoltato frasi scurrili e di avere personalmente assistito a palpeggiamenti al seno o al sedere alle dipendenti, per quel che concerne F. una volta sola.

Di battute non gradite, sì da sollecitare l'intervento della preposta Gennaro, ha anche parlato Tonali, la quale ha pure detto di toccamenti alle braccia o alla spalla, invece indicati da Gennaro, per come Tonali glieli avrebbe a sua volta riferiti, in tentativi di palpeggiamenti.

Quanto alle altre testimonianze, non collidono con le precedenti per essere state rese da soggetti che possono non avere assistito ai fatti sui quali quest'ultime sono state rese.  Senza dire, quanto al buon rapporto con C. del fidanzato e della madre di F. dei quali un teste pare avere riferito, alle comprensibili reticenze della lavoratrice verso di loro.

Da tutto ciò deve, in definitiva, ritenersi provata larghissima parte dei fatti denunciati, sicuramente lesivi della personalità e della dignità di F., e posti in essere da un soggetto titolare di poteri gerarchici nei confronti della destinataria.

Si tratta di fatti a sfondo sessuale, consumati con parole pesanti e toccamenti subiti, che hanno provocato a F. turbamenti e paure già di primo momento (v. deposizione di Mela), in un contesto lavorativo in cui la persona offesa si trovava giuridicamente in una posizione di debolezza.  Del resto, come ha sempre riferito Mela, F. aveva timore di perdere il lavoro e comunque di avere difficoltà nel denunciare gli episodi.

3.      L'illiceità dei fatti per lesione di valori e diritti della persona (artt. 2, 41, 2° comma, Cost.) si caratterizza anche penalmente, dovendosi ritenere integrata non la fattispecie di cui all'art. 609 bis c.p., ma, come ritenuto dal primo giudice, la contravvenzione prevista dall'art. 660 dello stesso codice.

La reiterazione degli episodi, nella loro oggettiva attitudine a turbare il destinatario e a darle fastidio, concreta innanzitutto molestia, senza che per questo sia necessario attendere l'annunciata, prossima puntualizzazione della nozione di molestia sessuale da parte dell'ordinamento giuridico italiano, anche sulla scia di esperienze normative straniere e, soprattutto, delle spinte del diritto comunitario.

E senza che abbiano rilievo le considerazioni svolte dall'appellante principale sul carattere disinibito del linguaggio di certi ambienti della moda e sul modo di essere esuberante e confidenziale, e magari un pò volgare, di C..

Che una siffatta condotta integrasse molestia lo riteneva già parecchio tempo addietro, quando pure la sensibilità e l'attenzione sociale sull'argomento delle molestie nei luoghi di lavoro erano ben inferiori e prive di riscontri normativi pure esistenti in Paesi a più radicata disinibizione sessuale, la Corte di Cassazione (Cass. 516/62, in Foro it. 1963, Il, 64).  Ciò, anzi, con riguardo a manifestazioni di «gallismo» ben meno pesanti di quelle in questione.  E il mero importunare una donna (in quel caso, nella pubblica via: v. postea) con eccessive proposte amorose è riportato tra gli esempi di molestia nel più classico manuale di diritto penale.

Gli episodi stessi, a parte quello che è avvenuto «col mezzo del telefono» (art. 660 cit.) e che comunque si inserisce nella sequela prima evidenziata, appaiono, inoltre, essersi verificati in luogo aperto al pubblico, tale essendo la boutique.  Nel caso, in esame, quindi, a differenza di quel che può accadere per altri luoghi di lavoro, sussiste anche l'ulteriore requisito di fatto richiesto dalla norma incriminatrice.

L'elemento soggettivo, inteso come coscienza e volontà della condotta, e come biasimevole motivo (v., ancora, art. 660 cit).), quest'ultimo consistente - non si dimentichi - nello sfondo sessuale di un comportamento non accettato dal portatore dei valori offesi - è infine in re ipsa.

Di qui la risarcibilità anche del danno morale, ai sensi degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p., nei termini di cui appresso.

4.   Per quel che concerne, appunto, la verifica del danno che secondo F. le sono derivati dalla condotta di C., il Tribunale premette che si tratta di danno biologico, e, appunto, di danno morale.

La domanda non riguarda, invece, il danno patrimoniale e il c.d. danno esistenziale, quest'ultima figura molto discussa nel diritto civile generale e nello stesso diritto del lavoro, ove ha pure trovato ricorrente applicazione.

Circa il danno biologico, il primo giudice ha tenuto correttamente distinto il danno alla salute dalla condotta lesiva (di recente arg. ex Cass. 2/6/97 n. 4895, in Mass.  Foro it. 468), e ha proceduto ad accertare se quest'ultima abbia causato l'altro, in ciò avvalendosi della collaborazione di un consulente tecnico d'ufficio, il dott. Marigliano.

L'accertamento, in conformità a quanto detto nell'elaborato, nel supplemento e nei chiarimenti resi dal consulente, è stato positivo, e giustamente.

Infatti, il modo di procedere e le valutazioni e conclusioni del consulente sfuggono alle critiche dell'appellante principale.

Il dott. Marigliano ha in particolare spiegato, appunto nei chiarimenti resi all'udienza del 22/10/96 sui rilievi mossi alla Ctu dal consulente di parte, come per un certo tempo F. abbia convissuto con il trauma psichico arrecatole da C., per poi cedere per sei-sette mesi, che sono poi proprio gli ultimi prima dei provvedimenti della società.  E che è un lasso di tempo di tale durata a essere compatibile con la diagnosi di disturbo dell'adattamento da lui effettuata, causato dalle molestie in questione inseritesi in una preesistente struttura di personalità e di incapacità a elaborare esperienze stressanti.

Proprio su tale struttura ha soprattutto insistito l'appellante principale per escludere il nesso causale tra la condotta addebitatagli e il disturbo accertato dal consulente.

Senonché, è proprio sui soggetti psicologicamente meno attrezzati e più fragili che possono prodursi gli effetti deleteri di comportamenti illeciti, gli altri riuscendo a reagire non solo facendo scivolare sulla loro pelle gli effetti della condotta, ma ancor prima, magari anche in forza di un'esperienza di vita maggiore specie nel confronto con il potere - si ripete, C. era il responsabile della boutique e un componente del consiglio di amministrazione della società - e l'altro sesso, ponendo il molestante nella condizione di lasciar perdere subito, ovvero denunciandolo prontamente a chi di dovere.

La preesistente struttura di personalità, allora, non esclude affatto il nesso causale tra disturbo e molestie, tanto più in un sistema caratterizzato dalla risarcibilità del danno imprevedibile - si rammenta che si è nell'ambito dell'illecito aquiliano - la cui logica è proprio nel far ricadere pienamente sul soggetto che commette l'illecito il rischio legato al medesimo.

Negli indicati chiarimenti, e in particolare in quelli che concernono il c.d. primo asse, il consulente ha infine spiegato il perché della durata di sei-sette mesi del disturbo.

Circa la quantificazione, l'importo di L. 150.000 giornaliere riconosciuto a F. pare rispettoso di quell'equità che, ex artt. 2056 e 1226 c.c., deve essere utilizzata come criterio di liquidazione nella specie, in cui non è possibile ricorrere ad altro criterio.  In tale quantificazione il primo giudice ha tenuto debitamente conto della cattiva qualità della vita che la persona - fragile, si è visto - di F. ha dovuto subire per oltre sei mesi ma per effetto di condotta ultrabiennale.  Forse, anzi, ha peccato per difetto, se si considera che quelli - data l'età della ricorrente in primo grado (ella è nata nel 1969) - erano tra gli anni più significativi dell'esistenza.

5.      La sentenza impugnata è indenne da censura anche per quel che concerne la liquidazione del danno morale - che, si è detto prima, va risarcito in presenza di reato come tale considerandosi il temporaneo disagio derivante dall’attentato alla dignità e libertà di F., che per anni si è dovuta recare in un luogo di lavoro ove sapeva di dover subire un'umiliazione e una mortificazione da parte di un superiore.  E in ragione dell'ultrabiennalità della condotta L. 20.000.000, anch'esse indicate d'equità, e cioè L. 8.000.000 annue circa (poco più di 20.000 lire al giorno), appaiono congrue e forse peccare, ancora, per difetto.

6.      E infondato l'appello proposto dalla società nei confronti di F. con riguardo alla ritenuta responsabilità per il danno biologico.

Come risulta dalla testimonianza di Gennaro, la figura professionale apicale nel negozio di v. S. Andrea subito dopo quella di C., ella fu informata dalla ricorrente del comportamento di C. stesso dopo alcuni mesi del sopraggiungere della prima nella boutique.  Al massimo, quindi, nei primi mesi del 1993.

Sempre secondo Gennaro, inoltre, la stessa ne avrebbe parlato con Giorgino direttore del personale della società, un mese dopo.  Per quest'ultima, invece, ciò avvenne nella primavera del 1994.  In un caso o nell'altro, comunque, preposti della società furono informati della condotta di C..

Il che avrebbe imposto, sub specie dell'art. 2087 c.c. di fare rapidissime verifiche, anche perché almeno un'altra dipendente aveva lamentato episodi del medesimo tipo, e quindi di riferire ai titolari dei poteri in materia o, nel caso del direttore del personale, di provvedere immediatamente.  E questo anche nel silenzio di F., le cui ragioni, in un contesto come quello descritto, andavano accertate, esse potendo essere le più svariate, ivi compresi metus o sfiducia nella bontà della società di risolvere il problema.

Questo, e non mero attendismo, avrebbe richiesto l'adempimento dell'obbligo di tutela dell'integrità fisica e della personalità morale della lavoratrice, cui si riferisce l'art. 2087 cit.

In proposito va solo aggiunto come rientri nel limite della prevedibilità (art. 1225 c.c.) il fatto che dall'omesso intervento a tutela della persona di F. le potesse derivare un danno alla salute.

Responsabilità contrattuale della società, quindi.

Non, invece, concorrente responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., giacché la condotta di C., deviata dai poteri e dai doveri connessi al suo ruolo al punto da integrare reato, presenta con il rapporto tra lui stesso e la società solo tratti di assoluta occasionalità.  Per intenderci, nello stesso modo la Srl Giorgio Armani Retail potrebbe essere chiamata a rispondere, ex art. 2049 cit., per un omicidio commesso da un dipendente sul posto di lavoro.  Il che sicuramente non è.

Di qui la conferma della sentenza pretorile in punto.

7.      L'esclusione della concorrente responsabilità extracontrattuale conduce alla riforma della sentenza con riguardo alla statuizione di responsabilità solidale della società circa il danno morale.

Quest'ultimo, infatti, pur nel contrario avviso di parte della dottrina, non può essere risarcito in via di responsabilità da inadempimento; arg. ex Cass. 8/4/95 n. 4078, in Notiz. giur. lav. 1995, 885.

Ciò non tanto perché sia previsto solo con riferimento alla responsabilità aquiliana (art. 2059 c.c.) e perché manchi una regola di rinvio (come quella dell'art. 2056 c.c.) in un sistema che limita il risarcimento ai danni descritti dall'art. 1225 c.c., ma in quanto il difetto di previsione si giustifica all'interno di un meccanismo di tutela che comunque tenga conto del rischio economico dell'operazione sottesa a un'obbligazione.  Appare così impedito il procedimento di interpretazione estensiva e ancor più quello di applicazione analogica della norma.

Sul punto è solo il caso di aggiungere, quanto alla diversa soluzione fornita per il risarcimento del danno biologico, che quest'ultimo fuoriesce all'originaria formulazione codicistica, affondando le sue radici nell'ordinamento costituzionale (art. 32 Cost.), quale riletto dal giudice delle leggi (cfr.  Corte Cost. 14/7/86 n. 184, in Foro it. 1986,1, 2053; ma già 26/7/79, n. 88, in Giur. it. 1979,1, 91).

Si spiegano, allora, la mancata previsione e il mancato rinvio in termini differenti dall'estraneità al sistema.

8.      Per quel che attiene all'appello incidentale promosso dalla società contro C., esso è, innanzitutto, ammissibile, per giurisprudenza consolidatasi a partire da Cass. sez. un. 7/11/89 n. 4640 (in Foro it. 1989, 1, 3405), pur se proposto dopo la scadenza del termine a impugnare.

Nel rapporto interno tra tali parti non può non considerarsi come la società, dalla condotta di C. in violazione dei suoi obblighi connessi al rapporto medesimo, abbia riportato il danno prima indicato.

Ha quindi diritto a esserne tenuta indenne, nel danno medesimo dovendosi comprendere le spese giudiziali di cui alla statuizione pretorile.

L'appello in punto della società va dunque accolto.

 

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