Un’incredibile (ma purtroppo vera) storia di mobbing per effetto convergente delle esiziali “solidarietà” para-ecclesiastiche e accademico-baronali: il caso dell’oncologo G. Bigotti del Policlinico Gemelli di Roma

 

Il 22 e il 23 luglio 2000, "Il Manifesto" pubblicò questa storia di mobbing raccontata dal giornalista Massimo Giannetti. Il protagonista è un medico del Policlinico "Gemelli" di Roma. Ancora una volta colpisce la noncuranza con cui i potenti schiacciano i deboli . Sembra quasi che la vittima del mobbing  e dei mobbers sia sola e  che anche l'apparato della Giustizia non stia quasi mai dalla sua parte.  Naturalmente si tratta di considerazioni sommarie e verosimilmente superficiali, in quanto - non conoscendo direttamente la terribile vicenda - ci siamo limitati (usando l'accorgimento dell'omissione dei nominativi dei due maggiori imputati di mobbing) a riproporre il contenuto dei due articoli del giornalista Massimo Giannetti de "Il Manifesto"che ci attesta averli redatti sulla base di documentazione giudiziaria incontestata. Nel merito, considerata la pesantezza degli addebiti, la crudezza dello scontro ed il livello delle persone fisiche e giuridiche, direttamente o indirettamente coinvolte o toccate,  l'Autore del sito declina ogni responsabilità in ordine al contenuto della vicenda,   semmai risalente esclusivamente in capo al giornalista Giannetti che l'ha descritta - e si dichiara sin d'ora disponibile a pubblicare ogni e qualsiasi eventuale rettifica o contestazione di parte, nell'ottica di prevenzione di equivoci, polemiche o strumentalizzazioni pretestuose e di ricerca esclusiva della verità.

IL CASO BIGOTTI

DI MASSIMO GIANNETTI

(Roma)

 

A un certo punto vi verrà in mente Philadelphia, un bel film dei primi anni ‘90 sulla discriminazione di un brillante avvocato gay licenziato dal prestigioso studio legale in cui lavora, formalmente «inadempienza professionale», in realtà perché malato di Aids.

Nella storia che segue l’Aids però non c’entra niente. E non c’entra niente neppure la fiction. E’ una storia ancora in corso, che nessun produttore cinematografico trasformerà in film. Si svolge al Policlinico Gemelli di Roma, prestigioso ospedale del Vaticano con annessa Università Cattolica del Sacro Cuore. Il protagonista, suo malgrado, è un giovane medico di belle speranze. temuto dal suo direttore, condannato alla gogna dalla potente lobby universitaria con la benedizione della Santa Sede. La sua promettente carriera di oncologo e ricercatore di Anatomia patologica, cominciata alla Columbia University di New York, finisce in una piovosa mattina di marzo di dieci anni fa quando - accortosi da tempo che nell’istituto tumori in cui lavora vengono ripetutamente commessi gravi errori di diagnosi sui pazienti - decide di fare quello che la coscienza gli suggerisce: segnalare gli esami sospetti ai suoi superiori, sollecitandone la ripetizione. È l’inizio della sua odissea umana, quindi giudi­ziaria.

Giorgio Bigotti, il ricercatore in questione, evidentemente poco pratico del codice di comportamento della casta baronale, da quel giorno non potrà più mettere piede nell’istituto di anatomia patologica diretto dal professor A. C. Gli verrà impedito anche fisicamente. Colpevole di aver rotto il clima di omertà che avvolge la rinomata istituzione sanitaria del papa, verrà prima sospeso dal reparto degli strumenti di ricerca, tenuto lontano dalle aule didattiche, dunque punito con l’isolamento in una stanza attigua all’obitorio, trattato insomma alla stregua di «un monatto di manzoniana memoria», come scriverà uno dei tanti giudici che si occuperanno del caso.

Schernito e perfino picchiato dai suoi colleghi, il medico «indisciplinato» sarà processato da una sorta di tribunale dell’inquisizione composto da tutti i presidi di facoltà della Cattolica. Senza defezione alcuna, avalleranno una strategia che mira a distruggerlo psicologicamente. La punizione del senato accademico avrà l’autorevole sigillo del consiglio di amministrazione della cristianissima Università di cui fanno parte personaggi vaticani del calibro di Camillo Ruini, cardinale vicario di Roma, e politici italiani come l’ex presidente della repubblica, Oscar Luigi Scalfaro.

«Mi hanno massacrato, rovinato la vita e la professione solo perché ho cercato di salvare degli esseri umani», si sfoga Giorgio Bigotti mostrandoci un voluminoso pamphlet pieno di ordinanze e sentenze di tribunali amministrativi civili e penali che di volta in volta, anno dopo anno, faranno perdere la faccia alla Cattolica. Ha l’aspetto di una persona che ha sofferto molto per la sua disavventura in terra santa. Sposato e padre di tre figli, mostra più dei suoi 40 anni. Ne aveva dieci di meno quando «il mondo mi è crollato addosso», racconta «Segnalando quegli errori credevo di aver fatto il mio dovere morale e professionale. Cercare di curare persone malate è il mio mestiere. In quel reparto c’erano uomini e donne sotto terapie sbagliate. Non era la prima volta che accadeva. Sollecitai il direttore a ripetere le analisi collegialmente, per il bene dei pazienti. E invece sono cominciati i miei guai».

E’ sconvolto quando viene fatto fuori, ma è abbastanza testardo per non crollare ai piedi dei suoi superiori. Ha davanti a sé una superpotenza, quella vaticana appunto, ma ha la fortuna di incontrare avvocati disposti a «lavorare gratis» per la sua causa. La Cattolica, forse essa stessa vittima dei poteri forti del Gemelli, farà di tutto per «coprire» il suo direttore, anche contro l’evidenza dei fatti. Altrettanto determinato è però Bigotti nel rivendicare il suo posto di lavoro. Lo scontro, nelle aule dei tribunali, sarà durissimo. Contro il ricercatore «impertinente», il primario sotto accusa, che ricopre anche altre importanti cariche universitarie, attivamente sostenuto dagli altri medici del reparto, organizzerà una durissima campagna di stampa per screditarlo pubblicamente. Lo accuserà di essere contemporaneamente «raccomandato, arrogante, mitomane e ricattatore». Ma Bigotti, diranno altri giudici, non è niente di tutto questo: segnalando quegli errori «ha scrupolosamente osservato il giuramento di Ippocrate», secondo cui «la missione del medico è quella di salvare le vite umane». Dà forse l’impressione di essere un po’ presuntuoso quando rimprovera il primario di essere di fatto un «incompetente» sul lavoro, ma ha le terribili prove dei vetrini dalla sua parte.

È convinto che molte delle diagnosi del caporeparto siano sbagliate, e per dimostrarlo chiamerà in causa i più importanti esperti internazionali di ricerca sul cancro: quelle diagnosi diranno illustri scienziati, sono effettivamente errate. Ma queste conferme risulteranno una vana consolazione per il medico inquisito. Anzi, saranno un aggravante in più per tenerlo lontano dal reparto, «in condizioni di non nuocere».

La Cattolica, accusato il colpo della scienza d’oltreoceano, va avanti per la sua strada, non cede di un millimetro. Teme che riammettendo Bigotti nel reparto, questi possa scoprire altri «scheletri dentro l’armadio». Si guarda bene dal licenziarlo. Non ha argomenti per farlo. Se lo facesse scoppierebbe uno scandalo ancora peggiore. Quindi lo tiene a bada. «Come un vigilato speciale», dirà il Tar del Lazio, che ne ordinerà inutilmente il reintegro nelle sue funzioni. I tribunali saranno l’altra grande soddisfazione di Bigotti, vincitore fino ad ora di molte battaglie sul fronte giudiziario. L’ultima, in ordine di tempo, forse la più importante, l’ha scritta la corte di Cassazione il 30 aprile scorso (ne parliamo qui sotto), confermando le sentenze di condanna per «omicidio colposo» del primario C., inflittagli nei processi di primo e secondo grado per aver «cagionato, o comunque accelerato la morte» di una paziente, per «imperizia» nel fare la diagnosi istologica. La vicenda riguarda il decesso di una bambina di 9 anni colpita da un tumore maligno, alla quale C. aveva diagnosticato una “patologia benigna” alla vescica. L’«errore macroscopico» ravvisato dai sette periti del tribunale era uno dei tanti «sbagli» imputati dai ricercatore al suo primario.

Era il mese di marzo del 1991, l’inizio di questa «storia allucinante». Giorgio Bigotti, laureato a 23 anni in Anatomia patologica alla Sapienza di Roma, e specializzatosi in oncologia in America, lavora al Policlinico Gemelli già da qualche anno, dall’84, come vincitore di concorso. Arnaldo C., già preside della facoltà di medicina a Chieti, sostenuto dall’allora boss politico democristiano Remo Gaspari, arriva a dirigere il reparto del Sacro Cuore nell’87. Gli anni successivi tra i due saranno anni di normali rapporti professionali. Poi, i primi screzi. Visionando i vetrini nell’archivio dell’istituto, Bigotti, che svolge anche attività di assistenza al pari degli altri medici, ha la sventura di imbattersi su due diagnosi sospette: una di queste su una donna colpita da un tumore benigno, alla quale stava per essere asportata una mammella. «Feci le mie rimostranze al primario chiedendo che venissero fatte ulteriori analisi. Gli esami quella volta furono ripetuti all’istituto tumori di Milano e alla Columbia University di New York, che confermarono entrambi l’errore diagnostico». Il caso controverso si risolve senza problemi fisici per la paziente. Così avvenne anche per altro caso di un paziente al quale era stato erroneamente diagnosticato un tumore maligno sul viso. «Se non si fosse proceduto alla verifica della diagnosi, il paziente avrebbe rischiato, senza motivo, l’asportazione di una parte di tessuti facciali. Il suo tumore era infatti benigno».

Sbagliare è umano, perseverare è delittuoso, pensa a questo punto Bigotti, che di «casi sospetti», rianalizzando altri vetrini istologici, successivamente ne aveva contati 113, tutti relativi al 1988. Troppi per stare tranquilli. Ne parlò con i suoi colleghi. «La percentuale di errori era di oltre il 60%. Pensai che fosse quindi opportuno promuovere delle conferenze per ridiscutere insieme quelle diagnosi. C’erano persone sotto terapie sbagliate. Bisognava intervenire con urgenza. Chiesi l’appoggio dei medici del reparto, che però mi risposero di no, non se la sentivano di mettere in discussione il direttore. Mi dissero di parlarne direttamente con C. Così feci. Chiesi e ottenni un incontro con il primario. Al colloquio esternai i miei sospetti, dissi al direttore di aver ravvisato altre diagnosi errate, sollecitandone la correzione. Alcuni pazienti, mandati a casa con cure a base di antibiotici, avrebbero dovuto ricevere la radioterapia o chemioterapia, che in certi casi, se il male è preso in tempo, consentono la guarigione del malato». C. lo ascolta infastidito. «Mi sta a sentire con le mani davanti agli occhi. Poi, improvvisamente si alza, livido in volto, e urlando mi dice di cercarmi uno psichiatra e di trovarmi un altro lavoro».

È il preludio della guerra totale, i cui esiti saranno imprevedibili dentro e fuori dal Gemelli, dentro e fuori dalle aule giudiziarie. Colpi di scena non mancheranno, fino all’ultimo. Ci saranno magistrati che archivieranno indagini e altri che le riapriranno. A un certo punto interverrà anche l’FBI americano. Ma tutti questi episodi avverranno molti anni dopo da quel drammatico faccia a faccia che dà il via alla persecuzione del ricercatore, vittima di una raffinata forma di mobbing in chiave cattolica. «Dopo quell’incontro mi aspettavo un provvedimento disciplinare. Ma non mi diedi per vinto. Credevo di aver ancora delle chances. C’erano di mezzo pazienti sotto terapie sbagliate. Così decisi di scrivere al rettore dell’Università, Adriano Bausola (morto di recente) mettendolo al corrente della situazione nel reparto. Chiesi anche a lui ufficialmente di far ripetere tutte le diagnosi di C. Ero convinto che la Cattolica, così attenta al valore della vita, avrebbe preso provvedimenti nei suoi confronti». Ingenuità di un dilettante. Il rettore, sentito prima il primario, prende carta e penna e anziché rispondere alle sue richieste, gli comunica la data dell’udienza a cui dovrà presentarsi per difendersi dalle accuse mossegli da C.

I «capi di incolpazione», segnalati da relative lettere di C. al rettore, sono quattro e si riferiscono ad altrettante «infrazioni disciplinari» che Bigotti avrebbe commesso nel periodo immediatamente successivo al suo allontanamento dal reparto. Primo: il ricercatore «ha interrotto una lezione del professor C. entrando nell’aula con una radiolina accesa». Secondo: «Bigotti ha asportato dall’archivio dell’istituto di anatomia patologica i vetrini» delle diagnosi istologiche. Terzo: ha «apostrofato con epiteti» il direttore del reparto.

Quarto: si è rivolto con «toni di voce alterati» ai colleghi.

L’imputato contesterà punto per punto le accuse. Ma pochi giorni prima dell’udienza vola a New York. Ha poco tempo. Porta con sé 27 vetrini, una piccola parte delle diagnosi che secondo lui dovevano essere riesaminate, e li consegna agli esperti della Columbia University e del Memorial Sloan Kettering (ritenuti tra i più importanti ospedali oncologici del mondo) chiedendone per ognuno una contro perizia. Queste danno risultati opposti a quelli del primario del Gemelli. Là dove C. aveva diagnosticato tumori benigni, gli esperti Usa dicono che sono maligni. E viceversa. Confortato dalle «prove» americane, torna in Italia giusto in tempo per il processo. E’ convinto di avercela fatta. Vive momenti di tensione altissima fino al giorno dell’incontro con i senatori del Sacro Cuore. L’incontro si svolge a porte chiuse, in un’aula a semicerchio nella sede milanese dell’Università Cattolica. E’ martedì 4 giugno 1991. Bigotti viene fatto sedere al centro dell’aula. «La seduta durò pochissimo. Dissi ai docenti che C. aveva sbagliato molte diagnosi, che gente innocente era stata uccisa. Misi in risalto proprio il caso della bambina morta per errore. Cercai insomma di andare all’origine dei problemi sorti nel reparto. Loro mi dissero che dovevo solo rispondere dei capi di imputazione. Feci anche questo. Mi assunsi le mie responsabilità circa i toni della voce alterati che potrei aver usato in qualche circostanza, ma ne spiegai i motivi, contestando le altre accuse. Poi me ne andai, lasciando sul tavolo la cartella con gli esami di C. e le contro analisi degli americani».

La sentenza dei presidi era già scritta. Bigotti però ancora non ci crede, è convinto dell’onestà intellettuale dei docenti. Tant’è che torna a Roma rilassato, «sicuro che sarebbe finito il mio incubo». “Dopo molte notti insonni, quella sera feci una dormita colossale». Qualche  giorno dopo riceve a casa una nuova lettera di convocazione dal rettore, questa volta per comunicargli l’esito dell’«adunanza» del senato accademico, ratificata dall’eminentissimo Consiglio di amministrazione della Cattolica. Oltre al cardinale di Roma Ruini e all’onorevole Scalfaro (diventerà presidente della repubblica successivamente), ne fanno parte sua Eccellenza monsignor Dionigi Tettamazzi, il professore e monsignore Pietro Zerbi, lo stesso rettore Bausola, l’onorevole Emilio Colombo (ex ministro Dc), il professore Giuseppe Segni (fratello di Mario, figlio di un altro ex capo dello Stato), l’avvocato e il direttore amministrativo della Cattolica, Raffaele Cananzi e Domenico Lofrese e altri illustri professori. Qualcuno è «assente giustificato». Il verdetto dei presenti è una doccia gelata per Bigotti: altri sei mesi di sospensione dal servizio e decurtazione dello stipendio da 3.700.000 a 900.000 lire. Quanto alla clamorosa bocciatura del primario C., la Cattolica non ha niente da dire. Le controanalisi degli americani vengono ritenute «ininfluenti sulla condotta indisciplinata» di Bigotti. Che viene inoltre denunciato alla procura per aver sottratto i vetrini istologici e per aver «offeso con epiteti» il primario. Al processo, qualche anno dopo, Bigotti sarà assolto «perché il fatto non sussiste».

Ma torniamo alla sentenza opposta della Cattolica «Mi sembrava di vivere in un mondo di favole. I richiami del papa al Vangelo, gli appelli per i deboli, alla salvezza dei malati. Tutto questo per me, trattato come un criminale, scacciato come un lebbroso, erano diventate parole al vento». Per Bigotti saranno altri mesi forzati a casa, con uno stipendio ridotto al minimo vitale. Scaduti i sei mesi di «sospensione cautelare», torna al Gemelli. Ma la macchina bellica della Cattolica è ormai in pieno svolgimento. Al suo rientro è già pronto un altro ordine di servizio. C., vietandogli tassativamente di avvicinarsi al reparto, lo colloca fuori dalla struttura sanitaria, nella «sala settoria», dove farà esclusivamente autopsie. «Disse che dovevo avere a che fare solo con i cadaveri».

Comincia così la guerra psi­cologica, che sarà maniacale e andrà oltre i confini del Gemelli. Qualsiasi suo movimento è controllato a vista. Ogni suo gesto segnalato al Senato accademico. E in questo periodo che Giulio Bigotti, colpevole di aver rotto il clima di omertà che avvolge la rinomata Università del Sacro Cuore, viene anche picchiato. «Volevo andare in archivio per del materiale di ricerca. Era il mio lavoro. Ma fui aggredito da un tecnico che poi si vantò pubblicamente di averlo fatto. Mi disse che aveva l’ordine del primario di non farmi entrare nell’istituto». C. segnala l’episodio al rettore, sostenendo che Bigotti ha «sputato» al tecnico, omettendo però l’aggressione di quest’ultimo. Il direttore segnala inoltre che Bigotti si «è allontanato dalla sala settoria in orario di lavoro».

Quest’ultima accusa, più delle altre, tra l’assurdo e il patetico, rasenta il ridicolo. «La stanza delle autopsie veniva chiusa tutti i giorni alle 10 per la disinfestazione. Di conseguenza mi obbligavano ad uscire, ma poiché non mi era consentito di andare in nessun’altra struttura dell’ospedale, ero costretto a bivaccare nei prati». Senato accademico e Cda della Cattolica — di cui fanno parte eminentissime personalità vaticane del calibro di Camillo Ruini — in ogni caso non perdonano. Vanno avanti senza pietà. In una successiva «adunanza» condannano nuovamente il ricercatore «indisciplinato». Stavolta la pena è ancora più severa: dieci mesi di sospensione dal servizio, senza stipendio. Giulio Bigotti è di nuovo fuori gioco: la sua attività di ricerca ormai è ferma da un anno. «Da tre pubblicazioni al mese, il mio lavoro scientifico si era ridotto a niente». Ma non impazzisce. Scrive altre lettere al rettore, ai presidi, allo stesso C. Ma nessuno lo sta a sentire.

Parte a questo punto la controffensiva dei suoi avvocati. Il pool è com­posto dalla penalista Tina Lagostena Bassi, e dal civilista Carlo Rienzi del Codacons, ai quali si aggiungerà Michele Lioi, anche lui del Coordinamento delle associazioni dei consumatori e degli utenti. Presenteranno querele a raffica. Ogni atto della controparte nei confronti del ricercatore sarà oggetto di denuncia alla magistratura.

Il caso Bigotti diventa pubblico. I suoi legali ne danno notizia con una conferenza stampa.

Sull’«allucinante vicenda» che sta accadendo alla Cattolica, il Codacons, contemporaneamente al ricorso al Tar contro la sospensione di Bigotti da Anatomia patologica, scrive anche una «supplica» al papa e alla segreteria di stato vaticana. La mis­siva, inviata per conoscenza a ministri, parlamentari e al procuratore della repubblica di Roma, è violentissima. Parla senza mezzi termini di «logica di mafia e di copertura che sta portando grave discredito, per oscuri motivi, alla stessa istituzione sanitaria, al fine di salvaguardare il ruolo e la professione di un singolo individuo (C.)... Non riusciamo inoltre a comprendere — scrive l’associazione dei consumatori — come si possa, con spirito e coscienza cristiani, pensare di punire un soggetto (Bigotti) per una colpa non sua, ma semmai dell’Università, senza incorrere in pesanti sanzioni morali prima che giuridiche».

Interviene anche il Movimento federativo democratico, con i suoi tribunali del malato, chiedendo al rettore della Cattolica di «nominare un collegio medico-legale di specialisti e riesaminare tutte le diagnosi — ben 80 mila — fatte nell’Istituto di anato­mia patologica dall’88 (anno in cui arriva C. a dirigerlo) al ‘92, giacché i casi di errori gravi segnalati da Bigotti e accertati anche dalla scienza USA riguardano soltanto un periodo dell’88. Né l’appello del Codacons né la richiesta del Mfd ottengono risposte.

Il 13 maggio del ‘93 arriva invece la prima sentenza del Tar del Lazio, che ordina all’azienda vaticana il reintegro di Bigotti alle sue funzioni originarie: gli ordini di servizio di C., ratificati dalla Cattolica sono ritenuti «illegittimi, frutto di un manifesto sviamento di potere e di violazione di legge». Inoltre, aggiunge il Tar «impediscono l’espletamento del compito primario del ricercatore universitario che è quello di contribuire allo sviluppo della ricerca scientifica». Ma l’Università dichiara di non essere obbligata a dare seguito a tale ordinanza, e fa ricorso al Consiglio di Stato.

Sul tavolo della magistratura intanto sono finite le 113 diagnosi tu­morali che secondo il ricercatore sono sbagliate. Un giudice archivia. Ma altri aprono indagini. Vengono però presi in considerazione solo i 27 casi in cui gli esperti americani della Columbia University e del Memorial Sloan Kattering di New York hanno confermato gli errori. E’ in questa fase che la magistratura chiede l’intervento dell’Fbi. I medici della Columbia, pur avendo messo per iscritto che furono commessi gravi errori di diagnosi, avevano trattenuto i vetrini a loro consegnati da Bigotti per le controanalisi. Trattandosi di prove medico legali delicatissime, si erano rifiutati di consegnarle ai suoi avvocati, considerati come dei privati qualsiasi. Li cederà solo dietro richiesta ufficiale della magistratura italiana, che li ottiene attraverso l’in­tervento del Federal Bureau Investigations Usa e dell’Interpool.

C. finisce sul banco degli im­putati per le diagnosi errate più gravi (quelle in cui ci sono persone morte di cancro) ma solo nei casi in cui vi siano denunce di parte o parenti delle vittime ai quali la magistratura ha potuto notificare l’avvio del procedimento giudiziario. In tutto sono una dozzina di «decessi sospetti», cinque dei quali, essendo nel frattempo intervenuta la nuova legge che trasferisce le competenze sul reato di omicidio colposo, vengono trasmesse alla pretura. La magistratura rinvia a giudizio C. anche per abuso di ufficio aggravato e continuato nei confronti di Bigotti.

Facciamo un piccolo passo indietro, al mese di luglio del ‘92. Sul Gemelli si accendono i riflettori internazionali per la presenza di un paziente eccellente. Papa Wojtyla è malato e viene ricoverato alla Cattolica, che prepara l’evento con molta cura mediatica. Nei confronti del pontefice si sospetta un tumore ma non si sa di che entità. Le analisi vengono eseguite nel reparto diretto da Arnaldo C. Ma i vetrini istologici vengono portati fuori dall’ospedale, all’Università La Sapienza, verificati dall’anatomopatologo Vittorio Marinozzi. In altre parole viene seguita la procedura (negata) sollecitata da Bigotti per le diagnosi sospette effettuate nei confronti di decine di pazienti comuni.

Intanto il «monatto di manzoniana memoria», dal suo esilio forzato adiacente alla camera mortuaria, ha modo di prepararsi per il concorso di medico associato indetto dalla stessa Cattolica. Ma il suo tentativo non ha storia: viene bocciato con la motivazione che negli ultimi due anni la sua «produzione scientifica si è interrotta».

Nella commissione esaminatrice c’è Arnaldo C., nientemeno che l’artefice dell’azzeramento della sua attività professionale. Il Tar, successivamente, accogliendo anche in questo caso il ricorso di Bigotti, annullerà il concorso sostenendo che C., visti i rapporti che corrono tra lui e il ricercatore, si sarebbe dovuto quanto meno astenere dal giudizio

L’ennesima figuraccia della Cattolica avverrà, anche in questo caso, molti mesi dopo. Bigotti è ancora interdetto. Ma non si scoraggia, e partecipa a un altro concorso, questa volta bandito da un altro ospedale romano, il Santo Spirito, che sta proprio a due passi da San Pietro, ma non è struttura vaticana. E’ ospedale laico. Vince il posto da anatomopatologo distanziando di molti punti il secondo classificato. È l’inizio del ‘94. L’anno delle buone notizie per Bigotti. Arriva infatti anche la sentenza del Consiglio di Stato, che rigetta il ricorso della Cattolica contro l’ordinanza di reintegro del ricercatore emessa un anno prima dal Tar. La sentenza è definitiva, inappellabile.

Bigotti in teoria dovrebbe tornare nel reparto dal quale è stato ingiustamente cacciato. Ma ormai ha già preso l’aspettativa dal Gemelli per andare al Santo Spirito, dove ha davanti a sé un periodo di prova di sei mesi prima di essere assunto ufficialmente. Ma nel nuovo posto di lavoro, come vedremo, il suo dramma si trasformerà in farsa.

Al Santo Spirito, dopo un primo periodo di relativa tranquillità, succedono cose turche. Il primario del reparto di Anatomia patologica, L. A., comincia a lamentarsi del suo comportamento. A un certo punto lo querela accusandolo di trattarla male pubblicamen­te, di «sputare» ai colleghi. La A. muove sostanzialmente a Biagotti le stesse accuse che gli rivolgeva C. al Gemelli. Le lamentele del primario, accompagnate da relativi ordini di servizio, si intensificano man mano che si avvicina la scadenza del periodo di prova. Terminato questo Bigotti vive forse il periodo peggiore della sua vita: viene licenziato per «incompetenza professionale». Insomma, bocciato sul campo. E’ un caso unico in Italia. Di solito le conferme per i vincitori di concorso sono automatiche. Bigotti chiede e ottiene altri sei mesi di pro­va, previsti per legge. I suoi avvocati, visto che c’è una querela di parte della A. contro Bigotti, chiedono al direttore sanitario dell’ospedale la ricusazione del primario per il giudizio finale sull’attività svolta dal loro assistito. Non la ottengono. Il giudice di Bigotti resterà A. Terminato il secondo semestre di prova, il risultato non cambia: il ricercatore è licenziato una seconda volta per «incompetenza professionale».

Le cose a questo punto sono due: o il genio Bigotti è improvvisamente impazzito, oppure c’è qualcosa che non va in quei giudizi così drastici della A. I suoi avvocati sentono odore di bruciato. Ma la chiave di volta non sta nelle loro mani. Denunciano il primario alla magistratura, ma la querela sarà archiviata. A loro insaputa, ma neanche il figlio ne sa nulla, è entrata in scena la mam­ma di Bigotti. La quale, contempora­neamente ai legali del figlio, aveva inviato la stessa identica denuncia contro la A. alla procura di Milano. Non ha molta fiducia in quella di Roma, perché già in passa­to aveva archiviato una querela contro C. per gli ordini di servizio di sospensione del figlio dal reparto. Era la stessa querela che, sempre attraverso la procura di Milano (incompetente a indagare), finita poi nelle mani di altri magistrati romani (il pm è Maria Cordova) diede vita al rinvio a giudizio (il gip è Augusta Iannilli) del primario della Cattolica, quindi al processo che lo condannerà per abuso d’ufficio aggravato e continuato. E’ per questo precedente che si rivolge di nuovo al pool di Saverio Borrelli. Milano però, così co­me fece nella precedente occasione, rinvia il fascicolo Bigotti a Roma, questa volta arricchito da quel licenziamento sospetto al Santo Spirito. Il caso finisce sul tavolo del pm Giuseppe De Falco. Il magistrato apre un’indagine che durerà quasi quat­tro anni. La conclusione è di queste settimane ed è clamorosa: sul licenziamento di Bigotti dal Santo Spirito, secondo De Falco, ha interferito la longa manus del potente primario della Cattolica A. C., nei cui confronti pende ora una ennesi­ma richiesta di rinvio. Insieme al pri­mario del Santo Spirito L. A. è accusato di falso ideologico e abuso d’ufficio. Entrambi «hanno agito con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso».

Nel corso delle indagini, i periti della polizia scientifica, esaminando il lavoro di Bigotti nell’anno di prova al Santo Spirito, riscontrano che la sua attività è stata svolta perfettamente: le sue diagnosi sono definite «ineccepibili». Molti medici della struttura, interrogati dagli investigatori, smentiscono inoltre che il suo comportamento sia stato «arrogante e irrispettoso», come aveva sostenuto il primario nei suoi ordini di servizio. Durante le perquisizioni delle abitazione di A. e C., la polizia scopre un singolare carteggio avvenuto tra i due primari. Tra le carte sequestrate anche documenti processuali, coperti peraltro  dal segreto istruttorio, relativi al caso Bigotti. Infine vengono trovate copie degli ordini di servizio che C. faceva a suo tempo al ricercatore e che l’astuta dottoressa A., secondo il pm, ricopiava a stralci per rendere credibili le sue denunce sui presunti «atteggiamenti indisciplinati» di Bigotti. In questo modo il primario rendeva un servizio a C.  il quale, successivamente, al processo in cui è imputato di abuso di ufficio, si difenderà mostrando come riprova delle sue ragioni, proprio gli ordini di servizio della collega A.

L’udienza dei due primari davanti al gip, che dovrà decidere se mandarli alla sbarra o meno, è fissata per il 19 ottobre prossimo.

Il complotto, se di questo si tratta, viene svelato anche in questo caso molti anni dopo dalla messa in scena. Siamo infatti alla fine del 1995.

Bigotti è dunque licenziato dal Santo Spirito perché «non sa fare il suo mestiere». Al Policlinico Gemelli i suoi avversari salutano il clamoroso evento stappando bottiglie di champagne. Ma i vertici della Cattolica – si apprende sempre dalle carte degli investigatori – sapevano già che sarebbe finita nel peggiore dei modi per il ricercatore. Durante le indagini preliminari sulla vicenda al Santo Spirito, un giornalista, citato dalla difesa, rivela una conversazione avuta con l’allora capo ufficio stampa dell’Università del Sacro Cuore il quale le aveva annunciato, tre mesi prima che avvenisse il licenziamento, che Bigotti avrebbe perso il posto di lavoro.

Sconfitto e umiliato, Bigotti torna al Gemelli, dove la Cattolica sarebbe obbligata a dar seguito alla sentenza, inappellabile, del Consiglio di stato che lo ha reintegrato nell’istituto diretto da C. Ha vinto l’ennesima battaglia al tribunale amministrativo, ma il suo stato d’animo, dopo il licenziamento dal Santo Spirito, è ulteriormente peggiorato. Al Gemelli, nonostante Tar e Consiglio di stato, non tornerà nel suo vecchio reparto. «Mi venne proposto di andare alla Columbus, succursale del Gemelli. Pur di lavorare accettai il trasferimento per fare attività assistenziale e di ricerca». A parole nei suoi confronti c’è un’attenuazione della persecuzione. Nei fatti non sarà cosi. E’ solo l’effetto della sentenza del Consiglio di stato. C., che è direttore anche della Columbus, continua a impedirgli ogni attività di ri­cerca e di fare didattica. Cestina tutte le sue richieste di fondi e per l’utilizzo di materiale d’archivio.

Vengono intanto al pettine anche alcuni processi penali e civili. La Cattolica è difesa dagli avvocati Giorgio Fini e dallo studio Vitaliano e Fabio Lorenzoni. Il rettore Bausola (deceduto non molte settimane fa), nei cui confronti era stato chiesto il rinvio a giudizio per concorso in abuso d’ufficio, è difeso da Giovanni Maria Flick (ministro di grazia e giustizia durante il governo Prodi). I legali di fiducia di C. sono invece Enzo Gaito e Giuliano Dominici.

Una delle prime sentenze della magistratura è sulla vicenda in cui il primario della Cattolica è imputato per la morte della bambina di 9 anni. E’ il ’96: il primario viene condannato a sei mesi per “omicidio colposo” e a risarcire 200 milioni ai genitori della bambina deceduta per errore diagnostico. C. fa appello. Ma il tribunale di secondo grado, nel ‘97, conferma la condanna, che diventa definitiva nell’aprile di quest’anno in Corte di Cassazione. Il reato di omicidio colposo è però nel frattempo caduto in prescrizione. Ma la sentenza non lascia dubbi: i giudici della suprema corte «hanno ritenuto che sussistevano serie e apprezzabili probabilità di guarigione della bambina, tali da consentire di affermare la sussistenza del necessario nesso causale con la condotta del medico che omise colposamente di formulare la corretta diagnosi, impedendo la instaurazione della corretta terapia post-operatoria». C. resta in ogni caso al suo posto. Quanto agli altri dieci casi sospetti indagati da tribunale e pretura, i periti confermano gli errori segnalati da Bigotti quella mattina di marzo, del 1991 e successivamente controfirmati dagli esperti americani. Le diagnosi vengono ritenute errate, ma non viene accertato il cosiddetto «nesso di causalità», ovvero se la morte dei pazienti, ai quali C. aveva erroneamente diagnosticato «patologie benigne», poteva essere evitata in presenza di diagnosi esatte. Alcuni erano molto anziani e altri erano malati di tumore maligno in stato avanzato.

Si celebra, con la stessa lentezza, anche il processo contro Bigotti per i suoi presunti atteggiamenti irrispettosi nei confronti di C. e sul presunto furto dei vetrini dal reparto. La querela era stata sporta dal primario e dalla Cattolica. L’assoluzione del ricercatore è piena. L’azione di Bigotti «non costituisce reato», in quanto da parte sua «c’è stata solo la volontà di protesta e di opporsi all’atteggiamento degli organi accademici di estrometterlo da ogni attività e di esercitare il suo diritto di critica e di libera manifestazione del proprio pensiero». Due dipendenti, la segretaria dell’Istituto di anatomia patologica e un preparatore di vetrini istologici testimoniano di aver subito forti pressioni e minacce affinché deponessero contro il ricercatore, in particolare denunciavano di essere stati «puniti» sul lavoro per non aver accettato di dire il falso. La donna dice ai giudici anche di aver subìto un tentativo di investimento con l’automobile da parte del tecnico che picchiò Bigotti. Scagionano insomma in pieno il ricercatore, giurando che tutti i suoi guai sono cominciati proprio quando segnalò gli errori diagnostici ai superiori chiedendone la ripetizione. Alla causa contro l’isolamento di Bigotti nella «stanza dei morti», la magistratura è durissima nei confronti dell’azienda vaticana il cui «grado elevato della colpa, l’intensità del dolo e il complessivo comportamento post delictum non è indicativo di elevata consapevolezza morale».

Si conclude anche il processo di primo grado nei confronti di C., imputato di abuso di ufficio continuato e aggravato. Il primario viene condannato a un anno di reclusione (pena sospesa) e al pagamento di una provvisionale di 100 milioni a Bigotti per i danni subiti dal ricercatore a causa dell’interruzione della sua attività. Il direttore di Anatomia si appella anche a questa sentenza. Il processo di secondo grado si è concluso il 27 aprile scorso. La sentenza viene capovolta. C. è assolto. Ma la motivazione lascia di stucco. L’ha scritta il giudice Vittorio Bucarelli, presidente della I sezione della Corte di appello dì Roma, lo stesso che sette anni fa, in qualità di gip, archiviò la querela di Bigotti per diffamazione a mezzo stampa contro lo stesso C. che lo aveva accusato di «ricattarlo per fare carriera».

«C. — si legge nella sentenza d’appello, alla quale gli avvocati di Bigotti hanno annunciato ricorso in Cassazione — è assolto perché l’origine della sua condotta è da ravvisarsi nella finalità di evitare la scoperta di errori diagnostici (dolo specifico) e, cioè, nel conseguimento del vantaggio (non patrimoniale) di perpetuare la copertura di essi». In altre parole il giudice Bucarelli dice che C. ha sospeso Bigotti dal reparto per impedire che questi potesse scoprire altri «scheletri dentro l’armadio» di Anatomia patologica. Questo movente però non aveva come obiettivo il raggiungimento di un vantaggio patrimoniale, quindi il primario va «assolto perché il fatto non costituisce reato». Amen

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