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Condanna a pena detentiva per mobbing con lesioni colpose
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Tribunale di Torino, 1ª sezione penale (giudice unico di 1°
grado) 1 agosto 2002 (ud. 15 luglio 2002) – Giud. Leo - Imp. X.Y.
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Mobbing da superlavoro e turnazioni stressanti, in
condizioni di insicurezza e senza strumentazione adeguata – Violazione
dell’art. 2087 c.c. – Sussistenza – Infarto miocardico, con residui di
invalidità permanente parziale – Reato di lesioni colpose ex art. 590 c.p. –
Sussistenza e condanna alla pena
di 6 mesi di reclusione (con i benefici
di legge).
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La dottrina e la giurisprudenza più attente hanno sottolineato come
l’avvento della Costituzione abbia segnato un «momento di rottura rispetto al
sistema precedente ed abbia, di conseguenza, consacrato il definitivo ripudio
dell’ideale produttivistico quale criterio cui improntare l’agire privato».
L’attività produttiva – che forma anch’essa oggetto di tutela costituzionale,
poiché attiene all’iniziativa economica privata quale manifestazione di essa e
rientra, quindi, nell’ambito di previsione dell’art. 41, I comma, della
Costituzione – è subordinata, ai sensi del II comma della medesima
disposizione, alla utilità sociale che va intesa non tanto e soltanto come mero
benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività,
quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della
persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità. E’
questa l’indicazione proveniente anche dal riconoscimento costituzionale dei
diritti inviolabili dell’uomo, in quanto “valori di esperienza e di civiltà
desumibili dalla realtà sociale nel suo divenire storico”. Da ciò consegue che
la concezione “patrimonialistica” dell’individuo ha lasciato il posto ad una
diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo svolgimento della persona,
sul rispetto di essa, sulla sua dignità, sicurezza e salute – anche nel luogo
nel quale svolge la propria attività lavorativa –; momenti tutti che
“costituiscono il centro di gravità del sistema”, ponendosi come valori apicali
dell’ordinamento.
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Pertanto, il datore di lavoro che non si fa carico di salvaguardare
la dignità, la salute e la sicurezza del proprio dipendente, mortificando le
sue aspettative e, omettendo di adeguare l’organico aziendale alle effettive
necessità, impone un superlavoro con orari e turni che ledono quei diritti
fondamentali; contribuisce a produrre nel lavoratore una progressiva sfiducia
nelle proprie capacità, nonché stati di depressione che, in alcuni casi, possono
condurlo anche al pensiero di gesti anticonservativi e si può rendere responsabile, con il proprio comportamento
omissivo, di eventuali malattie professionali che eventualmente ne
scaturiscano. E che consistono, come è stato evidenziato, in quelle patologie
che, a differenza degli infortuni, “dipendono da un’azione lesiva operante non
con rapidità, bensì con gradualità”
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Né costituisce esclusione
di responsabilità la naturale predisposizione del soggetto all’insorgenza della
patologia, giacché le particolari condizioni di svolgimento del lavoro possono
influire sul determinismo di particolari patologie occasionandone una
evoluzione peggiorativa e, perciò, assumendo quest’ultime un ruolo di concausa
necessaria e determinante dell’evento (nella fattispecie, infarto miocardico, a
causa di imposizione ad un dipendente,
con un preesistente grado di invalidità e con predisposizione congenita alla
labilità psicologica, di superlavoro
fonte di stress prima e di ipertensione ed infarto miocardico poi, con invalidità
permanente parziale, in conseguenza del quale l’imputato - presidente e
direttore generale di una società di vigilanza privata - è stato condannato a 6
mesi di reclusione per reato di lesioni colpose ex art. 590 c.p.).
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S E N T E N Z A
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nei confronti di:X. Y. - libero, contumace ;
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IMPUTATO
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Artt. 590 comma 1, 2, 3 c.p., e 583
comma 2, n. 1 c.p. – commesso in qualità di responsabile dell’Istituto di
Vigilanza Privata Argus di Torino – per avere cagionato a Di Sa. L.,
esercente l’attività di guardia giurata alle dipendenze di detto Istituto, una
lesione personale da cui è derivata una malattia certamente insanabile (infarto
del miocardio) che ha lasciato postumi anatomici permanenti (fibre miocardiche
sostituite da tessuto fibroso cicatriziale), per colpa, e, in particolare, per
negligenza, imprudenza, imperizia, e per inosservanza delle norme sull’igiene
del lavoro, e segnatamente, degli artt. 2087 c.c., 3 comma 1, lettere a), f),
l), m) e 4 comma 5, lettera c) D. Leg. N. 626/1994, poiché ometteva di
effettuare la valutazione del rischio da stress psico-fisico inerente alla
sopraddetta attività di vigilanza, di adottare tutti i provvedimenti tecnici,
organizzativi e procedurali necessari per contenere tali rischi (quali turni di
lavoro di durata non superiore alle dodici ore consecutive sia diurni, sia
notturni, e svolti da minimo di due persone tali da diminuire lo stress da
timore aggressione; fornitura di strumenti di sicurezza quali torce per i
servizi di piantonamento notturno, e radiotrasmittente, nonché mezzi di
riscaldamento da utilizzare durante i piantonamenti esterni), di sottoporre il
lavoratore ad adeguato controllo sanitario, preventivo e periodico, mirato sul
rischio specifico inerente a rischi da stress lavorativo, di informarsi e di
informare e addestrare il Di Sa. circa tale rischio specifico e i modi per
ovviare al rischio medesimo, di allontanare il lavoratore dal rischio
nonostante fosse già noto che il Di Sa. – a seguito della visita per
l’arruolamento nella vigilanza privata – era stato riconosciuto idoneo al solo
servizio sedentario; e che aveva una invalidità del 40% nell’uso delle gambe
riconosciuta dalla Commissione Sanitaria Invalidi Civili della Regione
Campania; che soffriva di nevrosi neuroastenica ipocondriaca, di postumi
traumatici di frattura gamba destra e sinistra, di emiparesi dell’arto
superiore destro e infine di ipertensione arteriosa; con la conseguenza che il
suddetto lavoratore nella notte tra il 7 e l’8 settembre 1995 subiva la
menzionata lesione personale.
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In Torino tra il 7 e l’8 settembre 1995
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(capo di imputazione come modificato
all’udienza del 30 maggio 2002).
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Con l'intervento del Pubblico Ministero dr.ssa Sara Panelli e
dell’avv. G. Zancan del Foro di Torino, difensore di fiducia dell’imputato.
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Le parti hanno concluso come segue:
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PUBBLICO MINISTERO: chiede la condanna dell’imputato alla pena di
un anno di reclusione.
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DIFESA: “esclusione della circostanza aggravante; riconduzione del
fatto nella procedibilità a querela e dichiarazione di non doversi procedere,
essendovi remissione di querela”. In subordine, nell’ipotesi di affermazione di
responsabilità, “concessione delle circostanze attenuanti generiche, anche in
mero giudizio di equivalenza, che fanno ritornare la pena nella forma base”,
contenimento della sanzione “o come scelta o come conversione rispetto a quel
massimo, tre mesi, che consente la conversione”.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
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Con decreto di citazione del Pubblico Ministero presso il Tribunale
di Torino in data 20 settembre 2001, veniva disposto il giudizio nei confronti
di X. Y. per rispondere del reato descritto nel medesimo decreto.
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La persona offesa, L. Di Sa., si è costituita parte civile,
“al fine di ottenere, previa condanna del prevenuto, il risarcimento di tutti i
danni, patrimoniali e non patrimoniali”, consistenti in “pregiudizi conseguenti
al grave danno biologico derivante” alla medesima “in diretta conseguenza dei
fatti di causa, che hanno leso irrimediabilmente la salute dello stesso; pregiudizi
di ordine morale patiti e patiendi dal Di Sa. in conseguenza del profondo
stato di prostrazione morale in cui lo stesso tuttora versa a causa dei fatti
oggetto del presente procedimento, oltre a quelli già patiti a seguito delle
cure mediche cui è stato costretto e tuttora si sottopone a cagione delle
patologie contratte; pregiudizi di ordine economico, consistenti nelle spese
sostenute per le cure e l’assistenza necessarie in conseguenza della malattia”
di cui si tratta.
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All’udienza del 30 maggio 2002, si procedeva all’istruttoria
dibattimentale mediante l’escussione dei testi indicati dalle parti, le
produzioni documentali e l’audizione in contraddittorio dei consulenti
dell’accusa e della difesa, all’esito della quale il Pubblico Ministero modificava
l’originaria imputazione nei termini di cui in rubrica.
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Veniva, pertanto, ordinata, ai sensi del combinato disposto degli
artt. 516 e 520 c.p.p., l’acquisizione al verbale del dibattimento
dell’imputazione modificata e disposta la notifica del medesimo verbale per
estratto al prevenuto rimasto contumace.
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Il processo, la cui istruzione dibattimentale proseguiva
all’udienza del 9 luglio 2002 - all’esito della quale, indicati dal giudicante,
ai sensi dell’art. 511 c.p.p., gli atti utilizzabili ai fini della decisione,
il Pubblico Ministero concludeva come in epigrafe – subiva un ulteriore rinvio
all’udienza del successivo 15 luglio, alla quale il difensore della parte
civile faceva presente che, pochi giorni prima, era intervenuto un accordo
transattivo tra X. e Di Sa., in base al quale si era stabilito che a
quest’ultimo venisse versata la somma di 150.000 euro al netto da spese legali
(di cui metà direttamente dall’imputato, l’altra metà dalla Reale Mutua
Assicurazioni). In conseguenza di ciò, veniva revocata la costituzione di parte
civile ed altresì rimessa la querela, “laddove l’atto di denuncia potesse
essere concepito come denuncia-querela”; quindi il difensore dell’imputato
concludeva come in atti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
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L’accusa, analiticamente contestata nel capo di imputazione
riformulato dal Pubblico Ministero all’udienza del 30 maggio 2002, è rimasta
ampiamente provata sotto tutti i profili contestati.
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All’uopo è sufficiente evidenziare quanto risulta per tabulas
e dall’intero dibattimento il quale ha messo in rilievo, tra l’altro, questi
elementi in fatto:
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- L. Di Sa. ha prestato servizio come guardia giurata presso
l’Istituto di vigilanza ARGUS, di cui è presidente e direttore generale Y.
X. , per un periodo di circa venti anni (dal mese di maggio del
1977 al 16 settembre 1997, data alla quale è stato licenziato, come risulta
dalla lettera a firma dello stesso X. , agli atti). Fin dall’inizio della
sua attività, il Di Sa. è stato sottoposto a turni di lavoro stressanti, che
prevedevano, oltre ai servizi di piantonamento effettuati prevalentemente di
notte, un numero di ore di straordinario assai elevato, che la Argus richiedeva
ai propri dipendenti assai spesso senza soluzione di continuità rispetto ai turni
di notte e, quasi sempre, senza concedere loro il giorno di riposo stabilito e,
soprattutto, le ferie durante il periodo estivo. Periodo che, anzi, secondo
quanto concordemente riferito dai testi escussi all’udienza del 30 maggio 2002,
risultava essere, unitamente a quello natalizio, il “più massacrante”.
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- La società in questione, alle dipendenze della quale lavorano
circa trecento persone, ha per oggetto: la prestazione di servizi di sicurezza,
custodia e sorveglianza, diurna e notturna, fissi o mobili, delle proprietà
mobiliari ed immobiliari degli Enti pubblici e privati, di scorta al trasporto
valori, nonché ogni attività e prestazione complementare ed affini (v. statuto
della ARGUS, in atti; v., pure, le dichiarazioni del teste Mario Canova, responsabile
dell’amministrazione del personale della predetta società, alle
pagg. 144-146 della trascrizione relativa all’udienza del 30 maggio 2002).
All’epoca dei fatti per cui si procede, l’attività dei dipendenti, dunque,
veniva svolta, in alcuni casi – e prevalentemente - all’esterno degli edifici
e, spesso, di notte. In altri casi, consisteva, invece, in attività di
vigilanza all’interno delle banche, degli uffici di “Canale Cinque”, o di
supermercati; nel caso oggetto del giudizio, comunque, alla stregua di quanto è
emerso in sede dibattimentale, senza che si tenesse in alcun conto,
nell’affidamento dei vari compiti, delle capacità e delle condizioni del
lavoratore in rapporto alla sua salute ed alla sicurezza, senza un regolare
controllo sanitario del medesimo in funzione dei rischi specifici e senza che
gli si mettessero a disposizione i necessari strumenti di protezione
individuale; inoltre, senza che il direttore generale della Argus, il quale era
sempre a conoscenza di eventuali malattie dei dipendenti o di incidenti
capitati ai medesimi sul posto di lavoro, si astenesse dal ricollocarlo nello
stesso servizio anche nei casi in cui erano stati prodotti certificati medici
attestanti la non idoneità del dipendente per quel tipo di servizio. Con
l’evidente conseguenza di mettere in grave pericolo la salute dello stesso (v.
quanto riferito, in merito, dal Canova all’anzidetta udienza, alle pagg. 129-138
della relativa trascrizione: “…i certificati medici relativi ai nostri
lavoratori, e qualsiasi tipo di documentazione che arrivi nel nostro
ufficio, transita dalla direzione generale e poi viene smistata nei vari
uffici. A capo della direzione generale, all’epoca dei fatti, c’era il
presidente del consiglio di amministrazione che era il dottor Y. X. …Sono arrivati
parecchi certificati medici del Di Sa. nei quali si attestavano diversi
problemi fisici dello stesso…ho trasmesso personalmente il certificato
ospedaliero relativo all’infarto alla direzione generale; di fatto,
all’epoca quello che aveva contatto direttamente con gli uffici operativi ed
amministrativi e con la gestione del personale era il dott. Tosi, ora deceduto,
ma il direttore generale vedeva sempre i certificati”). Riguardo al Di Sa., Canova ha ancora affermato: “la direzione generale, nel mese di febbraio del
1997, ha, dopo i numerosi incidenti capitati al Di Sa., deciso di farlo
sottoporre ad un accertamento sanitario urgente da parte del responsabile del
servizio di medicina legale della U.S.L. 5 di Collegno” - a seguito del quale è
risultato che il dipendente era “inidoneo in modo permanente a servizi armati
tipo guardia giurata, soprattutto in turni lavorativi notturni, ma
ricollocabile in attività che richiedono minor impegno psico fisico e minor
impegno di energie e/o minore stress, come i lavori di ufficio e similari” –;
“in realtà da un certo numero di anni a questa parte quando ci sono delle
segnalazioni ufficiali da parte di organi competenti, ASL o ospedali, cerchiamo
di inviare il lavoratore ad una visita di idoneità proprio per accertarne i
requisiti. All’epoca, io ricordo che questa cosa non è stata fatta
immediatamente; nel caso di invalidità temporanea di un dipendente, l’azienda
non ha dato alcuna direttiva ai capiturno di assegnare il dipendente ad un
servizio meno faticoso, tutto è lasciato alla discrezionalità…..che io ricordi,
si è verificato un solo caso di assegnazione ad un lavoro meno stressante,
quello del dipendente Varesano” (v. pagg. 144-151 della trascrizione).
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- Come risulta dalle dichiarazioni del teste Salvatore Uleri,
tecnico del Dipartimento di prevenzione della ASL 1 di Torino, incaricato dal
Procuratore della Repubblica della stessa città di “effettuare accertamenti in
merito alla riconducibilità della patologia del Di Sa. a carenze nella prevenzione
nell’ambiente lavorativo” (v. pagg. 163-165 della trascrizione relativa
all’udienza del 30 maggio 2002), nonché dalla documentazione prodotta
dall’accusa ed allegata agli atti, nella cartella relativa al predetto
dipendente, consultata dallo stesso Uleri presso la ARGUS, era inserita una
“annotazione preassuntiva” in data 3 maggio 1977, a firma del dott. Ermanno
Angela, nella quale quest’ultimo attestava di aver visitato alla stessa data il
signor Di Sa. e di averlo trovato in condizioni fisiche non perfette, al
punto da ritenerlo “non idoneo all’arruolamento nel corpo di vigilanza
privata”. Sempre il dottor Angela specificava in un certificato medico (agli
atti) rilasciato il successivo 18 maggio, “ad uso arruolamento volontario nel
corpo di vigilanza privata ARGUS”, che il Di Sa. “è di sana e robusta
costituzione, ma non è esente da imperfezioni fisiche” e che, pertanto, “è
idoneo al solo servizio sedentario”.
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Ciò a causa del fatto che allo stesso era stata riconosciuta una
invalidità del 40% in conseguenza di un incidente stradale avvenuto nel 1974
nel quale il medesimo aveva riportato una “frattura metafisaria prossimale
della tibia e del perone sn complicata da frattura terzo medio tibia dx, ferita
lacero-contusa della regione antero-esterna della gamba sn con abbondante
gemizio”, invalidità della quale il Di Sa., per sua stessa ammissione, aveva
portato a conoscenza la ARGUS solo dopo l’assunzione, per paura di non essere
dichiarato idoneo a quel lavoro.
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- Nonostante i certificati medici di cui sopra è menzione, seguiti
da numerosi altri relativi alle condizioni di salute della persona offesa che,
di anno in anno, si facevano sempre più precarie anche a causa dei numerosi
incidenti avuti sul posto di lavoro (v. certificati attestanti che la stessa
non era del tutto inabile al servizio, ma avrebbe dovuto essere destinata ad un
lavoro sedentario e meno stressante), ad ogni “rientro alla ARGUS” dopo i
periodi di malattia o di infortunio, i turni erano sempre gli stessi, il lavoro
straordinario seguiva sempre a quello notturno quasi senza soluzione di
continuità; i servizi di piantonamento, cui il Di Sa. era con frequenza
addetto, prevedevano dodici ore continuative di lavoro “che diventavano sempre
diciotto; tutti i giorni, inoltre” – ha dichiarato lo stesso all’udienza del 30
maggio 2002 (v. pagg. 5-7 della trascrizione relativa) – “ero costretto a fare
lo straordinario….lì dovevi essere per forza disponibile, non si poteva
rifiutare lo straordinario, io delle volte facevo il giorno, la notte e poi
anche il giorno successivo senza interruzione….se mi fossi rifiutato,
avrei avuto le ritorsioni, le ripicche” (v., in particolare, pagg. 20-21 della
trascrizione).
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Tali “ripicche”, cui hanno fatto, più volte, riferimento, nel corso
delle rispettive deposizioni testimoniali, oltre al Di Sa., anche Antonino
Attardi (v. pure pagg. 93, 110, 111 della trascrizione relativa all’udienza del
30 maggio 2002), ex dipendente della ARGUS, nonché Aniello De Rosa, all’epoca
dei fatti guardia giurata ed oggi caposervizio alla Argus, consistevano nel
“non proporre lo straordinario quando eventualmente il lavoratore avesse avuto
urgente bisogno di guadagnare di più o nel mandare il lavoratore nei posti più
scomodi, dall’altra parte della città, oppure nell’assegnare turni nei quali il
dipendente terminava la notte da una parte e doveva intraprendere subito dopo
il diurno dall’altra parte di Torino”. Al proposito, De Rosa ha specificato:
“anch’io ho fatto un po’ di malattia, anch’io ho avuto problemi alla schiena
all’inizio e l’ex capo servizio allora mi fece capire che dovevo tenere una via
dritta, altrimenti potevo rischiare di non esserci più al lavoro. I turni, poi,
erano facoltativi, ma potevano diventare non più facoltativi perché se ti
rifiutavi potevano esserci delle ripercussioni”.
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Sulle modalità di prestazione delle ore di straordinario, lo stesso
responsabile del personale Canova ha affermato: “è innegabile che le ore di
servizio in ARGUS siano dodici continuative, alle quali spesso seguono senza
interruzione altre quattro, cinque, sei ore, sicuramente succede, sì succedeva
e succede che, alla fine del turno, la persona possa essere richiamata in
servizio; non posso negarlo, risulta da tutti i documenti ufficiali che abbiamo
in azienda e la direzione ne era a conoscenza, perché, a cadenze
fisse, richiedeva la situazione del numero di ore di straordinario
effettuate da ogni singolo dipendente… non posso neppure negare che il Di
Sa. aveva
richiesto, in diverse occasioni, di essere adibito ad un lavoro meno faticoso e
più consono al suo stato di salute” (pagg. 155-157 della trascrizione).
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L’eccessivo numero di ore di lavoro effettuate dalla p.o. e dalle
altre guardie giurate risulta, inoltre, dalle rispettive buste-paga, in quanto,
sempre secondo le concordi affermazioni di Canova, Di Sa., Attardi e De
Rosa, “le ore di straordinario, così come le ferie ed il mancato riposo
settimanale, venivano pagate in busta”.
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Circa le ferie, quanto asserito dal Di Sa. (v. pagg. 36-38 della
trascrizione) trova ancora conferma, oltre che nel tabulato (in atti)
attestante le presenze dello stesso sul luogo di lavoro e l’incredibile numero
di ore di straordinario effettuato, nelle dichiarazioni di Attardi (pagg. 94-95
della trascrizione) e di De Rosa, nonché nelle ammissioni fatte dallo stesso Canova (pagg. 154-155 della trascrizione).
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Il Di Sa. – il quale, pur apparendo molto provato nel fisico, ha
partecipato a tutte le udienze, riuscendo, altresì, a ricostruire con
precisione, in sede di esame testimoniale, i momenti fondamentali della sua
vicenda lavorativa alla ARGUS – non ha mai inveito contro quest’ultima, ha anzi
precisato di non aver dimenticato che detta società “gli ha dato da vivere per
molti anni, consentendogli di mantenere con il suo unico reddito una famiglia
numerosa”, ed ha, inoltre, affermato che “gli straordinari ed i giorni di
mancate ferie e di riposi non goduti erano pagati bene”, ma ha anche
sottolineato con rammarico per le gravi conseguenze capitategli: “le ferie non
le facevo mai, loro preferivano pagarle che darle, perché avevano bisogno di
lavoro, perché lì il lavoro è agosto, Natale e Pasqua….questi periodi non li ho
mai potuti passare con la mia famiglia”.
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E Attardi: “Quello passato alla ARGUS è un periodo della mia vita
che ho cercato di cancellare (pagg. 80-81, 95 della trascrizione)…le ferie e i
riposi non venivano effettivamente goduti, il riposo settimanale all’inizio che
ero alla ARGUS era un sogno…era un sogno; se non c’era disponibilità, le ferie
non le facevi…i capiservizio ci facevano capire di metterci in mutua piuttosto
che chiedere le ferie, per questo sono andato via dalla ARGUS; non mi ricordo
quanti giorni di ferie mi hanno pagato, perché avevo delle ferie arretrate di
anni addietro”.
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“Le ferie? Eh, quelle erano un dramma, non c’erano mai” – ha detto
il De Rosa – “si richiedevano proprio solo per formalizzare, però ogni anno era
un dramma…non ho mai fatto ferie in agosto. Per il riposo settimanale anche qui
la prassi era che venisse pagato in busta, anche qui non si poteva rifiutare il
mancato riposo, senza le rispettive conseguenze future”.
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- Le condizioni in cui veniva prestato il lavoro “di piantonamento”
(in particolare quello notturno, già di per sé disagevole, soprattutto nei
lunghi inverni torinesi, in cui la temperatura scende con frequenza di alcuni
gradi sotto lo zero) erano rese ancora più insopportabili dal fatto che la
società non forniva ai propri dipendenti le torce, né il telefono cellulare, né
alcun mezzo per ripararsi dal freddo. E’ stato, infatti, acclarato che soltanto
alla WESTINGHOUSE vi fosse un “gabbiotto” fornito di telefono e che, “soltanto
là, i turni venivano svolti in coppia, per cui, di volta in volta, mentre l’uno
rimaneva nel gabbiotto, l’altro faceva i giri di controllo dentro la fabbrica”;
la qual cosa consentiva ai dipendenti di lavorare con una maggiore tranquillità
anche perché, se uno dei due si fosse sentito male, come è capitato, in più di
una occasione, al Di Sa., l’altro avrebbe potuto soccorrerlo.
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Soltanto il servizio chiamato “Sagittario”, cioè la vigilanza
antirapina, aveva in dotazione le torce (v. pag. 91 della trascrizione relativa
all’udienza del 30 maggio 2002), gli altri dipendenti, almeno quelli che
potevano permetterselo, alla fine, stanchi di richiedere alla società gli
strumenti per lavorare in condizioni di sicurezza accettabili, finivano per
acquistare a proprie spese torce, telefoni cellulari, nonché giubbotti
antiproiettile e, per ripararsi dal freddo, le giacche a vento da tenere sopra
la divisa, perché la ARGUS forniva delle giacche che non riparavano abbastanza
dal freddo della notte (v. pagg. 90, 99 della trascrizione).
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Qualora, poi, un dipendente avesse avuto un malore durante il
servizio o si fosse sentito così stanco da avere necessità di ritornare a casa,
non sempre veniva sostituito; ed anche nel caso in cui fosse riuscito ad
avvertire la società da una cabina telefonica – ed alcune volte la p.o. non è
stata in grado di farlo, perché, oltre ad essere priva di strumenti di
comunicazione, non vi era alcun telefono pubblico vicino al luogo “di
piantonamento” – “il cambio…molte volte non arrivava”; l’Attardi, sul punto, ha
spiegato: “io una volta ho avuto la sostituzione, ma, in genere, ti chiedevano
se potevi farcela a tirare avanti…cercavano di aggiustare le cose, perché,
comunque, uomini disponibili per determinate mansioni non c’erano” (v. pagg.
91-92 della trascrizione).
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- La notte del 30 dicembre 1985, il Di Sa., durante “un servizio
effettuato presso le case popolari, da solo e con la paura che potesse capitare
qualcosa, perché il luogo era pieno di drogati…e c’era molto buio, tanto da non
vedere dove mettere i piedi”, è stato colto per la prima volta da malore nel
corso di un turno di lavoro. Al proposito, lo stesso ha riferito (v. pagg. 9 e
segg. Della trascrizione relativa all’udienza del 30 maggio 2002): “faceva un
freddo da cani, aveva nevicato; io, purtroppo, non potevo accendere la
macchina, come avevo fatto altre volte per ripararmi dal freddo, perché ero
stato richiamato la sera prima dagli inquilini che non riuscivano a dormire per
il rumore del motore acceso…..Ricordo che ho cominciato a star male, mi tirava
un braccio, poi una gamba, sono caduto per terra…mi ricordo solo questo. Ho
perso conoscenza…mi sono trovato ricoverato all’ospedale “Mauriziano” di
Torino, dove sono rimasto circa quaranta giorni con una diagnosi di sofferenza
cerebrale…Il mio medico, prima di tornare a lavorare mi ha visitato e mi ha
rilasciato un certificato nel quale si consigliava di svolgere mansioni un poco
più…però, quando sono rientrato è rimasto tutto come prima, dodici, tredici,
quattordici ore di lavoro, con i turni di notte, da solo, al freddo, senza
torcia, né radiotrasmittente, senza ferie, né riposo settimanale”. Dopo
quell’episodio, nel 1988, il Di Sa. ha avuto un altro malore - mentre
espletava un servizio di vigilanza in Corso Lione, in Torino - a seguito del
quale è stato alcuni giorni assente dal lavoro.
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Il De Rosa ha, a sua volta, dichiarato che, dopo la sua promozione
ad ispettore, durante i turni di sorveglianza notturna, spesso ha constatato
che le guardie giurate accendevano dei falò per ripararsi dal freddo intenso e
per fare un po’ di luce, perché con il buio pesto avrebbero rischiato di farsi
male, soprattutto quando svolgevano il servizio di sorveglianza presso i
cantieri.
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Come appare evidente, quindi, già dalla descrizione dei fatti fin qui riportata, la società in
questione e, per essa, il presidente e direttore generale, non ha adottato le
più elementari misure per evitare di mettere in pericolo la sicurezza e la
salute psico-fisica del proprio dipendente - diritto che la Carta
costituzionale, all’art. 32, garantisce come primario ed originario
dell’individuo -, in particolare, omettendo di allontanare quest’ultimo
dall’esposizione a rischio per motivi sanitari inerenti la sua persona e di
conferirgli mansioni più consone alle sue condizioni in rapporto alla sua
salute ed alla sicurezza.
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E ciò in violazione dell’anzidetto precetto costituzionale, delle
disposizioni antinfortunistiche, fra le quali quelle contenute nel D. L.vo 19
settembre 1994, n. 626, che ha dato attuazione ad alcune direttive europee
riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori
durante il lavoro, nonché dell’art. 2087 cod. civ., che costituisce “norma di
chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non
ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della
sua formulazione, ed impone all’imprenditore l’obbligo di tutelare
l’integrità fisiopsichica dei dipendenti”.
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Detto obbligo non si esaurisce “nell’adozione e nel mantenimento
perfettamente funzionale di misure di tipo igienico-sanitario o
antinfortunistico”, ma attiene anche – e soprattutto – alla predisposizione “di
misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori
dalla lesione di quella integrità nell’ambiente o in costanza di lavoro anche
in relazione ad eventi, pur se allo stesso non collegati direttamente, come le
aggressioni conseguenti all’attività criminosa dei terzi ed alla probabilità di
concretizzazione del conseguente rischio”; rischio che le guardie giurate
corrono giornalmente, e per il quale il Di Sa., come dallo stesso dichiarato
all’udienza del 30 maggio 2002, era continuamente in apprensione, particolarmente
durante i turni di notte, perché era “da solo e c’era un buio pesto” ed in caso
di aggressione da parte di più persone non avrebbe saputo come difendersi.
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Tale interpretazione estensiva della citata norma del codice civile
si giustifica, alla stregua dell’ormai consolidato orientamento della
giurisprudenza di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass., sentt. nn.
8422/97 e 7768/95), sia in base al rilievo costituzionale del diritto alla
salute - art. 32 Cost. -, sia per il principio di correttezza e buona fede
nell’attuazione del rapporto obbligatorio – artt. 1175 e 1375 c.c. – cui deve
essere improntato e deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro,
sia, infine, “pur se nell’ambito della generica responsabilità
extracontrattuale o aquiliana”, ex art. 2043 c.c., in tema di neminem
laedere (il Supremo Collegio, in proposito, ha, altresì, messo in evidenza
che, in conseguenza del fatto che la violazione del dovere di neminem
laedere può consistere anche in un comportamento omissivo e che l’obbligo
giuridico di impedire l’evento può discendere, oltre che da una norma di legge
o da una clausola contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una
determinata attività, a tutela di un diritto altrui, è da considerare
“responsabile il soggetto che, pur consapevole del pericolo cui
è esposto l’altrui diritto, ometta di intervenire per impedire l’evento
dannoso”: così, tra le molte, Cass., Sez. III civ., 9 luglio 1998, n. 6691).
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Tornando alle condizioni di lavoro in cui il Di Sa. è stato
costretto a continuare a prestare il suo servizio, prima dell’infarto
occorsogli nella notte tra il 7 e l’8 settembre 1995, e dopo il rientro in
servizio a seguito dell’ultimato periodo di convalescenza, vi è ancora da
sottolineare lo stato di angoscia e di costrizione psicologica nel quale egli è
venuto a trovarsi, soprattutto durante i servizi notturni “di piantonamento”.
Angoscia che traspare con evidenza dalle dichiarazioni che egli ha reso in sede
di esame. “La mattina, dopo che avevo fatto la notte, mi mandavano a fare le
aperture delle banche ed io, invece di andare a dormire, dovevo aspettare,
perché l’apertura delle banche si fa dalle sette alle otto e mezza; dopo
l’arrivo degli impiegati, me ne andavo a casa e mi pagavano mezz’ora” (v. pagg.
13-14 della trascrizione relativa all’udienza del 30 maggio 2002).
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E, ancora: “Il 29 novembre del 1994 ed il 4 luglio 1995 ho avuto
altri due incidenti, mentre ero di servizio; nel ’94, mi trovavo in un
supermercato in costruzione a Moncalieri, si trattava di un’area molto vasta,
non c’era riscaldamento, ero solo, non potevo tenere la macchina accesa perché
disturbavo gli inquilini dei palazzi circostanti. Dietro il supermercato era
tutto aperto, lì c’era di tutto, gente, ragazzi che si andavano a drogare…ad un
certo momento ho sentito che dei ragazzi mi inseguivano urlando, così, per non
farmi vedere, andavo appoggiandomi ai muri, lo avevo imparato a memoria quel
tragitto; c’erano chiodi per terra, tavole, e non avevo la lampada, così sono
inciampato e sono caduto”.
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Quanto all’incidente avvenuto il 4 luglio 1995, due mesi prima
dell’infarto, la dinamica è analoga: il Di Sa. si trovava a svolgere “un
servizio alla SIPRA, dalle 19.00 alle
7.00 della mattina successiva”, doveva effettuare un lungo giro di sorveglianza,
non poteva prendere l’ascensore “perché da solo non era prudente, visto che
spesso si rimaneva bloccati dentro” e, “ giunto all’ultimo piano”, si è sentito
male, è caduto per le scale ed il mattino seguente è stato trasportato alle
“Molinette” con una ambulanza. Anche in questo caso, nel certificato medico
rilasciatogli e consegnato all’ufficio del personale si consigliava di
attribuirgli mansioni meno stressanti.
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E’, dunque, da evidenziare che, nel periodo che ha preceduto
l’infarto, le condizioni psico-fisiche della p.o. sono divenute sempre più
critiche – la qual cosa trova conferma, oltre che nelle concordi dichiarazioni
dei testi escussi, anche nella documentazione medica agli atti -, al punto tale
che la medesima p.o., durante il servizio, ha iniziato a fumare molte
sigarette, “perché se non si fumava purtroppo ci si addormentava” (v. pag. 57
della trascrizione) ed è divenuta sempre più irascibile per la stanchezza ormai
cronicizzata che spesso le produceva, come risulta dai referti agli atti, degli
stati di ansia che sfociavano in veri e propri attacchi di panico.
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Inoltre, proprio in quel periodo, il Di Sa., per la prima volta
dopo lunghi anni di servizio senza mai lamentarsi, ha avuto un diverbio con il
capoturno Gubbini – “dovuto alla stanchezza e all’esaurimento”, dice la stessa
p.o., che ha ammesso di avere anche talvolta “pensato di farla finita, perché
dalla stanchezza non ce la faceva più” –, in ordine al quale il direttore
generale ha ritenuto di non dover prendere alcun provvedimento nei confronti
della guardia giurata, ritenendo che si trattasse di un episodio “dovuto alla
fatica sopportata negli ultimi tempi”(v. documentazione prodotta dall’accusa,
in atti).
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Detti stati di malessere generale che, prima dell’infarto, hanno
prodotto al Di Sa. continui “sbalzi pressori”, nonché un senso di
depressione sempre più grave, sono, con ogni evidenza, alla stregua delle
descritte provate circostanze e di quanto si dirà appresso, da ricondurre alle
modalità di prestazione del servizio che venivano imposte allo stesso, peraltro
in uno situazione di terrorismo psicologico che costringeva il dipendente a non
richiedere ciò che gli spettava, a non farsi mai avanti, a non polemizzare sui
turni di notte e sulle mancate ferie, per paura di essere licenziato: “Da noi,
se si parlava troppo si usciva, questa è la verità…io parecchie volte arrivavo
a casa distrutto, ma avevo paura, paura di parlare, perché avevo moglie e tre
figli da mantenere” (v. pagg. 42-44 della trascrizione).
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Ed è, altresì, evidente che egli non ha mai avuto, durante i
vent’anni di servizio alla ARGUS, il tempo di riprendersi dalla stanchezza e
dallo stress che si sono accumulati di anno in anno. A ciò si aggiunga che la
guardia giurata di cui si tratta non si sentiva compresa, per quanto in
precedenza analiticamente esposto, dal suo datore di lavoro, ma, anzi, violata
nella sua integrità fisica e psichica, con riflessi pregiudizievoli rispetto a
tutte le attività, le situazioni ed i rapporti in cui, di norma, l’individuo
esplica se stesso nella propria vita; non soltanto, quindi, con riferimento
alla sfera produttiva, ma anche con riguardo alla sfera spirituale, culturale,
affettiva e sociale e ad ogni attività realizzatrice della persona umana (cfr.,
pure, Corte cost. sentt. nn. 616/87; 356/91; 158/01).
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Non può non sottolinearsi, relativamente a questo profilo, che, ad
esempio, il diritto del lavoratore alle ferie annuali, tutelato dall’art. 36
della Costituzione, è ricollegabile non solo ad una funzione di corrispettivo
dell’attività lavorativa, ma altresì al soddisfacimento di esigenze
psicologiche fondamentali del lavoratore, il quale, mediante le ferie, ha la
possibilità di partecipare più incisivamente alla vita familiare e sociale e
può vedersi tutelato il proprio diritto alla salute nell’interesse dello
stesso datore di lavoro (cfr. Cass., S.U., 8 giugno 2001, n. 278).
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Invero, la dottrina e la giurisprudenza più attente hanno
sottolineato come l’avvento della Costituzione abbia segnato un “momento di
rottura rispetto al sistema precedente ed abbia, di conseguenza, consacrato il
definitivo ripudio dell’ideale produttivistico quale criterio cui improntare
l’agire privato”. L’attività produttiva – che forma anch’essa oggetto di tutela
costituzionale, poiché attiene all’iniziativa economica privata quale
manifestazione di essa e rientra, quindi, nell’ambito di previsione dell’art.
41, I comma, della Costituzione – è subordinata, ai sensi del II comma della
medesima disposizione, alla utilità sociale che va intesa non tanto e soltanto
come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla
collettività, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero
sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e
dignità. E’ questa l’indicazione proveniente anche dal riconoscimento
costituzionale dei diritti inviolabili dell’uomo, in quanto “valori di
esperienza e di civiltà desumibili dalla realtà sociale nel suo divenire
storico”. Da ciò consegue che la concezione “patrimonialistica” dell’individuo
ha lasciato il posto ad una diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo
svolgimento della persona, sul rispetto di essa, sulla sua dignità, sicurezza e
salute – anche nel luogo nel quale svolge la propria attività lavorativa –;
momenti tutti che “costituiscono il centro di gravità del sistema”, ponendosi
come valori apicali dell’ordinamento.
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Pertanto, il datore di lavoro che non si fa carico di salvaguardare
la dignità, la salute e la sicurezza del proprio dipendente, mortificando le
sue aspettative e, omettendo di adeguare l’organico aziendale alle effettive
necessità, impone un superlavoro con orari e turni che ledono quei diritti
fondamentali; contribuisce a produrre nel lavoratore una progressiva sfiducia
nelle proprie capacità, nonché stati di depressione che, in alcuni casi,
possono condurlo anche al pensiero di gesti anticonservativi (v. dichiarazioni
del Di Sa. in merito) e si può rendere responsabile, con il proprio
comportamento omissivo, di eventuali malattie professionali che eventualmente
ne scaturiscano. E che consistono, come è stato evidenziato, in quelle
patologie che, a differenza degli infortuni, “dipendono da un’azione lesiva
operante non con rapidità, bensì con gradualità”.
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Per quanto, più in particolare, riguarda l’episodio avvenuto nella
notte tra il 7 e l’8 settembre 1995, il Di Sa. ha ricordato che aveva
chiesto, più volte, anche alcuni giorni prima, al caposervizio Nicola Diamante
se poteva essere sistemato “in un posto più decente, perché ormai non ce la
faceva più” (v. pag. 24 della trascrizione).
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Quella notte si trovava alla SIPRA e svolgeva il turno dalle 19.00
alle 7.00. “Dalle 19.00 alle 23.00” – ha ricordato la p.o. – “ho fatto i miei
giri, ho chiuso, ho messo gli allarmi…verso le undici e mezza, mezzanotte, ho
cominciato ad avere dolore al braccio, alla mandibola, alla mano e io lì non
avevo nessuna cosa per chiamare disponibile, non avevo nessuna disponibilità,
però mi sono detto…vado avanti, vado avanti. Ma, verso l’una e mezza, le due, mi
è preso il colpo forte al petto; io lì avevo la luce spenta per non farmi
vedere. Il telefono c’era, però non sono riuscito a chiamare; poi il mattino
dopo mi hanno portato alle Molinette, sono stato ricoverato immediatamente in
Medicina di urgenza e poi da lì mi hanno portato in sala rianimazione. Dopo un
mese dal ritorno a casa, l’infarto si è ripetuto, sono stato di nuovo
ricoverato, ho fatto la convalescenza…ma dovevo rientrare per forza, io avevo
tre figli” (v. pagg. 25-26 della trascrizione).
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Al suo rientro ha avuto, inizialmente, un turno da svolgersi dalle
8.00 alle 18.00, senza interruzione; “il sabato e la domenica andavo a fare
dodici ore alla SEPI di Bruino…un giorno, nell’aprile del 1996, dopo le dodici
ore giornaliere, mi hanno chiesto, come facevano sempre loro, se potevo andare
la notte alla MEDIASET di Beinasco…ho fatto troppo, sono scivolato ed ho fatto
l’altro infortunio, verso mezzanotte sono caduto per le scale…questo è stato il
mio ultimo lavoro, dopo ho cercato di rientrare, ma i capiturno non mi davano
retta, non mi ricevevano, ho tentato anche di parlare con il signor X. ,
ma invano. Dopo alcuni mesi, il signor X. mi ha fatto visitare dai
medici della USL di Collegno e nel settembre del 1997 ho ricevuto la lettera di
licenziamento, anche se quei medici dicevano che non ero inabile al lavoro”.
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Tutto ciò premesso – ed osservato, inoltre, che non si è ritenuto
di soffermarsi su quanto riferito dal teste Augelli, ispettore della ARGUS, il
quale è apparso un po’ confuso nella ricostruzione dei fatti, avendo, in un
primo momento, asserito con sicurezza che il Di Sabato faceva solo otto ore di
lavoro e quattro di straordinario, mentre dai tabulati agli atti, nonché dalle
dichiarazioni del responsabile del personale Canova, risulta che il numero di
ore e di straordinario erano di gran lunga superiori; ed affermato, subito
dopo, che ricordava bene i turni dei dipendenti, perché erano solo
centocinquanta, mentre è rimasto acclarato che alla ARGUS lavoravano trecento
persone -, occorre ora soffermarsi sulle relazioni dei tre consulenti tecnici,
due dei quali nominati dal Pubblico Ministero ed uno dalla difesa ed alle
dichiarazioni dagli stessi rese, in contraddittorio, all’udienza del 30 maggio
2002.
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Al riguardo, è altresì, da ribadire, per dovere di completezza, che
questo Giudice non ha ritenuto di accogliere la richiesta del difensore
dell’imputato in merito alla nomina di un perito, ritenendo, nel caso in esame,
del tutto superfluo l’accertamento peritale, essendo stato ampiamente spiegato
dai consulenti – con argomentazioni che, immuni da vizi logici, sono
interamente condivise dal giudicante - che lo “stress situazionale”, unito ad
alcuni fattori di rischio, di cui la società in questione era al corrente e dei
quali si parlerà più innanzi, possono agire da concausa della patologia occorsa
al Di Sa..
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Il dottor Carlo Panataro, specialista in cardiologia e medicina del
lavoro ed il dottor Silvano Bosia, responsabile del Servizio di Medicina del
Lavoro dell’Ospedale civile di Asti – entrambi consulenti del Pubblico
Ministero ed ai quali quest’ultimo ha richiesto di stabilire “la natura,
l’entità, la data di insorgenza e/o aggravamento, la durata, gli esiti e le
cause della malattia sofferta dal lavoratore, oggetto dell’accertamento”,
nonché se la patologia in questione “sia associabile all’attività svolta dal
lavoratore di cui è causa” –, hanno dichiarato (v. consulenza in atti, pagg. 10
e segg., nonché pagg. 170 e segg. della trascrizione relativa all’udienza del
30 maggio 2002), innanzi tutto, che “certamente, il lavoro con turnazioni
notturne, di per sé costrittivo perché oggettivamente antifisiologico, non era,
già in partenza, il più indicato per questo tipo di personalità e decisamente
sconsigliato dopo l’infarto (come fu, infatti, prescritto dalla dichiarazione
della Divisione Cardiologica delle Molinette il 9.4.1996)”.
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Tra i numerosi fattori di rischio dell’infarto – hanno, poi,
osservato i consulenti - “ve ne sono alcuni più importanti (dislipidemia, uso
di tabacco, ipertensione, diabete, obesità), altri considerati meno importanti
ma non trascurabili (attività fisica, familiarità, sesso, alcool, fattori
psicosociali e comportamentali)”. E, se esistono studi che hanno analizzato le
relazioni tra stress emotivo e sviluppo dei sintomi della cardiopatia
coronarica i quali non hanno potuto evidenziare una significativa associazione
tra la presenza di cardiopatia coronarica e lo stress lavorativo, ve ne sono
altri che, osservando la frequenza di infarto del miocardio acuto e la mortalità
per cardiopatia ischemica negli agenti di polizia – i quali, come è evidente,
svolgono un lavoro le cui caratteristiche sono, per molti aspetti, simili a
quello delle guardie giurate -, hanno rilevato significative correlazioni
(v. pagg. 14 e segg. della consulenza).
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Lo stress cronico, infatti, “sembra contribuire allo sviluppo della
malattia aterosclerotica coronarica, favorendo l’aumento della pressione
arteriosa ed esaltando la reattività del sistema simpatoadreno-midollare e
adreno-corticale pituitario, che agisce come fattore scatenante di
modificazioni emodinamiche e/o biochimiche che determinano un danno alla parete
arteriosa. Nel caso in oggetto”, secondo l’opinione dei consulenti dell’accusa,
“si può ritenere che fossero presenti prima della comparsa della malattia
coronarica sia una patologia depressiva che uno stato di stress cronico conseguente
all’attività lavorativa svolta”. I due medici hanno posto, altresì,
l’accento sulla possibile correlazione tra l’ansia, la depressione e le nevrosi
fobiche (patologie da cui è affetta la p.o. e che si sono aggravate in
conseguenza delle condizioni nelle quali è stata costretta a lavorare) con la
patologia coronarica, “senza trascurare altri aspetti stressanti, correlati
all’attività lavorativa svolta dal dipendente alla ARGUS, come guardia giurata
addetta prevalentemente a turni notturni, spesso all’aperto”.
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Quindi: “il timore di aggressioni e le intemperie, seppur non
quantificabili, vengono a completare il complesso di cause, tra loro
interagenti, che non possono non essere considerate alla base di un evento
infartuale in generale e, quindi, soprattutto, nel caso in esame”.
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Il dottor Panataro, in particolare, ha specificato in udienza (v.
pagg. 175, 180, 181, 185 e 186 della trascrizione relativa) che lo stress
favorisce l’aumento dei valori pressori che, sicuramente, costituiscono uno dei
fattori di rischio della patologia coronarica e che, in questo senso, “esiste
una possibile concausa di questo tipo di lavoro nella determinazione
dell’evento infartuale…E’ logico, invero, pensare che il fatto di mantenere
qualcuno in un possibile fattore di rischio su una patologia coronarica può
essere un aspetto negativo ed è logico pensare che si debbano cercare di
rimuovere dei fattori di rischio certi, o presunti tali, per cercare di evitare
il ripetersi dell’evento…il lavoro notturno altera il ciclo biologico con
importanza e ripercussioni non secondarie…anche un lavoro eccessivo, perché lo
stress è costituito sia dall’orario di lavoro, come numero di ore, sia dalla
collocazione nell’arco della giornata, quindi questa è sicuramente una cosa da
tenere presente”; ed ha concluso: “voglio precisare che il fattore di rischio
importante, qual è l’ipertensione, è quello che viene influenzato da uno stress
lavorativo, perché lo stress può essere una causa importante di rialzo dei
valori pressori e, quindi, di riflesso, lo stress può diventare una delle
concause dell’infarto miocardico”.
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E il dottor Bosia ha posto soprattutto l’accento sul fatto che,
dalla relazione redatta dai medici della USL di Collegno che hanno visitato il
Di Sa. per disposizione dell’imputato, si evince che, nel caso di specie, ci
troviamo di fronte ad una situazione di lavoro notturno che, nell’anno 1991, ha
raggiunto punte del 71%; mentre, negli anni precedenti l’infarto, una media del
41 e oltre per cento e con punte quasi del 46% di lavoro in straordinario, per
un totale “di quasi una metà di lavoro fatta in straordinario e, a volte, tre
quarti fatto di notte” (v. pag. 187 della trascrizione). A parere del dott. Bosia, non si deve dimenticare che un terzo fattore di stress da tenere nel
giusto conto è lo stress situazionale che consegue al fatto che il Di Sa. ha lavorato da solo per tutto il periodo dell’anno, in situazioni,
comunque, obiettivamente non tranquille, nelle quali avrebbe potuto subire in
ogni momento aggressioni di ogni tipo, esposto al freddo ed al caldo, in una
situazione psicologica di base che sicuramente aggravava quello stato di stress
e di cui si sarebbe dovuto tenere conto.
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Anche la dott. ssa Laura Marzano, consulente della difesa, pur
affermando che non esiste, a suo giudizio, un rapporto certo tra lavoro
notturno e malattie cardiovascolari, nulla ha potuto obiettare dinanzi alle
considerazioni che precedono, relative al nesso tra tali malattie e le
condizioni di lavoro massacranti cui veniva sottoposto il Di Sa. e sulla
interferenza dell’aggravamento - dovuto alla mole di lavoro svolto - delle
patologie da cui già il Di Sa. era affetto (quali, appunto, la depressione,
l’ansia, gli sbalzi pressori) sulle predette malattie, in quanto costituenti
importanti fattori di rischio delle stesse (v. pagg. 188-189 della
trascrizione).
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La dott.ssa Marzano ha, altresì, ribadito che il Di Sa. è
affetto anche da una patologia neuropsichiatrica importante e che i fattori di
rischio cardiovascolare erano già presenti nello stesso ancor prima di essere
sottoposto a quei ritmi di lavoro (v. pag. 183 della trascrizione).
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Ebbene, il datore di lavoro, nel momento in cui decide di assumere
un soggetto che presenta una labilità psicologica, deve tenerne conto
nell’affidamento al medesimo delle mansioni da svolgere. La destinazione di
quel tipo di soggetto a turni di lavoro massacranti, infatti, può esporre lo
stesso al rischio di insorgenza di patologie più gravi – come è avvenuto nel
caso di specie – ed in tal modo costituire, se non la causa determinante,
almeno una concausa di quelle patologie.
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Invero, una infermità generica, da cui un soggetto sia affetto, può
avere una evoluzione in senso peggiorativo a causa delle modalità di svolgimento di un lavoro che,
pur non essendo di per sé particolarmente stressante, può, comunque, influire
sul determinismo di particolari patologie, assumendo un ruolo di concausa
necessaria e determinante dell’evento, senza che, in contrario, rilevi la
naturale predisposizione del soggetto all’insorgenza della patologia (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, sent.12 giugno 1998, n. 928, nella quale è stato, tra
l’altro, affermato che, pur se “la scienza medica tenda ad escludere la
dipendenza da stress della TBC renale, deve riconoscersi come dovuto a causa di
servizio l’aggravamento di tale patologia, sofferta da un dipendente, rispetto
alla quale le modalità particolarmente stressanti della prestazione, legate alla
necessità di continui spostamenti giornalieri di rilevante entità abbiano
determinato, quantomeno come concausa, l’insorgenza o l’aggravamento
della malattia”).
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Al proposito, la giurisprudenza della Corte di legittimità, anche
in epoca non recente (cfr., ex multis, Cass., Sez. lav., 10 aprile 1976,
n. 1252) ha stabilito che, qualora, durante il rapporto di lavoro, insorga una
malattia del prestatore d’opera, la responsabilità del datore di lavoro va
esclusa se egli abbia adottato tutte le cautele necessarie a tutelare
l’integrità fisica del primo, in modo che tale evento non possa essere
ricollegabile ad un comportamento colposo dell’imprenditore che, per
negligenza, abbia determinato uno stato di cose produttivo dell’infermità.
Deve, inoltre, risultare che questi abbia destinato il lavoratore ad altri
compiti non appena gli sia stata prospettata l’ipotesi che le precedenti
mansioni potessero concorrere a pregiudicare la salute del dipendente.
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Nella pronunzia che precede, la Cassazione ha, tra l’altro, affermato
che l’imprenditore non “avrebbe potuto accertare, per suo conto, la causa
patogena in occasione dei controlli sanitari cui aveva sottoposto il dipendente
a causa delle sue assenze dal lavoro, in quanto siffatti controlli hanno la
sola finalità di individuare l’effettiva esistenza del fatto morboso impeditiva
della prestazione lavorativa, ma non possono spingersi, senza violare la sfera
dei diritti personalissimi del prestatore d’opera, a ricercare anche le cause
delle infermità denunziate”.
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Più recentemente (cfr., in particolare, Cass., Sez. lav., I
settembre 1997, n. 8267), il Supremo Collegio ha cassato la pronunzia del
Tribunale che aveva negato il risarcimento del danno biologico richiesto da un
lavoratore al proprio datore di lavoro per l’infarto che aveva subito che
doveva considerarsi, alla stregua di quanto affermato dal CTU, causalmente
conseguente allo stress accumulato per eccessivo lavoro, sostenuto
attraverso la prestazione di straordinario in via continuativa e la rinunzia
alle ferie, ed ha ritenuto fondate le rivendicazioni del lavoratore, affermando
che, sulla base di quanto sancito dall’art. 41, II comma, Cost. e dall’art.
2087 c.c., il datore di lavoro avrebbe dovuto impedire l’insorgere o
l’ulteriore deterioramento di una situazione tale per cui lo svolgimento
dell’attività lavorativa determini effetti patologici e traumatici nei
lavoratori.
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Alla sussistenza di una consequenzialità tra stress psicologico
ed evento fanno, altresì, riferimento alcune sentenze del Tribunale di
Torino (v., tra le altre, sentt. 16 novembre 1999; 30 dicembre 1999) e del
Tribunale di Forlì (sent. 15 marzo 2001), in relazione, in particolare, ad
ipotesi in cui il “disagio psicologico” nel quale si sia venuto a trovare il
dipendente abbia assunto proporzioni tali da potersi configurare quale “evento
patologico” produttivo di conseguenze negative sulla salute del medesimo,
sottolineando che sono da ricomprendere nel mobbing – “istituto
quest’ultimo che contiene una serie di figure tipiche di danni causati dallo
stress, dall’eccessiva ripetitività e monotonia del lavoro svolto, dai rapporti
conflittuali con i colleghi di lavoro, etc.” – fenomeni che possono ledere
l’integrità psico-fisica dei lavoratori, tali da configurare un danno biologico
in considerazione della durata, della responsabilità e del nesso causale.
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Ancora la Suprema Corte ha recentemente affermato (sentt. nn. 5/02;
3970/99; 1331/99) che “anche una condizione lavorativa stressante, ad esempio
per sottorganico, può costituire fonte di responsabilità per il datore di
lavoro” che abbia colposamente predisposto condizioni lavorative estremamente
stressanti, le quali, unitamente a condizioni familiari particolari, note al
medesimo datore di lavoro, abbiano concorso a produrre l’evento dannoso per l’integrità
fisiopsichica del lavoratore. Con la conseguenza che “il nesso causale
rilevante ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. non è riservato agli eventi che
costituiscono conseguenza necessitata della condotta datoriale, secondo un
giudizio prognostico ex ante, ma si estende a tutti gli eventi
possibili, rispetto ai quali la condotta datoriale si ponga con un nesso di
causalità adeguata”.
-
Pertanto, alla stregua dell’insegnamento che precede, il semplice
concorso di colpa del lavoratore non è sufficiente per interrompere il nesso
causale, sicché “l’imprenditore è esonerato da responsabilità quando il
comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’esorbitanza, atipicità
ed eccezionalità rispetto alle condizioni di lavoro”.
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E, nella fattispecie, se appare evidente che lo stress cronico, dal
quale, ad avviso dei consulenti, il Di Sa. non era esente - dovuto, come si
è detto, al lavoro massacrante svolto
dal medesimo alla ARGUS, protrattosi per circa venti anni; allo stress
situazionale causato dal tipo di lavoro a rischio, effettuato in prevalenza da
solo e di notte, e dalla consapevolezza di svolgere un’attività per la quale, a
volte, è necessario fare uso dell’arma che si ha in dotazione; ed altresì al
mancato godimento delle ferie e del riposo settimanale – è certamente una
concausa dell’evento infarto, deve decisamente negarsi, per quanto emerge dagli
esiti processuali, che il comportamento del dipendente di cui si tratta
presenti i caratteri dell’esorbitanza, della atipicità ed eccezionalità rispetto
alle condizioni di lavoro.
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Inoltre, il fatto che dall’evento infarto sia derivata una malattia
insanabile appare evidente ove si abbia riguardo, ancora una volta, alle
dichiarazioni dei consulenti, vagliate anche
alla luce della definizione che la Corte Suprema ha dato in merito alla
predetta nozione. E’ insanabile la malattia che produca una qualsiasi
alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata e non
influente sulle condizioni organiche generali o un indebolimento permanente ancorché
l’organo di cui è stato cagionato detto indebolimento sia menomato in misura
anche minima nella sua potenzialità funzionale. Circa l’apprezzabilità
dell’indebolimento permanente, si chiarisce, altresì, che “apprezzabile non
significa notevole”.
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Ebbene, il cardiologo Panataro ha specificato che, a seguito degli
accertamenti medici effettuati sulla p.o. (v. pagg. 175-176 della trascrizione
relativa all’udienza del 30 maggio 2002) si può affermare che l’infarto ha
determinato sicuramente una lesione della parete miocardica, lesione che è
stata sostituita da tessuto cicatriziale di tipo fibroso che non consente più
una normale funzione contrattile; tale lesione ha prodotto, appunto, una
ipocinesia, cioè una riduzione della capacità contrattile di una porzione del
miocardio, di grado lieve. La lesione infartuale non consente, infatti, il
completo ripristino della parte di miocardio interessata.
-
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Per ciò che attiene, infine, alla posizione soggettiva di X.
all’interno della ARGUS, è rimasto delibato in dibattimento che lo stesso,
presidente e direttore generale di quella società, fosse a conoscenza di quanto
accadesse ai propri dipendenti (v. pure quanto riferito dal Canova in merito e
di cui sopra si è detto; nonché lettera di licenziamento inviata, a firma
dell’imputato, al Di Sa. e lettera, firmata sempre dallo stesso, con la
quale si richiede alla USL di Collegno di sottoporre a visita medica il
medesimo dipendente). La circostanza che, di fatto, per un periodo, sia stato
il generale Tosi ad occuparsi del personale, non esime, comunque, da
responsabilità il prevenuto, che rimane, a cagione della predetta qualifica,
titolare della posizione di garanzia attribuitagli dalla legge con tutti i
conseguenti obblighi di tutela (Schutzpflichten).
-
Una eventuale delega che, per un periodo, possa essere stata
conferita al generale Tosi – e della quale, peraltro, non vi è traccia – non
comporta una deroga al dovere di sicurezza, ma un diverso modo di adempimento
del precetto da parte del datore di lavoro, che in ogni caso rimane garante del
bene tutelato, poiché la delega incide soltanto sulle modalità di adempimento
del dovere di sicurezza e, quindi, sul “personale modo di adempiere ai doveri
di sicurezza facenti capo alla posizione ricoperta”.
-
Il datore di lavoro è, infatti, il principale destinatario delle
norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e la responsabilità
dello stesso per violazione delle disposizioni antinfortunistiche, qualora si
faccia aiutare da un dirigente nel controllo delle modalità di esecuzione del
lavoro e in quello per il rispetto delle predette norme, viene meno solo se
trasferisca alla persona nominata, che deve essere tecnicamente affidabile, i
suoi poteri anche in tema di osservanza delle disposizioni in materia di
infortuni sul lavoro e controlli che colui al quale ha conferito la
delega la usi correttamente. Ove, comunque, manchi o non risulti una delega o
la prova della stessa, l’obbligo della predetta osservanza incombe su di lui in
applicazione del principio generale, contenuto nell’art. 2087 cod. civ., “per
il quale l’obbligo di provvedere alle necessarie cautele per la tutela
dell’integrità fisica dei lavoratori grava sul datore di lavoro” (cfr., tra le
molte, Cass., Sez.
IV pen., 12
dicembre 1995, n. 12297, Villa; Cass., Sez.
IV pen., 2 maggio
1991, n. 4917).
-
-
Le considerazioni che precedono, scaturite dalla descritta
ricostruzione dei fatti per cui è processo, conducono inequivocabilmente
all’affermazione della responsabilità dell’imputato in ordine al reato a lui
ascritto, per il quale va pronunziata nei confronti dello stesso una sentenza
di condanna.
-
-
Quanto alla pena, valutati gli elementi tutti di cui all’art. 133
c.p., concesse le circostanze attenuanti generiche in considerazione del fatto
che, seppur dopo la requisitoria del Pubblico Ministero, il Di Sa. ha
ottenuto, come sopra riferito, la somma di 150.000 euro (versata per metà
direttamente dall’imputato e per metà dalla REALE MUTUA ASSICURAZIONI) –
circostanze delle quali, a parere di questo Giudice, date le esposte modalità
dei fatti e la natura del bene leso, va, però, tenuto conto in regime di
“subvalenza”, secondo una terminologia adoperata in alcune sentenze della Corte
di Cassazione, rispetto all’aggravante contestata – si reputa equo irrogare
all’imputato mesi sei di reclusione.
-
Segue, ex lege, alla condanna il pagamento delle spese
processuali.
-
-
Avuto riguardo alle condizioni di vita anteacta dell’X. ed
all’incensuratezza dello stesso, possono essergli concessi i doppi benefici di
legge sul presupposto che si asterrà in futuro dal commettere ulteriori reati.
P.Q.M.
-
Visti gli artt.
533, 535 c.p.p.;
-
dichiara l’imputato colpevole del reato a lui ascritto e, concesse
le circostanze attenuanti generiche, lo condanna alla pena di mesi sei di
reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.
-
Pena sospesa e non menzione alle condizioni di legge.
-
-
Visto l’art. 544 c.p.p.;
-
indica in giorni venti il termine per il deposito della sentenza.
-
-
Torino, 15/7/2002
-
Il Giudice:
Giuseppina Leo
-
Depositata in Cancelleria il 1 agosto 2002
-
***0***
Riceviamo
dallo Studio Legale Zancan - in data 22.7.2008 - e volentieri pubblichiamo:
«A nome e
per conto del mio assistito ........ ........... La invito a voler
sollecitamente criptare i dati personali (nome e cognome) del predetto,
pubblicati nella sentenza presente sul sito dirittolavoro.altervista.org alla
sezione mobbing, trattandosi di dati sensibili tutelati dalla legge sulla
privacy, ed a voler altresì dare conto che la sentenza in oggetto è stata
riformata in via definitiva in grado di appello con provvedimento che ha
dichiarato estinto il reato per intervenuta prescrizione.
Distinti saluti.
Torino, 22
luglio 2008
Abbiamo
immediatamente dato corso alla richiesta, eminentemente in ragione del fatto che
al curatore del sito preme segnalare le condotte oggettivamente riprovevoli di
demansionamento e mobbing, senza la "pruderie" dell'accostamento ad esse dei
"dati identificativi" degli eventuali responsabili acclarati pro-tempore o in
via definitiva dalla magistratura.
Nella
sentenza - ora anonimizzata - non ricorrevano peraltro in alcun modo "dati
sensibili", ma solo le cd. "generalità" che costituiscono (a norma dell'art.
4, lett. c) Codice privacy) "dati identificativi", mentre ai sensi della
lett. d) dello stesso art. 4, «dati sensibili, sono i dati personali
idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose,
filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti,
sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico,
politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di
salute e la vita sessuale».
Ciò fatto per
le innanzi riferite motivazioni, ci preme altresì evidenziare ai navigatori come
il nostro comportamento, riconducibile alla cd. attività saltuaria di
"informatica giuridica" (disciplinata al Capo III del cd. Codice privacy), non
abbia mai violato la normativa vigente, essendoci sempre attenuti alla
autorevole fonte interpretativa dell'allora Primo Presidente della Corte di
Cassazione Nicola Marvulli, esplicitata nella Circolare che sotto riproduciamo e
che ci consente di trarre le seguenti conclusioni (alle quali rinviamo tutti
coloro che in futuro ci faranno pervenire analoghe richieste):
a) chi
intende che non siano pubblicati i propri "dati identificativi" desumibili
dalla pubblicazione integrale delle sentenze, deve ottenere dal magistrato
l'annotazione di "anonimizzazione" in calce alla sentenza, apposta dalla
Cancelleria;
b)
indipendentemente dall'annotazione di cui sopra, chi effettua attività di
riproduzione di sentenze è tenuto alla "anonimizzazione" 1) delle
generalità delle persone offese da atti di violenza sessuale senza il consenso
di costoro, per effetto dell'art. 734-bis c.p.; 2) delle "generalità, dati
identificativi o altri dati anche relativi a terzi dai quali può desumersi anche
indirettamente l'identità di minori, oppure delle parti nei procedimenti in
materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone". Senz'altre
limitazioni, in ragione del carattere (ancora) pubblico delle sentenze, non
equiparate alle "intercettazioni" con caratteristiche di gossip.
Corte di cassazione
«Tutela
della
privacy e
oscuramento dei dati identificativi delle sentenze
Circolare 17.1.2006
Corte di
Cassazione : Circolare del 17 gennaio 2006 n. 47/06/SG
Tutela
della
privacy e
oscuramento dei dati identificativi delle sentenze
1. - Il
Codice in materia di protezione dei dati personali (art. 52, comma 1, del
d.lgs. 30
giugno 2003, n. 196
) fa
espressamente salvo quanto previsto dalle disposizioni dei codici di procedura
concernenti la redazione, il contenuto e la pubblicazione di sentenze e di altri
provvedimenti giurisdizionali dell'autorità giudiziaria di ogni ordine e grado;
esso
interviene
soltanto a disciplinare il momento della diffusione della sentenza o del
provvedimento giurisdizionale per finalità di informatica giuridica.
2. - La
possibilità di rendere in forma anonima i dati personali contenuti in una
sentenza si ha quindi soltanto al momento della sua
riproduzione
in qualsiasi forma per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche
,
supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica.
3. -
L'art. 52
definisce i casi nei quali è garantito il diritto all'anonimato delle parti in
giudizio o dei soggetti interessati.
Il sistema si
articola su
due livelli
.
3.1. - Il
primo livello affida all'
intervento
del giudice
l'anonimizzazione
delle generalità e di altri dati identificativi.
Sussistendo
motivi legittimi che andranno esplicitati, l'interessato (non solo, quindi, la
parte del giudizio) può chiedere, mediante istanza scritta depositata nella
cancelleria o segreteria dell'autorità procedente prima che sia definito il
relativo grado di giudizio, che sull'originale della sentenza o del
provvedimento sia apposta, a cura della cancelleria o segreteria, un'annotazione
volta a precludere, appunto in caso di riproduzione della sentenza o
provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su
riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione
elettronica, l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del
medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento.
Su tale
istanza provvede
in calce con
decreto,
senza ulteriori formalità, l'autorità che pronuncia la sentenza o adotta il
provvedimento.
La medesima
autorità può disporre d'ufficio l'anonimizzazione a tutela dei diritti o della
dignità degli interessati.
Il diritto
dell'interessato a chiedere che eventuali riproduzioni del provvedimento
avvengano con l'esclusione delle sue generalità deve essere funzionalmente
agganciato alla
presenza di
motivi legittimi
.
3.2. - In
altri casi - e siamo al
secondo
livello di tutela
- l'anonimizzazione
dei dati identificativi avviene in forza di un preventivo apprezzamento del
legislatore.
Infatti il
comma 5 dell'art. 52
:
- da un lato
fa ricognitivamente salvo quanto previsto dall'
art. 734-bis
del codice penale
relativamente
al divieto di divulgazione delle generalità delle persone offese da atti di
violenza sessuale senza il consenso di costoro;
- dall'altro
prevede che, in caso di diffusione di decisioni giudiziarie, occorre omettere in
ogni caso, anche in mancanza della predetta annotazione, "le generalità, altri
dati identificativi o altri dati anche relativi a terzi dai quali può desumersi
anche indirettamente l'identità di minori, oppure delle parti nei procedimenti
in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone".
4. - L'art.
52 del Codice si occupa anche delle
modalità
operative
attraverso le
quali avviene l'anonimizzazione dei dati identificativi degli interessati.
4.1. - Ove la
tutela della
privacy sia
affidata ad un intervento, su richiesta o d'ufficio, del giudice (sono i casi
dei commi 1 e 2), questi dispone che sia apposta a cura della cancelleria o
segreteria, sull'originale della sentenza o del provvedimento, un'annotazione
volta a precludere l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi
in caso di riproduzione della decisione in qualsiasi forma per finalità di
informazione giuridica.
Il testo del
decreto legislativo prevede anche l'espressione esatta da adottare per tale
annotazione, comprensiva del riferimento esplicito agli estremi dell'art. 52 del
Codice; precisa inoltre (al comma 4) che "in caso di diffusione anche da parte
di terzi di sentenze o di altri provvedimenti recanti l'annotazione ..., o delle
relative massime giuridiche, è omessa l'indicazione delle generalità e degli
altri dati identificativi dell'interessato".
4.2. - Là
dove (ed è l'ipotesi del comma 5, art. 52) la tutela dei dati identificativi è
ex lege, il dovere di anonimizzare i dati sensibili identificativi del
soggetto, allorché si proceda alla diffusione del provvedimento giurisdizionale
(o della relativa massima), sorge "in ogni caso, anche in mancanza
dell'annotazione di cui al comma 2".
Tuttavia ciò
non toglie che, ancorché non necessaria, l'annotazione disposta dal
giudice sia comunque opportuna, soprattutto quando - ed è il caso della nostra
Corte di cassazione
- le decisioni sono rese accessibili attraverso il sistema informativo e il sito
istituzionale dell'autorità giudiziaria.
In mancanza
di annotazione da parte del giudice, infatti, si costringerebbe il personale che
immette la decisione nella rete Internet di verificare ogni volta (risolvendo i
nodi interpretativi di cui sopra) se la sentenza o il provvedimento
giurisdizionale riguardi un procedimento concernente minori o, ancora, un
procedimento in materia di rapporti di famiglia.
5. - L'anonimizzazione,
che si attua attraverso l'apposizione dell'annotazione
"In caso di
diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di ...",
non incide sulla pubblicazione dell'originale della sentenza (o di altro
provvedimento del giudice), che deve essere completo di tutti i dati
identificativi delle parti. Non sembra pertanto possibile redigere il testo del
provvedimento con le iniziali anziché con le complete generalità.
6. - Il
rimedio dell'anonimato opera soltanto in caso di successiva divulgazione della
sentenza per finalità di informazione giuridica: non riguarda, pertanto, l'invio
della sentenza all'Ufficio del registro per la registrazione
.
7. - Il
rilascio di copia della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale in
favore di un soggetto diverso dalla parte del relativo procedimento e non
titolare di uno specifico interesse processuale non è, già, un'attività di
diffusione della decisione, e non soggiace, perciò, alla disciplina di cautela
prevista dall'art. 52 del Codice in materia di protezione dei dati personali.
Tuttavia, nel rilasciare copia della sentenza, il cancelliere può far firmare a
chi la riceve una ricevuta con l'avvertenza relativa alla presenza, nel testo
della sentenza, dell'annotazione sulle cautele da osservarsi in caso di
successiva divulgazione.
Il primo
presidente
Nicola
Marvulli»
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