ACCUSE DI
MOBBING INDIMOSTRATE: LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA
A sostegno del
ricorso la lavoratrice esponeva che aveva svolto l'attività lavorativa con piena
soddisfazione, sua e dei suoi superiori, fin dal giorno dell'assunzione in
servizio avvenuta nell'anno 1974, ma che, a partire dall'anno 1985, quando era
stato sostituito il capo del personale, aveva cominciato a subire un'opera di
boicottaggio, con irrogazione di sanzioni disciplinari e arresto della carriera,
poi culminata nel licenziamento, a causa del rifiuto che aveva opposto alle
insistenti attenzioni di natura extraprofessionale rivoltele dal suo
superiore.
Costituitasi in
giudizio, la società convenuta contestava la fondatezza della pretesa
avversaria, di cui chiedeva il rigetto.
Assunti il libero
interrogatorio della ricorrente e la prova testimoniale dedotta da entrambe le
parti, il Pretore, con sentenza dell'8 febbraio 1996, pur osservando che
dall'istruttoria espletata non erano emersi elementi di prova a sostegno delle
accuse mosse dalla lavoratrice al capo del personale, tuttavia rilevava che non
esisteva alcun giustificato motivo di recesso per difetto, in relazione al
comportamento posto in essere dalla medesima lavoratrice, dell'elemento
soggettivo - e, pertanto, - dichiarava l'illegittimità del licenziamento, con la
condanna della società Henkel a reintegrare la Filonardi nel posto di lavoro e a
corrispondere alla medesima cinque mensilità di retribuzione. Tutte le altre
domande venivano, invece, rigettate.
A seguito della
disposta reintegrazione nel posto di lavoro, la società Henkel intimava alla
lavoratrice un nuovo licenziamento, che veniva impugnato davanti al medesimo
Pretore di Frosinone con ricorso del 26 settembre
1996.
A conclusione di
questo secondo giudizio, nel quale la società convenuta si era costituita
contestando la fondatezza delle pretese fatte valere dalla ricorrente, il
Pretore, con sentenza del 19 giugno 1997, rigettava il
ricorso.
Entrambe le
sentenze venivano impugnate dalle parti, la prima con appello principale della
società Henkel e con appello incidentale della Filonardi, la seconda con appello
della sola Filonardi.
Riunite le due
cause, il Tribunale di Frosinone, con sentenza del 9 febbraio 1998 emanava le
seguenti decisioni: accoglieva il ricorso principale proposto dalla società
Henkel avverso la prima delle due sentenze, "restando assorbito il ricorso
incidentale" (che in realtà veniva rigettato) e "rigettava" il ricorso proposto
dalla Filonardi avverso la seconda sentenza (che in realtà veniva dichiarato
assorbito).
Il giudice di
appello, per quanto ancora interessa, osservava, in primo luogo, che la
Filonardi, dopo avere dato notizia delle accuse da lei mosse al capo del
personale (poi dedotte a contestazione dell'intimatole licenziamento) con una
lettera inviata alla S.p.A. Henkel Italia, capogruppo della datrice di lavoro
S.p.A. Henkel Sud, e dopo avere concorso con il proprio marito, sindacalista
della UIL, a darne diffusione a mezzo di un articolo pubblicato dalla stampa
cittadina, non aveva provato la fondatezza di tali accuse, alle quali non era
stata data specificità nelle lettere inviate alla società (di risposta alle
contestazioni mossele); e, in secondo luogo, che le suddette accuse erano state
smentite dall'istruttoria svolta dal primo giudice, dato che non era stata
dimostrata alcuna circostanza che attestasse la natura asseritamente
discriminatoria o persecutoria del comportamento tenuto dal capo ufficio. Il
Tribunale aggiungeva che, attesa la potenzialità denigratoria delle accuse, poi
risultate non veritiere, e pur tenuto conto della fragilità dello stato emotivo
della lavoratrice -non tale, peraltro, da limitarne la capacità di intendere e
di volere - tuttavia	 doveva ritenersi dimostrata la consapevolezza da
parte della Filonardi dell'effetto denigratorio insito nelle insinuazioni
formulate, con la conseguenza che risultava parimenti provato il comportamento
doloso o, quantomeno, gravemente colposo posto in essere dalla donna soprattutto
in considerazione della mancata prova della veridicità delle accuse), tale da
integrare gli estremi di un fatto illecito e da legittimare il recesso per
giusta causa per essere venuto meno l'elemento della
fiducia.
Avverso questa
sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Filonardi, che ha dedotto tre
distinti motivi.
Ha resistito con
controricorso la società Henkel, che ha proposto ricorso incidentale
condizionato, articolato in diversi motivi.
Entrambe le parti
hanno depositato memoria.
In primo luogo,
ai sensi dell'art. 335 c.p.c., va disposta la riunione dei ricorsi in quanto
proposti contro la stessa sentenza.
In secondo luogo,
prima di esaminare le singole censure contenute nei due ricorsi, occorre
brevemente soffermarsi su due distinte questioni, sulla prima delle quali
soprattutto i difensori delle parti hanno dissertato anche in sede di
discussione orale.
1. Non è dubbio
che al lavoratore deve essere riconosciuto nei confronti del proprio datore di
lavoro il diritto di critica, che può essere manifestato anche per mezzo di
articoli su quotidiani o di interviste apparse sulla stampa, quale espressione
del bene primario sancito dall'art. 21 della Costituzione. Come è stato più
volte affermato da questa Corte, infatti, il suddetto diritto, sempre ché sia
rispettata la verità dei fatti e siano poste in essere modalità e termini tali
da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro, deve essere sempre
garantito al prestatore d'opera subordinato, dovendo la critica, anche aspra,
essere posta in relazione alla libertà di manifestazione del pensiero tutelata
dalla Costituzione (v. fra le sentenze più recenti, Cass. 16 maggio 1998 n. 4952
e Cass. 22 agosto 1997 n. 7884).
Nel caso in
esame, peraltro, il richiamo di tali principi giurisprudenziali non è del tutto
pertinente.
Come è stato
esposto in narrativa, l'articolo giornalistico apparso su un quotidiano non è
stato sottoscritto dalla Filonardi né la giornalista che lo aveva redatto aveva
previamente affermato di avere intervistato la donna e di riportare, quindi, il
pensiero della medesima su comportamenti disdicevoli, posti in essere dalla
società datrice di lavoro nei confronti di terzi. Nell'articolo di stampa
viceversa, come è pacifico, è stato indicato, come fonte della notizia, un
comunicato della UIL a firma di un sindacalista (che poi è risultato essere il
marito della Filonardi) e sono stati riferiti non già fatti di carattere
generale, ma comportamenti intimidatori e discriminatori attuati dal capo
ufficio, per rancori personali, nei confronti della medesima Filonardi, la quale
sarebbe stata sottoposta ad una vera e propria opera di persecuzione, di
boicottaggio e di deprezzamento professionale,
Tenuto conto di
questi rilievi, contrariamente a quanto ritengono le parti, non è necessario,
nell'ambito del presente giudizio, disquisire sulla natura e sui limiti del
diritto di critica che compete al lavoratore, essendo una siffatta discussione
del tutto sterile in relazione all'oggetto della
controversia.
2. Nell'atto
introduttivo del primo dei due giudizi promossi dalla lavoratrice (quello di cui
si discute) aveva formato oggetto di specifica allegazione l'assunto secondo cui
la medesima era stata oggetto di molestie sessuali da parte del suo superiore
gerarchico, in conseguenza delle quali, atteso il rifiuto opposto dalla donna
alle altrui attenzioni, sarebbe derivato quel comportamento discriminatorio,
intimidatorio e persecutorio che avrebbe, a sua volta, emarginato la Filonardi,
causandole una sindrome depressiva (v., riguardo a quest'ultimo punto, le
argomentazioni svolte dalla difesa della ricorrente principale, soprattutto
nella memoria difensiva, nella quale è stato fatto riferimento a quel fenomeno
che dalla più recente letteratura specialistica è definito mobbing, con un termine, che indica
l'aggredire la sfera psichica altrui, mutuato dal linguaggio usato in altri
Paesi in cui il fenomeno stesso da tempo è oggetto di studi
particolari).
Ora non è dubbio
che le molestie sessuali, poste in essere dal datore di lavoro o dal suoi
stretti collaboratori nei confronti dei lavoratori soggetti al rispettivo potere
gerarchico, costituiscono uno dei comportamenti più detestabili fra quelli che
possono ledere la personalità morale e, come conseguenza l'integrità psicofisica
dei prestatori d'opera subordinati. Non per nulla da parte di questa Carte, in
una controversia in cui era stata dedotta da parte di una lavoratrice un
siffatto atteggiamento del datore di lavoro, è stato ritenuto che fosse sorta
nei confronti di quest'ultimo una vera e propria responsabilità contrattuale,
con conseguente devoluzione della controversia stessa al giudice del lavoro,
essendo stato sostenuto che l'obbligo previsto dalla disposizione contenuta
nell'art. 2087 c.c. "non è limitato al rispetto della legislazione tipica della
prevenzione, ma - come si evince da una interpretazione della norma in aderenza
a principi costituzionali e comunitari implica anche il divieto di qualsiasi
comportamento lesivo dell'integrità psicofisica dei dipendenti, qualunque ne
siano la natura e l'oggetto e, quindi, anche nel caso in cui siano posti in
essere atti integranti molestie sessuali nei confronti dei lavoratori (Cass. 17
luglio 1995 n. 7768, indicata nella memoria della ricorrente principale).
Pertanto, qualora da un siffatto comportamento derivi un pregiudizio per il
lavoratore, implicante la lesione del bene primario della salute o integrante
quel tipo di nocumento che dalla dottrina e dalla giurisprudenza viene definito
biologico, evidente è la responsabilità del datore di lavoro purché sia
accertata l'esistenza di un nesso causale fra il suddetto comportamento, doloso
o colposo, e il pregiudizio che ne deriva.
La prova degli
elementi essenziali della fattispecie indicata (esclusa ovviamente la
dimostrazione del dolo o della colpa, vertendosi in tema di responsabilità
contrattuale) deve peraltro essere fornita dal lavoratore. Di tal che, pur non
potendosi escludere che il reperimento delle varie fonti di prova possa
risultare particolarmente difficoltoso a causa di eventuali sacche di omertà,
sempre presenti, o per altre ragioni, tuttavia non è chi non veda che la mancata
acquisizione della prova in questione, riguardo alle cause che hanno determinato
la lesione dedotta ed agli effetti asseritamente derivati, impedisce al giudice
l'accoglimento della domanda.
Ciò è avvenuto
nel caso in esame, giacché la prova in questione, a fronte delle allegazioni che
erano state formulate dalla lavoratrice, è stata ritenuta carente dal giudice di
appello. Vero è che ora la Filonardi con il terzo motivo del ricorso per
cassazione (con il quale vengono dedotte la violazione e la falsa applicazione
degli artt. 2697 c.c. e 5 L. 15
luglio 1996, n. 604 e 414 c.p.c. e che deve essere preso immediatamente in
esame), sostiene che il Tribunale avrebbe errato nell'avallare il comportamento
del primo giudice - il quale, secondo quanto si afferma nel ricorso, aveva
ammesso solo una parte dei capitoli di prova che erano stati articolati
nell'atto introduttivo del giudizio e, altresì, aveva ridotto la lista dei
testimoni - ma è altrettanto vero che la ricorrente né indica che avverso la
decisione del Pretore era stato da essa proposta uno specifico mezzo di gravame
né precisa il contenuto dei capitoli di prova che non sarebbero stati ammessi
nel giudizio di primo grado. Sotto questo profilo, quindi, la censura, ora
formulata davanti a questa Corte, si rivela del tutto generica (e il motivo, per
conseguenza, deve essere disatteso), ove si consideri, oltre tutto, che il
Tribunale, su questo punto della causa, ha asserito - senza essere smentito
dalle argomentazioni svolte nel ricorso per cassazione - che nel giudizio di
appello dalla Filonardi era stato chiesto che fossero assunti "testimoni non
escussi dal Pretore soltanto a riprova dello stretto collegamento eziologico tra
la condotta umiliante e mortificante per la lavoratrice, prolungata negli anni e
culminata con il licenziamento, e la patologia riscontrata"; prova, codesta,
che, in carenza della dimostrazione dei fatti invocati dalla Filonardi per
giustificare il suo comportamento successivo (le accuse rivolte al suo capo
ufficio nella lettera di diffida e poi apparse nell'articolo giornalistico),
giustamente non è stata ammessa dal giudice di appello in quanto ritenuta, a sua
volta, generica e integrante una mera valutazione.
Pertanto,
nonostante la dovizia di argomenti - di altissimo pregio sotto il profilo
giuridico e, quindi, astrattamente condivisibili - svolti dalla meritevole
(nuova) difesa della Filonardi, la sentenza impugnata deve rimanere ferma,
essendo la motivazione che la sorregge, come fra breve si dirà, del tutto esente
da vizi logici (oltre che da errori di diritto).
3. Ciò premesso,
prendendo in esame le censure dedotte dalla ricorrente principale negli altri
due motivi dell'impugnazione, con il primo di tale motivi la Filonardi denuncia
la violazione e la applicazione degli artt. 7 L. 20 maggio 1970 n. 300 e 2119
c.c., oltre a vizi di. motivazione, in relazione all'art. 360, primo comma n. 3
e 5, c.p.c. e, nel lamentare che il Tribunale abbia ritenuto l'esistenza (e la
gravità) dei fatti che le erano stati contestati nel ricordare che tali fatti
erano stati individuati in una lettera diffida inviata alla società capogruppo
dal proprio legale e in un articolo apparso su un organo di stampa,
sostiene:
a) che le
espressioni usate dal legale nella suddetta missiva non contenevano accuse
diffamatorie nei confronti del capo ufficio, ma erano limitate a rappresentare
un comportamento persecutorio e ad ottenere la soluzione dei problemi lavorativi
esistenti;
b) che l'articolo
apparso sul giornale cittadino era frutto non già di una intervista rilasciata
da essa Filonardi, ma di una iniziativa personale del proprio marito,
sindacalista della UIL, il quale aveva agito in difforme avviso da essa
Filonardi, non iscritta al suddetto sindacato;
c) che la società
datrice di lavoro avrebbe dovuto, prima, accertare l'esistenza dei fatti
denunciati e poi appurarne (eventualmente) la non veridicità - adottare
possibili misure organizzative mediante spostamento di reparto o trasferimento
altrove della lavoratrice;
d) che le accuse
contenute nella lettera di diffida erano rivolte non già alla società datrice di
lavoro nel suo complesso, ma al capo del personale, che a quel tempo non aveva
la qualifica di dirigente;
e) che la
denuncia del comportamento vessatorio tenuto nei suoi confronti dal superiore
integrava il normale e legittimo esercizio di critica a prescindere dalla
veridicità dei fatti allegati;
f) che il
Tribunale, per conseguenza, avrebbe errato nell'affermare che essa Filonardi
aveva avuto piena consapevolezza dell'effetto denigratorio risultante dalla
lettera di diffida e, inoltre, nell'affermare che il licenziamento era da
ritenersi giustificato a causa della incompatibilità
ambientale.
Tutte queste
censure sono prive di fondamento.
3.1. In sede di
merito è stato accertato (ma ciò, oltre tutto, è pacifico in causa) che la c.d.
lettera di diffida era stata sottoscritta anche dalla Filonardi e non solo dal
di lei legale e da questa circostanza è stata tratta la conseguenza che la
lavoratrice non poteva pretendere di non vedersi addebitati gli effetti della
(poi ritenuta) natura diffamatoria dello scritto. Il Tribunale, inoltre, previo
apprezzamento del contenuto della lettera - apprezzamento che in quanto
riservato al giudice del merito, sfugge al sindacato di legittimità, essendo
stato congruamente motivato – ha appurato il carattere diffamatorio delle accuse
rivolte al capo ufficio, avendo la Filonardi attribuito a quest'ultimo, senza
poi offrire alcuna concreta dimostrazione del suo assunto, "rancori personali,
atteggiamenti vessatori e talora persecutori, determinanti uno stato di tensione
ed ansia continua", consistenti in una "continua opera di boicottaggio" e tali
da causare "ingiustificati deprezzamenti
professionali".
3.2. Il Tribunale
ha dato atto delle ragioni che lo hanno indotto a ritenere che la lavoratrice
avesse concorso alla divulgazione, mediante la pubblicazione dell'articolo
giornalistico, della vicenda che la riguardava. Nella sentenza impugnata è
stato, infatti, osservato:
1) che nonostante
che nell'articolo di giornale fosse stato sostenuto che la notizia era stata
appresa da un comunicato diramato dal sindacato UIL, tuttavia l'organizzazione
sindacale aveva smentito di avere assunto qualsiasi iniziativa in
proposito;
2) che il D. (il
sindacalista che aveva ispirato la pubblicazione della notizia) era il marito
della Filonardi;
3) che
nell'articolo giornalistico. erano state testualmente riportate intere
espressioni usate nella lettera di diffida inviata alla società, di cui si è
sopra parlato.
Trattasi, come si
vede, di una valutazione compiuta dal giudice di merito che, in quanto
congruamente motivata, si sottrae al sindacato di questa
Corte.
3.3. Il Tribunale
ha appurato - e su ciò non c'è censura - che la Filonardi non aveva aderito ai
numerosi inviti con i quali la società l'aveva sollecitata a precisare le accuse
contenute nella lettera di diffida e a "specificare tutte le circostanze di
tempo e di luogo".
3.4. Senza che
rilevi la mancanza della qualifica di dirigente per il capo del personale, le
accusa (poi non provate), divulgate a mezzo stampa e comunicate alla società
capogruppo, come il Tribunale ha accertato, ben potevano ledere, per la carica
che il diretto destinatario ricopriva all'interno della società datrice di
lavoro, l'immagine di quest'ultima
3.5. Richiamate
le argomentazioni svolte nel punto 2, va rilevato che dal contenuto delle
espressioni usate nella lettera di diffida e poi riportate nell'articolo di,
stampa - "atteggiamento vessatorio e talora persecutorio" posto in essere dal
capo ufficio "a causa di rancore …. determinante uno stato di tensione e di
ansia continua" ….. continua e subdola opera di boicottaggio essendo costretta a
ripetere incombenze già svolte" ….. sottoposizione a "ingiustificati e
indiscriminati deprezzamenti professionali" - il giudice del merito ha ricavato,
mediante l'esercizio del potere valutativo conferitogli dall'ordinamento, il
convincimento della loro idoneità a ledere il prestigio e il decoro del capo
ufficio (e, come si è detto, della stessa società datrice di lavoro). Ne deriva
che non può essere in questa sede sindacato il corollario che lo stesso giudice
di merito ha tratto da tale convincimento, e cioè che la mancanza di prova in
ordine alla fondatezza delle accuse - che incombeva su chi le aveva formulate -
aveva fatto venire meno, in modo irreparabile, l'elemento della
fiducia.
Pertanto, come
occorre sottolineare, anche su questo punto della causa è stata espressa da
parte del Tribunale una valutazione dei fatti che hanno dato origine alla
controversia, la quale, essendo stata sorretta da motivazione congrua e
coerente, non può essere sottoposta al sindacato di
legittimità.
3.6. Il
Tribunale, con motivazione del tutto esauriente, ha tratto il convincimento
della esistenza dell'elemento psicologico dagli elementi acquisiti alla causa e,
in particolare, dai fatti sopra evidenziati la sottoscrizione della lettera di
diffida da parte della medesima lavoratrice, la compartecipazione di
quest'ultima alla pubblicazione dell'articolo giornalistico). Per altro verso,
come è necessario aggiungere, il giudice di appello non ha affatto affermato che
si era determinata una incompatibilità ambientale, ma ha ravvisato nel
comportamento della lavoratrice un fatto di tale gravità da minare il rapporto
di fiducia esistente fra le parti.
Avuto riguardo a
tutti questi rilievi, non sussistendo i vizi denunciati con le censure sopra
indicate, la decisione impugnata deve restare ferma.
4. Passando
all'esame dell'ultimo motivo del ricorso principale (secondo in ordine
cronologico), la Filonardi deduce la violazione e la falsa applicazione
dell'art. 2119 c.c., oltre a vizi di motivazione, in relazione all'art. 360,
primo comma n. 3 e 5, c.p.c. e lamenta che il Tribunale, dalla accertata
esistenza di uno stato di psicosi reattiva che l'aveva colpita a causa del
comportamento vessatorio posto in essere dal capo ufficio, non abbia tratto
elementi per ritenere che vi fosse la possibilità di una diversa sanzione, di
tipo conservativo e non espulsivo.
Anche
quest'ultimo motivo è infondato.
4.1. Il Tribunale
ha preso in considerazione anche questo aspetto della fattispecie esaminata ed
ha affermato che "la consapevolezza dell'effetto denigratorio della lettera di
diffida e della pubblicazione della stessa sul quotidiano appare evidente e
lucidamente e pertinacemente coltivata dalla ricorrente", la quale "nelle due
lettere di chiarimento lealmente sollecitate dall'azienda, non aveva esplicitato
i fatti dei quali si sarebbe macchiato il capo ufficio". Lo stesso Tribunale,
inoltre, in base agli elementi raccolti dal primo giudice, ha aggiunto che "tale
pertinace e denigratoria insistenza accusatoria" non era stata sminuita dallo
stato psicologico in cui verteva la Filonardi, dal momento che dalle risultanze
probatorie era risultato uno stato emotivo e non una malattia limitante la
capacità di intendere e volere.
Come si vede,
anche su questo aspetto della controversia è stata espressa da parte del giudice
di merito una valutazione che, essendo stata congruamente motivata, ora si
sottrae al sindacato di questa Corte.
V. Ciò posto,
passando ad esaminare il ricorso incidentale condizionato proposto dalla società
Henkel, a rilevato che tale ricorso verte, in primo luogo, su questioni sulle
quali il giudice di appello ha emanato decisioni favorevoli alla società. Il
Tribunale, infatti. ha confermato la pronuncia di rigetto, resa dal Pretore,
delle domande della Filonardi aventi per oggetto il risarcimento del danno
biologico e il riconoscimento di una superiore
qualifica.
Tenuto conto di questi rilievi, non si vede per quale ragione la società Henkel con il ricorso incidentale ora prospetti (ancorché in via condizionata) censure relative a tali questioni, che, non avendo formato oggetto di impugnazione da parte della Filonardi - che unica ne aveva interesse, attesa la sua totale soccombenza - sono ormai del tutto estranee a questo giudizio di legittimità. Le censure in questione, per conseguenza, debbono essere dichiarate inammissibili e identica pronuncia deve essere emessa sulla doglianza, del tutto generica, con la quale si deduce la mancanza di specificità di un motivo di appello a suo tempo formulato dalla Filonardi (quello avverso la decisione con la quale il primo giudice aveva ritenuto la veridicità dei fatti divulgati): poiché nel ricorso incidentale non è riportato il passo del suddetto atto di appello - che ora viene, a sua volta, definito generico - la Corte non è in grado di valutare la fondatezza della censura.
Infine, la
dichiarazione di inammissibilità deve pure riguardare quel motivo del ricorso
incidentale che investe un'ulteriore pronuncia emessa dal giudice di secondo
grado. Va al riguardo osservato che la decisione di "rigetto" dell'appello della
Filonardi, emanata dal Tribunale con riferimento alla pronuncia del primo
giudice inerente al secondo licenziamento (v. quanto è stato esposto in
narrativa) deve essere estesa, avendone la sostanza - per essere mancata
qualsiasi disamina del merito dell'impugnazione proposta dalla lavoratrice, in
considerazione della conclusione data alla vicenda relativa al primo
licenziamento - come una vera e propria pronuncia di assorbimento; con la
conseguenza che una siffatta pronuncia, come questa Corte ha più volte affermato
(v., da ultimo, Cass. 15 settembre 1996 n. 9175), non poteva indurre la società
Henkel a proporre un ricorso incidentale (sebbene
condizionato).
A conclusione di
tutte le argomentazioni che precedono deve essere rigettato il ricorso proposto
dalla Filonardi e deve essere dichiarato inammissibile il ricorso incidentale
condizionato della società Henkel.
Tenuto conto di
tutte le pronunce emesse e della reciproca soccombenza (art. 92, secondo comma,
c.p.c.), giusti motivi sussistono per compensare interamente fra le due parti le
spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte riunisce
i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso
incidentale. Compensa fra le parti le spese del giudizio di
Cassazione.
Depositata in
cancelleria l'8 gennaio 2000.
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