Mobbing e danno esistenziale (*)
 
Sommario: 1. Premessa. — 2. Una nuova categoria di danno. — 3. Danno morale, danno psichico e danno esistenziale. — 4. La tutela da inadempimento si distacca dalla tutela aquiliana. — 5. Verso la tutela del danno non patrimoniale da inadempimento. — 6. La prova del danno non patrimoniale da inadempimento.
 
1. Premessa. — L’elenco dei danni che i comportamenti di mobbing possono causare si ricava dalla stessa definizione che del fenomeno ha dato la migliore dottrina: «situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui il lavoratore è fatto oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche ad invalidità psicofisiche permanenti di vario genere» (1).
I comportamenti mobbizzanti si concretizzano nel privare il lavoratore della possibilità di esprimersi in azienda isolandolo dai colleghi e dagli altri contatti sociali, nello screditarlo ridicolizzandolo o calunniandolo, nel pregiudicare la sua situazione professionale, ad esempio demansionandolo o non assegnandogli lavoro, nel compromettere la sua salute con incarichi usuranti, orari intollerabili, ecc. (2).
Da tali comportamenti possono derivare danni patrimoniali, danni all’integrità psicofisica e, assai di frequente, danni alla personalità del lavoratore. La progressiva perdita di autostima ed il progressivo isolamento sono, infatti, idonei a condizionare pesantemente la vita, non solo lavorativa, ma anche personale e familiare della vittima (c.d. doppio mobbing).
 
2. Una nuova categoria di danno. — La dottrina e la giurisprudenza hanno, dunque, constatato l’inadeguatezza delle tradizionali categorie del danno patrimoniale, morale e biologico rispetto all’esigenza di assicurare l’integrale risarcimento alla persona del lavoratore mobbizzato. In particolare, si è rilevato come in molti casi il danno subito dal lavoratore mobbizzato non fosse inquadrabile nella categoria del danno patrimoniale, in difetto di decremento reddituale, né nella categoria del danno biologico, quante volte non fosse riscontrabile una lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore medicalmente accertabile. È così che il settore dei rapporti di lavoro ha rappresentato un terreno fertile per l’emersione di una nuova voce di danno non patrimoniale, sganciata tanto dalla lesione psico­fisica quanto dal reato e consistente nel pregiudizio arrecato dall’illecito datoriale alla possibilità del lavoratore di realizzarsi come persona nell’ambiente di lavoro e, conseguentemente, nella vita sociale e familiare. Si può, infatti, parlare di una forte valenza esistenziale del contratto di lavoro, con ciò intendendosi come allo scambio delle prestazioni si accompagni il diretto coinvolgimento del lavoratore come persona e l’esposizione del dipendente a rischi che possono riguardarne l’incolumità fisica e la personalità morale. Il danno esistenziale nasce, dunque, sulla base della constatazione che il lavoratore può subire pregiudizi di natura non economica anche in assenza di lesioni all’integrità psicofisica. Per danno esistenziale intendiamo, infatti, ogni conseguenza lesiva che l’illecito datoriale abbia provocato sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per esprimere e realizzare la sua personalità nel mondo esterno. Il danno esistenziale (3) si sostanzia, in altre parole:
a) nel non poter più fare o poter fare in modo limitato le attività che si svolgevano prima, specie le attività extraeconomiche: pellegrinaggi, jogging, visite ai musei, frequentazione di palestre, volontariato, tornei di bridge, partecipazione al coro parrocchiale, viaggi, giardinaggio, raduni patriottici, raccolte di funghi nei boschi, bocce, mercatini dell’usato, esercizi spirituali, discoteche, collezionismo, erboristeria, shopping, e così via (4); l’individuo danneggiato non è più quello di prima: ha attacchi di collera in famiglia e con gli amici, prova un senso di malessere che gli impone di ripensare i propri spazi e di modificare le proprie abitudini, perde la fantasia, accantona gli hobbies;
b) nel doversi dedicare ad attività gravose come cure mediche, ricerca di un nuovo lavoro, terapie, ecc.; 
c) nel procurare un peggioramento della qualità di vita ai propri familiari; la vita familiare viene sconvolta. 
In caso di licenziamento ingiurioso, la lesione della dignità del lavoratore e la perdita della fonte di guadagno non possono essere ristorate esclusivamente mediante il recupero della retribuzione: non verrebbe, in tal caso, ristorato il pregiudizio derivante dall’aver dovuto rinunciare alle vacanze, all’acquisto di una nuova automobile, a visitare una mostra, ad uscire con gli amici. Il fatto che l’attività compromessa sia quella lavorativa, che è fonte di reddito, infatti, non toglie che alla perdita patrimoniale si accompagnino ulteriori profili pregiudizievoli di carattere extraeconomico come, ad esempio, la lesione dell’onore e della dignità del lavoratore, oppure la semplice impossibilità di realizzarsi nel lavoro, oppure l’impossibilità di affrontare in modo adeguato la vita di tutti i giorni.
L’illecito è destinato a far soffrire, per un verso, a far spendere denaro, per l’altro, ma soprattutto è tale da imporre al danneggiato nuove realtà di fondo, differenti modalità organizzative. Notti in bianco, sacrifici, rinunce, abnegazioni diffuse, claustralità, weekend perduti, appiattimenti, restringersi di orizzonti, esìli più o meno definitivi (5). Sul piano probatorio, il danno esistenziale si differenzia nettamente dal danno biologico: mentre quest’ultimo non può prescindere dall’accertamento medicolegale, il primo invece può essere accertato mediante la prova testimoniale, documentale e presuntiva, che introduca nel processo la dimostrazione dei concreti cambiamenti che l’illecito ha comportato, in senso peggiorativo ovviamente, nella qualità di vita del danneggiato.
Per tale motivo va anche aggiunto che danno biologico e danno esistenziale possono coesistere quali distinte conseguenze pregiudizievoli del medesimo illecito. Nella nuova categoria del danno esistenziale, peraltro, confluiscono componenti per così dire «spurie» di danno a volte ricondotte nel concetto di danno biologico in senso dinamico ma che nulla hanno a che fare con la lesione dell’integrità psicofisica: da qui nasce spesso l’equivoco che vuole inglobare nel danno biologico i pregiudizi di natura esistenziale. Tale sostanziale differenza è più evidente nei casi in cui il danneggiato non sia stato offeso nel diritto alla salute, eppure abbia subito ingiustificate restrizioni in ambiti di attività non reddituali in cui si esplica la sua personalità: molte ipotesi di mobbing non determinano, ad esempio, lesioni all’integrità psico­fisica del lavoratore medicalmente accertabile.
Ne consegue, in ogni caso, la necessità di evitare una sovrapposizione, a livello concettuale, del danno alla salute e del danno esistenziale. Se, d’altro canto, si affermasse che in presenza di una lesione dell’integrità psicofisica i noti criteri tabellari di liquidazione del danno biologico tengono già conto del peggioramento della qualità di vita del leso, in tutte le sue possibili variabili, dovrebbe trarsi la conclusione che non vi è spazio, in queste ipotesi, per il risarcimento del danno esistenziale, che risulterebbe la pretesa duplicazione di un ristoro già riconosciuto con la liquidazione del danno alla salute.
Ma, se si condivide l’assunto per cui con la «scoperta» del danno esistenziale si sono messe in luce zone grigie del danno alla persona, non riconducibili nelle note categorie del danno patrimoniale, morale e biologico, se ne deve anche ribadire l’autonomia concettuale rispetto a dette categorie, individuando il criterio qualitativo che distingue una categoria rispetto all’altra. Chi afferma che può configurarsi danno esistenziale senza danno biologico, dà per scontato che danno esistenziale e danno biologico possano coesistere quali conseguenze del medesimo illecito. Ma per coesistere senza annullarsi l’una nell’altra, tali nozioni devono differenziarsi tra loro.
Ebbene, dall’osservazione dei casi pratici nei quali è stato riconosciuto il risarcimento del danno esistenziale (case non abitabili, compromissione dei rapporti familiari, danno ambientale, danno al nascituro, demansionamento, estromissione da un concorso, impossibilità a procreare, mancata somministrazione dei mezzi di sussistenza, mancata videoripresa nuziale, mobbing, molestie, nascita indesiderata, rapporti di vicinato, trasfusioni di sangue, vacanza rovinata, violenza sessuale), emergono due dati comuni alla maggior parte delle fattispecie esaminate, ossia:
a) il danno concerne la delusione di un progetto, parziale o totale, ben determinato e proprio del singolo danneggiato; b) il danno concerne attività che, per loro natura, si sarebbero svolte tendenzialmente in un periodo limitato nel tempo.
Tali dati sono, invero, estranei alla categoria del danno alla salute che, pur tendendo a ristorare la menomata capacità dell’individuo di svolgere le svariate attività dell’esistenza nel loro aspetto non reddituale, si riporta ad un modello astratto di esistenza, per così dire, valido per chiunque in quanto comune a tutti gli individui. Trattandosi, peraltro, di danno che, nella componente «invalidità», viene ad incidere in modo permanente sulla vita del leso, concerne logicamente ed astrattamente le attività che il leso avrebbe potuto compiere per tutto l’arco della vita (ad esempio: camminare, leggere, ascoltare, ecc.).
Vi è, dunque, la necessità di accertare, a fronte della domanda congiunta di risarcimento del danno alla salute e del danno esistenziale, se il leso abbia fornito la prova che una determinata lesione della propria integrità psicofisica gli abbia precluso in concreto la possibilità di svolgere, in un determinato momento della sua vita, una particolare attività areddituale, da considerare distintiva della sua qualità di vita rispetto a quella della generalità degli individui. Nella perdita di tale possibilità sarà, quindi, individuabile il danno esistenziale quale voce autonoma ed ulteriore rispetto al danno alla salute.
 
3. Danno morale, danno psichico e danno esistenziale. — Il comportamento mobbizzante rappresenta per il danneggiato un evento traumatico e doloroso. Da tale evento possono derivare sofferenze morali, danni psichici e danni esistenziali. La differenza tra danno morale e danno esistenziale si sostanzia nel fatto che, mentre il danno morale è sofferenza, malinconia, lamenti notturni, cuscini bagnati di lacrime, il danno esistenziale è come una sequenza di dinamismi alterati, un diverso fare e dover fare (o non poter più fare), un altro modo di rapportarsi al mondo esterno — città e dintorni, quartiere, condominio, trasporti, servizi, luoghi del tempo libero (6). Il semplice disagio psicologico, non connotato da patologia, rientra nel danno morale.
Nella teorica del danno esistenziale si sostiene che si ha danno esistenziale quante volte l’illecito abbia provocato, quale degenerazione della sofferenza, conseguenze pregiudizievoli sulle attività realizzatrici della persona senza tradursi in una patologia accertabile medicalmente. Sia il danno psichico che il danno esistenziale verrebbero, quindi, ricondotti nell’ambito della tutela da responsabilità civile ma solo il primo sarebbe suscettibile di accertamento medico-legale.
Tale impostazione sembra affermare l’alternatività tra danno esistenziale e danno psichico, come se l’accertamento del danno psichico escludesse la configurabilità del danno esistenziale.
A mio avviso simile asserzione è esatta solo in parte. Condivido l’idea che il progetto di vita di un individuo, pur sano di mente, possa essere sconvolto da un evento traumatico e che, dunque, possa verificarsi un danno esistenziale ancorché non sia subentrata alcuna malattia psichica.
Non è, però, vero il contrario, ossia che una volta accertato il danno psichico, quindi il danno biologico da lesione dell’integrità psichica, ogni alterazione della qualità della vita del leso venga in esso riassorbita. Se un comportamento illecito ha provocato nel leso un disturbo post­traumatico da stress e tale disturbo si protrae oltre un anno dopo l’evento, si ritiene che il dolore, degenerato per incapacità di elaborazione del fatto, si sia trasformato in disturbo patologico o permanente.
Tale disturbo patologico si sostanzia in un’alterazione della psiche medicalmente accertabile, cioè verificabile a livello medico-legale da uno specialista psichiatra o neurologo. Il giudice, a fronte di una consulenza tecnica di parte che denunci la presenza di un danno psichico, ovvero a seguito di una prova testimoniale che abbia dimostrato un’alterazione comportamentale della vittima (diverso modo di rapportarsi nelle relazioni umane, rituali ossessivi, paure, ecc.), dovrà rivolgersi al consulente tecnico d’ufficio, psichiatra o neurologo, per verificare se ci si trovi o meno in presenza di una vera e propria patologia psichica. I disturbi psichici, se ritenuti sintomi di una patologia psichiatrica, costituiscono la prova della sussistenza di un danno biologico permanente o temporaneo.
L’impedimento a svolgere le attività della vita quotidiana è considerata la caratteristica saliente della malattia psichica che, per tale sua caratteristica, si distingue facilmente dal danno morale ma si confonde con il danno esistenziale. Dal danno morale si distingue perché questo è afflizione che può disturbare la vita quotidiana senza tuttavia impedirla, mentre con il danno esistenziale si confonde perché in entrambi i casi si constata l’incidenza dell’evento lesivo sul comportamento, sull’agire, del danneggiato.
Il giudizio di causalità medica va, però, tenuto distinto dal rapporto di causalità giuridica, pur sempre legato al disposto dell’art. 1223 c.c. («Il risarcimento del danno causato dall’illecito deve comprendere così la perdita subita come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta»). Occorre, quindi, abbandonare il cammino delle relazioni causa-effetto che lega l’evento traumatico al dolore, quindi il dolore al danno psichico, quindi il danno psichico all’impedimento a svolgere le attività quotidiane, e stabilire se vi sia un diretto rapporto di causalità tra evento dannoso e danno esistenziale. Il danneggiato dovrà, ad esempio, dimostrare in concreto quale attività meritevole di tutela la condotta mobbizzante gli impedisca in concreto, oggi, di svolgere, il che è cosa diversa dal presumere che un danno psichico possa incidere sul vivere quotidiano del soggetto. Non potrebbe riconoscersi il diritto al risarcimento del danno esistenziale ove si accertasse che lo sconvolgimento della serenità familiare sia conseguenza della patologia psichica riportata dal lavoratore, dunque conseguenza indiretta dell’illecito, piuttosto che effetto immediato delle condotte vessatorie del datore di lavoro. La differenza che corre tra danno biologico da menomazione dell’integrità psichica e danno esistenziale passa, dunque, a mio avviso, per il generico riferimento alle attività del vivere quotidiano comuni a tutti, proprio del danno biologico, e la specifica delusione di un’aspettativa, la frustrazione dell’interesse a svolgere una o più determinate attività connotanti il progetto di vita di quel soggetto rispetto alla generalità degli individui in quanto espressione della sua personalità unica ed irripetibile, che sono invece caratteristica del danno esistenziale.
 
4. La tutela da inadempimento si distacca dalla tutela aquiliana. — L’espressa previsione normativa dell’obbligazione del datore di lavoro di preservare la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.) ha agevolato notevolmente l’opera degli interpreti, che in questo settore non hanno avvertito come in altri settori della responsabilità contrattuale l’esigenza di ricorrere alla costruzione giurisprudenziale del concorso tra azione da inadempimento ed azione aquiliana al fine di riconoscere l’integrale risarcimento del danno subito dal lavoratore.
La norma del codice civile trova, poi, un preciso riscontro costituzionale tanto nell’art. 2, essendo l’ambiente di lavoro una delle formazioni in cui l’individuo svolge la sua personalità, quanto nell’art. 35, che assicura una forte tutela dei diritti del lavoratore.
Perché, dunque, la tutela aquiliana dovrebbe considerarsi il passaggio indispensabile per assicurare al lavoratore insoddisfatto il risarcimento del danno non patrimoniale? Il raffronto con le esperienze di altri paesi ci dice che i danni non patrimoniali sono risarcibili alle stesse condizioni di quelli patrimoniali. Nel nostro ordinamento si è, invece, fatto ricorso all’art. 2059 c.c., sebbene la norma non sia direttamente applicabile in caso d’inadempimento, integrando la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale da inadempimento con i limiti previsti in ambito extracontrattuale. Ma oggi, che la nuova interpretazione dell’art. 2059 c.c. (7) ha di fatto abbattuto ogni ragionevole ostacolo alla risarcibilità del danno non patrimoniale inteso in senso lato, s’impone una rimeditazione di tale orientamento, anche per risolvere il problema della qualificazione della domanda e della direzione dell’istruttoria da parte del giudice. Con la precisazione che il danno non patrimoniale non discende necessariamente dalla lesione di un interesse non patrimoniale, ben potendo l’inadempimento ledere un interesse patrimoniale che abbia come conseguenza una perdita insuscettibile di valutazione economica nel patrimonio personale del creditore. È ben possibile che reclamino il risarcimento del danno non patrimoniale coloro che hanno perduto la casa di abitazione per l’inesatta esecuzione di un contratto di appalto, o coloro che hanno ricevuto in locazione un appartamento che non viene mantenuto in buono stato locativo, coloro che hanno riportato il contagio da epatite o da HIV in seguito ad emotrasfusione infetta, per non parlare delle numerose richieste risarcitorie del danno esistenziale avanzate dai lavoratori mobbizzati od illegittimamente licenziati. L’attuale sistema del codice civile prevede una distinta regolamentazione dell’illecito contrattuale ed extracontrattuale, anche se l’art. 2056 c.c. rende comuni ai due tipi d’illecito una serie di disposizioni. La disciplina diverge nel rilievo attribuito all’elemento soggettivo, in quanto solo nella responsabilità contrattuale la distinzione tra dolo e colpa rileva ai fini del risarcimento. In caso di colpa sarà, infatti, risarcibile il solo danno prevedibile al momento dell’accordo. Tale divergenza perde, tuttavia, consistenza se si evidenzia come anche per l’illecito extracontrattuale il danno imprevedibile, inteso come evento dannoso, può non essere causalmente collegato alla condotta ovvero può rimanere estraneo alla colpa di chi ha causato il danno.
Divergente è anche il regime dell’onere probatorio, di cui dirò in seguito. La visione prettamente patrimonialistica che ha connotato sin dalle origini il sistema contrattuale, rispetto al sistema della responsabilità aquiliana, ha quindi fatto sì che, ove più pressante si rivelasse l’esigenza di tutela di valori della persona, venisse a configurarsi come necessario il concorso tra l’azione risarcitoria da inadempimento e l’azione aquiliana, con inevitabili sovrapposizioni e contaminazioni sul piano procedurale. Ma, confrontando la disciplina dell’illecito aquiliano e quella dell’inadempimento contrattuale, l’assenza in questo secondo settore di una norma come l’art. 2059 c.c. non può a mio avviso considerarsi un indice dell’intento del legislatore di negare al creditore insoddisfatto il risarcimento del danno non patrimoniale. Va, infatti, ricordato che, prima delle pronunce della Cassazione del maggio 2003 e della Corte costituzionale del luglio 2003, la norma dell’art. 2059 c.c. non poteva che considerarsi un limite, presente nella disciplina dell’illecito aquiliano ma assente in quella dell’illecito contrattuale, alla risarcibilità del danno non patrimoniale. La norma, restringendo il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale alle fattispecie di reato ed agli altri casi previsti dalla legge, interpretata per tale motivo in chiave sanzionatoria degli illeciti più gravi, doveva considerarsi nient’altro che un freno, non presente nel settore dell’illecito contrattuale, alla risarcibilità del danno non patrimoniale. Le citate pronunce della Cassazione consentono, oggi, di leggere l’art. 2043 c.c. come clausola generale che definisce l’illecito extracontrattuale.
Analogamente, in materia d’inadempimento, la clausola generale dell’art. 1453 c.c., laddove riconosce al contraente non inadempiente, in aggiunta all’azione di adempimento e di risoluzione del contratto, il diritto al risarcimento del danno subito quale conseguenza dell’altrui inadempimento, non specifica che si debba trattare di danno patrimoniale, consentendo, con riferimento a quei contratti nei quali la lesione dell’interesse del creditore provochi danni nella sua sfera non patrimoniale, di riconoscere il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale se ed in quanto al mancato appagamento dell’interesse alla prestazione si siano sovrapposti: il peggioramento della sua condizione esistenziale, ovvero la sofferenza morale, ovvero la lesione dell’integrità psicofisica e, più in generale, il deterioramento della sfera areddituale del medesimo rispetto alla situazione prefigurabile al momento della conclusione del contratto. Si tratta, in sostanza, della lesione d’interessi di natura esistenziale che hanno spinto il contraente all’accordo negoziale ma che, al contempo, trascendono e si affiancano alla causa tipica del contratto. Una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 1453 c.c. consente, in altre parole, di aprire la strada al risarcimento del danno morale del lavoratore, dell’acquirente, del paziente indipendentemente dal fatto che tali soggetti siano stati vittime di reato. Più in generale, potrebbe dirsi che il percorso intrapreso dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Consulta consentirà di sostenere che il contraente danneggiato dall’inadempimento possa rinvenire nella disciplina dettata dall’art. 1453 c.c. la fonte della tutela risarcitoria per ogni genere di danno che abbia subito, indipendentemente dal fatto che si tratti di danno patrimoniale o non patrimoniale, e purché di tale danno venga fornita la prova.
 
5. Verso la tutela del danno non patrimoniale da inadempimento. — La maggiore attenzione volta dalla più recente giurisprudenza (Cass. Sez. Un. 22 luglio 1999, n. 500) e dalla dottrina all’evento dannoso in relazione all’offesa dell’interesse sostanziale tutelato dall’ordinamento giuridico; l’orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte, che già nel 2001 affermava che «La lettura conforme alla Costituzione delle norme che disciplinano la responsabilità civile impone di interpretarle nel senso che, in caso di lesione di un diritto fondamentale della persona, il rimedio del risarcimento del danno non possa essere negato per il fatto che il pregiudizio sofferto non sia di natura patrimoniale, e ciò in via generale e non alla stregua della circoscritta previsione dell’art. 2059 c.c.». (Cass. 3 luglio 2001, n. 9009); la sottolineatura, infine, della non necessaria patri­monialità dell’interesse leso dall’inadempimento (art. 1174 c.c.), suggeriscono oggi di dare maggiore corpo all’idea che la tutela risarcitoria per i danni non patrimoniali derivanti dall’inadempimento possa rinvenire la propria integrale disciplina nella materia contrattuale. Si tratta, dunque, di una disciplina in sé compiuta, che non può ammettere deroghe al principio di integrale ristoro della perdita subita dal danneggiato.
Tale interpretazione trova conforto anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia europea (Corte di Giustizia Ue sezione VI 12 marzo 2002, n. c168/00), che ha riconosciuto al consumatore il diritto al risarcimento del danno morale deri­vante dall’inadempimento o dalla cattiva esecuzione delle prestazioni fornite in occasione di un viaggio «tutto compreso», facendo leva sul tenore dell’art. 5 della direttiva comunitaria n. 90/314/Ce, riguardante le vacanze ed i circuiti «tutto compreso», che riconosce il diritto del viaggiatore al risarcimento del danno tout court, senza ulteriori specificazioni. La Corte ha, in proposito, osservato che, nell’ambito dei viaggi turistici, il risarcimento del danno per il mancato godimento della vacanza ha per i consumatori un’importanza particolare per cui, essendo prevista la facoltà per gli Stati membri di regolare i criteri ai quali i contraenti si dovranno attenere nella disciplina del risarcimento dei danni diversi da quelli corporali, la direttiva riconosce implicitamente l’esistenza di un diritto al risarcimento dei danni diversi da quelli corporali, tra cui il danno morale. L’inadempimento può, come già detto, incidere negativamente su talune attività realizzatrici della persona del creditore in aggiunta alla frustrazione del diritto ad ottenere le utilità patrimoniali connesse alla prestazione promessa.
Un settore nel quale si rinvengono interessanti spunti a sostegno di quanto ho sinora detto è, appunto, quello dei rapporti di lavoro. E non è un caso.
La Suprema Corte , con la sentenza 4 maggio 2004, n. 8438, ha riconosciuto al lavoratore mobbizzato il di­ritto al risarcimento del danno per «violazione — da parte del datore di lavoro — di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto d’impiego [...] Si tratta di atti di gestione del rapporto di lavoro che trovano un diretto referente normativo nella disciplina della regolamentazione del rapporto e ricevono da questa la loro sanzione di illiceità. La fattispecie di responsabilità va così ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali stabiliti da tali norme, indipendentemente dalla natura dei danni subiti dei quali si chiede il ristoro e dai riflessi su situazioni soggettive (quale il diritto alla salute) che trovano la loro tutela specifica nell’ambito del rapporto obbligatorio». Dicevo che non è un caso che la tutela del danno non patrimoniale da inadempimento venga con tanta chiarezza affermata nell’ambito dei rapporti di lavoro. Oltre a trattarsi, come si è detto, di contratti a forte valenza esistenziale, nel codice civile vi è l’art. 2087, che prevede la responsabilità contrattuale del datore di lavoro anche in relazione alla lesione della personalità morale del lavoratore.
Tale norma, data l’ampiezza della locuzione, è una chiara valvola di accesso alla tutela di tutti i danni non patrimoniali, siano essi danni da lesione dell’integrità psichica, danni morali soggettivi e danni da compromissione della personalità del lavoratore. Il giudice non è, in altre parole, tenuto a verificare se l’interesse leso dalla condotta datoriale sia meritevole di tutela in quanto protetto a livello costituzionale perché la tutela è già chiaramente accordata da una norma del codice civile. Ma, a mio avviso, nella materia dei contratti la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale non passa per la necessaria valutazione del rilievo costituzionale dell’interesse leso: in ambito contrattuale, è la stessa esigenza di tutela della libertà di espressione dell’autonomia privata, ossia la mera circostanza che l’interesse leso sia stato la causa giustificatrice del sorgere di un valido rapporto obbligatorio, a giustificare l’integrale tutela del danneggiato. L’ingiustizia del danno, intesa quale lesione di un interesse sostanziale che legittima la tutela risarcitoria, troverebbe in sostanza immediato riscontro nella lesione dell’interesse del creditore già filtrato dalla tipicità contrattuale ovvero dal giudizio di meritevolezza ex art. 1322, co. 2, c.c.
Tale idea trova il suo fondamento nella preesistenza al danno dell’impegno pattiziamente assunto dal responsabile nei confronti del danneggiato e negli obblighi accessori finalizzati alla corretta e compiuta esecuzione del contratto. L’emergere di questa nuova prospettiva, volta ad attribuire rilevanza alla lesione di interessi relazionali del contraente in aggiunta all’interesse prettamente patrimoniale sotteso al contratto, mi induce dunque a suggerire di ravvisare detto criterio selettivo dell’interesse rilevante per l’ordinamento nei medesimi strumenti dei quali l’interprete si avvale per formulare il giudizio sulla validità o nullità del contratto in relazione all’elemento essenziale della causa negoziale.
 
6. La prova del danno non patrimoniale da inadempimento. — La peculiare disciplina del risarcimento del danno da inadempimento contrattuale impone al danneggiato un ben preciso assetto tattico sul piano probatorio.
In primo luogo, l’onere probatorio inerente alla responsabilità del debitore si sposta, rispetto all’illecito extracontrattuale, dalla vittima all’autore del danno, che dovrà dimostrare l’assenza di propria colpa. Ciò significa che il datore di lavoro sarà tenuto a dimostrare di aver rispettato le norme cautelari che regolano la sua posizione di garanzia e gli obblighi di diligenza. Spetterà, invece, al lavoratore fornire la prova del danno non patrimoniale quale conseguenza concreta della lesione, proiettatasi sulla quotidianità del danneggiato.
Se per ottenere l’adempimento o la risoluzione del contratto è sufficiente che il creditore fornisca la prova dell’accordo negoziale ed alleghi l’inadempimento, tanto non basta perché quello stesso creditore ottenga il risarcimento del danno. Una cosa è il mancato perseguimento delle utilità, anche esistenziali, alle quali il contratto tendeva, un’altra cosa è la diminuzione o la privazione, causate dall’inadempimento, di utilità esistenziali collegate all’esecuzione del contratto.
Ricordando che il danno è perdita, nel primo caso si parlerà semplicemente d’inadempimento, nel secondo di danno risarcibile.
Ecco che allora la tutela risolutoria e restitutoria potranno accordarsi sulla base della prova del contratto e della deduzione dell’inadempimento, mentre la tutela risarcitoria necessiterà di un’ulteriore prova.
Per esemplificare, il lavoratore subordinato illegittimamente trasferito dalla sede di lavoro dovrà provare che l’illecito datoriale ha seriamente sconvolto la sua organizzazione di vita.
Il lavoratore che ha subito un demansionamento, oltre a non poter svolgere la prestazione lavorativa nei termini contrattualmente stabiliti, dovrà provare come sia stato frustrato l’interesse non patrimoniale alla realizzazione della sua personalità nell’ambiente di lavoro. È anche frequente che la prova del danno non patrimoniale possa essere raggiunta per presunzioni ed, anzi, ritengo che per i danni non patrimo­niali l’attenzione del creditore danneggiato dovrà prevalentemente rivolgersi a dimostrare i fatti e le circostanze che diano conto della gravità del danno ai fini della liquidazione equitativa del risarcimento. Va, però, rimarcato che il limite della prevedibilità del danno risarcibile previsto in materia contrattuale dall’art. 1225 c.c. costituisce, specie con riguardo ai danni non patrimoniali, un pesante freno al riconoscimento della tutela risarcitoria da inadempimento contrattuale ed il relativo onere probatorio non potrà che gravare sul creditore insoddisfatto. Nel settore del mobbing tale limite sarà, peraltro verso, difficilmente applicabile, data la matrice dolosa dell’illecito. Il danneggiato sul quale incombe tale onere probatorio sarà, inoltre, agevolato dal fatto che una ripercussione esistenziale dell’inadempimento che si consideri prevedibile è al contempo evento dannoso suscettibile di prova presuntiva senza ulteriore necessità d’istruttoria.
 
Eugenia Serrao (magistrato)
(pubblicata in MGL 1-2/2005, p.14  e ss.)
 
(*) Relazione tenuta al Convegno di studio ed alta formazione organizzato dall’Università di Roma « La Sapienza », Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica dal titolo, Progetto antimobbing: monitoraggio, trattamento, risarcimento, prevenzione, svoltosi a Roma il 7 e 8 ottobre 2004.
 
(1) H. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing, Milano 2002, 39.
(2) S. BANCHETTI, Il mobbing, in Trattato breve dei nuovi danni, P. Cendon (a cura di), Padova 2001, 2080.
(3) P. CENDON, Esistere o non esistere, in Persona e danno, Milano 2004, 1707.
(4) P. CENDON, P. Ziviz, Il danno esistenziale. Una nuova categoria della responsabilità civile, Milano 2000, 10.
(5) P. CENDON, P. ZIVIZ, op. cit., 12.
(6) P. CENDON, P. ZIVIZ, op. cit., 10.
(7) Cass. 31 maggio 2003, n. 8827 e n. 8828, in «Danno e responsabilità» 2003, 816; Corte cost. 11 luglio 2003, n. 233, ibidem 2003, 939.

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