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1.1
Essenza comune: l’inadempimento (esclusivamente) contrattuale del datore
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Proprio
nel rispetto del criterio metodologico proposto, muovendo in medias
res, si evidenzia come, in linea di massima, tutti gli istituti qui
esaminati presentino un elemento comune: l’essenza inadempitiva.
-
Infatti, in via di prima approssimazione, ben si intende come i
demansionamenti, i trasferimenti, il mobbing siano figure accomunate dal
concretizzare altrettante ipotesi di violazione di obblighi da
parte del datore di lavoro.
-
Questa
prima, quasi banale conclusione, importa, invece, nella materia
dell’onere della prova, significative e peculiari ricadute.
-
Prima
però di esaminare tale ultimo profilo, è capitale sgombrare il campo dai
possibili dubbi inerenti la natura della responsabilità datoriale.
Infatti, la qualificazione, come contrattuale od extracontrattuale, del
titolo di responsabilità incide, evidentemente, anche sulla tematica
dell’onere della prova.
-
Ora,
non è qui la sede per approfondire l’argomento ora indicato, di
proporzioni enormi, sembra però molto importante dare conto degli
approdi interpretativi della più recente giurisprudenza.
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In sintesi, si ricorda che, il tema della
responsabilità datoriale, soprattutto ai sensi dell’art. 2087 c.c.. è
stato tradizionalmente risolto con la tesi del duplice titolo di
responsabilità, sostenendosi, con argomenti spesso tralatiziamente
riportati, che la condotta datoriale violativa degli obblighi di
sicurezza è tale da integrare, contestualmente, la violazione di
specifici obblighi contrattuali ed anche dei precetti generali del
neminem laedere. In questa direzione, almeno sino a pochissimo tempo
fa, il concorso delle due azioni costituiva
ius receptum[3],
lasciandosi, quindi, al creditore
danneggiato la scelta tra due sistemi regolativi alternativi[4].
-
Il
sistema ora delineato è stato, dagli inizi degli anni 2000, posto in
discussione da ampia giurisprudenza e da una parte della dottrina.
-
Si è infatti rilevato:
“nessun dubbio può sussistere sulla prospettata
qualificazione giuridica della stessa responsabilità - di natura
contrattuale, appunto - ove si consideri, da un lato, che il contenuto
del contratto individuale di lavoro risulta integrato - per legge (ai
sensi dell'articolo 1374 c.c.) … e, dall'altro, che la responsabilità
contrattuale é configurabile tutte le volte che risulti fondata
sull'inadempimento di un'obbligazione giuridica preesistente, comunque
assunta dal danneggiante nei confronti del danneggiato”[5].
-
Il
fondamentale arresto delle Sezioni unite della Cassazione n. 6572/2006
(su cui v. infra) ha definitivamente suggellato la ricostruzione
da ultimo illustrata: “stante la peculiarità del rapporto di lavoro,
qualunque tipo di danno lamentato.. si configura
come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano
contrattuale… giacché l'illecito consiste nella violazione dell'obbligo
derivante dal contratto, il datore versa in una situazione di
inadempimento contrattuale regolato dall’art. 1218 cod. civ.”.
-
Il principio di diritto ora riportato è stato
confermato da tutte le sentenze pronunciate nel periodo successivo[6].
-
Il primo risultato interpretativo su cui occorre
confrontarsi è, dunque, il seguente: tendenzialmente, i casi di
violazione di diritti del lavoratore ingenerano solo la
responsabilità contrattuale del datore di lavoro[7].
-
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1.2
Conseguenze della natura contrattuale della responsabilità
-
Procedendo nell’analisi e, in aderenza agli scopi specifici
dell’indagine, si vanno ora a valutare i corollari, in tema di
ripartizione degli oneri probatori, della ritenuta natura solo
contrattuale della responsabilità datoriale.
-
Sul punto, deve aversi come punto di riferimento
l’importante sentenza delle Sezioni unite 30 ottobre 2001, n. 13533, con
cui è stato composto il contrasto interpretativo esistente circa le
incombenze probatorie gravanti sul creditore e sul debitore, nel caso di
inadempimento nei contratti a prestazioni corrispettive[8].
-
Prima
dell’intervento delle S.U., secondo l’orientamento considerato
maggioritario, il regime probatorio sarebbe diverso secondo che il
creditore richieda l’adempimento ovvero la risoluzione. In particolare,
nel caso in cui si chieda l’esecuzione del contratto e l’adempimento
delle relative obbligazioni, l’attore sarebbe chiamato a provare
unicamente il titolo che costituisce la fonte del diritto vantato, e
cioè l’esistenza del contratto, e, quindi, dell’obbligo che si assume
inadempiuto; nell’ipotesi, invece, in cui si domandi la risoluzione del
contratto per l’inadempimento dell’obbligazione, l’attore sarebbe tenuto
a provare anche il fatto che legittima la risoluzione, ossia
l’inadempimento e le circostanze inerenti, in funzione delle quali esso
assume giuridica rilevanza, spettando al debitore l’incombenza
probatoria di essere immune da colpa, solo quando l’attore abbia provato
il fatto costitutivo dell’inadempimento.
-
Il
contrapposto indirizzo - definito minoritario in giurisprudenza ma
favorito della dottrina - ha viceversa sempre optato per ricondurre ad
unità il regime probatorio utile per tutte le azioni previste dall’art.
1453 c.c. (e cioè, per le azioni di adempimento, di risoluzione e di
risarcimento del danno da inadempimento), avendo esse in comune il
titolo ed il vincolo contrattuale che si assume violato: spetterebbe al
creditore, insomma, di provare i fatti costitutivi della pretesa (fonte
del credito e, ove previsto, termine di scadenza) ed allegare solo
l’inadempimento ed al debitore di eccepire e dimostrare il fatto
estintivo dell’adempimento.
-
In
estrema sintesi, gli argomenti posti dalle Sezioni unite a fondamento
della soluzione ora rassegnata consistono nel principio, ricavato
dall’art. 2697 c.c, della presunzione di persistenza del diritto: una
volta provata dal creditore l’esistenza di un diritto destinato ad
essere soddisfatto entro un certo termine, grava comunque sul debitore
l’onere di dimostrare l’esistenza del fatto estintivo, costituito
dall’adempimento.
-
Inoltre, si rileva che la domanda di adempimento, la domanda di
risoluzione e la domanda autonoma di risarcimento del danno servono
tutte a far statuire che il debitore non ha adempiuto: le ulteriori
pronunce sono consequenziali a questa statuizione, che rimane perciò
eguale a se stessa quali che siano i corollari che ne trae l’attore.
-
A
queste si aggiungono considerazioni di indole pratico: si prospetta la
difficoltà per il creditore di fornire la prova del fatto negativo di
non aver ricevuto la prestazione, sia pure adducendo fatti positivi
contrari; laddove, la prova dell’adempimento, se effettivamente
avvenuto, sembra estremamente agevole per il debitore, che di regola è
in possesso di una quietanza o di altro documento relativo al mezzo di
pagamento utilizzato. Ciò costituisce applicazione del principio di
riferibilità o disponibilità o vicinanza della prova, ponendosi in ogni
caso l’onere probatorio a carico del soggetto nella cui sfera si è
prodotto l’inadempimento.
-
Va
ancora considerato che la Corte ha esteso anche all’ipotesi
dell’inesatto adempimento il principio della sufficienza
dell’allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione
di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata
osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o
qualitative dei beni), rimettendo al debitore di dimostrare l’avvenuto
esatto adempimento.
-
La
sentenza menzionata riconosce una sola eccezione al principio
sancito: l’inadempimento di obbligazioni negative;
dedotta, cioè, la violazione di una obbligazione di non fare, la
prova dell’inadempimento rimane sempre a carico del creditore,
anche nel caso in cui agisca per l’adempimento. In virtù dell’art. 1222
c.c., infatti, ogni fatto compiuto in violazione di obbligazioni di non
fare costituisce di per sé inadempimento; sicché l’inadempimento delle
obbligazioni negative integra sempre un fatto positivo.
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Nella cornice ora delineata, va poi tenuto
presente che - in deroga ai principi generali di cui all'articolo 2697
c.c., applicabili ad ogni altro tipo di responsabilità, opera la
presunzione legale di colpa[9],
a carico del (debitore inadempiente) responsabile del danno da
risarcire, ai sensi dell’art. 1218 c.c.[10]
-
La regola è fondata sulla massima di esperienza
per cui la violazione del rapporto obbligatorio deriva normalmente dalla
negligenza del debitore e solo eccezionalmente da impedimenti
insuperabili con la normale diligenza. La colpa è dunque “normalmente
implicita nell’inadempimento”[11].
Di conseguenza, risulta dispensato - dall'onere probatorio relativo
-proprio il creditore danneggiato.
-
Conclusivamente e schematicamente, il risultato
interpretativo scaturente dall’intervento delle S.U. e successivamente
sempre ribadito[12]
è che
-
in caso
d’inadempimento contrattuale, qualsivoglia azione si intraprenda:
-
• il creditore deve: 1) allegare e provare il fatto
costitutivo del diritto azionato 2) allegare l’inadempimento del
debitore
-
• il debitore deve: 1) allegare e provare i fatti
estintivi, impeditivi, modificativi 2) allegare e provare la non
imputabilità
-
-
• eccezione per le obbligazioni negative: il creditore deve
provare l’inadempimento
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1.3 L’importanza degli atti introduttivi
-
Riassunto sopra il significato del principio di
diritto affermato dalle S.U., deve operarsi qualche precisazione
esplicativa, riferita alla materia lavoristica specifica[13].
Le puntualizzazioni che si vanno esponendo sono funzionali ad affrontare
quel punto nevralgico nella conduzione di un processo che è lo studio
iniziale degli atti introduttivi della
causa. Infatti, l’esperienza giurisprudenziale evidenzia che
l’attento esame dei soli atti introduttivi del giudizio molto spesso
denuncia, in sé, l’inammissibilità o l’irrilevanza dei mezzi di prova e
la decidibilità immediata della causa.
-
La
sequenza ordinata dei passaggi successivi del vaglio preliminare è,
schematicamente, la seguente.
-
-
1. individuazione del diritto azionato e verifica dei relativi
fatti costitutivi
-
In
prima battuta, il ricorrente ha l’onere di allegare i fatti storici che,
secondo l’assunto sostenuto, sarebbero costitutivi del diritto fatto
valere. Ciò significa che, dalla lettura del ricorso, deve essere
possibile individuare con chiarezza il diritto azionato e le circostanze
storiche, sufficientemente definite nella loro consistenza fattuale, che
secondo le ragioni giuridiche fatte valere, sarebbero generatrici della
situazione giuridica soggettiva azionata. Dunque, va controllata anche
la astratta correlazione tra diritto azionato e fatti generatori
addotti.
-
Il
diritto azionato deve dunque profilarsi ben definito nel suo oggetto ed
astrattamente esistente in base ai fatti costitutivi asseriti.
-
-
2. apprezzamento dell’ipotetico inadempimento
-
In
secondo luogo, il ricorrente deve almeno allegare l’inadempimento della
controparte. Infatti, anche ai fini di radicare l’interesse ad agire, in
ricorso ci deve essere l’allegazione di fatti storici concretizzanti la
lamentata violazione del diritto: almeno in astratto, va apprezzata la
sussistenza e consistenza di una reale e precisa violazione del diritto.
-
-
3.
valutazione del danno lamentato e del nesso causale
-
Ancora
in limine litis, il giudice deve valutare l’accoglibilità
dell’eventuale domanda risarcitoria. Come si approfondirà, il ricorrente
ha, al riguardo, l’onere di specificare le precise voce di danno patito
ed allegare elementi concretizzanti il preteso nesso causale rispetto
alla condotta inadempitiva lamentata.
-
-
4. fatti impeditivi, estintivi o modificativi
-
Solo
ove le allegazioni del creditore sui punti sopra indicati siano
sufficientemente determinate si radica, in capo al resistente, l’onere
di contestare la fondatezza della pretesa e, aggiuntivamente, di
allegare e provare l’eventuale esistenza di fatti storici diversi,
concretizzanti vicende impeditive (cioè che hanno ostato ab initio
all’insorgere del diritto azionato), estintive (cioè che hanno fatto
venir meno il diritto, in origine esistente) o modificative.
-
1.4
Insufficienza assertiva: conseguenze
-
Si
pongono due ipotesi.
-
La prima è che gli oneri assertivi, come sopra
delineati, in particolare dal ricorrente, non vengano gravemente assolti
provocandosi la radicale nullità del ricorso, ex art. 414 c.p.c.
Siffatta evenienza, è bene chiarire, ricorre solo quando l’atto sia
inidoneo al suo scopo, in applicazione della norma generale di cui
all'art.156, comma 2, c.p.c., cioè quando risulti impossibile, dalla
lettura dell’atto, intendere uno degli elementi identificativi
dell’azione, petitum o causa
petendi [14].
Diverse sono, invece, le conseguenze
nel caso in cui l’atto introduttivo sia valido, contenendo elementi
assertivi, in fatto ed in diritto, sufficienti per la comprensione
dell’oggetto e della ragione giuridica della domanda, ma le circostanze
storiche rilevanti ed abbisognevoli di prova risultino solo
genericamente allegate.
-
In
questa seconda evenienza, infatti, superata l’eccezione di nullità del
ricorso, dovrebbe dichiararsi l’inammissibilità dei mezzi di prova
vertenti su fatti storici solo genericamente individuati. Ricorrendo
tale ipotesi, respinte le richieste istruttorie a cagione della
genericità fattuale di circostanze storiche decisive, su cui la prova
dovrebbe vertere (in quanto fatti costitutivi del diritto azionato), la
domanda dovrebbe essere rigettata nel merito.
-
2.1 Il lavoro privato
-
Ai
sensi dell’art. 2103 c.c. “il prestatore di lavoro deve essere adibito
alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti
alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito…ovvero a
mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”. Come previsto
dall’art. 96 att. C.c., il datore di lavoro è tenuto, all’atto
dell’assunzione, a definire non solo l’inquadramento formale del
dipendente ma anche il contenuto specifico dei compiti al medesimo
affidati (cd. contrattualità delle mansioni).
-
Il
termine di riferimento dell'equivalenza, contemplata dall'art. 2103 cod.
civ. (nel testo risultante dall'art. 13 della legge n. 300 del 1970), e'
costituito dal contenuto professionale delle mansioni stesse; sicché
devono considerarsi inferiori mansioni che, rispetto alle precedenti,
comportino una sottoutilizzazione del patrimonio professionale acquisito
dal lavoratore. La materia è stata di recente oggetto di profonda
revisione da parte della Cassazione.
-
L’analisi della tradizionale giurisprudenza in materia,
consentiva di ritenere assodati i seguenti criteri interpretativi:
-
a) l’equivalenza non significa “identità”, ma
omogeneità[15];
-
b)
l’equivalenza va valutata in concreto rispetto ai seguenti elementi:
-
-
contenuto materiale intrinseco dei compiti assegnati
-
-
competenza richiesta
-
-
livello professionale raggiunto
-
-
possibilità di utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal
-
dipendente nella pregressa fase del rapporto
-
- grado di autonomia e discrezionalità -
consistenza quantitativa dell’impegno[16],
-
- posizione del dipendente nel contesto
dell'organizzazione aziendale del lavoro[17];
-
c) non sussiste l’equivalenza quando il lavoratore
venga lasciato inattivo[18],
-
d) non costituisce invece demansionamento
l’affidamento di mansioni inferiori ove queste siano meramente marginali
ed accessorie ed il lavoratore sia adibito in maniera prevalente e
assorbente a mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza[19].
-
L’attuale giurisprudenza,
invece, afferma “una nozione "dinamica" di equivalenza
professionale, basata sulla conservazione dei tratti essenziali fra le
competenze richieste al lavoratore prima e dopo il mutamento di
mansioni. Costituisce, invero, principio ormai acquisito che possano
legittimamente assegnarsi al dipendente, a parità d'inquadramento,
mansioni anche del tutto nuove e diverse, purché affini
alle precedenti dal punto di vista del contenuto professionale.
L'esistenza, per così dire, di un "minimo comune denominatore" di
conoscenze teoriche e capacità pratiche è condizione necessaria e
sufficiente a consentire che il dipendente sia in grado di svolgere le
nuove mansioni con la preparazione posseduta. Anzi, il fatto di mutare
ramo di attività, operando in settori diversi della medesima area
professionale, permette finanche al lavoratore d'incrementare ed
arricchire il bagaglio di nozioni sviluppato nella fase pregressa del
rapporto.
-
In quest'ottica, senz'alcun dubbio quella che
meglio risponde alle attuali caratteristiche ed esigenze del mondo del
lavoro, la professionalità non rileva, dunque, come un'entità statica ed
assoluta, sganciata dalla realtà aziendale, bensì come patrimonio di
conoscenze potenzialmente polivalente, capacità di far fruttare nel
nuovo posto di lavoro l'esperienza e le cognizioni sino a quel momento
acquisite. Muovendo da una concezione siffatta di professionalità, e
quindi d'equivalenza professionale, questa Corte ha affermato che se è
vero che le nuove mansioni affidate al dipendente debbono essere
coerenti con la specifica competenza da lui maturata, ciò non significa
che il lavoratore che abbia acquisito una esperienza nell'ambito di un
determinato settore dell'azienda non possa mai essere trasferito ad
altro settore nell'ambito del quale egli venga chiamato ad affrontare
problemi diversi o a dover soggiacere ad una organizzazione del lavoro
concepita con modalità diverse rispetto a quelle afferenti la precedente
mansione: ciò che importa, nel rispetto della tutela delineata dall'art.
2103 c.c., è che, attraverso l'affidamento di compiti nuovi, del
tutto estranei rispetto all'attività precedentemente svolta ed
alle cognizioni tecniche già acquisite, non venga del tutto
disperso il patrimonio professionale e di esperienza già maturato
dal dipendente, compromettendo altresì irrimediabilmente le sue
prospettive di carriera all'interno dell'impresa cui appartiene. In
sostanza, il rispetto della professionalità del lavoratore subordinato -
cui tende l'art. 2103 c.c. nel porre limiti allo ius variandi del datore
di lavoro - non si traduce necessariamente nella continuazione delle
medesime operazioni lavorative effettuate in precedenza, potendosi esso
esprimere anche in tutti i casi in cui, pur nel contesto di una diversa
attività lavorativa, l'esperienza professionale ivi maturata possa
ritenersi utile alfine del miglior espletamento della prestazione
richiesta. In tale ipotesi, infatti, il quadro complessivo delle
attitudini professionali del lavoratore non viene ristretto, ma al
contrario viene ampliato, potendo il lavoratore, già forte
dell'esperienza acquisita, arricchire il proprio bagaglio professionale
attraverso l'effettuazione di una esperienza nuova a lui affidata
proprio in considerazione della consapevolezza dei problemi che egli ha
già affrontato nel corso della pregressa attività"[20].
-
Dunque,
oggi l’equivalenza va apprezzata rispetto a:
-
- solo
un minimo comune denominatore
-
-
potenzialità di arricchimento professionale
-
- le
definizioni dei c.c.n.l. (v. infra).
-
2.2
Demansionamenti leciti
-
L’art. 2103 co. 2° c.c. stabilisce la nullità di
qualsiasi patto contrario. Non è dunque disponibile, in via
convenzionale, il diritto alla professionalità acquisita[21].
-
In alcune specifiche norme di legge, si ammettono
ipotesi di deroga all’art. 2103 ove si tratti di salvaguardare beni
ritenuti dal legislatore di rango superiore (es. l’art. 4, comma 11°
legge 23 luglio 1991, n. 223[22];
l’art. 1, comma 7° e dall’art. 4, comma 4° legge 12 marzo 1999, n. 68[23];
l’art. 7, 5° co. L. 151/2001[24],
già art. 30/33 della legge n. 1204/1971).
-
Proprio sulla falsariga delle norme derogatorie
citate, la giurisprudenza ha aderito ad una lettura flessibile della
norma, in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata,
volta al bilanciamento delle esigenze contrapposte e soprattutto alla
tutela di interessi superiori. In questa direzione, per esempio, quando
la sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore a svolgere le
mansioni per le quali lo stesso è stato assunto non comporti però la
totale impossibilità di svolgere qualsiasi tipo di prestazione
lavorativa, la giurisprudenza legittima l’utilizzo del lavoratore,
previa accettazione di quest’ultimo, in mansioni anche dequalificanti
ma, comunque, in grado di permettere l’utilizzo della sua residua
capacità lavorativa[25].
Ancora, si è legittimata l’assegnazione unilaterale a mansioni non
equivalenti per un limitato periodo di tempo al fine dell’apprendimento
di nuove tecniche[26].
-
Analogamente è a dirsi per il patto di demansionamento.
-
In particolare, si è ammessa la modifica
consensuale in peius ove il demansionamento sia l’unica misura
atta a scongiurare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo[27].
Anche di recente la Cassazione[28]
ha affermato “costituisce principio ormai acquisito nella
giurisprudenza di legittimità quello secondo cui l’art. 2103 c.c… non
opera allorché il patto peggiorativo corrisponde all’interesse del
lavoratore medesimo. Ed in effetti il diritto alla tutela della
posizione economica e professionale del lavoratore deve trovare
contemperamento con la tutela di altri interessi prioritari del
lavoratore quale quello alla conservazione del posto di lavoro; per cui
deve ritenersi legittima una interpretazione non restrittiva
della disposizione anche alla luce delle maggiori e notorie difficoltà
in cui versa oggi il mercato del lavoro”.
-
I
requisiti legittimanti sono: il consenso del lavoratore + condizioni che
avrebbero legittimato licenziamento.
-
La
sentenza ora citata, chiarisce che “l’onere di dimostrare la
sussistenza delle condizioni di fatto che avrebbero giustificato il
licenziamento incombe sul datore di lavoro, in osservanza
dell’art. 5 della legge n. 604/1961 e del divieto posto dall’art. 2103”.
-
-
2.3
Il ruolo della contrattazione collettiva
-
Le
considerazioni ora svolte offrono il destro per evidenziare un aspetto
cruciale, di attuale rilevanza, costituito dal ruolo della
contrattazione collettiva nella definizione del concetto di equivalenza.
-
Invero, la sanzione di nullità di ogni patto
contrario sancita dall’art. 2103 c.c., si estende evidentemente anche
alle clausole contrattuali collettive. In questo senso, è massima
tralatizia che la valutazione che il giudice di merito è tenuto ad
effettuare, in ordine all’equivalenza delle mansioni, deve essere
effettuata in concreto, e non è vincolata alla classificazione delle
mansioni nella contrattazione collettiva[29].
-
Tuttavia, ciò che è decisivo rimarcare è che se il ccnl non può
vincolare il giudice nella definizione astratta dell’equivalenza, può e
deve significativamente orientarlo nella definizione della quaestio
facti.
-
Il ragionamento prende le mosse, intanto, dal
rimarcare che nel giudizio di equivalenza di cui all’art. 2103, il
giudice deve senza dubbio effettuare un confronto di tipo fattuale ed
empirico tra i diversi tipi di mansioni, ma, come sostenuto pure dalla
Cassazione citata in nota, il medesimo deve riferirsi, in via
parametrica anche a quanto disposto dalla contrattazione collettiva[30].
Le considerazioni che si vanno sviluppando assumono poi particolare
rilievo euristico quando si tratti di applicare norme a contenuto
generico, cioè moduli normativi indeterminati, clausole
generali, concetti elastici, tra i quali rientra anche il concetto
di equivalenza. In casi di tal fatta, è noto che, definendo un
importante revirement, la Suprema corte ha statuito che
l’operazione di integrazione del contenuto di tali norme deve essere
compiuta dall’interprete non con la creazione di propri canoni
valutativi, di genesi personale e soggettiva, ma con la ricerca,
all’interno del complessivo sistema, di criteri e principi integrativi.
Tali ultime regole oggetto appunto di ricognizione, secondo la
Cassazione, acquisiscono per vis abtractiva, una natura comunque
giuridica, la cui individuazione ed applicazione definendo una
quaestio iuris, rimane sindacabile in via diretta in sede di
legittimità[31].
-
Ebbene, nel novero di questi criteri che
l’interprete e quindi anche il giudice deve ricercare per colmare la
norma indeterminata senz’altro primeggiano, nel microcosmo lavoristico,
come riconosciuto nelle predette occasioni anche dalla Corte, le
disposizioni della contrattazione collettiva. Infatti, per le ragioni
già enucleate, la produzione regolativa delle formazioni rappresentative
delle contrapposte parti contrattuali, rilevanti anche ai sensi
dell’art. 2 Cost., assume portata persuasiva di assoluto rilievo. Si
pensi del resto, in temi quali l’individuazione del minimo salariale ex
art. 36 Cost. o l’accertamento della giusta causa di licenziamento, ex
artt. 2119 e 2106 c.c., quale ampio ruolo la giurisprudenza consolidata
assegni alle disposizioni pattizie[32].
Anzi, proseguendo su questa ultima falsariga, deve rammentarsi che anche
le recenti innovazioni ordinamentali che hanno investito la materia del
pubblico impiego hanno, già a livello normativo (v. art. 52 T.U.),
segnato il recepimento proprio dell’indirizzo interpretativo che, anche
nel settore privato, va vieppiù sviluppandosi (v. infra).
-
Peraltro, tornando al settore privato, è il caso di rammentare che,
giusta pacifico insegnamento della Suprema Corte, le norme contrattuali,
cui la legge affidi compiti classificatori, sono insindacabili da
-
Il
punto in esame ha, nell’applicazione giurisprudenziale, presentato
controversi momenti di emersione per la Poste Italiane s.p.a.:
poiché il caso risulta paradigmatico, ne risulta opportuna una breve
analisi.
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Dopo
l’introduzione della nuova classificazione del personale di cui agli
artt. 40 e ss. del CCNL del 26.11.1994, tutto il personale della società
Poste Italiane, in precedenza suddiviso in nove categorie, è stato
accorpato in quattro Aree funzionali.
-
L’art.
4 dell’allegato 1 prevede poi che nell’ambito dell’Area operativa, nella
quale “il contenuto di specializzazione funzionale non costituisce
elemento ostativo, deve essere garantita in presenza di necessità di
servizio, l’intercambiabilità del personale”; il successivo art. 5,
lett. b) prevede poi la possibilità della società di attuare nell’ambito
di progetti di riorganizzazione aziendale, al fine di salvaguardare i
livelli occupazionali, la fungibilità all’interno di ogni area. Dunque,
avendo la società proceduto allo spostamento orizzontale dei dipendenti
in mansioni comprese nella stessa Area, si è posto il problema della
compatibilità dei principio di fungibilità ed interscambiabilità interna
all’area rispetto all’art. 2103.
-
La
questione è stata di recente definita dalle Sezioni unite della Corte
di Cassazione nella importante sent. n. 25033/06, statuendosi
che la contrattazione può introdurre meccanismi convenzionali di
mobilità orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità
funzionale tra mansioni nella stessa area per sopperire a contingenti
esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della
professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella
qualifica, senza per questo incorrere nella sanzione di nullità del
comma secondo della citata disposizione dell’articolo 2103 c.c..
-
In
particolare i giudici di legittimità hanno evidenziato come le parti
sociali possano legittimamente introdurre nella contrattazione
collettiva clausole di fungibilità compatibili con l’articolo 2103 c.c.,
collocando plurime e diverse mansioni nella stessa qualifica, sicché il
lavoratore inquadrato in quella qualifica è idoneo, e sa di poter essere
chiamato a svolgere, mansioni diverse, in ipotesi anche di livello
diverso. Secondo le Sezioni unite, la dimensione individuale della
garanzia dell’articolo 2103 c.c. crea degli “steccati” (sic) che
certamente valgono a protezione del lavoratore nei confronti di un
indiscriminato jus variandi del datore di lavoro; ma possono
rappresentare anche un attrito di resistenza alla progressione
professionale della collettività dei lavoratori inquadrati in quella
stessa qualifica. Ed allora, se come deve ritenersi in materia , rileva
non solo quello che il lavoratore fa, ma anche quello che sa fare (ossia
la professionalità potenziale), la contrattazione collettiva può
legittimamente farsi carico di ciò, prevedendo e disciplinando
meccanismi di scambio o di avvicendamento o di rotazione che non violano
la garanzia dell’articolo 2103 c.c., ma che con quest’ultima sono
compatibili.
-
E’ ancora da segnalare che nella successiva e
recentissima sentenza n. 8596/2007 la Cassazione ha voluto,
consapevolmente, portare “ad ulteriori sviluppi la giurisprudenza
sulle mansioni promiscue e vicarie. Più specificamente la contrattazione
collettiva può prevedere che le mansioni corrispondenti alla qualifica
di appartenenza siano costituite dallo svolgimento (promiscuo, appunto)
di plurime attività diverse, talune anche con carattere di prevalenza
rispetto ad altre (Cassazione, Sezione lavoro, 1987/04; 16461/03),
ovvero che le mansioni assegnate comprendano eventualmente anche
attività vicarie di diverso livello (Cassazione, Sezione lavoro,
9141/04; 14738/99) analogamente la stessa contrattazione collettiva può
introdurre clausole di fungibilità che, verificandosi specifici
presupposti di fatto, consentano una mobilità orizzontale tra le
mansioni svolte e quelle, pur diverse, rispetto alle quali sussiste
un’originaria idoneità del prestatore a svolgerle secondo un criterio
di professionalità potenziale per ciò che il lavoratore sa fare,
anche se attualmente non fa”. In sintesi, ed in conclusione,
ne risulta affermato, “come principio di
diritto, che … le convenzioni delle parti sociali pongono, dunque,
legittimi e razionali meccanismi di mobilità orizzontale prevedendo, con
apposita clausola, la fungibilità funzionale tra mansioni diverse ma con
un nucleo di omogeneità ed affinità al fine di sopperire, come
detto, a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la
valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori
inquadrati in quella qualifica senza per questo incorrere in alcuna
sanzione di nullità… Le considerazioni ora fatte inducono a ribadire che
una interpretazione dell’articolo 2103 c.c. abbandonando l’ottica di
una cristallizzata tutela del “singolo lavoratore” a fronte dello jus
variandi dell’imprenditore - debba privilegiare un ponderato esame
del dato normativo che tenga pure conto dei complessi problemi di
riconversione e di ristruttuazìone delle imprese (che impongono
una attenuazione di una rigidità della regolamentazione del rapporto di
lavoro capace di ostacolare detti processi) e che, in tale
direzione, venga a configurarsi come naturale evoluzione di un indirizzo
giurisprudenziale volto ad assegnare alla contrattazione collettiva
incisivo rilievo nella gestione dei rapporti lavorativi delle imprese
anche nelle sue articolazioni locali, in ragione delle specifiche
situazioni che si possono verificare nelle varie realtà aziendali e
territoriali, e che possono richiedere un adeguamento degli organici con
una accentuata flessibilità proprio per soddisfare le diverse esigenze
sopravvenute in dette realtà”[34].
-
Si è, dunque, di fronte alla presa d’atto della
Cassazione dell’intervenuta “globale
rivisitazione dei precedenti orientamenti giurisprudenziali
sull’articolo 2103 c.c., con il riconoscere, nella materia in
esame alla contrattazione collettiva la possibilità di una
identificazione di mansioni fungibili (e tra di esse legittimamente
interscambiabili), condizionando la legittimità di detta flessibilità
alla circostanza che tra le suddette mansioni si riscontri quantomeno un
nucleo di omogeneità ed affinità”[35].
-
Per le
ricadute sui carichi probatori, v. infra, par. 2.5.
-
-
2.4
Il pubblico impiego
-
L’art.
52 del d.lgs. n. 165/2001 definisce, in maniera esaustiva ed ex novo,
la “disciplina delle mansioni” nel lavoro pubblico e dunque la
medesima deve collocarsi tra “le diverse disposizioni” (ex art.
2, co. 2) contenute nel decreto di riforma di deroga alla normativa
civilistica. Conseguenza ne è che, nel lavoro pubblico è, almeno in
parte qua, radicalmente esclusa l’applicabilità dell’art. 2103 c.c.
-
Il
testo della disposizione risultante dalla cd. seconda privatizzazione
segna un apprezzabile passo nella direzione dell’allineamento con regole
e principi giusprivatistici.
-
Intanto, va valorizzato il dato letterale nel suo riferirsi al concetto
di “mansioni”. Si assiste cioè al passaggio dalla precedente
prospettiva, ancorata alla “qualifica di appartenenza”, cioè ad un dato
puramente formale, ad un criterio concreto ed empirico, cioè quello
strettamente mansionistico.
-
La
norma sancisce quindi il diritto del lavoratore ad essere adibito alle
mansioni “per le quali è stato assunto”. Si rileva dunque, anche in
questo ambito, la contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico,
con riferimento precipuo alla stretta negozialità delle mansioni,
principio già sancito dall’art. 2103 c.c.
-
L’art.
52 dispone, poi, che il dipendente può essere adibito anche “alle
mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione
professionale prevista dai contratti collettivi”.
-
Tra i
settori pubblico e privato sussiste una fondamentale differenza di
diritto positivo: l’art. 2103 parla di mansioni equivalenti “alle ultime
effettivamente svolte”; l’art. 52, viceversa, tratta di mansioni
“considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale
prevista dai contratti collettivi”.
-
L’art. 2103 attribuisce rilievo, come termine di
paragone, alle mansioni di fatto e da ultimo espletate, dunque rende
rilevante tutta la crescita professionale che, a livello diacronico, il
dipendente si trovi ad aver sviluppato, secondo la realtà aziendale
contingente singolarmente vissuta. Di contro, l’art. 52[36]
si riferisce solo alle mansioni pattuite al momento dell’assunzione o
(salvo avanzamento) a tutte quelle astrattamente qualificate equivalenti
nella disciplina pattizia. Si pone dunque l’interrogativo relativo al
ruolo rivestito dalle norme contrattualcollettive nel contesto del
giudizio di equivalenza. Sul punto risultano oggi formulate, in
giurisprudenza ed in dottrina, due diverse tesi.
-
1)
Secondo il primo orientamento, inderogabilmente, alla contrattazione
collettiva sarebbe assegnata la definizione del concetto di equivalenza.
-
Il giudizio di equivalenza sarebbe dunque, in
questa sede, non un’indagine di fatto, ma un giudizio d’interpretazione
di norme contrattuali. Infatti, sarebbe la stessa legge che ha
volutamente rimesso all’autonomia collettiva la valutazione del “merito”
della professionalità, secondo un concetto di equivalenza non in
concreto ma in astratto[37].
-
Il rinvio operato dall’art. 52 al contratto
collettivo sarebbe quindi di tipo costitutivo[38]
“di un vero e proprio potere regolativo: spetterebbe in modo esclusivo
alla contrattazione precisare la portata dell’equivalenza[39]”.
L’intervento del giudice sarebbe, perciò, consentito solo a fronte di
clausole collettive irrazionali o incoerenti, violative degli obblighi
di buona fede[40].
-
2)
Secondo altro indirizzo, invece, il giudizio di equivalenza dovrebbe
essere sempre condotto in concreto, come avviene nell’impiego privato,
ma i contratti collettivi non fornirebbero all’interprete un mero indice
ermeneutico, ma lo vincolerebbero ad operare il giudizio entro l’ambito
da esse stabilito.
-
Ora, valutando il “significato proprio delle
parole secondo la loro connessione”, in armonia con la ratio legis,
considerato anche il modo con cui gli operatori negoziali hanno
recepito la delega[41],
ben si ricava che il c.c.n.l. vincola l’interprete nella determinazione
del confine classificatorio entro o oltre il quale deve essere
affermata/esclusa l’equivalenza. La norma, infatti, non parla di
mansioni definite equivalenti dalla contrattazione collettiva, ma di
“mansioni considerate equivalenti nell’ambito della qualificazione
professionale prevista nei contratti collettivi”. La “considerazione”
dell’equivalenza, cioè l’apprezzamento in concreto della stessa, deve
essere sviluppata all’interno della qualificazione professionale
prevista nei contratti collettivi.
-
Dunque, il c.c.n.l. ha signoria definitoria solo
nella costituzione del limite oltre il quale sicuramente non può esservi
equivalenza (es. area) o dei parametri delimitativi del giudizio in
concreto. Dovrebbe perciò escludersi l’ipotesi della immediata
rimessione al prudente e libero apprezzamento del giudice della
valutazione sull’equivalenza, con indagine direttamente condotta ad
personam sulla specifica professionalità interessata, a prescindere
dalle norma pattizie[42].
Peraltro, molti c.c.n.l. hanno recepito la delega proprio ribadendo la
necessità che, nell’ambito stabilito, l’equivalenza sia poi verificata
in concreto[43].
-
Si
segnala che la Cassazione sembra avere sposato (pur senza particolari
approfondimenti) la tesi dell’affidamento alla contrattazione collettiva
della definizione dell’equivalenza, almeno come limite vincolante di
valutazione.
-
Così
nella recente sent. n. 55/2007, si sostiene che il “principio fissato
ora dal D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 52, postula una condizione di
equivalenza fissata all'interno dei singoli contratti collettivi.
Ancora, pur se in obiter dictum nella sent. n. 13372/2003 si
legge “È costantemente riconosciuto nella giurisprudenza di questa
Corte che ai fini dell'applicazione dell'art. 2103 cod. civ., spetta
all'autonomia collettiva fissare la gerarchia delle mansioni e delle
relative qualifiche allo scopo di stabilire la "categoria superiore" e
le "mansioni superiori". Ma, occorre che tale potere (espressione di una
specifica idoneità in materia dello strumento negoziale collettivo, che
ha ricevuto recenti conferme in sede legislativa, ad es. nella
materia dei rapporti di lavoro pubblici contrattualizzati, dove
al contratto collettivo è affidata anche la individuazione
dell'equivalenza delle mansioni: v. ora art. 52 del d.lgs 30
marzo 2001, n. 165”.
-
Nella sent. N. 17774/2006, poi, in un caso del
comparto Ministeri, la Corte, implicitamente attenendosi alla
definizione di equivalenza della norma pattizia[44],
chiarisce il significato ampio e flessibile della “esigibilità” delle
mansioni[45],
peraltro riconoscendo l’onere del lavoratore di allegare e dimostrare la
“sostanziale estraneità professionale” delle mansioni richieste rispetto
alla propria professionalità essenziale.
-
Questa lettura è del resto in linea con la recente
lettura flessibile dello stesso art. 2103 c.c. affermata dalle Sezioni
unite citate; dunque, andrebbero rispettate le clausole contrattuali
affermative di criteri di fungibilità tendenziale entro ambiti
predefiniti e ciò per due ragioni correlate: la rivisitazione del
concetto di professionalità (e quindi di equivalenza) e la rilevanza in
materia delle pattuizioni collettive[46].
-
Sul
consenso al demansionamento nel pubblico impiego, risulta di dubbia
soluzione la questione inerente la validità di un patto tra il
dipendente e l’amministrazione datrice circa l’assenso all’adibizione a
mansioni inferiori.
-
Nel lavoro privato, l’art. 2103 cpv. espressamente
sanziona con la nullità qualsiasi patto contrario al suo precetto. Nulla
invece è previsto nell’impiego pubblico. La prima giurisprudenza di
merito pronunciatasi, ha esteso l’art. 2103 cpv. sulla base del rinvio
generale alle norme codicistiche[47].
La soluzione però non convince, attesa la voluta omissione nel pubblico
impiego, di una norma uguale al 2103. Dunque deroghe convenzionali,
individuali e collettive, paiono doversi ammettere. Ciò anche in base al
trend interpretativo ormai sempre più condiviso, per cui sarebbe
ammessa la deroga all’art. 2103 ogni volta che si tratti di
salvaguardare beni di rango superiore (v. supra).
-
2.5
Gli oneri probatori
-
Poiché l’art. 2103 c.c. non contiene alcuna
specifica disciplina, in ipotesi singolare o eccezionale, in materia di
ripartizione dell’onere della prova, secondo il sistema interpretativo
individuato all’inizio della relazione, dovrà farsi riferimento ai
principi generali regolatori della materia dell’inadempimento
contrattuale[48].
-
La
questione che si pone è, tuttavia quella della controversa
configurabilità del precetto dell’art. 2103 come obbligazione datoriale
di non fare (art. 1222 c.c.): obbligo di non adibire il prestatore a
mansioni non equivalenti. Aderendo, infatti, a tale ultima
ricostruzione, il riparto degli oneri probatori dovrebbe essere definito
secondo l’ipotesi eccezionale tipizzata dalle Sezioni unite nella citata
sentenza n. 13533; dunque, trattandosi di obblighi negativi, il
lavoratore dovrebbe allegare e provare (oltre l’esistenza del diritto)
anche l’inadempimento (in via successiva, allegare e provare le voci di
danno ed il nesso causale).
-
Se, invece, si ritiene, come sembra preferibile,
che l’equivalenza comporti un obbligo di fare, cioè di
assegnare mansioni equivalenti, l’onere della allegazione
dell’inadempimento graverà sempre sul lavoratore, ma la prova
dell’adempimento, quale fatto estintivo, incomberà sul datore di lavoro.
Quest’ultima è senz’altro, la posizione prescelta dalla Cassazione.
“Allorquando da parte di un lavoratore
sia allegata una dequalificazione o un demansionamento o comunque un
inesatto adempimento dell’obbligo del datore di lavoro ex art. 2103
c.c. è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto
adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in
concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero
attraverso la prova che l’una o l’altro siano state giustificate dal
legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari (ovvero,
in base al principio generale di cui all’art. 1218 c.c., comunque da una
impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”[49].
-
In sintesi:
-
·
il
diritto che viene azionato è il diritto allo svolgimento di mansioni
equivalenti. Il fatto costitutivo del diritto consiste, quindi, nella
individuazione del contenuto delle mansioni di assunzione o delle
ultime effettivamente svolte.
-
·
Il fatto inadempitivo, della cui allegazione il
lavoratore è comunque onerato, consiste nella assegnazione a
mansioni che si assumono deteriori. Questo punto è molto importante,
perché dalle asserzioni storico-giuridiche contenute in ricorso il
giudice deve essere già posto in condizione di apprezzare in astratto
(rispetto all’attuale concetto di equivalenza) la modificatio in
peius, sulla base di elementi fattuali circostanziati e specifici[50].
-
Dunque, nel ricorso deve essere contenuta una
comparazione analitica del contenuto delle mansioni di
provenienza e di destinazione, con adeguate argomentazioni circa la
lamentata disomogeneità[51].
In questa direzione, la violazione dell’art. 2103 deve essere supportata
da oneri assertivi precisi, senza che possa rimettersi il dedotto
demansionamento al fatto notorio, alla sensibilità comune, al mero
confronto tra qualifiche o a formule vaghe e generalizzanti.
-
·
Solo
ove gli oneri assertivi che precedono siano stati sufficientemente
assolti si radica l’onere del convenuto di contestazione e di
allegazione di fatti impeditivi, estintivi o modificativi.
-
-
2.6
La tutela in forma specifica
-
In
passato la giurisprudenza aveva dubitato circa la legittimità, in caso
di dequalificazione del lavoratore dipendente, di una sentenza di
condanna del datore di lavoro ad adibire il lavoratore alle mansioni in
precedenza assegnate, soprattutto in considerazione del carattere
eccezionale del provvedimento di reintegrazione, consentito nei soli
casi previsti dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Le pronunce
emanate in epoca successiva hanno osservato che, anche a voler ritenere
che il c.d. ordine di reintegrazione nelle specifiche mansioni
esercitate prima della illegittima destinazione ad altro incarico non
sia suscettibile di esecuzione forzata, è tuttavia consentita
l’emanazione dell’ordine in questione da parte del giudice, restando
inteso che il datore di lavoro può ottemperarvi anche assegnando il
dipendente a mansioni diverse e caratterizzate soltanto dal requisito
della equivalenza alle precedenti.
-
Con la
sentenza n. 425/2006 la Corte è intervenuta a razionalizzare la materia.
-
Se si
riconosce che la violazione della norma imperativa di cui all’art. 2103
cit. implica la nullità del provvedimento datoriale – ha osservato la
Corte – si deve parimenti ammettere la possibilità che al lavoratore sia
accordata una tutela piena, mediante l’automatico ripristino della
precedente situazione, fatto salvo, ovviamente, il c.d. jus variandi
del datore di lavoro; tale situazione non ha nulla a che vedere con
quella prevista dall’art. 18 della L. 300/70, il cui richiamo
costituisce un falso problema. L’ordinamento vigente – ha affermato la
Corte – privilegia la tutela satisfattoria dell’interesse leso (cfr.
Cass. S.U. n. 141/2006);
alla sua realizzazione è preordinata la pronuncia di condanna del datore
all’adempimento in forma specifica; tutela che è anch’essa “reale”, al
pari di quella prevista dall’art. 18 cit., in quanto comporta la
persistenza del rapporto illegittimamente modificato del datore, ma
appartiene alla sfera del diritto comune, non essendo assimilabile al
regime “speciale” previsto per il licenziamento ritenuto illegittimo.
-
Quanto
al pubblico impiego, il 2° comma dell’art. 68 sancisce il potere-dovere
del giudice ordinario di adottare nei confronti della P.A. tutti i
provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna richiesti
dalla natura dei diritti tutelati.
-
E’
giusto il caso di constatare che, stricto iure, la norma è priva
di contenuto precettivo innovativo, posto che essendo, gli atti di
gestione del rapporto lavorativo di natura privatistica, in ogni caso
non avrebbe trovato applicazione l’art. 4, 2° comma, della l. n. 2248
del 1865, all. E.
-
Comunque, l’art. 68 vale proprio a ribadire l’obiettivo della pienezza e
della effettività della tutela da assicurarsi al dipendente pubblico .
-
-
3.1
Il lavoro privato
-
La giurisprudenza in materia di promozione
automatica del lavoratore adibito temporaneamente all’esercizio di
mansioni superiori risulta ormai assestata. Se ne riportano qui gli
approdi interpretativi più rilevanti[52].
-
·
sulla
durata minima del periodo
-
In
primis,
circa
la durata minima dell’espletamento delle mansioni superiori necessaria
per l’acquisto del diritto alla qualifica superiore, l’art. 2103 c.c. la
quantifica in tre mesi; la contrattazione collettiva può tuttavia
introdurre condizioni di miglior favore. La derogabilità in peius
del termine trimestrale indicato è invece consentita solo per i
dirigenti ed i quadri, ex art. 6 legge 13 maggio 1985, n. 170.
-
Secondo l’ormai prevalente orientamento
giurisprudenziale dovrebbe, ai fini del computo del periodo in
questione, attribuirsi rilievo alle sole giornate di lavoro effettivo e
non anche a quelle di sospensione del rapporto[53].
-
Gli
eventi sospensivi hanno comunque effetto non interruttivo, ma appunto
sospensivo, dovendo quindi ricongiungersi il periodo di applicazione
precedente a quello successivo alle ferie o alla
-
A seguito di importanti pronunce della Corte di
legittimità, è acclarato che il diritto alla promozione automatica non
richiede la rigorosa continuità del periodo, essendo sufficienti anche
molteplici brevi assegnazioni a mansioni superiori per un periodo
complessivamente maggiore di un trimestre[55].
-
Permane
tuttavia contrasto esegetico circa la necessità o meno, in casi quali
quelli ora esposti, della prova dell’intento fraudolento del datore di
lavoro.
-
Per un primo filone giurisprudenziale, infatti,
non sarebbe necessario dimostrare un tale tipo d’intento datoriale,
essendo al riguardo sufficiente una programmazione iniziale degli
incarichi e una predeterminazione utilitaristica di un comportamento
inteso ad ovviare, con una pratica elevata a sistema, esigenze
necessariamente ricorrenti o comunque suscettibili di riproporsi con
carattere di regolarità e quindi con prevedibile periodicità[56].
-
Secondo altra corrente invece, ai fini
dell’insorgenza del diritto, dovrebbe risultare l’intento fraudolento
del datore di lavoro diretto ad impedire la maturazione del diritto alla
promozione. Tale intento sarebbe desumibile proprio dalla frequenza e
sistematicità delle reiterate assegnazioni a mansioni superiori tali da
palesare la predeterminazione da parte datoriale di tale contegno per
sottrarsi all’applicazione della norma in esame; viceversa la volontà
elusiva dovrebbe escludersi ogniqualvolta le suddette reiterate
assegnazioni risultino giustificate dalla particolare natura
dell’attività espletata[57].
Quello da ultimo citato è proprio il caso dei cd. sostituti programmati,
cioè di quei dipendenti che espletano istituzionalmente mansioni di
vicari di colleghi assenti con diritto alla conservazione del posto[58].
-
Uno dei punti fermi sulla questione è stato posto
dalle Sezioni unite della Cassazione per la specifica fattispecie di
sussistenza di obblighi contrattuali del datore di lavoro di coprire il
posto vacante mediante concorso. La sentenza 28 gennaio 1995, n. 1023 ha
infatti statuito che, ove il contratto collettivo preveda che la
copertura di una posizione di lavoro nell'organico aziendale debba
avvenire mediante procedura concorsuale, il datore di lavoro - nelle
more dello svolgimento del concorso - può coprire tale posto
adibendovi a rotazione dipendenti di qualifica inferiore per distinti
periodi che, singolarmente considerati, non siano superiori a quello
previsto per l'acquisizione della qualifica superiore ex art. 2103 c.c.,
senza che sia possibile cumularli. In tal caso infatti – argomenta la
Corte - la alternanza delle assegnazioni di mansioni superiori non è
significativa di alcun intento del datore di lavoro di eludere il
rispetto della legge e di avvantaggiarsi di prestazioni lavorative di
più elevato livello senza il riconoscimento della corrispondente
qualifica, ma risponde (salvo prova contraria) all'esigenza
organizzativa di coprire temporaneamente il posto al quale,
successivamente ed in via definitiva, dovrà essere assegnato il
vincitore del concorso[59].
-
Si è precisato comunque che la parte datrice
potrebbe adibire a rotazione dipendenti di qualifica inferiore ad un
posto da coprire mediante concorso, senza maturazione del diritto a
qualifica superiore, solo per il tempo strettamente necessario per
l’indizione e lo svolgimento del concorso previsto dal regolamento o dal
contratto collettivo[60].
Naturalmente, anche in subiecta materia, vi è ampio utilizzo dei
principi di correttezza e buona fede[61].
-
·
svolgimento delle mansioni superiori
-
Il carattere vicario delle mansioni svolte
preclude il diritto del sostituto all’inquadramento nella qualifica
superiore. Dunque, se tra le mansioni tipiche della qualifica di
appartenenza sono compresi compiti di sostituzione del dipendente di
grado più elevato, la sostituzione non crea il diritto alla promozione[62].
-
Di recente, si è precisato che questo limite opera
solo se la sostituzione è occasionale,
“non nel caso in cui la funzione vicaria sia travalicata in ragione del
carattere permanente della sostituzione e della persistenza solo formale
della titolarità in capo al superiore delle mansioni proprie della
relativa qualifica, per effetto di una stabile scelta organizzativa del
datore”[63].
L’assegnazione deve, inoltre, essere
piena, nel senso che deve implicare l’assunzione del livello di
responsabilità e di autonomia tipica delle mansioni superiori[64].
-
·
sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del
posto
-
Secondo
l’indirizzo interpretativo ormai consolidato, la fattispecie “assenza
con diritto alla conservazione del posto” si estende anche a situazioni
ulteriori e diverse rispetto alle ipotesi di sospensione del rapporto
legalmente tipizzate (sciopero, adempimento di funzioni pubbliche
elettive, infortunio, malattia, gravidanza, puerperio, chiamata alle
armi). In tal senso si ritiene che il sindacato sul provvedimento
datoriale debba esplicarsi non solo alla luce delle disposizioni
legislative, ma anche alla stregua di quelle previste nella
contrattazione collettiva; queste ultime infatti ben potrebbero
tipizzare fattispecie di temporanea assenza del dipendente comportante
la necessità di sostituzione temporanea.
-
Rimarrebbe del resto impregiudicato il sindacato
sui poteri organizzativi del datore di lavoro ove risulti in concreto
l’uso fraudolento da parte di quest’ultimo di espedienti per eludere il
precetto stabilito dall’art. 2103 cit. a favore del sostituto[65].
-
In applicazione del principio interpretativo
enunciato si è escluso il presupposto dell’effettiva vacanza del posto
nel caso di ferie del dipendente da sostituirsi[66];
nell’ipotesi di collega sospeso dal lavoro perché posto in cassa
integrazione guadagni[67];
nella situazione dell’assente per l'espletamento di attività sindacale,
in forza di permessi retribuiti previsti dalla contrattazione collettiva[68].
-
Secondo la Cassazione[69],
nell'ipotesi in cui un lavoratore subentri ad altro nello svolgimento
delle mansioni superiori di un dipendente assente con diritto alla
conservazione del posto non è ravvisabile un fenomeno di sostituzione
mediante scorrimento (o «a catena» o «a cascata») e lo svolgimento delle
mansioni superiori non è utile, ai fini dell'acquisizione della
corrispondente qualifica ai sensi dell'art. 2103 c.c., neppure al
lavoratore subentrante all'originario sostituto, con detto subentro
attuandosi, in definitiva, la sostituzione del lavoratore assente
(anziché del suo
-
In talune ipotesi è stata aperta una breccia alla
regola della portata ostativa alla promozione del carattere solo vicario
delle mansioni superiori svolte, allorché l’esigenza della sostituzione
sia derivata da un’obiettiva insufficienza o da carenza dell’organico
dell’impresa, fatti che è il dipendente a dover provare o almeno
dedurre. In tali evenienze invero il riferimento alla sostituzione
di lavoratori assenti sarebbe solo diretto a giustificare l’affidamento
di mansioni superiori, reso invece necessario da carenze strutturali di
organico, si ché il sostituto andrebbe a ricoprire un vero e proprio
posto nell’organigramma effettivo dell’impresa[71].
-
Naturalmente, cessata la causa della sostituzione
(per esempio, per dimissioni del sostituito) l'eventuale proseguimento
dello svolgimento delle suddette mansioni diviene utile ai fini del
superiore inquadramento solo quando superi i tre mesi, senza possibilità
di cumulo col periodo anteriore
[72].
-
Il carattere vicario delle mansioni espletate
preclude non solo il diritto alla promozione, ma anche quello alla
maggiore retribuzione per il periodo della sostituzione, allorché
l’assegnazione stessa non sia stata piena. Tale ultima condizione si
verifica sia quando la sostituzione non abbia riguardato mansioni
proprie della qualifica rivendicata, né comportato l’assunzione
dell’autonomia e della responsabilità tipiche della qualifica stessa[73]
sia ancora quando le mansioni proprie della qualifica del sostituto
comprendano compiti di sostituzione di dipendenti di grado più elevato[74],
sia, infine, quando l’attività sostitutiva abbia concorso con mansioni
prevalenti dell’inferiore qualifica di appartenenza[75].
-
E’ utile far presente che alcuni c.c.n.l., in
ipotesi di sostituzione di dipendente assente con diritto alla
conservazione del posto, pongono a carico del datore di lavoro l’obbligo
di comunicare per iscritto al sostituto i motivi dell’adibizione alle
mansioni superiori ed il nominativo del dipendente sostituito[76].
-
·
assegnazione a mansioni superiori
-
Il presupposto del diritto al superiore
inquadramento non è costituito solo dalla circostanza che il lavoratore
svolga mansioni superiori, ma che egli vi sia «assegnato»; pertanto,
deve escludersi che il diritto al superiore inquadramento possa
acquisirsi per effetto del mero svolgimento di un compito superiore e
della mera inerzia del datore di lavoro, ove questa, per le precise
circostanze in cui si esplichi, non esprima univocamente ed
inequivocabilmente un consenso; infatti l'assegnazione delle mansioni è
un atto in cui si esplica il potere organizzativo del datore di lavoro
(qualora le mansioni non siano dedotte nel contratto di lavoro) e non
costituisce, invece, «terreno di iniziativa» del lavoratore[77]..
Tuttavia, l’assenza di investitura formale è irrilevante ai fini
de quibus[78].
-
La prova del consenso del datore di lavoro
costituisce oggetto di accertamento necessario soltanto qualora il
datore di lavoro contesti (fatto impeditivo) la pretesa del dipendente
provando che le mansioni superiori sono state svolte contro la sua
espressa volontà[79].
-
In tema di rapporto di lavoro degli addetti ai
pubblici servizi di trasporto, deve rammentarsi che la sussistenza
dell’ordine scritto del direttore dell’azienda costituisce elemento
costitutivo della domanda di promozione al grado superiore per lo
svolgimento delle relative mansioni. La esistenza di tale requisito deve
dunque essere provata dal lavoratore che rivendichi la promozione e,
pertanto, nel caso in cui l’ordine sia stato impartito dal
vice-direttore, incombe sul prestatore l’onere di allegare e provare che
questi abbia agito su delega o disposizione del direttore, posto che la
delega, costituisce, in tal caso, un elemento integratore della
fattispecie[80].
-
·
Non
risultano concordi le opinioni, giurisprudenziali e dottrinali, sulla
necessità o meno del consenso, anche implicito, del lavoratore,
per la promozione automatica.
-
Per la rinunciabilità, da parte del dipendente, al
diritto all’assegnazione a mansioni superiori, si argomenta che il
potere di assegnazione provvisoria a mansioni superiori è da ritenersi
implicitamente ricompreso nello ius variandi unilaterale che
l'art. 2103 c.c. riconosce al datore di lavoro, in quanto soddisfa
l'esigenza di tutela della professionalità della mano d'opera che la
norma persegue; il consenso del dipendente è invece necessario per
l'operatività della c.d. promozione automatica che dalla suddetta
assegnazione possa eventualmente derivare[81].
In senso contrario, ha chiarito che l'art. 13, l. n. 300 del 1970 non
contiene un assoluto divieto, per il datore di lavoro, di assegnare il
lavoratore a mansioni superiori senza il suo consenso: è pertanto
consentito alla contrattazione collettiva disciplinare le modalità
secondo le quali, nei limiti derivanti dall'esigenza di tutela della
professionalità del lavoratore, può e deve esercitarsi l'anzidetto
ius variandi in melius[82].
-
·
E’
importante anche chiarire che nel lavoro privato l’argomento speso
sovente dalla parte datrice, circa l’insussistenza della qualifica
pretesa nell’organico aziendale è giuridicamente inconcludente.
Infatti, nell’ambito del lavoro privato domina un principio di
effettività, per il quale risulta tendenzialmente predominante il dato
materiale riscontrabile. In questo senso, il meccanismo di promozione
automatica di cui all’art. 2103 c.c., persegue essenzialmente lo scopo
di adeguare il modello organizzativo a mutate esigenze operative. Di
contro, nel contesto pubblico, è l’organizzazione, che è regola
giuridica astratta, a determinare la gestione. Dunque è la realtà ad
essere dominata dall’atto amministrativo, cioè dalla forma. In questa
prospettiva la rigidità della dotazione organica, come norma di diritto
obiettivo e, più in generale, la signoria dello stato di diritto sullo
stato di fatto, corollari del principio di legalità dell’azione
amministrativa, costituiscono la ratio portante della diversa disciplina
menzionata.
-
La
prospettiva che si va illustrando risulta spesso posta dalla Cassazione
a base di varie decisioni. La Corte, infatti, proprio constatando l’adibizione
continuativa di un dipendente ad una certa mansione risale alla
conclusione della relativa carenza di organico, con la conseguente
necessità di suo adeguamento (cfr. per esempio, Cass. n. 13940/2000).
-
Dunque,
la mancata previsione aprioristica della qualifica ambita nell’organico
formale non ha alcuna rilevanza, potendosi, semmai, dimostrare, ex
post, proprio il dato deficitario dell’organizzazione del soggetto
datore di lavoro, oggetto di necessario adattamento.
-
·
Anche nella materia delle promozioni automatiche
la giurisprudenza conferma la tesi interpretativa ormai ampiamente
diffusa nel settore lavoristico inerente l’insussistenza di un
principio di parità di trattamento tra i dipendenti. In particolare
si è ritenuto che nel nostro ordinamento non è possibile individuare un
principio che imponga la parità di trattamento tra lavoratori che
svolgano identiche mansioni; infatti, l'art. 36 Cost. si limita a
garantire la sufficienza e la proporzionalità della retribuzione alla
qualità e alla quantità del lavoro prestato, mentre il canone della
ragionevolezza, che rappresenta un utile criterio di valutazione del
rispetto da parte del legislatore del principio di uguaglianza posto
dall'art. 3 Cost., non può essere applicato con la stessa efficacia
nella valutazione dei regolamenti privati di interessi, che siano frutto
dell'autonomia contrattuale; ne consegue che, a fronte di una
contrattazione collettiva che introduca posizioni e trattamenti
diversificati, è precluso al giudice l'esame della razionalità del
regolamento contrattuale, a meno che risultino violate specifiche norme
di diritto positivo[83].
Ai fini che interessano, non può dunque assumere alcuna utile efficacia
euristica la comparazione soggettiva delle diverse posizioni lavorative
in seno all’organizzazione aziendale.
-
Sulla stessa falsariga si esclude possa essere in
sé considerato atto discriminatorio vietato l’attribuzione da parte
dell’imprenditore di una qualifica superiore ad un dipendente e non ad
altro impiegato in identiche mansioni. A quest’ultimo pertanto, salva
l’applicazione dell’art. 15 dello statuto dei lavoratori, potrà essere
riconosciuta la qualifica superiore solo ove si riscontrino
singulatim verificate le condizioni a tale fine richieste dalla
normativa collettiva e dall’art. 2103 c.c.[84].
Nella medesima prospettiva va letto l’orientamento giurisprudenziale per
così dire simmetrico, secondo cui è legittima l'attribuzione al
lavoratore, quale trattamento di favore, di una qualifica superiore a
quella corrispondente alle mansioni svolte, essendo in tal caso
irrilevante chiedere di provare, ad inficiare la validità del
conferimento, la non corrispondenza in concreto della qualifica formale
alle mansioni effettive[85].
-
·
Va rammentato, anche per quanto qui interessa, che
la disciplina prevista dall’art. 2103 c.c. ha carattere inderogabile,
comportando la nullità di ogni disposizione contrattuale contraria[86].
Ancora, si è opinato che in sede di applicazione dell'art. 2103 sono
irrilevanti i titoli d'investitura o di studio posseduti dal lavoratore
che rivendica la qualifica superiore, giacché, eccettuato il caso in cui
esclusivamente a titoli del genere sia ancorata la attribuzione della
qualifica e salvo ogni giudizio sulla validità di limitazioni simili
poste dalla disciplina collettiva, quel che occorre valutare è se il
lavoratore abbia esercitato mansioni superiori a quelle corrispondenti
alla qualifica assegnatagli, in quanto è tale esercizio, come fatto, che
da solo si sostituisce ai requisiti formali[87].
-
-
E’ utile ancora ricordare che diritto del
lavoratore al riconoscimento di una qualifica superiore - e cioè ad una
diversa collocazione nell'impresa attraverso l'attuazione degli
strumenti classificatori all'uopo predisposti - soggiace alla
prescrizione ordinaria decennale di cui all'art. 2946 c.c. Viceversa
va osservato che qualora il lavoratore deduca l'espletamento di mansioni
superiori, rispetto a quelle corrispondenti alla qualifica
riconosciutagli, non per conseguire un diverso inquadramento, ma, in via
strumentale, per ottenere un adeguamento del trattamento retributivo,
anche ai fini della maggiorazione della indennità di fine rapporto, il
diritto vantato è soggetto non alla prescrizione decennale - propria
appunto del diritto alla qualifica - ma a quella quinquennale ex art.
2948 c.c.[88].
Detto termine breve decorre anche quando il diritto a tali differenze
venga fatto valere contemporaneamente al diritto all'attribuzione alla
qualifica superiore, soggetto alla prescrizione ordinaria[89].
-
·
E’ utile precisare, in materia di giudicato
formatosi su domanda di riconoscimento di qualifica superiore ai sensi
dell’art. 2103 c.c., che il medesimo ricomprende ogni possibile profilo
inerente il fatto costitutivo dedotto, estendendosi ad ogni possibile
ragione di fatto che l’attore avrebbe potuto dedurre a sostegno della
pretesa[90].
-
3.2
Oneri della prova
-
E’
pacifica l’affermazione per cui grava sul dipendente che rivendichi la
superiore qualifica l’onere di dimostrare il contenuto delle mansioni
effettivamente svolte e la loro corrispondenza a quelle delineate dal
contratto collettivo di categoria per il livello preteso. “Incombe
sul lavoratore, che rivendica nei confronti del datore di lavoro una
superiore qualifica professionale in relazione alle mansioni svolte,
dimostrare:
-
-
la
natura e il periodo di tempo durante il quale le mansioni sono state
svolte;
-
- il
contenuto delle disposizioni individuali, collettive o legali in forza
delle quali la qualifica superiore viene rivendicata;
-
- la coincidenza delle mansioni svolte con quelle
descritte dalla norma individuale, collettiva o legale di riferimento”[91].
-
Di recente la Suprema corte ha peraltro ribadito
che, al fine dell’adempimento agli oneri imposti dall’art. 414 nn. 3 e 4
il lavoratore interessato deve specificare, con sufficiente analiticità,
le mansioni effettivamente svolte e la normativa collettiva applicabile[92].
-
E’ d’uopo ancora ricordare che la giurisprudenza
costante di legittimità afferma che, nella domanda del dipendente
rivolta ad ottenere l’inquadramento in una più elevata qualifica, deve
ritenersi implicitamente inclusa la rivendicazione di una qualifica
inferiore, ma pur sempre superiore a quella di fatti riconosciuta[93]
.
-
Circa poi l’iter logico che il giudicante
deve seguire per pervenire ad un corretto accertamento del diritto del
lavoratore ad un inquadramento professionale superiore, in conseguenza
delle mansioni concretamente svolte, il medesimo, dopo avere considerato
dette mansioni, le loro modalità di espletamento e la configurazione
dell’unità produttiva, deve richiamare le declaratorie contrattuali ed
operare il necessario raffronto[94].
Detta valutazione del giudice del merito costituisce un giudizio di
fatto, censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei
criteri di ermeneutica nell’interpretazione della disciplina collettiva
in tema di qualifiche o per vizi di motivazione[95].
Poiché l’appartenenza delle mansioni superiori ad altro lavoratore
assente con diritto alla conservazione del posto (così come il dissenso
alla prestazione) è generalmente configurata come l’eccezione alla
regola di cui all’art. 2103 c.c., si tratterebbe di un fatto
impeditivo del diritto azionato. Il relativo onere allegatorio e
probatorio spetta dunque al datore di lavoro[96].
Ma si registra, anche l’opinione (minoritaria) contraria, di chi
configura la circostanza de qua come fatto costitutivo del diritto[97].
-
-
3.3
3.3
Il pubblico impiego.
-
-
SITUAZIONE ANTE PRIVATIZZAZIONE
-
In questo specifico ambito, la giurisprudenza
amministrativa si è sempre dimostrata granitica nel ritenere che, salvo
che una legge non disponga diversamente, le mansioni svolte da un
dipendente, che siano superiori rispetto a quelle dovute sulla base del
provvedimento di nomina o di inquadramento, sono del tutto irrilevanti,
sia ai fini economici che a quelli della progressione in carriera,
ovvero della emanazione di un provvedimento di preposizione ad un
ufficio. Si afferma, infatti, che è inapplicabile in materia di pubblico
impiego il principio privatistico di effettività sancito dall'art. 2103
c.c., a ciò ostando le norme che disciplinano l'assunzione a mezzo di
concorso, la progressione in carriera, i requisiti e gli organici[98],
in sintonia con i valori di imparzialità e di buon andamento enunciati
dall'art. 97 Cost.[99].
-
Per esigenze di completezza va precisato che la
questione è rimasta parzialmente incisa, pur se non in maniera
risolutiva, da alcune pronunce della Corte Costituzionale, nelle quali
si è affermata l’applicazione diretta anche al personale della P.A.
delle norme degli artt. 36 Cost. e 2126 c.c.[100].Sulla
base di tali interventi si sono avute alcune decisioni del Consiglio di
Stato in adunanza plenaria, che hanno riconosciuto al dipendente
pubblico il diritto al trattamento economico corrispondente all'attività
svolta[101].
-
Una parte della giurisprudenza amministrativa si è
uniformata all’orientamento inaugurato dall’Adunanza plenaria nelle
decisioni sopra citate[102].
-
La giurisprudenza amministrativa prevalente,
invece, a fronte di sentenze interpretative di rigetto della Corte
Costituzionale, come tali non vincolanti, ha confermato l’indirizzo più
restrittivo, escludendo così che l’orientamento più favorevole ai
lavoratori, ora menzionato, avesse un effettivo seguito. In particolare
si è ritenuta, in casi di tal fatta, l’inapplicabilità l'art. 2126,
c.c., norma che riguarderebbe solo lo svolgimento del lavoro da parte di
chi non è dipendente pubblico o di chi è stato assunto in base ad un
titolo nullo o annullato e che, comunque, non legittima la deroga o la
disapplicazione degli atti di nomina o d'inquadramento di tali
dipendenti[103].
Secondo altra opzione interpretativa, pur largamente condivisa, il
diritto al superiore trattamento economico insorgerebbe solo in presenza
di prova documentale dell’affidamento di mansioni superiori, quando
l’espletamento di queste risulti prevalente e quando il posto coperto
risulti vacante[104].
-
Le
decisioni dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato nn. 22 del 1999,
10 del 2000 e poi, da ultimo, 3 del 2006 hanno riaffermato, con ampie
motivazioni, l’originaria tesi della irrilevanza assoluta, giuridica ed
economica, dello svolgimento di fatto di mansioni superiori nell’ambito
del pubblico impiego, anche sulla base dell’efficacia non retroattiva
dell’art. 15 d.lgs. n. 387/1998.
-
-
-
L’ART. 52 del D.LGS. n. 165/2001
-
Nel contesto normativo e giurisprudenziale sin qui
illustrato si inserisce la nuova disciplina delle mansioni del
dipendente pubblico introdotta dall’art. 56 del d.lgs. n. 29 del 3
febbraio 1993, modificato dall’art. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998 e
dall’art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998, ora art. 52 del d.lgs. n.
165/2001[105].
-
La
disposizione richiamata, nel suo primo comma, espressamente sancisce che
“l’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di
appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore”.
-
Al
quarto comma poi la norma riconosce, in caso di adibizione a mansioni di
qualifica superiore, il diritto al relativo “trattamento”.
-
Dunque, anche a seguito della nota riforma di
privatizzazione del pubblico impiego, si è voluto attribuire portata
decisiva non al dato fattuale delle mansioni, ma a quello formale
risultante della qualifica[106].
-
Specifica menzione va quindi effettuata al sesto
comma del medesimo art. 56, il quale attribuisce ai contratti collettivi
la facoltà di “regolare diversamente gli effetti di cui ai commi 2°, 3°
e 4°”. Taluni autori hanno esaltato tale norma come novità “eclatante”.
Si è infatti sostenuto che il legislatore, con tale disposizione,
consentendo alle parti sociali di derogare alle disposizioni di legge,
lascerebbe aperta la possibilità di prevedere, in sede di contrattazione
collettiva, meccanismi di avanzamento automatico di carriera, sulla base
dell’attività lavorativa effettivamente espletata[107].
La conclusione interpretativa esposta non appare tuttavia così
incontrovertibile. Va soprattutto evidenziato, rimanendo ancorati ad
un’interpretazione fedele al senso delle parole, che il citato comma
sesto riconosce alle parti sociali autonomia di regolamentazione solo
nella materia di cui ai commi 2°, 3 ° e 4°.
-
Ebbene,
poiché l’affermazione sopra riportata, di irrilevanza, ai fini della
promozione automatica, dell’esercizio di fatto di date mansioni, è
viceversa contenuta nel primo comma della disposizione, non sembra che
la medesima possa essere validamente derogata da eventuali difformi
previsioni contrattuali.
-
I commi
2, 3 e 4 dell’art. 52 tipizzano le ipotesi nelle quali il dipendente può
essere legittimamente assegnato allo svolgimento di mansioni superiori.
E’ questo l’unico punto di relativa flessibilità di un sistema
classificatorio basato sul ruolo organico, formale e rigida
individuazione delle prevedibili necessità di forza lavoro.
-
In
tutti i casi è necessaria la sussistenza di “obiettive esigenze di
servizio”, cioè di ragioni verificabili e sindacabili inerenti
l’organizzazione del lavoro, tali da rendere necessitato il mutamento
in melius delle mansioni del lavoratore; le stesse andranno
evidentemente esternate nell’atto di adibizione.
-
La
norma consente detta assegnazione solo con riguardo alla “qualifica
immediatamente superiore” a quella rivestita dall’interessato.
-
Si
rende dunque necessario chiarire il concetto di “qualifica” utilizzato
dal legislatore in relazione al nuovo sistema di classificazione del
personale, cui si è già fatto cenno. Sorge, infatti, l’interrogativo se
la norma si applichi solo nel caso di mansioni proprie di altra
area/categoria (usando la terminologia usata nei ccnl) o anche nelle
ipotesi di spostamento interno all’area, per esempio in mansioni
corrispondenti ad un livello economico superiore.
-
Pare doversi accedere a tale seconda opzione
interpretativa, atteso che, nel nuovo sistema classificatorio, sovente
nella stessa area/categoria sono raggruppati più profili tra loro
eterogenei sia per il contenuto professionale che per l’aspetto
retributivo, profili interconnessi solo per procedure selettive interne
ascendenti. L’autonomia delle singole posizioni interne all’area impone,
dunque, di ritenere qualifica superiore, ai sensi della norma in esame,
anche il superiore profilo nell’ambito dello stessa area di appartenenza[108]
, salvo norme espresse in senso diverso[109].
-
La norma tipizza due ipotesi che legittimano il
mutamento di mansioni: a) la vacanza del posto in
organico[110]
e b) la sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla
conservazione del posto (esclusa l’assenza per ferie).
-
Intanto, è il caso di sottolineare che, in ambedue
le evenienze, il conferimento delle mansioni superiori deve avvenire “di
diritto”, cioè sulla base di un atto formale di assegnazione proveniente
dal dirigente dell’unità organizzativa interessata[111].
Il Consiglio di Stato ha spiegato che tale requisito mira ad impedire
che il singolo dipendente, di propria iniziativa o col consenso
compiacente di altri organi incompetenti, possa assumere incarichi di
livello superiore, aggirando le procedure selettive[112].
In questo senso, si è ritenuto che il difetto di tale atto formale non
sia sanabile attraverso un atto ricognitivo dell’organo competente che
attesti, ex post, l’effettivo svolgimento delle mansioni .
-
Andando
a valutare le singole ipotesi, nella prima evenienza l’horror vacui
giustifica lo spostamento in questione, tuttavia la lettera a) del
comma 2, dell’art. 52 delimita lo spazio temporale in cui è possibile
tale copertura straordinaria in sei mesi, prorogabili fino a dodici in
caso di attivazione delle ordinarie procedure di copertura. Infatti il
successivo quarto comma impone all’Amministrazione di procedere entro
novanta giorni dall’assegnazione provvisoria all’avvio delle procedure
necessarie per la provvista di personale. Il superamento del termine
semestrale, senza avvio dei concorsi, comporta l’improrogabilità
dell’assegnazione a mansioni superiori. Lo sforamento del termine di
novanta giorni non sembra invece accompagnato da alcun precipuo effetto
per l’amministrazione.
-
Quanto
alla seconda ipotesi, con espressione mutuata dall’art. 2103 cit., la
necessità di sostituzione di un collega assente con diritto alla
conservazione del posto giustifica l’ius variandi ; è esclusa
l’ipotesi delle ferie, durante le quali dunque non si può legittimamente
provvedere alla sostituzione con lavoratore di grado inferiore .
-
Va peraltro precisato che, a mente del comma 3°
dell’art. 52, costituisce esercizio di mansioni superiori solo
l’attribuzione in “modo prevalente, sotto il profilo qualitativo,
quantitativo e temporale, dei compiti” propri di dette mansioni .
Dunque, anche in difetto della prevalenza per uno solo dei predetti
aspetti, non vi sarà titolo per le differenze retributive[113].
-
Quanto agli effetti della fattispecie tipizzata e
sin qui illustrata, il comma 4° dell’art. 52 riconosce al lavoratore
interessato il diritto al trattamento previsto per la qualifica
superiore per il periodo di effettiva prestazione . Nel concetto di
“trattamento” deve farsi rientrare non solo una certa posizione
retributiva, ma anche tutta la congerie di situazioni giuridiche
correlate ad una certa posizione di servizio (es. valutabilità come
titolo; indennità accessorie[114]
).
-
Ove poi
ci si interrogasse sull’ipotesi d’inosservanza dei requisiti previsti
dalla disposizione (per esempio insussistenza di obiettive esigenze di
servizio; copertura del posto vacante per più di un anno), il 5° comma
dell’art. 52 sancisce la nullità dell’assegnazione a mansioni di
qualifica superiore, ma al lavoratore si riconosce la differenza di
trattamento economico rispetto alla qualifica superiore.
-
Dunque
è da escludere che lo scorretto esercizio del ius variandi crei
l’effetto di stabilizzazione di cui all’art. 2103 c.c., proprio per quel
principio generale, insuperabile, di cui al comma 1°, dell’insensibilità
dell’inquadramento formale rispetto alla realtà fattuale. L’assegnazione
fuori dei limiti consentiti è nulla, cioè è improduttiva di effetti,
giuridici e contrattuali (per esempio non è valutabile come titolo);
genera invece il solo diritto del lavoratore alla “differenza di
trattamento economico” (da ritenersi di ampiezza inferiore rispetto
all’ipotesi di svolgimento di diritto delle mansioni). Trattandosi di
obbligazione ad oggetto contra legem il prestatore potrebbe
comunque legittimamente rifiutarsi di adempiere. Peraltro, con
disposizione che riecheggia altre norme del nuovo sistema del lavoro
pubblico, se la forma non può seguire il fatto, rimane comunque la
responsabilità del dirigente che ha disposto l’assegnazione invalida per
dolo o colpa grave (cfr. art. 3 D.L. 23.10.1996 n. 543). Trattasi, in
effetti, di azione di rivalsa della P.A. nei confronti del dipendente
responsabile per il danno erariale dal medesimo cagionato. È da
ritenersi che in tale evenienza debba fornirsi la prova di un danno
effettivo subito dalla P.A., allorché, ad esempio, le medesime esigenze
obiettive di servizio avrebbero ben potuto essere soddisfatte con altri
strumenti economicamente più convenienti (es. mobilità orizzontale;
correzione dell’orario di lavoro; passaggi da amministrazioni diverse
del comparto). Non appare convincente, viceversa, la tesi di una
responsabilità formale, cioè con danno presunto, proprio perché con la
corresponsione della retribuzione al dipendente interessato e con lo
svolgimento da parte sua, anche solo di fatto di una prestazione, è in
effetti implicita l’idea di una utilitas comunque ricevuta
dall’Amministrazione. L’ultimo comma dell’art. 52, ai fini dell’entrata
in vigore della nuova disciplina, adotta il criterio certo della
decorrenza stabilita dai contratti collettivi, potendo lo stesso art. 52
trovare applicazione solo in sede di attuazione della nuova disciplina
degli ordinamenti professionali. Fino a tale data il legislatore
ribadisce che “in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori
rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto ad
avanzamenti automatici”. Si trova poi definita l’attribuzione ai
contratti collettivi del potere di regolare diversamente “gli effetti di
cui ai commi 2°, 3° e 4°”.
-
Risulta
chiara ed apprezzabile la scelta legislativa di imperniare comunque
tutto il sistema mansionistico sulle scelte delle parti sociali. Nella
significativa scelta di delegificare anche questa materia si ha, del
resto, un’ulteriore conferma della fiducia riposta dal legislatore,
sulla falsariga dell’esperienza privata, nella capacità delle
organizzazioni rappresentative di meglio comporre i conflitti e
realizzare gli interessi contrapposti.
-
Peraltro i primi contratti di comparto hanno per lo più confermato la
disciplina dell’art. 52 (v. art. 3 Regioni), rinviando, semmai, per
un’eventuale integrazione ad una futura contrattazione. Se i nuovi
criteri contrattuali d’inquadramento del personale costituiscono la
spina dorsale del sistema legale di regolamentazione delle mansioni, va
da sé che quest’ultimo non possa essere operativo senza la compiuta
definizione della disciplina pattizia. E’ così spiegato l’ultimo comma
dell’art. 52 che prevede appunto il differimento del vigore della norma.
-
Il
temporaneo congelamento degli effetti dell’art. 52 è tuttavia limitato
al solo profilo qualificatorio: il comma 6 della norma, che estendeva
l’inapplicabilità della stessa anche ai profili retributivi, è stato
modificato dal decreto n. 80, così da rendere immediatamente vigente il
precetto attributivo di diritti patrimoniali .
-
Nonostante lo spazio lasciato alle organizzazioni rappresentative, va,
comunque, evidenziato quanto, nell’economia dell’art. 52, pesi ancora il
retaggio di un’amministrazione burocratica e formalista. Infatti il
legislatore ha rimesso alle parti sociali la regolamentazione del
fenomeno mansionistico, riservandosi, tuttavia, una zona franca di
spiccato rilievo.
-
In particolare merita di essere osservato che
l’ultimo comma dell’art. 52 concede autonomia alle parti sociali solo
nella regolamentazione degli “effetti di cui ai commi 2°, 3° e 4°”, ciò
vuol dire che le fattispecie tipizzate dovrebbero rimanere ferme così
come le ha imposte il legislatore[115].
In questo senso lo spazio per la deroga ai predetti commi risulta in
effetti circoscritto al solo svolgimento di mansioni superiori “di
diritto” (cioè nelle fattispecie tipizzate) non anche di mero fatto (il
primo comma dell’art. 52 rimane infatti inderogabile) .
-
Seguendo tale ragionamento si ricava che, per esempio circa la
promozione automatica per svolgimento di mansioni superiori prevista
dagli organismi rappresentativi, comunque rimarrebbe fermo l’importante
ed ingombrante presupposto della “vacanza di posto in organico”. Infine
è giusto il caso di ricordare che, secondo quanto disposto dall’art. 19,
1° comma, del decreto legislativo n. 29 citato, per i dirigenti pubblici
è espressamente e radicalmente esclusa l’applicabilità dell’art. 2103
c.c.
-
-
3.4
Oneri della prova
-
Il
diritto al (solo) trattamento economico della qualifica
immediatamente superiore sorge se il ricorrente ALLEGA E PROVA i
seguenti fatti costitutivi del diritto:
-
·
sussistono obiettive esigenze di servizio +
-
·
vacanza
posto in organico (per non più di 6/12 mesi) oppure
-
·
sostituzione di dipendente assente con conservazione del posto (escluso
ferie) +
-
·
le
mansioni superiori devono essere prevalenti
-
-
Se non
ricorrono tali condizioni, l’assegnazione è nulla, ma rimane il diritto
alla differenza di trattamento economico.
-
I ccnl non possono derogare al divieto di
promozione automatica[116].
-
-
5.1
Assenza di riconoscimento giuridico
-
Ad oggi, non esiste una definizione normativa del
mobbing, ciò vuol dire che con questo nome non può essere individuata
alcuna categoria giuridica, che sia, in quanto tale, riconosciuta da
norme di diritto positivo[128].
-
Il
mobbing costituisce perciò solo un fenomeno enucleato dalla psicologia e
dalla sociologia, ma senza una propria autonoma dignità giuridica.
-
Con questo importante limite, per finalità
meramente descrittive, il fenomeno ben può essere descritto utilizzando
le parole usate dalla Corte di cassazione, in una delle più
significative sentenze in tema[129]:
“una fattispecie di danno derivante da una condotta del datore di
lavoro protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione,
finalizzata all’emarginazione del lavoratore”. In termini
sostanzialmente analoghi si è espressa la Corte Costituzionale[130].
Dunque, i tratti caratterizzanti la figura sono:
-
·
la
reiterazione e la sistematicità di condotte ostili, ancorché non
necessariamente illegittime o illecite[131];
-
·
l'intenzionalità della strategia persecutoria[132].
-
-
5.2
Inutilità della nozione: sussunzione negli art. 2087 e/o 1375 c.c.
-
In
realtà, quel che interessa evidenziare è che il mobbing, non solo non è
categoria riconosciuta come tale dal diritto positivo, ma non risulta
nemmeno un concetto scientificamente necessario o
-
Infatti, sia che si consideri la fattispecie per l’aspetto della
condotta sanzionata, sia che la si esamini per il profilo dei danni
risarcibili, se ne conferma l’inutilità rispetto alle figure ed agli
strumenti già - la condotta. Secondo alcuni commentatori la
nozione di mobbing varrebbe a colpire quegli atti datoriali che
considerati partitamene ed isolatamente sembrerebbero leciti, e che,
solo collocati in una sequenza ripetitiva protratta e connotati
dall’intento persecutorio, cioè riqualificati come atti mobbizzanti,
potrebbero essere sanzionati.
-
L’assunto non convince.
-
Infatti, intanto, molte condotte datoriali sono già colpite da singole
disposizioni specifiche (es. sulle mansioni, trasferimenti, sanzioni,
discriminazioni, v. infra).
-
Inoltre, come chiaramente affermato dalla
Cassazione la “condotta sistematica e
protratta nel tempo, .. concreta, per le sue caratteristiche vessatorie,
una lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del prestatore
di lavoro, garantite dall’articolo 2087 c.c.; tale illecito, che
rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto da questa
norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con
comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro
indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali
previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato”[134].
-
L’art. 2087 c.c., ha dunque una portata precettiva
tale da ricomprendere, come norma primaria costituiva di obblighi,
qualsiasi atto o comportamento comunque lesivo della persona del
lavoratore, in ragione delle sua caratteristiche vessatorie. E’ invero
una norma di chiusura, atta ad imporre la “massima sicurezza fattibile”[135]:
“l’art. 2087 ha il pregio di qualificare la condotta non in base al suo
contenuto, ma in considerazione del bene protetto.. evitando così ogni
rischio d’incompletezza”[136].
-
Importa, peraltro, rimarcare che l’art. 2087
sancisce la tutela dell’integrità fisica (in cui rientra certamente
l’integrità psichica, essendo la psicopatia una patologia fisica) e,
insieme, della “personalità morale”, dovendosi ricomprendere in tale
espressione (v. infra) l’insieme delle condizioni esistenziali di
vita del lavoratore[137].
-
Si
aggiunga che la giurisprudenza di merito attraverso l’elaborazione della
figura del mobbing, caratterizzata dal richiesto requisito
dell’intenzionalità della condotta, cioè del dolo, arriva in sede
applicativa a ridimensionare se non azzerare le istanze di protezione
del dipendente. E’ noto, infatti, che l’onere probatorio consistente
nella dimostrazione di un’intenzionalità, cioè dell’animus nocendi,
risulta alla fine una probatio diabolica.
-
Si aggiunga ancora che le norme degli artt.
1175 e 1375 c.c., integrative del contenuto del contratto di lavoro
subordinato, ex art. 1374 c.c., impongono, in maniera atipica, cioè con
potenzialità espansiva massima, che i contraenti tengano comportamenti
corretti e di buona fede. Ed è evidente come da tali norme siano già
ampiamente sanzionati comportamenti o atti mobbizzanti[138].
Non può, in materia, essere trascurato che in effetti la questione degli
atti leciti mobbizzanti rientra nella più ampia tematica dell’abuso
dei poteri privati.
-
Ora,
non è qui la sede per riproporre una problematica così sterminata; giova
solo richiamare all’attenzione l’esito interpretativo di un’ampia
elaborazione, ormai assestata, riportando l’illuminante pensiero di
Cassazione.
-
La Corte “ritiene
di condividere l'indirizzo secondo cui l'intenzionalità del
comportamento del datore di lavoro, mentre é irrilevante nel caso di
condotta contrastante con norma imperativa, può assumere rilievo quando
la condotta del medesimo, pur se lecita nella sua obiettività, presenti
i caratteri dell'abuso del diritto (sent. 5922-87). In questo caso,
infatti, l'esercizio del diritto da parte del titolare si esplicita
attraverso l'uso abnorme delle relative facoltà ed é indirizzato a fine
diverso da quello dalla norma tutelato e, in coerenza alla norma dettata
in tema di proprietà (art. 833 c.c.), assume, nel campo delle
obbligazioni e del rapporto di lavoro in particolare, carattere di
illiceità per contrasto con i principi di correttezza e buona fede,
i quali assurgono a norma integrativa del
contratto di lavoro in relazione all'obbligo di
solidarietà imposto alle parti contraenti dalla comunione di scopo
che entrambe, sia pure in diversa e talora opposta posizione,
perseguono”[139].
-
Dunque,
i fatti o atti concretizzanti le fattispecie di mobbing sono già
colpiti, pur nella loro astratta liceità, da altre norme del sistema.
-
-
- Il
danno. Parimenti va negata la necessità di utilizzare il mobbing per
garantire il risarcimento di voci di danno, altrimenti non risarcibili.
-
Infatti, come si approfondirà, i più recenti orientamenti
giurisprudenziali garantiscono il risarcimento di ogni forma di danno,
anche non patrimoniale, ai sensi degli artt. 2087, 2059 c.c.
-
-
5.3
Conseguenze della riconduzione del mobbing alla disciplina dell’art.
2087 c.c.
-
Conclusivamente, il fenomeno in esame rimane quasi
interamente assorbito e disciplinato dalla norma dell’art. 2087
c.c.: trattasi di responsabilità di
natura contrattuale[140],
essendo fondata sull’inadempimento di un’obbligazione giuridica
preesistente[141].
-
Dalla prospettata natura contrattuale della
responsabilità, la stessa giurisprudenza ricava, per quel che qui
interessa, significative implicazioni sul piano della distribuzione
degli oneri probatori relativi.[142].
-
Come è già stato anticipato, infatti, la
presunzione legale di colpa - stabilita (dall'articolo 1218 c.c., cit.)
a carico del datore di lavoro inadempiente all'obbligo di sicurezza (di
cui all'articolo 2087, cit.) - deroga, parzialmente, il principio
generale (articolo 2697 c.c.), che impone - a "chi vuol fare valere un
diritto in giudizio" - l'onere di provare "i fatti che ne costituiscono
il fondamento". Non ne risulta, tuttavia, una ipotesi di responsabilità
oggettiva (ma per colpa[143]),
né la dispensa, da qualsiasi onere probatorio, del lavoratore
danneggiato.
-
“Questi, infatti, resta gravato - in forza del
ricordato principio generale (articolo 2697 c.c., cit.) - dell'onere di
provare il "fatto" costituente inadempimento dell'obbligo di sicurezza
nonché il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento stesso ed il
danno da lui subito, mentre esula dall'onere probatorio a carico del
lavoratore - in deroga, appunto, allo stesso principio generale - la
prova della colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad
integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento (come
ad ogni altro rimedio contro il medesimo inadempimento). È lo stesso
datore di lavoro, infatti, ad essere gravato (ai sensi dell'articolo
1218 c.c.) - quale "debitore", in relazione all'obbligo di sicurezza,
appunto - dell'onere di provare la non imputabilità dell'inadempimento”[144].
-
Diverso
risulta, tuttavia, (anche) il contenuto dei rispettivi oneri probatori a
seconda che le misure di sicurezza - asseritamente omesse - siano
espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte
parimenti vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di
rischi specifici (quali le misure previste dal D.Lgs 626/94 e successive
integrazioni e modifiche, come dal precedente Dpr 547/55), oppure
debbano essere ricavate dalla stessa disposizione (articolo 2087 c.c.,
cit.) che impone l'obbligo di sicurezza.
-
Nel primo caso - di misure di sicurezza (o
prevenzione), pero cosi dire, nominate - il lavoratore ha l'onere
di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte
impositiva della misura stessa - cioè il rischio specifico, che
s'intende prevenire o contenere - nonché, ovviamente, il nesso di
causalità materiale tra l'inosservanza della misura ed il danno subito.
La prova liberatoria a carico del datore di lavoro, poi, parimenti si
esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore:
negazione, cioè, dell'obbligo o, comunque, dell'inadempimento - in
relazione a quella stessa misura di sicurezza (o di prevenzione) -
nonché del nesso di causalità tra inadempimento e danno[145].
-
Nel
secondo caso - di misure di sicurezza (o prevenzione), per cosi dire,
innominate - fermo restando l'onere probatorio a carico del
lavoratore, la prova liberatoria, a carico del datore di lavoro, risulta
invece variamente definita in relazione alla quantificazione della
diligenza (ritenuta) esigibile - nella predisposizione di quelle misure
di sicurezza - e perciò registra, anche in giurisprudenza, significative
oscillazioni.
-
Di recente, si stima tendenzialmente dovuta
soltanto l'adozione di comportamenti specifici suggeriti da conoscenze
sperimentali e tecniche standard di sicurezza adottati normalmente o da
altre fonti analoghe. In particolare la Corte costituzionale (sent. n.
312/1996[146]),
ha affermato il criterio delle “misure che, nei diversi settori e
nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche
generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali
altrettanto generalmente acquisiti”, di modo che rimane censurabile solo
“la deviazione dei comportamenti dell’imprenditore dagli standard di
sicurezza propri, in concreto ed al momento, delle diverse attività
produttive”.
-
-
In ogni caso, sembra importante sottolineare che
l’onere della prova liberatoria a carico datoriale si radica,
cioè insorge, solo ove l’attore abbia sufficientemente dedotto e provato
l’omissione nel predisporre le misure di sicurezza necessarie ad
evitare il danno (misure violate + nesso causale tra la violazione
ed il danno) e “non può essere estesa ad
ogni ipotetica misura di prevenzione, a pena di far scadere una
responsabilità per colpa in responsabilità oggettiva”[147].
Al datore di lavoro non può essere
negato il diritto, per potersi difendere, di conoscere l’inadempimento
che gli viene imputato[148].
-
Dunque,
è insufficiente un ricorso fondato su una allegazione generica di
“violazione dell’obbligo di sicurezza”.
-
Il datore di lavoro, poi, é responsabile dei danni
subiti dal proprio dipendente, non solo quando ometta di adottare idonee
misure protettive, ma anche quando ometta di controllare e vigilare che
di tali misure sia fatto effettivamente uso (anche) da parte dello
stesso dipendente, con la conseguenza che - secondo la giurisprudenza
della Corte[149]
- si può configurare un esonero totale di responsabilità, per il datore
di lavoro appunto, solo quando il comportamento del dipendente presenti
i caratteri dell'abnormità e dell'assoluta imprevedibilità[150].
-
Deve,
ancora, ricordarsi che il datore di lavoro, nel mobbing discendente
viola un obbligo di non fare, cioè un divieto. Ma, anche se
la condotta offensiva venga posta in essere a livello orizzontale o
ascendente da altri colleghi, il medesimo datore dovrebbe essere tenuto
a rispondere, comunque, per fatto proprio. Infatti, in quest’ultima
evenienza sussiste la violazione di un obbligo di fare consistente nella
protezione del lavoratore nei confronti delle molestie o persecuzioni,
conosciute o conoscibili, dei colleghi o sottoposti ( a loro volta
responsabili contrattualmente e disciplinarmente verso il datore ed
extracontrattualmente verso la vittima).
-
In
questa direzione, non servirebbe il richiamo alle norme degli artt. 1228
e 2049 c.c. per risalire
alla responsabilità datoriale[151].
-
-
5.4
Oneri della prova
-
Dovendosi dunque ricondurre il fenomeno del
mobbing all’art. 2087 c.c., concretizzante un’ipotesi di responsabilità
contrattuale del datore di lavoro[152]:
-
il
lavoratore ha l’onere di - allegare e dimostrare
l’esistenza del diritto
-
-allegare il fatto costituente inadempimento (= violazione di norme di
sicurezza specifiche o generiche)
-
-allegare e provare il danno ed il nesso causale rispetto all’omissione
lamentata
-
-
solo se
detto onere assertivo è assolto:
-
-
il datore di lavoro ha l'onere di -allegare e
provare l’adempimento/la non imputabilità del fatto (= avere adottato
quelle idonee misure protettive/preventive e di avere vigilato sulla
loro concreta applicazione).
-
-
il
datore di lavoro ha l’onere di
-
Poiché
nel solo mobbing discendente in realtà vi sarebbe la violazione di un
divieto, cioè di un obbligo di non fare, solo in questo caso
(come nelle discriminazioni o negli atti a motivo illecito):
-
-il
lavoratore avrebbe l’onere di -allegare e provare
l’inadempimento
-
invece
nel mobbing ascendente o orizzontale:
-
-il
lavoratore avrebbe l’onere di -allegare e provare la
persecuzione da parte di colleghi o sottoposti
-
-la conoscenza o conoscibilità da parte datoriale, col conseguente
obbligo d’intervento protettivo
-
-
5.5
Possibile sussunzione del mobbing in figure affini: il motivo illecito
determinante, le discriminazioni, le molestie
-
Per completezza, va tenuto conto che, in base al
principio di specialità, spesso le condotte mobbizzanti risultano
sussumibili sotto altre fattispecie legali specifiche, già tipizzate[153].
-
Intanto, va ricordata la possibile rilevanza del motivo illecito
sotteso ad atti apparentemente validi e leciti.
-
Il motivo illecito potrebbe essere quello
persecutorio o di ritorsione, reazione o ripicca al legittimo esercizio
di diritti riconosciuti. Trattasi di una nullità sanzionabile alla
stregua degli artt. 1418, 1345, 1324 cod. civ.[154].
-
Ai fini
della nullità, il profilo delineato dalla norma deve assurgere a motivo
unico determinante; cioè la ragione vendicativa e ritorsiva deve
risultare di portata eziologica esclusiva. Viceversa, sovrapponendosi
altri motivi autonomi, realmente giustificativi del recesso, la verifica
d’illiceità del motivo perde rilevanza.
-
A
livello processuale è il ricorrente, in casi di tal fatta, a trovarsi
gravato dell’onere di allegare e provare l’illustrato motivo ed
il nesso causale. Certamente non si tratterà di una prova agevole,
avendo ad oggetto un processo mentale interno ad un soggetto. Acquisirà
importanza a fini probatori, ovviamente la dimostrazione
dell’inconsistenza della giustificazione sostanziale addotta
formalmente.
-
Verosimilmente, poi, al fine di ricostruire il processo formativo della
volontà, troverà largo spazio l’utilizzo di presunzioni semplici.
-
Quanto ai motivi formalmente addotti, come dianzi
rilevato, grava sulla parte datrice, sub specie di fatti
impeditivi, sollevare ope exceptionis e quindi provare la
sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo.
Allorché tale ultima dimostrazione sia perfezionata, rimane irrilevante
l’accertamento sul (magari concorrente) motivo ritorsivo e l’atto non
può comunque ritenersi affetto da nullità[155].
-
Si
coglie il destro per rilevare che non convince la diffusa tendenza ad
annullare i confini tra atto discriminatorio ed atto viziato
da motivo illecito.
-
Il
punto merita approfondimento e non, si badi, per un mero interesse
catalogatorio, ma per i risvolti pratici implicati.
-
La
definizione autentica del concetto di discriminazione, evidenzia in
maniera indiscutibile la portata oggettiva della medesima, imperniata
come è sul solo risultato finale dell’atto o della condotta.
-
Ad
esempio, l’art. 4, L. 10 aprile 1991 n. 125, Azioni positive per la
realizzazione della parità uomo-donna sul lavoro, come sostituito
dall’art. 25 del dlgs. 11 aprile 2006, n. 198 , definisce il concetto di
discriminazione diretta come “qualsiasi atto, patto o comportamento
che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i
lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno
favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro
lavoratore in situazione analoga”. La tecnica definitoria scelta
conduce, di necessità, all’irrilevanza dell’intento dell’autore,
rimanendo affatto estraneo alla valutazione giuridica del comportamento
indagato il movente soggettivo, l’animus nocendi. La prospettiva
è dunque quella della vittima e non quella dell’autore.
-
E’ chiaro, d’altra parte, che la concezione
funzionale della discriminazione prescelta dal legislatore garantisce la
vittima dalle difficoltà probatorie che s’incontrano quando si ha da
dimostrare un’intenzione, peraltro con definizioni tipizzanti
sostanzialmente aperte, cioè atipiche rispetto alle concrete condotte
sanzionate[156].
Diversamente è a dirsi per la nullità che colpisce l’atto per motivo
illecito determinante. Qui, difatti, il factum probandum consiste
proprio nella dimostrazione di un intento, di un movente .
-
Inoltre, quello di discriminazione è quoad essentiam un
concetto sistemico, cioè fondato sull’appartenenza della vittima ad
un genus. In tal senso questo tipo di tutela ha un
imprescindibile sostrato superindividuale, rivolgendosi al lavoratore,
non nell’episodicità della sua situazione, ma nella sua identità
collettiva in quanto appartenente ad un gruppo. La normativa protettiva
specifica opera dunque solo quando sia allegata l’esistenza del cd.
fattore discriminante (razza, religione, sesso, etc.).
-
All’opposto la nullità per motivo illecito è improntata ad una
considerazione atomistica della singola vicenda contrattuale, scena
nella quale rilevano giuridicamente i comportamenti dei contraenti
uti singuli.
-
Peraltro, l’agevolazione probatoria legata all’essenza oggettiva della
discriminazione è rincarata dallo speciale regime probatorio previsto.
Infatti, l’art. 40, sostitutivo del 6° co. dell’art. 4 della l. n. 125
cit. recita: “Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto,
desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni,
ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai
trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei
a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione
dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione
del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza
della discriminazione”. Grava perciò sul dipendente il peso di
fornire (almeno due) circostanze fattuali, omogenee e specifiche,
sintomi di discriminazione. L’onere probatorio datoriale è solo
eventuale, essendo subordinato all’assolvimento dell’onere gravante
sulla controparte, ciò, si noti, contro il principio processuale
dell’unicità del mezzo di prova.
-
Trattasi, quanto alla posizione datoriale, sostanzialmente di un onere
di giustificazione, da assolvere in finale attraverso la prova di un
fatto positivo, cioè l’esistenza di cause di giustificazione della
disparità di trattamento.
-
Nel
contesto in discorso risulta di peculiare pregnanza probatoria l’uso di
criteri statistici, tali da individuare nella complessiva prassi
aziendale, secondo una regola di proporzionalità ovvero secondo un
criterio empirico-probabilistico, eventuali disparità di trattamento a
carico delle lavoratrici.
-
La norma non pare riconducibile nell’ambito delle
ipotesi d’inversione legale dell’onere probatorio. Infatti, difetta, di
tale categoria il totale sollevamento della parte altrimenti onerata del
peso istruttorio: in questo caso, il lavoratore non è, come per esempio,
per la giusta causa o il giustificato motivo, del tutto esonerato dagli
oneri dimostrativi, ma deve comunque allegare e dimostrare elementi per
fondare una presunzione di discriminazione. Inoltre la parte datrice
deve dimostrare lo stesso fatto che avrebbe dovuto provare secondo la
regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ.[157]
-
A
parere di altri interpreti si tratterrebbe di una presunzione legale
relativa. Contro tale assunto vi è però da osservare che, mentre il
meccanismo presuntivo legale non ha valore istruttorio, nel caso
dell’art. 4 si sviluppa un’attività probatoria, cioè conoscitiva della
realtà. Infine, altra esegesi ha portato a riconoscere nella fattispecie
de qua senz’altro una presunzione semplice. Di contro, è da rilevare che
la norma non richiede, a differenza del disposto dell’art. 2729 cod.
civ., l’attributo della gravità degli indizi.
-
L’interpretazione più convincente riconosce l’autonomia e specialità
della fattispecie tipizzata dall’art. 4 cit., certo ricalcata su quella
propria della presunzioni semplici ma con un grado di attendibilità
della prova inferiore a quello necessario per raggiungere il
convincimento pieno. Si è dunque di fronte non all’esenzione, ma
all’alleggerimento del peso probatorio dei fatti costitutivi del
diritto. Peraltro, a differenza della presunzione legale, in questa caso
è affidato all’interprete il prudente apprezzamento dei nessi logici
inferenziali.
-
Emerge
perciò il carattere ibrido della figura, indirizzata a garantire
concorrenti esigenze: come le presunzioni semplici funge da strumento
conoscitivo effettivo della fattispecie, pur nel limite della
verosimiglianza; come le presunzioni legali, vale a programmare
anticipatamente una certa ripartizione degli oneri della prova.
-
Si è di fronte ad un diritto processuale
diseguale, cioè un regime agevolato per la presunta vittima in
conformità con l’assunto della disparità delle posizioni di partenza[158].
-
-
Meritano altresì menzione i decreti legislativi n. 215 (riferito alla
razza e all’origine etnica) e n. 216 del 9 luglio 2003 per la parità di
trattamento tra le persone sul posto di lavoro, rispettivamente di
attuazione delle Direttive del Consiglio europeo n.43 e n.78 del 2000.
-
La
logica di questi decreti è sempre quella della discriminazione,
come si desume chiaramente dagli articoli iniziali di ciascun corpus
regolativo. In particolare, negli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 216, che
ha portata piu’ generale, si individua la finalità del “principio di p/arità
di trattamento” intesa come “l’assenza di qualsiasi discriminazione
diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni
personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale”.
-
Dunque,
vanno ribadite tutte le argomentazioni testè esposte, circa i connotati
specifici caratterizzanti la categoria giuridica della discriminazione.
-
Di
questi testi normativi, è qui il caso di ricordare la definizione
autentica delle molestie ovvero “quei comportamenti
indesiderati”, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica,
“aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di
creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od
offensivo” (art. 2, 3° co., d.lgs. n. 216 cit.).
-
La
scelta per una concezione oggettiva (“o l’effetto”) agevola molto gli
oneri probatori, anche evidenziato che viene riconosciuto in favore del
ricorrente un regime di onere della prova di favore, di tipo presuntivo,
basato su “dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi
e concordanti” (art. 4 co. 3°).
-
Circa
il riconoscimento del risarcimento di un “danno non patrimoniale” pur in
assenza di una fattispecie penale, la novità della norma è sminuita dal
coevo avvio di un nuovo corso giurisprudenziale, inaugurato dalle citate
sentenze della Cassazione n.8827 e 8828 del 2003 (art. 4 co. 4°).
-
Inoltre, si segnala che viene introdotto il dovere del giudice di tenere
conto, nella liquidazione del danno, anche del carattere ritorsivo della
condotta discriminatoria (art. 4 co. 5°) e viene riconosciuta la
possibilità che il giudice ordini la cessazione del comportamento e la
rimozione degli effetti.
-
Analoga
considerazione merita il d.lgs. n. 145/2005 (di attuazione della
direttiva 2002/73/CE in materia di parità di trattamento tra gli uomini
e le donne, che va ad integrare la l. n. 125/1991 (v.s.).
-
-
6.1
Regole generali
-
La
tematica del risarcimento del danno ha una propria autonomia,
correlandosi alle diverse fattispecie inadempitive sopra menzionate.
-
Come
principi generali, va giusto ricordato che, vertendosi in ogni caso (v.
amplius paragrafi precedenti) in tema d’inadempimento
contrattuale, ai sensi dell’art. 1223 c.c., il risarcimento deve essere
comprensivo della “perdita subita” e del “mancato guadagno”, purché ne
costituiscano “conseguenza immediata e diretta”.
-
Parimenti da ricordare è che, ai sensi dell’art. 1225 c.c., salvo il
dolo del debitore, è risarcibile il solo danno che era prevedibile
quando l’obbligazione era sorta.
-
La
materia risarcitoria è stata di recente oggetto di fondamentali
interventi di sistemazione: in particolare occorre muovere dalla
sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 6572/2006.
-
-
6.2
Il principio di effettività del danno
-
Le
sezioni unite, dopo avere espressamente affermato la natura
necessariamente contrattuale della responsabilità datoriale (v.s.),
ribadiscono il principio generale regolatore della materia, che è quello
dell’effettività del danno.
-
“Dall'inadempimento datoriale non deriva però automaticamente
l'esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente,
ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'alto illegittimo.
L'inadempimento infatti è già sanzionato con l'obbligo di corresponsione
della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione
aggiuntiva, e per certi versi autonoma. Non può infatti non valere"
anche in questo caso, la distinzione tra "inadempimento" e "danno
risarcibile" secondo gli ordinari principi civilistici di cui agli artt.
1218 e 1223 c.c., per i quali i danni attengono alla perdita o al
mancato guadagno che siano "conseguenza immediata e diretta"
dell'inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della
violazione degli obblighi di cui agli artt. 2087 e 2103 cod. civ., da
quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio (in tal
senso chiaramente si è espressa la Corte Costituzionale n. 372 del
1994). D'altra parte - mirando il risarcimento del danno alla
reintegrazione del pregiudizio che determini una effettiva
diminuzione del patrimonio del danneggiato, attraverso il raffronto
tra il suo valore attuale e quello che sarebbe stato ove la obbligazione
fosse stata esattamente adempiuta - ove diminuzione non vi sia stata
(perdita subita e/o mancato guadagno) il diritto al risarcimento non è
configurabile. In altri termini la forma rimediale del risarcimento
del danno opera solo in funzione di neutralizzare la perdita
sofferta, concretamente, dalla vittima, mentre l'attribuzione ad essa di
una somma di denaro in considerazione del mero accertamento della
lesione, finirebbe con il configurarsi come somma-castigo, come
una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo
inadempimento, ma questo istituto non ha vigenza nel nostro
ordinamento”.
-
-
La chiave di lettura delle azioni risarcitorie
risiede, dunque, nel principio ora esposto: la funzione loro propria è
solo la riparazione di un danno reale e concreto, come empiricamente
verificatosi[159].
-
-
6.3
Molteplicità delle voci di danno: oneri di allegazione del lavoratore
-
La Cassazione, evidenzia, quindi, la molteplice
varietà delle voci di danno risarcibili, connotate, ciascuna, da una
diversa matrice ed un diverso oggetto, tali da radicare oneri di precisa
e necessaria allegazione da parte del lavoratore[160].
-
“Non
è quindi sufficiente… chiedere genericamente il risarcimento del danno,
non potendo il giudice prescindere dalla natura del
pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il
giudice - se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso
alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori
ufficiosi previsti dall'art. 421 cod. proc. civ. - non può invece mai
sopperire all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della
domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (tra
le tante Cass. sez. un. 3 febbraio 1998 n. 1099)”.
Nella
sentenza delle Sezioni unite si procede quindi al riassetto della
tematica risarcitoria, attraverso la individuazione delle varie voci di
danno in ipotesi risarcibili.
-
6.4
Schematizzazione delle voci di danno e relativi oneri
assertivi/probatori.
-
1.
DANNO PATRIMONIALE
-
E’
questo il pregiudizio a valori o beni economicamente apprezzabili
dell’interessato.
-
Anche
in questo ambito il danno effettivo va concretamente detto nella sua
singolarità e verificazione concreta, altrimenti “fermo
l'inadempimento - l'interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza
effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento
retributivo quale controprestazione dell'impegno assunto di svolgere
l'attività che gli viene richiesta dal datore”.
-
-
E’
tale, in primis, il danno professionale, che può
consistere sia nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della
capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata
acquisizione di una maggiore capacità (danno emergente), ovvero nel
pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità
di guadagno (lucro cessante).
-
Oneri
di adeguata allegazione in concreto, ad esempio tramite la
circostanziata allegazione dell'esercizio di una attività soggetta ad
una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi
all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del
loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo.
-
Nei giudizi per demansionamento, nella
quantificazione, è tendenzialmente usato il parametro retributivo,
adeguato indicatore anche della professionalità, modulato secondo
parametri individualizzanti, quali l’entità del demansionamento, la sua
durata, l’età e l’anzianità[161].
Similmente, per la perdita di chance, intesa
“come probabilità effettiva e congrua di
conseguire un risultato utile, da accertare secondo il calcolo delle
probabilità o per presunzioni”[162],
va data allegazione e poi prova in
concreto, dovendosi indicare, nella specifica fattispecie, quali
aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare
svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o
dalla forzata inattività[163].
-
2.
DANNO NON PATRIMONIALE
-
E’
questo il danno inerente a beni, interessi o valori non direttamente
oggetto di valutazione economica ed indipendenti dalla capacità
reddituale della vittima.
-
In argomento, va giusto ricordato che un gruppo di
importanti sentenze della Cassazione[164]
è valsa ad affermare, come diritto vivente, il principio interpretativo
per cui nel vigente assetto ordinamentale il danno non patrimoniale, di
cui all’art. 2059 c.c., non può più essere identificato, secondo la
tradizionale restrittiva lettura, soltanto col danno morale soggettivo,
ex art. 185 c.p., scaturente da reato.
-
Diversamente, secondo il recente pensiero di Cassazione, il danno non
patrimoniale è una categoria ampia, comprensiva di tutte le ipotesi di
lesione di un valore inerente la persona, costituzionalmente garantito,
dalla quale conseguono pregiudizi non suscettivi di valutazione
economica. Per completezza, si deve notare che le Sezioni unite, circa
le ipotesi violative dell’art. 2087, in quanto protettivo anche della
“personalità morale”, hanno ritenuto sufficiente detta norma per
garantire il risarcimento dei danni non patrimoniali.
-
-
All’interno della categoria del danno non patrimoniale rientrano dunque
le tre seguenti voci.
-
2.1
DANNO BIOLOGICO
-
E’ la lesione dell'integrità psicofisica
medicalmente accertabile, secondo la definizione legislativa di cui alla
L. n. 57 del 2001, art. 5, comma 3, sulla responsabilità civile auto,
che quasi negli stessi termini era stata anticipata dal D.Lgs. n. 38 del
2000, art. 13, in tema di assicurazione Inail (tale peraltro è la
locuzione usata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 233 del
2003). Gli oneri di allegazione qui si sostanziano nella precisa
indicazione in ricorso della patologia riportata e del suo
preteso collegamento eziologico rispetto alla condotta
inadempitiva[165]
(quindi è importante anche la precisazione sulla data di manifestazione
della patologia). I mezzi di prova in argomento risiedono, soprattutto
nella CTU medico legale; tuttavia, occorre insistere che la CTU non può
avere valore esplorativo/creativo, ma deve essere sempre riferita alle
sole e precise patologie dedotte in ricorso.
-
-
2.2.
DANNO MORALE SOGGETTIVO CONTINGENTE
-
E’ la
sofferenza contingente ed il turbamento dell’animo determinati da fatto
illecito integrante reato: il pretium doloris. Ha natura
meramente emotiva ed interiore, non è oggettivamente accertabile. E’
risarcibile ex art. 185 c.p.
-
Nella liquidazione equitativa del danno non
patrimoniale derivante da fatto illecito, deve tenersi conto della
gravità dell'illecito penale e di tutti gli elementi della fattispecie
concreta, in modo da rendere il risarcimento adeguato al caso
specifico. Ne consegue che, per esempio, il ricorso da parte del
giudice di merito al criterio della determinazione della somma dovuta a
titolo di risarcimento del danno morale in una frazione dell'importo
riconosciuto per il risarcimento del danno biologico, non è di per sé
illegittimo, a condizione che si tenga conto delle peculiarità del caso
concreto, effettuando la necessaria personalizzazione del criterio alla
specifica situazione, ed apportando, se del caso, i necessari
correttivi, senza che la liquidazione del danno sia rimessa ad un puro
automatismo[166].
-
2.3
DANNO ESISTENZIALE
-
Poiché
in tema sono frequenti gli equivoci, è bene riportare la definizione
usata dalle Sezioni unite. E’ tale “il danno non patrimoniale
all'identità professionale sul luogo di lavoro, all'immagine o alla vita
di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del
lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di
lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 Cost…per danno esistenziale
si intende ogni pregiudizio che l'illecito datoriale provoca sul fare
areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di
vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo
la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la
realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”.
-
Detto
danno è oggettivamente accertabile, attraverso la prova di scelte di
vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse
verificato l'evento dannoso.
-
Anche
in relazione a questo tipo di danno il giudice è astretto alla
allegazione che ne fa l'interessato sull'oggetto e sul modo di operare
dell'asserito pregiudizio, non potendo sopperire alla mancanza di
indicazione in tal senso nell'atto di parte, facendo ricorso a formule
standardizzate, e sostanzialmente elusive della fattispecie concreta,
ravvisando immancabilmente il danno all'immagine, alla libera
esplicazione ed alla dignità professionale come automatica
conseguenza... Il danno esistenziale infatti, essendo legato
indissolubilmente alla persona, e quindi non essendo passibile di
determinazione secondo il sistema tabellare - al quale si fa ricorso per
determinare il danno biologico, stante la uniformità dei criteri medico
legali applicabili in relazione alla lesione dell'indennità psicofisica
- necessita imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il
soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze
comprovanti l'alterazione delle sue abitudini di vita.
-
Transitando dal piano assertivo a quello probatorio, il danno
esistenziale può essere provato mediante prova testimoniale,
documentale o presuntiva, che dimostri nel processo "i concreti"
cambiamenti che l'illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella
qualità di vita del danneggiato, secondo le precise allegazioni già in
ricorso.
-
Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo
rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per
presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall'ordinamento in grado
subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso
anche in via esclusiva (tra le tante Cass. n. 9834 del 6 luglio 2002)
per la formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di
cui all'art. 2727 cod. civ. venga offerta una serie concatenata di fatti
noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie
concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità
all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata
dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative
di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei
confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse
relazionale, gli effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita del
soggetto; da tutte queste circostanze, il cui artificioso isolamento si
risolverebbe in una lacuna del procedimento logico (tra le tante Cass.
n. 13819 del 18 settembre 2003), complessivamente considerate attraverso
un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto
ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod.
proc. civ. a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle
quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle
prove. Importante è tener conto che secondo la sentenza in commento
“in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno
esistenziale, non è possibile al giudice neppure la liquidazione
in forma equitativa, perché questa, per non trasmodare
nell'arbitrio, necessita di parametri a cui ancorarsi”.
-
Maria Casola
-
Giudice presso la sezione lavoro
-
del Tribunale di Napoli
-
(fonte:
http://appinter.csm.it/incontri/relaz/14644.pdf )
-
-
|
[1]“Già
in sede di fondazione del diritto del lavoro quale disciplina
distinta dal diritto civile, or è circa un secolo, venne l’appello a
non isolare i relativi problemi dai principi generali del diritto
delle obbligazioni, cedendo al cieco empirismo, mentre il richiamo
all’unità dell’ordinamento quale postulato non logico ma di
giustizia percorre il diritto non solo italiano nell’età delle
specializzazioni”
(Cass.
S.U. n. 141/2006). |
[2]
Nel corpo della relazione si sono riportati spesso i passi testuali
salienti di sentenze rilevanti, per consentire il personale, diretto
esame delle stesse. I passi sono in corsivo virgolettato, ma il
sottolineato è della redattrice. |
[3]
Ex multis Cass. n. 9877/02 ; S.U. n. 99/01. |
[4]
Le differenze regolative essenziali sono le seguenti: 1) la
responsabilità contrattuale non presuppone la capacità di intendere
e di volere, presupposta, invece, dall’art. 2047, c.c.:
l’adempimento è, del resto, atto dovuto (sempre, ovviamente, che non
si tratti di adempimento di obbligazione naturale); 2) in relazione
ai danni imprevedibili, poiché l’art. 2056, c.c. non richiama l’art.
1225, c.c., si ritiene che, in caso di resp. contrattuale, tali
pregiudizi siano risarcibili solo se se vi è dolo, mentre in quella
extracontrattuale lo sarebbero sempre; 3) nella responsabilità
extracontrattuale deve fornirsi la prova della colpa dell’autore del
danno; 4) il diritto ad agire ex art. 2043, c.c. si prescrive in 5
anni (art. 2947, 1° comma, c.c.), quello ex art. 1218, c.c. in
quello ordinario decennale (dalla relazione Onere della prova e
responsabilità civile, Roma, Consiglio Superiore della
Magistratura, Incontro di studio del 12.6.2006). |
[5]
Cass. n. 12445/2006. |
[6]
V. Cass. n. 13053/2006. |
[7]
Per ragioni di completezza, deve avvisarsi che l’unico ambito in
cui, senza specifici approfondimenti, viene riportata la massima
tralatizia inerente il doppio titolo di responsabilità è quello del
pubblico impiego, ai soli fini del riparto di giurisdizione. Infatti
“ai fini del riparto della giurisdizione rispetto ad una domanda
di risarcimento danni per la lesione della propria integrità fisica
proposta da un pubblico dipendente nei confronti
dell'Amministrazione, non soggetto alla disciplina del D.Lgs. 30
marzo 2001, n. 165, assume valore determinante l'accertamento della
natura giuridica dell'azione di responsabilità in concreto proposta
e, precisamente, se essa sia contrattuale o extracontrattuale,
dovendosi ritenere proposta la seconda tutte le volte che non emerga
una precisa scelta del danneggiato in favore dell'azione
contrattuale, e quindi allorché, per esempio, il danneggiato invochi
la responsabilità aquiliana ovvero chieda genericamente il
risarcimento del danno senza dedurre una specifica obbligazione
contrattuale, e dovendosi, invece, ritenere proposta l'azione di
responsabilità contrattuale - con la conseguente devoluzione della
controversia al giudice amministrativo - solo quando la domanda di
risarcimento sia espressamente fondata sull'inosservanza, da parte
del datore di lavoro, di una precisa obbligazione” (Cass. ord.
n. 22101/2006; così anche sez. un. 11 luglio 2001 n. 9385; 25 luglio
2002 n. 10956; 5 agosto 2002 n. 11756; 2 luglio 2004 n. 12137). |
[8]
Per l’approfondimento, v. Scarpa, Onere della prova e
responsabilità contrattuale, Consiglio Superiore della
Magistratura, Roma, Incontro di studio del 12 – 16 giugno 2006. |
[9]
Per la complessa e risalente questione della natura, oggettiva o per
colpa, della responsabilità contrattuale, si rinvia alla sintesi di
Bianca, La responsabilità, Diritto civile, vol. V, 1994, 11
ss. E’ solo da ricordare che l’assetto giurisprudenziale è oggi
assestato nel senso del fondamento colposo della responsabilità, ove
la colpa è intesa in senso oggettivo (cioè alla stregua della
normale diligenza). V. Cass. n. 6404/1986; 3450/1984. |
[10]
Vedi, per tutte, Cassazione 16250, 2357/03, 15133/02, 3162/002,
602/00, 9247, 7792/98, 4078/95. |
[11]
Bianca, op. cit., 73. |
[12]
In ambito lavoristico, per l’espressa condivisione del principio
indicato,
v.
Cass. S.U. n. 141/2006;
613/1999; 7227/2002. |
[13]
Per una profonda analisi complessiva della materia, v. Vallebona,
L’inversione dell’onere della prova nel diritto del lavoro, Riv.
Trim. dir. e proc. Civ., 1992, 809. |
[14]
E’ noto il consolidato orientamento della Cassazione che
subordina la nullità dell'atto introduttivo del giudizio di lavoro
all'omissione, ovvero all'assoluta incertezza, sulla base dell'esame
complessivo dell'atto, del petitum, sotto il profilo
sostanziale e procedurale, nonchè delle ragioni di fatto e di
diritto poste a fondamento della pretesa (tra le tante: Cass.
5794/04; 30.12.94 n. 11318; Cass. 30.8.93 n. 9167; Cass. 11. 6. 88
n. 4018; Cass. 18.11.87 n. 8436; Cass. 30.7.87, n. 6619; Cass.
5.6.86, n. 3777). Si ricordi, poi, la soluzione di sanatoria
affermata da
Cass.
S.U. n. 11353/2004. |
[15]
L'art. 2103 cit. non ha affatto soppresso l’ius variandi del
datore di lavoro, che trova la sua giustificazione in insopprimibili
esigenze organizzative ed aziendali, ed è dunque libero si
esplicarsi in modo non soggetto a controlli di merito. Viceversa la
norma codicistica si limita a regolare l'esercizio di tale potere,
solo imponendo il rispetto dell'equivalenza delle nuove mansioni
(principi pacifici, ribaditi, ex multis, da Cass.,
07-07-1997, 6124). E’ bene dunque rimarcare che l'equivalenza delle
nuove mansioni alle ultime effettivamente svolte, non va
assolutamente intesa come identità delle nuove alle precedenti
mansioni, in ciò dovendosi escludere che il lavoratore possa vantare
un diritto alla conservazione dell’incarico, ipotesi assurda che in
sostanza paralizzerebbe i poteri organizzativi dell’imprenditore (v.
Cass. 10333/1997; 5921/1984). |
[16]
L’art. 2103 è violato quando venga operata una importante riduzione
quantitativa dei compiti del lavoratore tale da comportare una
sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un
consequenziale impoverimento della sua professionalità. “Non ogni
modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si
traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, che
invece implica una sottrazione di mansioni tale - per la sua natura
e portata, per la sua incidenza sui poteri del lavoratore sulla sua
collocazione nell'ambito aziendale - da comportare un abbassamento
del globale livello delle prestazioni del lavoratore con
sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un
consequenziale impoverimento della sua professionalità" (Cass. 4
agosto 2000 n. 10284; Cass., 20 marzo 2004, n. 5651; Cass., 11
luglio 2005, n. 14496). |
[17]
Cass., 12 gennaio 2006, n. 425; Cass., 11 febbraio 2004, n. 2649,
Cass. 7789/93, ex plurimis. |
[18]
Posto che il lavoro costituisce non solo un mezzo di guadagno, ma
anche un modo di estrinsecazione della personalità del lavoratore
(Cass., 2 gennaio 2002, n. 10; 22 febbraio 2003 n. 2763; 13 febbraio
2006, n. 3046; 8 marzo 2006, n. 4975) ed anzi l’inattività, secondo
Corte Cost. 6 aprile 2004 n. 113, costituisce la forma più grave di
demansionamento. |
[19]
Cass., 2 maggio 2003, n. 6714; 8 giugno 2001, n. 7821; 10 giugno
2004, n.11045. |
[20]
Sono le incisive e innovative parole di Cass. n. 10091/2006; v.
anche 2003, n. 2328. |
[21]
Rimane controverso in giurisprudenza il diritto del lavoratore di
rifiutarsi di effettuare la propria prestazione in caso di
violazione dell’art. 2103, ai sensi dell’art. 1460 c.c. Per la tesi
affermativa, v. Cass. n. 12001/2003; n. 7599/2003. In senso diverso,
per la necessità di un previo “avallo giudiziario”, cfr. Cass. n.
19689/2003; n. 10187/2002. Da ultimo, Cass. n. 10547/2007, ha
ritenuto che “ove pur sussista una situazione di dequalificazione
di mansioni, non può il lavoratore sospendere in tutto od in parte
la propria attività lavorativa, se il datore di lavoro assolva a
tutti gli altri propri obblighi (pagamento della retribuzione,
copertura previdenziale e assicurativa, garanzia del posto di
lavoro), potendo una parte rendersi inadempiente soltanto se è
totalmente inadempiente l'altra parte, non quando vi sia
contestazione e controversia solo su una delle obbligazioni a carico
di una delle parti, obbligazione peraltro non incidente sulle
immediate esigenze vitali del lavoratore (cfr. Cass. n. 1307/1998)”. |
[22]
Questa norma, disciplinando le procedure di licenziamento per
riduzione di personale, dispone che gli accordi sindacali stipulati
nel corso di tali procedure possano prevedere il riassorbimento
totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, e possono
stabilire, anche in deroga al secondo comma dell’art. 2103 c.c., la
loro assegnazione a mansioni diverse da quelle precedentemente
svolte. Anzi si è precisato che non pone alcuna preclusione
nell'assegnazione delle mansioni inferiori, anche attribuendo
all'impiegato quelle proprie dell'operaio; e ciò si spiega
considerando che trattasi per un verso di un rimedio per evitare il
licenziamento e per altro verso di una deroga che non vincola i
lavoratori, i quali ben potrebbero rifiutare la dequalificazione,
andando però incontro al rischio del licenziamento (Cass., 7
settembre 2000, n. 11806). |
[23]
Riguardanti la sopravvenuta inabilità dei lavoratori allo
svolgimento delle loro mansioni. |
[24]
Riguardante le lavoratrici madri, che durante il periodo di
gestazione e sino a sette mesi dopo il parto - se il tipo di
attività o le condizioni ambientali ‘sono pregiudizievoli alla loro
salute - devono essere spostate ad altre mansioni anche inferiori a
quelle abituali, conservando la retribuzione precedente. |
[25]
Cass., Sez. Un., 7 agosto 1998, n. 7755; Cass. sez. lav. 2 agosto
2001, n.10574; 10 ottobre 2005, n. 19686; 7 marzo 2005, n. 4827; 19
agosto 2004, n. 16305. “Nel caso di sopravvenuta inidoneità
fisica alle mansioni lavorative, il cosiddetto patto di
dequalificazione, quale unico mezzo per conservare il rapporto di
lavoro, costituisce non già una deroga all'art. 2103 cod. civ.,
norma diretta alla regolamentazione dello "jus variandi" del datore
di lavoro e, come tale, inderogabile secondo l'espresso disposto del
secondo comma delle stesso articolo, bensì un adeguamento del
contratto alla nuova situazione di fatto, sorretto dal consenso e
dall'interesse del lavoratore; pertanto, il datore di lavoro è
tenuto a giustificare oggettivamente il recesso, anche con
l'impossibilità di assegnare mansioni non equivalenti, nel solo caso
in cui il lavoratore abbia - sia pure senza forme rituali -
manifestato la sua disponibilità ad accettarle” (Cass., 5 agosto
2000, n. 10339; n. 19686/2005). |
[26]
Cfr. Cassazione 2948/01 che, infatti, ha reputato non configurare
inadempimento - ovvero adempimento in contrasto con il requisito
della buona fede - l’adibizione temporanea del lavoratore a diverse
mansioni, seppure non strettamente equivalenti a quelle di
appartenenza, al fine dell’acquisizione di una più ampia
professionalità. |
[27]
Cass., n. 2375/2005; n. 2354/2004; n. 11727/1999; n. 9715/1995. |
[28]
Cass. n. 18269/2006. |
[29]
Cass. 92/8114 ; 91/3661; di recente, Cass.,n. 12043/2003; n.
12821/2002; n. 13000/2003. |
[30]
In altri termini, pur ribadendosi la netta differenza
categoriale tra qualifica e mansione, attenendo la prima ad un dato
puramente formale ed astratto, e quindi relativo e convenzionale, e
la seconda ad un aspetto concreto, oggettivo, deve però tenersi a
mente che le definizioni contrattuali-collettive in punto di
fungibilità ed equivalenza, pur rimanendo inidonee a derogare al
precetto imperativo di cui all’art. 2103, possono svolgere un
rilevante ruolo, parametrico ed orientativo, per il giudicante. Non
è questa la sede per sviluppare ulteriormente il cruciale argomento
della tendenza ordinamentale alla delegificazione e all’assegnazione
alle parti sociali di spazi sempre più ampi di poteri regolativi,
nella direttiva di un diritto del lavoro sempre più largamente
dispositivo (cd. soft law), ma deve almeno darsi atto ed anzi
rimarcarsi che la disciplina pattizia può oggi legittimamente
entrare, nei limiti legali, nel ragionamento giuridico pure
giudiziale, anche se solo a livello indicativo. Infatti, le parti
sociali, nell’ambito dei diversi settori produttivi, meglio
conoscono realtà, sistemi organizzativi e di lavoro, così che le
loro espressioni negoziali definiscono un indicatore spesso
privilegiato della bontà di tante scelte imprenditoriali. |
[31]
Sentenze n. 10514 del 1998, n. 3645 e n. 434 del 1999; n. 8254 del
2004. |
[32]
Allo scopo, in via esemplificativa, di recente la pronuncia n.
4932/2003 sostiene testualmente: “la specifica previsione
contrattuale di un illecito disciplinare, con la corrispondente
sanzione, impedisce al giudice di sostituire le proprie
valutazioni a quelle dell’autonomia privata, individuale e
collettiva, salvo il controllo sulla nullità”, quindi,
aggiunge: “quando la clausola generale di licenziamento venga
definita, ossia specificata, attraverso la volontà negoziale, il
giudice è tenuto ad uniformarsi alla definizione contrattuale,
salva l’ipotesi che questa permetta il licenziamento arbitrario
e discriminatorio” . Dunque, la Cassazione sancisce qui la
signoria, praticamente assoluta, del contratto collettivo
rispetto all’intervento giudiziale 33 “Deve escludersi un
sindacato giudiziale relativamente alla ragionevolezza dei
criteri secondo cui i contratti collettivi operino distinzioni
tra i vari tipi di mansione ai fini dell’inquadramento
contrattuale dei lavoratori e della loro progressione in
carriera sulla base dello svolgimento di determinate mansioni,
dato che è proprio la contrattazione collettiva ad essere
ritenuta lo strumento idoneo ad interpretare le esigenze dei
vari settori produttivi ai fini in esame”.
|
[33]
Cass. 11.1.1999 n. 13601. |
[34]
Per alcune ricadute della contrattazione collettiva nell’assetto
delle relazioni industriali, Cass., SU, 4588/06. |
[35]
Nella stessa sentenza: “A seguito dell’indicato approdo
giurisprudenziale sull’articolo 2103 c.c. diviene, dunque, doveroso
– per ragioni di nomofilachia cui è tenuta anche questa Sezione
lavoro - una interpretazione ben più elastica rispetto al passato
della norma codicistica, già patrocinata da autorevole dottrina, e
che trova fondamento in una nuova nozione di «capacità
professionale» e dí «equivalenza di mansioni», scaturente dalla
presa d’atto della necessità di una tutela dinamica delle doti
lavorative, da accrescere anche attraverso costanti corsi
professionali ormai indispensabili in ragione, proprio, delle
continue innovazioni di carattere tecnologico e organizzativo. Così,
la recente decisione delle Sezioni Unite si pone come intervento
volto ad autorevolmente confortare quell’indirizzo
giurisprudenziale, che in una logica di bilanciamento dei
contrapposti interessi, ha cercato un equilibrio tra il diritto
dell’imprenditore ad una gestione razionale ed efficiente delle
proprie risorse ed il diritto, anche esso costituzionalmente
tutelato, al posto di lavoro, individuando numerose fattispecie di
legittima assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori”. |
[36]
Sottolinea la specificità della norma, rispetto al lavoro privato,
G. Del Medico, Le mansioni del lavoratore tra esigibilità ed
equivalenza, in Riv. personale ente locale, 2000, 605. |
[37]
In questo senso v. Campanella, Mansioni e qualifiche, ius
variandi nell’impiego pubblico e privato, Riv. Giur. Lav. e prev.
Soc., 1999, 464; Borzaga, Il concetto di equivalenza delle
mansioni, Riv. It. Dir. Lav., 1999, 283; F. Panariello, in G.
Santoro Passarelli, Diritto del lavoro e della previdenza
sociale, Milano, 1998, p. 1619.; L. Fiorillo, in Le nuove
leggi civili commentate, 1999, p. 1392. In giurisprudenza, cfr
Trib. Napoli, 16 gennaio 2004, in Foro it., 2005, I, 1366.Trib.
Taranto, ord. 11 maggio 2001, Lavoro nelle p.a., 2002, 630; Trib.
Ravenna, 9 aprile 2002, in
www.aranagenzia.it;
Trib Trieste, 8 febbraio 2002, Lavoro nella giur., 2003, 465; Trib.
Pistoia, ord. 24 gennaio 2001, id., 2002, 290; Trib.Milano, 5 maggio
2000, Riv. Crit. Dir. Lav., 2000, 758. |
[38]
Così D. Carlomagno, Lavoro pubblico: l’equivalenza delle mansioni
nel contratto collettivo, Il lavoro nella giurispr., 2003, 468. |
[39]
B. Caponetti, Le mansioni nel pubblico impiego, Normativa
vigente, ruolo della contrattazione e profili giurisprudenziali,
Lavoro e previdenza oggi, 2006, 451. |
[40]
Così Trib. Modena 9 gennaio 2004, Il lavoro nelle p.a., 2004, 932. |
[41]
V. in argomento, Curzio, Pubblico impiego: sospensioni, congedi
aspettative, mutamenti di mansioni, promozioni, Riv. Crit. Dir.
Lav., 2002, I, 264. |
[42]
Per l’approfondimento della tematica, si può leggere M. Casola,
La disciplina delle mansioni nel pubblico impiego, relazione
C.S.M., Incontro di studi, 2-27 maggio 2006. |
[43]
Ad esempio l’art. 3, secondo comma, del c.c.n.l. del comparto
regioni ed autonomie locali, si esprime in questi termini: “Ai sensi
dell’art. 56 del d. lgs. n. 29 del 1993 (ora art. 52 del t.u.),
tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto
professionalmente equivalenti, sono esigibili. L’assegnazione di
mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere
determinativo dell’oggetto del contratto”. |
Esula dalla presente relazione l’esame del nuovo sistema
d’inquadramento del personale . In questa sede sia solo consentito
osservare che, nella materia de qua, il dato differenziale rispetto
al previgente sistema è costituito dal superamento della rigida ed
analitica ripartizione del personale nelle nove qualifiche
funzionali e dalla costituzione di “aree” o “categorie”, comprensive
di più profili e più livelli retributivi. In realtà l’accorpamento
delle nove qualifiche in tre o massimo quattro aree o categorie è
preordinato soprattutto a garantire una maggiore flessibilità
nell’impiego del personale. Ebbene, è proprio tale flessibilità a
generare il problema della fungibilità delle varie posizioni
professionali e quindi della mobilità orizzontale del personale
all’interno dell’area, con eventuali profili di demansionamento . |
[44]
L'articolo 13, comma 4, del contratto collettivo nazionale di lavoro
Comparto ministeri dispone che il dipendente sia tenuto a svolgere
tutte le mansioni considerale equivalenti nel livello economico di
appartenenza nonché le attività strumentali e complementari a quelle
inerenti lo specifico profilo” |
[45]
Nella sentenza, alla questione dell’equivalenza si giustappone
quindi quella della esigibilità. Sul punto la Corte ricorda che
l'attività prevalente ed assorbente svolta dal lavoratore deve
rientrare tra quelle previste dalla categoria di appartenenza, e che
tuttavia, per ragioni di efficienza e di economia del lavoro o di
sicurezza, possono essere richieste al lavoratore, incidentalmente e
marginalmente, attività corrispondenti a mansioni inferiori, ed il
lavoratore è tenuto ad espletarle (Cass. 25 febbraio 1998, n. 2045,
che nel rifiuto di eseguire tali mansioni ritiene configurabile
anche un comportamento suscettibile di valutazione in sede
disciplinare; Cass. 8 giugno 2001, n. 7821, che fa riferimento a
motivate esigenze aziendali; Cass. 2 maggio 2003, n. 6714; Cass. 16
giugno 2004, n. 11045, che richiama esigenze di tutela, sicurezza e
salubrità dell'ambiente di lavoro). |
[46]
Si rinvia a tutto quanto approfondito nel paragrafo che precede. |
[47]
Trib. Parma, ord. 28 marzo 2001, n. 125, Giust. amm., 2001, 626. |
[48]
E’ appena il caso di richiamare la complessa questione inerente la
qualificazione giuridica della violazione dell’art. 2103 come
inadempimento/illiceità e/o nullità/invalidità, con le conseguenze
in tema risarcitorio. Rima utile segnalare che la più recente
giurisprudenza tende, pur senza specifici approfondimenti, ad
esprimersi in termini di inadempimento contrattuale: così la Corte
cost. nella sent. n. 113/2004 (che ha esteso il privilegio generale
sui mobili per il credito risarcitorio da demansionamento) e così le
Sezioni unite nella sent. N. 6572/2006 (su cui v. infra). |
In
dottrina, cfr. Di Majo, Tutela risarcitoria, restitutoria,
sanzionatoria, in Enc. Giur. Treccani, XXXI, 1994, 16; di
recente anche C. Pisani, I problemi rimasti aperti in tema di
dequalificazione dopo le sezioni Unite 6572/06, in Mass. Giur.
Lav., 2006, 489. |
[49]
Cass., 6 marzo 2006, n. 4766. Secondo la Corte, infatti, “come
affermato da questa Corte con la sentenza 3 giugno 1995, n. 6265, il
lavoratore … ha altresì il diritto, a maggior ragione, a non essere
allontanato da ogni mansione, cioè il diritto all'esecuzione della
prestazione lavorativa, cui il datore di lavoro (tradizionalmente
creditore esclusivo della medesima) ha il correlativo obbligo di
applicarlo, restandogli consentita la possibilità di trasferirlo
solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. La
violazione di tale diritto del lavoratore all'esecuzione della
propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria del
datore di lavoro, salvo che l'inattività del lavoratore sia
riconducibile ad un lecito comportamento del datore di lavoro
medesimo, in quanto giustificata dall'esercizio dei poteri
imprenditoriali, garantiti dall'art. 41 Cost., o dall'esercizio dei
poteri disciplinari”. Similmente, v. Cass. n. 10547/2007. |
[50]
Insiste di recente sulla necessità che in ricorso ci sia una
puntuale allegazione sull’inadempimento, Cass. n. 20523/2005. |
[51]
Espressamente, in tal senso Cass. n. 24036/2006. |
[52]
Sia anche permesso rinviare a M. Casola, Adibizione a mansioni
superiori e promozione automatica del lavoratore: orientamenti
giurisprudenziali, Foro it., 2000, I, 2875. |
[53]
Cass. 14154/1999, secondo cui nel computo del lasso temporale di
espletamento di mansioni superiori, non può tenersi conto né del
periodo di ferie, né di quello di malattia (né peraltro rileva di
quest’ultima la natura e l’origine, almeno in assenza di apposita
norma regolatrice). |
[54]
Al riguardo cfr. Cass., sez. un., 18 dicembre 1998, n. 12699; 29
luglio 1996, n. 6839 in Dir. lav., 1997, II, 301, nota di Giammaria;
29 luglio 1996, n. 6839; 11 giugno 1990, n. 5655. Va comunque
segnalato che la giurisprudenza della Cassazione risulta pacifica
nel ritenere l'interpretazione delle disposizioni collettive di
diritto comune, compiuta dal giudice del merito nella materia di che
trattasi, censurabile in sede di legittimità solo per violazione
delle regole legali di ermeneutica contrattuale o per vizi di
motivazione (ad esempio, la Suprema corte ha confermato sentenze di
merito che avevano ritenuto che, ai fini del compimento dei diciotto
mesi necessari, ai sensi dell'art. 10 del regolamento organico del 1
gennaio 1981, per l'acquisizione della qualifica superiore da parte
di un primo ufficiale di macchina, dipendente da società di
navigazione, «in funzionamento» nel grado di direttore di macchina,
dovesse tenersi conto anche dei periodi di riposo e di ferie: Cass.
16 febbraio 1993, n. 1898; 15 febbraio 1992, n. 1845. |
[55]
Da ultimo, v. Cass. n. 2642/2004; 12785/2003. |
[56]
Cass. 10 novembre 1997, n. 11098; nella giurisprudenza di merito,
cfr. Pret. Milano 5 dicembre 1996, in Riv. critica dir. lav., 1997,
341. |
[57]
Cass. 13 gennaio 1997, n. 271, in Riv. giur. lav., 1997, II, 169,
con nota di Di Croce. |
[58]
Per il personale delle Ferrovie dello Stato ha ribadito il principio
testé riportato Cass. 24 maggio 1999, n. 5040. Di segno decisamente
favorevole alla parte datoriale è poi quell’opzione interpretativa,
condivisa in verità solo da una parte della giurisprudenza di
merito, secondo cui, atteso il carattere eccezionale della
promozione automatica, sarebbe giustificata la condotta
dell’imprenditore inteso ad evitarne l’operatività mediante
rotazione del personale (così Pret. Fermo 13 novembre 1996, in Dir.
lav. Marche, 1997, 86). |
[59]
Cass., sez. un., 28 gennaio 1995, n. 1023, in Foro it., 1995, I,
494, con nota di AMOROSO; Giust. civ., 1995, I, 1201, annotata da
NANNIPIERI. In senso conforme alle Sezioni unite v. anche nella
giurisprudenza di merito Pret. Firenze 4 ottobre 1995, in Toscana
giur., 1996, 743. |
[60]
Pret. Firenze 7 dicembre 1995, in Toscana giur., 1996, 743. |
[61]
V. di recente Trib. Reggio Emilia 2 giugno 1998, in Orient. giur.
lav., 1998, I, 29; Pret. Catania 2 agosto 1995, in Foro it., 1996,
I, 766, con nota di richiami. |
[62]
Di recente, M. Somvilla, Mansioni vicarie e promozione
automatica, in Mass. Giur. Lav., 2007, 41 ss |
[63]
Cass. n. 21021/2006; 2637/2000; n. 15968/2004. |
[64]
Cass. n. 4642/2006; 20660/2005; 11125/2001. |
[65]
Per questa tesi v. Cass. 22 agosto 1997, n. 7874; 13 agosto 1996, n.
7541, in Lavoro giur., 1997, 32 con nota di Mannaccio ed in Dir. lav.,
1997, II, 342, con nota di Riganò; 21 novembre 1990, n. 11217,
pubblicata in Foro it., 1991, I, 467, con nota di Amoroso, anche in
Riv. giur. lav., 1991, II, 248, con nota di Prasca. |
[66]
Cass. 6 maggio 1999, n. 4550; 13 agosto 1996, n. 7541. |
[67]
Cass. 5 dicembre 1990, n. 11663, Foro it., 1991, I, 467, nota
AMOROSO ed in Riv. dir. lav., 1991, II, 601, con nota di Gragnoli. |
[68]
Cass. 10 aprile 1999, n. 3529. Interessa peraltro precisare che,
anche in materia, l’interpretazione delle disposizioni collettive di
diritto comune compiuta dal giudice del merito è censurabile in sede
di legittimità solo per vizi di motivazione e violazione delle
regole di ermeneutica contrattuale (ad esempio la Suprema corte ha
confermato la sentenza di merito che, ritenendo tassativa la
disposizione del contratto collettivo per i dipendenti delle
Ferrovie dello Stato, relativa all’ipotesi di assenza dei dipendenti
con diritto alla conservazione del posto, aveva escluso che tra le
suddette ipotesi potesse farsi rientrare la partecipazione a corsi
professionali, attesa proprio la mancanza di espressa previsione:
Cass. 2 novembre 1998, n. 10954). |
[69]
Cass. n. 10346/2002; 20 maggio 1992, n. 6028. |
[70]
La tesi per cui «lavoratore assente con diritto alla conservazione
del posto», sarebbe anche il lavoratore presente in azienda ma
temporaneamente non utilizzato, per ragioni di salute, nel suo
normale posto di lavoro (cui è addetto un sostituto) è sostenuta da
Cass. 19 marzo 1983, n. 1964, in Giur. it., 1983, I, 1, 1953. |
[71]
Cfr. Cass. 25 marzo 1997, n. 2631, in Lavoro giur., 1997, 1009, con
nota di Focareta; 20 maggio 1997, n. 4496, in Riv. it. dir. lav.,
1998, II, 96, con nota di Palla. |
[72]
Cass. 24 gennaio 1992, n. 766, in Riv. it. dir. lav., 1993, II, 278,
n. Focareta; 24 gennaio 1992, n. 766. Viceversa sulla possibilità di
successiva sostituzione di più lavoratori assenti con diritto alla
conservazione del posto, v. Cass. 27 luglio 1984, n. 4479, in Foro
it., 1986, I, 143. |
[73]
Cass. 11 aprile 1996, n. 3363; 23 febbraio 1996, n. 1433. |
[74]
Cass. 10 novembre 1998, n. 11331; 28 febbraio 1996, n. 1546; 19
gennaio 1985, n. 183, in Foro it., 1985, I, 2970. |
[75]
Cass. 17 febbraio 1997, n. 1438. |
[76]
Cfr. l’art. 41 del ccnl 5 febbraio 1988, per i dipendenti delle
Ferrovie dello Stato. Sull’argomento la Cassazione ha chiarito che,
in effetti, in materia di sostituzione di un lavoratore assente con
diritto alla conservazione del posto con altro lavoratore di
qualifica inferiore, l'art. 2103 c.c. non prescrive che, perché sia
escluso il diritto del sostituto alla definitiva assegnazione alle
mansioni superiori, il datore di lavoro debba comunicare a
quest'ultimo, in occasione dell'assegnazione suddetta, il nominativo
del sostituito e i motivi della sostituzione; tuttavia la
contrattazione collettiva può ben prevedere tale regime più rigoroso
per tutelare più efficacemente la professionalità del lavoratore
contro possibili abusi del datore di lavoro (Cass. 23 gennaio 1999,
n. 646). In tal senso si è ritenuto che la comunicazione deve
essere, se non preventiva, almeno contestuale all’adibizione alle
nuove mansioni (Cass. 7 aprile 1998, n. 3586; 22 agosto 1997, n.
7874, in Foro it., 1998, I, 1237, con nota di richiami; in senso
opposto v. invece Cass. 14 novembre 1997, n. 11280). La Cassazione
ha peraltro considerato conforme ai criteri di ragionevolezza e
rispettosa dell’art. 1362 c.c. l’interpretazione del giudice del
merito che, sulla base della nominata disposizione contrattuale, ha
ritenuto la configurabilità a carico dell’ente dell’onere di
provare, in caso di contestazione, l’effettiva sussistenza della
causa della sostituzione e la ricorrenza di un’ipotesi di diritto
alla conservazione del posto (Cass. 5 febbraio 1998, n. 1192). |
[77]
Pret. Sassari-Alghero 4 agosto 1993, in Notiziario giurisprudenza
lav., 1993, 816; nel medesimo senso v. Trib. Milano 16 febbraio
1994, in Orient. giur. lav., 1994, 233). |
[78]
Similmente irrilevante è che l'assegnazione provvisoria delle
mansioni predette non sia stata disposta dall'organo, dell'ente
datore di lavoro, cui, a norma dello statuto, spetta di deliberare
in ordine alle promozioni del personale: Cass. n. 24/2005;
6981/1994. |
[79]
Cass. 14 febbraio 1983, n. 1122, in Giust. civ., 1983, I, 3361, con
nota di GHINOY. |
[80]
Cass. 21 marzo 1997, n. 2507. |
[81]
v. Cass. 6 giugno 1985, n. 3372 in Foro it., 1986, I, 142, con nota
di Mazzotta. In senso conforme v. anche Pret. Catania 2
agosto 1995, in Foro it., 1996, I, 766, pubblicata anche in Riv. it.
dir. lav., 1996, II, 820, nota Vallebona. |
La
Suprema corte ha peraltro chiarito che il rifiuto del lavoratore,
adibito a mansioni superiori a quelle di assunzione per un periodo
superiore a tre mesi, di proseguire lo svolgimento delle mansioni
stesse in difetto dell'attribuzione del superiore corrispondente
inquadramento e del relativo trattamento economico, non costituisce
rinunzia al diritto alla promozione automatica, nascente dall'art.
2103 c.c. bensì un comportamento inteso a far valere l'exceptio
inadimpleti contractus ex art. 1460 c.c., non preclusivo della
possibilità di far valere tale diritto (Cass. 10 gennaio 1984, n.
186). |
[82]
Cass. 29 agosto 1987, n. 7142. In dottrina, v. sul tema VERDOLIVA,
Spunti in tema di consenso alla qualifica superiore (nota a
Cass. 16 giugno 1989, n. 2907, in Lavoro e prev. oggi, 1990, 2194). |
[83]
Da ultimo v. Cass. 4 dicembre 1999, n. 13601; 7 gennaio 1999, n. 62. |
[84]
Cass. 2 dicembre 1996, n. 1027. In applicazione del medesimo
parametro ermeneutico si è ancora affermato che, con riguardo a
domanda diretta al riconoscimento della qualifica di dirigente e del
corrispondente trattamento retributivo, in relazione alle mansioni
di fatto svolte dal lavoratore, la circostanza che compiti identici
siano stati svolti precedentemente da altri dipendenti con qualifica
dirigenziale non rileva ai fini del diritto al superiore
inquadramento. E ciò neppure sotto il profilo della disparità di
trattamento, non essendo la circostanza illustrata di per sé
sufficiente per integrare la lesione della dignità umana considerata
dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 103 del 1989, e potendo
eventualmente derivare da una ingiustificata attribuzione di
qualifiche superiori a dipendenti con identici incarichi, ed in
generale dalla violazione delle regole di correttezza, conseguenze
risarcitorie ma non il riconoscimento di diritti ingiustamente
attribuiti ad altri. Sotto questo aspetto, si argomenta,
differenziazioni retributive dissociate dal contenuto delle mansioni
non costituiscono di per sé una violazione dei suddetti principi,
tale violazione può infatti presumersi solo in totale assenza di
ragioni addotte dall'imprenditore per giustificare l'esercizio dei
suoi poteri discrezionali (Cass. 17 febbraio 1994, n. 1530). |
[85]
Cass. 5 febbraio 1997, n. 1068; 20 aprile 1995, n. 4437. Sempre in
punto di parità di trattamento è opportuno citare la sentenza della
Suprema corte 4 dicembre 1999, n. 13601, nella quale si è in radice
esclusa la possibilità di procedere ad un sindacato giudiziale
relativamente alla ragionevolezza dei criteri secondo cui i
contratti collettivi operino distinzioni tra i vari tipi di mansioni
ai fini dell’inquadramento contrattuale dei lavoratori e della loro
progressione in carriera, proprio essendo la contrattazione
collettiva ad essere ritenuta dalla legge lo strumento idoneo ad
interpretare le esigenze dei vari settori produttivi ai fini in
discorso. A questi fini la Corte ha appunto ribadito l’inesistenza
di un principio costituzionale di uguaglianza tra i lavoratori, col
limite del compimento da parte dell’imprenditore di atti di
discriminazione positivamente presi in considerazione nel sistema e,
come tali, vietati. |
[86]
E’ stata di conseguenza ritenuta nulla la norma convenzionale
costitutiva di un obbligo per il datore di lavoro di bandire un
concorso per la copertura di posti vacanti ovvero un obbligo per il
prestatore di sottoporsi ad accertamento professionale (Cass. 25
marzo 1997, cit.; 10 novembre 1995, n. 11710) o, ancora, il limite
del superamento di un giudizio d’idoneità demandato ad apposita
commissione (Cass. 29 luglio 1996, n. 6839; 10 gennaio 1994). |
[87]
Cass. 5 aprile 1986, n. 2389. |
[88]
Cass. 19 gennaio 1993, n. 612. |
[89]
Sul punto v. da ultimo Cass. 23 agosto 1997, n. 7911; 26 luglio
1996, n. 6750. Sul tema v. in dottrina MARESCA, L'inesistente
diritto alla qualifica superiore e la sua conclamata
prescrittibilità - Un ripensamento della cassazione? nota a
Cass. 1° settembre 1987, n. 7151, in Foro it., 1989, I, 518. E’
stato peraltro chiarito che il decorso del decennio dal momento
dell'insorgenza del diritto non preclude definitivamente
l'accesso al superiore inquadramento allorché continui
l'attività potenzialmente idonea a determinarlo; infatti, se
permane la situazione a cui la norma collega il diritto, la
prescrizione decorre autonomamente da ogni giorno successivo a
quello nel quale si è per la prima volta concretata tale
situazione, fino alla cessazione della medesima (nella specie,
la Suprema corte ha confermato la sentenza con cui il giudice di
merito aveva accertato la maturazione del diritto
dell'interessato alla definitiva assegnazione alle mansioni
superiori con decorrenza da dieci anni prima dell'atto
interruttivo della prescrizione, dopo aver verificato che
all'epoca egli non aveva ancora cessato lo svolgimento delle
stesse: Cass. 18 maggio 1995, n. 5486). |
[90]
Cass. 1 dicembre 1994, n. 10279. |
[91]
Cass. n. 1012/2003; 2000 n. 14981; 2000, n. 431. |
[92]
Cass. 21 aprile 2000, n. 5203. |
[93]
V. da ultimo Cass. 19 gennaio 1999, n. 476, Foro it., 1999, I, 850,
con nota di richiami. |
[94]
Così Cass. 21 luglio 1998, n. 7170. |
[95]
Cass. 4 febbraio 1997, n. 1027. |
[96]
Cass. n. 8172/2006; 1192/1998; 11663/1990. |
[97]
Cass. n. 3529/1999; 4740/1989. |
[98]
C. Stato, commiss. spec., 20 novembre 1995, n. 345, in Ragiusan,
1996, 207; Tar Calabria, 14 ottobre 1997, n. 603, in Foro amm.,
1998, 1590. |
[99]
D’altra parte si è temuto che la regola della promozione automatica,
ove accolta, avrebbe potuto determinare effetti assolutamente
incompatibili con gli interessi della p.a., primo tra essi quello
della stabilità della pianta organica, della certezza
organizzativo-burocratica e finanziaria; in questo senso v. ancora
Cons. Stato, sez. V, 19 gennaio 1998, n. 81, in Cons. Stato, 1998,
I, 56; Tar Sicilia, sez. I, 3 settembre 1992, n. 602, in Giur. amm.
sic., 1992, 801. |
[100]
V. Corte cost. 27 maggio 1992, n. 236; giugno 1990, n. 296; 23
febbraio 1989, n. 57. |
[101]
V. in particolare Cons. Stato, ad. plen., 16 maggio 1991, n. 2, in
Foro it., 1991, III, 473; C. Stato, ad. plen., 9 settembre 1992, n.
10, in Cons. Stato, 1992, I, 1033. |
[102]
V. Cons. Stato, sez. VI, 4 marzo 1998, n. 242, in Cons. Stato, 1998,
I, 423; Cons. giust. amm. sic., sez. giurisdiz., 26 febbraio 1998,
n. 84, in Giust. amm. sic., 1998, 63; Tar Marche, 22 febbraio 1991,
n. 69, in Foro amm., 1991, 3041. |
[103]
Cons. Stato, sez. V, 24 marzo 1998, n. 354, in Foro amm., 1998, 723;
nello stesso senso Cons. Stato, sez. V, 18 settembre 1998, n. 1308,
in Cons. Stato, 1998, I, 1295,; Cons. giust. amm. sic., sez.
giurisdiz., 19 febbraio 1998, n. 49, in Ragiusan, 1998, 273; Tar
Toscana, sez. III, 28 aprile 1998, n. 79, in Trib. amm. reg., 1998,
I, 2595. |
[104]
Cons. Stato, sez. VI, 9 settembre 1997, n. 1293, in Cons. Stato,
1997, I, 1232; Cons. Stato, sez. VI, 30 maggio 1997, n. 821, in Foro
amm., 1997, 1434; 4 luglio 1996, n. 817, in Cons. Stato, 1996, I,
1095. |
[105]
In dottrina, cfr. M. D’Aponte, Progressioni di carriera e
assegnazione di mansioni superiori nel pubblico impiego: la
permanenza di una disciplina speciale tra esigenze di tutela ed
abusi della P.A., Il Lavoro nelle P.A., 2005, 833 ss. |
[106]
E’ opportuno avvertire che la recente citata decisione del Consiglio
di Stato n. 10/2000 ha affermato tra l’altro la tesi dell’efficacia
non retroattiva dell’ultima modificazione legislativa introdotta dal
d.lgs. n. 387 cit. e relativa appunto al diritto al trattamento
economico previsto per le superiori mansioni svolte. |
[107]
Panariello, Qualifiche e mansioni, in Diritto del lavoro e
della previdenza sociale, a cura di G. Santoro Passarelli, 1988,
1621; della stessa idea è Fiorillo, in AA.VV., La riforma
dell’organizzazione dei rapporti di lavoro e del processo nelle
amministrazioni pubbliche, in Le nuovi leggi civ., 1999, 1394. |
[108]
Così espressamente dispone l’art. 24, 2° co., del c.c.n.l. comparto
Ministeri, prevedendo un’unica eccezione: “Nell'ambito del nuovo
sistema di classificazione del personale previsto dal presente
contratto, si considerano "mansioni immediatamente superiori" le
mansioni svolte dal dipendente all'interno della stessa area in
profilo appartenente alla posizione di livello economico
immediatamente superiore a quella in cui egli è inquadrato, secondo
la declaratoria riportata nell'allegato A del presente contratto. Le
posizioni economiche "super" non sono prese in considerazione a tal
fine. Sono, altresì, considerate "mansioni superiori", per i
dipendenti che rivestono l'ultima posizione economica dell'area di
appartenenza, le mansioni corrispondenti alla posizione economica
iniziale dell'area immediatamente superiore”. |
[109]
Come è a dirsi per il c.c.n.l. comparto regioni ed autonomie locali,
il cui art. 3, 3° comma, recita : “L'assegnazione temporanea di
mansioni proprie della categoria immediatamente superiore
costituisce il solo atto lecito di esercizio del potere
modificativo”. Dunque si parla di scatto immediatamente superiore
come riferito alla “categoria”. |
[110]
A questi fini è d’uopo ricordare che il ruolo organico è
sostanzialmente una tabella, nella quale è determinato, distinto per
categorie e posizioni giuridiche ed economiche, il numero dei posti
di cui l’amministrazione dispone. La dotazione organica può
viceversa essere definita come il numero complessivo dei posti
ricompresi nei ruoli organici di un’amministrazione. |
[111]
Tale requisito, almeno in linea di massima, potrebbe rendere, nei
giudizi fondati sui commi 2,3 e 4 dell’art. 56, irrilevante la prova
testimoniale sullo svolgimento delle mansioni superiori, salvo
ovviamente sussistano contestazioni in fatto sull'effettivo
adempimento dell'incarico. |
[112]
Sezione V, 22.9.1999, n. 1075. |
[113]
Deve dunque escludersi, per la radicale alternativa posta dalla
norma, l’applicabilità di quel criterio ermeneutico cd. promiscuo
affermato di recente dalla Cassazione, per cui in caso non si
pervenga alla unificazione delle mansioni sotto un unico livello, in
base al principio di prevalenza, il giudice può e deve comunque
valutare la retribuzione adeguata al complessivo lavoro svolto, per
quantità e qualità (Cass. 17.5.2000, n. 6419). |
[114]
Per un caso specifico v. Trib. Roma, ord. 11.10.1999, in Foro it.,
2000, I, 282. |
[115]
Cfr. P. Curzio, Pubblico impiego: sospensioni, congedi,
aspettative, mutamenti di mansioni, promozioni, Riv. Critica
dir. Lav., 2002, 270; Nisticò, Appunti in tema di mansioni
superiori del lavoratore pubblico, Riv. Critica dir. Lav., 2000,
601. |
[116]
Per l’approfondimento dei singoli elementi costitutivi della
fattispecie, si rinvia all’analisi precedente sul lavoro privato. |
[117]
Ove per "unità produttiva" si intende una "articolazione
autonoma dell'azienda avente, sotto il profilo funzionale o
finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività
dell'impresa, della quale costituisca una componente organizzativa,
connotata da indipendenza tecnica ed amministrativa tali che in essa
si possa concludere una frazione dell'attività produttiva
aziendale": vedi Cass. n. 6413 del 1993, Cass. n. 5892 del 1999,
Cass. n. 9636 del 2000. |
[118]
La giurisprudenza della Corte, invero, non dubita che la nozione
di "trasferimento" implichi il mutamento definitivo del luogo
geografico di esecuzione della prestazione, ancorché abbia anche
utilizzato la nozione di unità produttiva di cui all'art. 35, cit.,
per escludere in qualche caso che, pur in presenza di mutamento del
luogo di esecuzione, fosse configurabile "trasferimento", ove
attuato nell'ambito della medesima unità produttiva, con riguardo ad
articolazioni aziendali che, sebbene dotate di una certa autonomia
amministrativa, siano destinate a scopi interamente strumentali o a
funzioni ausiliarie sia rispetto ai generali fini dell'impresa, sia
rispetto ad una frazione dell'attività produttiva della stessa”,
così Cass. N. 11103/2006. V. anche Cass. 5892/1999; 5153/1999;
29/07/2003, n.11660; 15761 del 2002. |
[119]
Cass. 14 giugno 1999, n. 5892. |
[120]
Cass.,03-03-1994, 2095/1994. Per la legittimità del rifiuto di
prendere servizio in una nuova sede di lavoro, in località molto
lontana, Cass. n. 5444/2002. |
[121]
Così da ultimo Cass. n. 11103/2006. |
[122]
Cass. n. 5320/2006; 17786 del 2002, 3525 del 2001, 3207 del 1998,
3889 del 1989, 5339 del 1987, 832 del 1975. |
[123]
Cass., 11400/1998; 4 aprile 1990 n. 2772; Cass. 26.1.1995 n. 909;
Cass. 25.5.1996 n. 4823; cfr. anche, sull'onere della prova a carico
del datore di lavoro, Cass. nn.9276/87 e 6400/87. |
[124]
Vallebona, Gli oneri di allegazione e di prova nelle azioni
fondate sull’inadempimento del datore di lavoro, in Diritto del
lavoro, 2002, I, 257. |
[125]
Con la ulteriore conseguenza che il giudice del merito, investito
della questione della dedotta illegittimità del trasferimento, deve
comunque estendere la propria indagine a tutte le ragioni addotte
dal datore di lavoro e non limitarsi ad esaminare i soli motivi di
illegittimità dedotti dal lavoratore, al fine di accertare la
legittimità del provvedimento ai sensi dell'art. 2103 c.c. e di
eventuali norme contrattuali collettive che integrano la disciplina
della fattispecie. |
[126]
Cass. 26 maggio 2001, n. 7188; 1 febbraio 1988, n. 868; 8 luglio
1988, n. 4445; 18 novembre 1997, n. 11464. |
[127]
Cass. 23 agosto 1996, n. 7768. |
[128]
Vi sono al più richiami al fenomeno contenuti in alcune
disposizioni, ma non una definizione o una disciplina autonoma che
arrivino a conferire autonomia categoriale. |
[129]
Cass. n. 4774/2006. |
[130]
Corte Cost., 19 dicembre 2003, n. 359, ha dichiarato
costituzionalmente illegittima la legge della regione Lazio 11
luglio 2002 n. 16, che aveva dato una definizione giuridica del
mobbing violando il principio per cui spetta allo Stato fornire la
nozione giuridica di un fenomeno, come quello del mobbing,
inquadrabile nell’ambito dell’ordinamento civile. Diversamente,
hanno superato il vaglio della Consulta la legge della regione
Abruzzo n. 26/2004 (sent. n. 22/06) e quella della regione Friuli
Venezia Giulia n. 7/2005 (sent. n. 239/2006), in quanto non dettano
una definizione, esemplificazioni ed una disciplina del mobbing, ma
si limitano ad articolare iniziative d’informazione, di prevenzione
e di sostegno. |
E’
utile ricordare che la circolare Inail n. 71 del 2003 che aveva
inserito, senza il dovuto procedimento, tra le malattie tabellate
anche quelle psichiche da mobbing è stata annullata da Tar Lazio,
sez. III ter, n. 5454/2005, in Giur. Lav., 2005, n. 30, 28. |
[131]
Cd. lesività per accumulo. Secondo la psicologia del lavoro per
aversi mobbing occorre il protrarsi della condotta per almeno sei
mesi e la presenza di qualche azione ostile ogni mese, laddove
quando una singola azione ostile produca conseguenze durature e a
lungo termine si parla invece di straining. Si rinvia al noto
scritto di H. Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing,
Milano, 2002. Tra gli autori italiani, sul tema cfr. L.
Battista, Persona, lavoro e mobbing, Roma, 2005; S.
Mazzamuto, Il mobbing, Milano, 2004, M. Miscione,
Mobbing, norma giurisprudenziale (la responsabilità da persecuzione
nei luoghi di lavoro), Lav. Giur., 2003, 305; Carinci, M.T.
Il mobbing: alla ricerca della fattispecie, in Mobbing,
organizzazione, malattia professionale (Quaderni di diritto del
lavoro e delle relazioni industriali), Torino, 2005. |
[132]
Per la decisività qualificatoria dell’elemento finalistico, secondo
la cd concezione soggettiva, v. Corte cost. n. 359/2003. A fini
definitori risulta, in realtà, dubbio valorizzare l’elemento
soggettivo, che è di difficilissima dimostrazione (v. infra). Per lo
sviluppo di tali argomenti, v. Vallebona, Mobbing, cit., 9. |
[133]
In senso opposto, ma senza adeguati argomenti, A.
Occhipinti, Sull’utilità giuridica del concetto di mobbing,
Riv. Crit. Dir. Lav. , 2004. 7. |
[134]
Cass., 6 marzo 2006 n. 4774, che prosegue: “La sussistenza della
lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve
essere verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta
del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la
sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue
caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione,
risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa,
anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del
lavoratore subordinato”. |
[135]
Cass. n. 9601/2001. |
[136]
Vallebona, op. cit. |
[137]
Interessi tutelati anche dalla Costituzione, agli artt. 41, 2, 32. |
[138]
Sulla qualificazione degli atti datoriali contrari a buona fede come
“illegittimi”, v. di recente Cass. n. 6326/2005. |
[139]
Cass. n. 9501/1995; 2500/1986. |
[140]
Per l’assodata natura contrattuale della responsabilità ex art.
2087, v. Cass. N. 8438/2004. |
[141]
Si tenga presente che gli attuali approdi esegetici, riconoscono
nell’obbligo di sicurezza non una mera obbligazione accessoria, cioè
secondaria, ma di rilievo primario nel programma obbligatorio, al
pari dell’obbligo retributivo. La rilevanza della ricostruzione si
coglie, ad esempio, per l’eccezione d’inadempimento. La Cassazione
ha di recente statuito che la violazione dell’obbligo di sicurezza,
se grave sotto l’aspetto qualitativo, cioè rispetto alla funzione
economico-sociale del contratto, giustifica il rifiuto della
prestazione lavorativa, Cass. n. 21479/2005, in Mass. Giur. Lav.,
2006, 329, con nota di Lanotte, Violazione datoriale dell’obbligo
di sicurezza e rifiuto di eseguire la prestazione lavorativa:
l’operatività dell’exceptio inadimpleti contractus. |
[142]
In dottrina, v. Vallebona, Mobbing: qualificazione, oneri
probatori e rimedi, Mass. Giur. Lav., 2006, 8; M. Di Marzio,
Mobbing, a chi spetta l’onere probatorio. Adesso è il datore che
deve discolparsi, in Diritto e giust., 2006, 31 ss.; M. Salvagni,
Il mobbing e l’onere della prova: fattispecie a formazione
complessa. |
[143]
Cass. n. 12467/2003. |
[144]
Sono le parole di Cass. 12445 cit. |
[145]
È da escludersi, invece, che possa risultare parimenti liberatoria
la prova della "impossibilità sopravvenuta" della prestazione di
sicurezza - che sia stata omessa - risolvendosi la prestazione
stessa, almeno di regola, nella messa a disposizione di beni
generici, per i quali non é configurabile, appunto, l'istituto
dell'impossibilità sopravvenuta. |
[146]
Ma v. anche Cassazione 16250/03, 3740/95. |
[147]
Cassazione n. 11523/2006. |
[148]
Vallebona, Allegazioni e prove nel processo del lavoro,
Padova, 2006, 60. |
[149]
V. sentenze 16250, 2357/03, 15133/02, cit., 9304, 9016, 5024,
326/02, 7052/01, 13690/00, 6000/98, 4227/92. |
[150]
Cassazione 13053/2006; 13690/00, 326/02. |
[151]
Così Vallebona, op. cit. 11; contra Mazzamuto, op. cit., 57
ss. |
[152]
Tale ricostruzione dei pesi probatori è ben chiarita nella recente
sent. Cass. n. 12445/06. |
[153]
Cumani, E., Mobbing, molestie sessuali e altre forme di
discriminazione, in M.Pedrazzoli (a cura di), I danni
alla persona del lavoratore nella giurisprudenza, Cedam, Padova,
2004. |
[154]
Secondo l’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione, la
previsione di nullità per il licenziamento discriminatorio, di cui
all’art. 4 della legge n. 604 /1966, all’art. 15 della legge n.
300/1970 ed all’art. 3 della legge n. 108/1990, deve essere estesa a
tutte le fattispecie di licenziamento che, “pur non direttamente
corrispondenti alle singole ipotesi espressamente menzionate nelle
suddette norme, siano determinati in maniera esclusiva da motivo
illecito” (v. da ultimo, Cass. N. 4543/1999; n. 3837/1997). Questo
principio di diritto ha potenzialità espansiva anche verso atti
negoziali diversi. |
[155]
Avvalendosi delle parole di Cass. n. 7603/1990: la domanda di
accertamento della nullità del licenziamento, per illiceità del
motivo, non implica la denuncia della insussistenza di una giusta
causa o di un giustificato motivo, ma ne configura, invece, la
sussistenza come fatto impeditivo, che può essere fatto valere
ope exceptionis. V. anche Cass. 25 novembre 1980, n. 6259 ; 2
aprile 1990, n. 2642. |
[156]
L’art. 26 dispone: “Sono considerate come discriminazioni anche
le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere
per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di
violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare
un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. |
2.
Sono, altresì, considerate come discriminazioni le molestie
sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione
sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo
scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un
lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante,
umiliante o offensivo”. |
[157]
Per questa riflessione, v. Pret. Roma, 245 novembre 1992, Riv. It.
Dir. Lav., 1993, II, 262, con nota di D. Manassero, Una prima
pronuncia in tema di “prova statistica” della discriminazione.
|
[158]
In questo senso cfr. Vallebona, L’onere della prova degli atti
discriminatori, Lav. Dir., 1989, 342. |
[159]
A differenza per esempio della clausola penale, ex art. 1382 c.c. o
delle penali contrattuali o legali (es. tutela obbligatoria o le 5
mensilità della tutela reale). |
[160]
E così tali da scongiurare duplicazioni risarcitorie ed esiti di
overcompensation. |
[161]
Cass. n. 15955/2004; 9129/2004; 16792/2003. |
[162]
Cass. S.U. n.
500/1999. |
[163]
Affermatasi la tesi secondo cui i concetti di "perdita" e di
"guadagno" di cui all'art. 1223 c.c. non si relazionano
esclusivamente ad entità di natura direttamente pecuniaria ma
includono qualsivoglia utilità suscettibile di valutazione
economica, si è riconosciuto che è tale anche una situazione
fattuale fonte non di reddito certo ma solo probabile: il valore
economico di tale utilità dipende dalla duplice variabile della
misura del reddito che detta situazione è idonea a produrre e dal
grado di probabilità esistente che tale reddito sia da essa
effettivamente prodotto, sicché il danno risarcibile si identifica
nella perdita della possibilità di conseguire un risultato utile e
non come perdita di quel risultato (da ultimo, Cass. n. 4400 del
2004). La giurisprudenza, al fine di delimitare l'area di
risarcibilità del danno da perdita di una chance, richiede che si
provi in concreto la realizzazione almeno di alcuno dei presupposti
per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla
condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere
conseguenza immediata e diretta (in fattispecie di danno derivante
da mutamento delle mansioni e consistente nel mancato conseguimento
di un vantaggio di carriera connesso ad una valutazione comparativa
di candidati, v. Cass. n. 10748 del 1996); alla mancanza di una tal
prova non è possibile sopperire con una valutazione equitativa ai
sensi dell'art. 1226 cc, atteso che l'applicazione di tale norma è
diretta a sopperire all'impossibilità di provare l'ammontare preciso
del danno ma non l'esistenza dello stesso (Cass. n. 781 del 1992). |
[164]
V. in particolare, Cass. n. 8827 e 8828/2003. |
[165]
Così da ultimo, Cass. n. 19965/2006. |
[166]
Cass. n. 10035/2004. Nella specie, relativa al risarcimento del
danno per la morte del coniuge e padre degli attori in un sinistro
ferroviario, la S.C ha cassato la sentenza di merito che aveva
applicato automaticamente le tabelle in uso presso il tribunale
locale, senza dar atto di aver tenuto conto del danno da
sconvolgimento delle abitudini di vita del nucleo familiare e della
procurata assenza della figura paterna in relazione all'età dei
figli (rispettivamente 4 anni e nascituro) al momento del sinistro. |
-
Nostre considerazioni
-
-
L’interessantissima tematica esaminata dalla Relazione sopra
riportata è stata anche da noi “vivisezionata” in plurimi articoli
(cfr. ex multis, Alcuni punti fermi sugli oneri probatori del demansionamento
e del mobbing, in Lav. prev. oggi 6/2006,697) nonché nei testi
Danni da mobbing e loro risarcibilità, Ediesse, Roma, 2006,
86 e Il rapporto di lavoro in azienda, Ediesse, Roma, 2008,
93. In questi scritti abbiamo sottoposto a critica la tesi di
Vallebona (ordinario giuslavorista ed attuale direttore scientifico
della rivista lavoristica Mass. giur. lav. della
Confindustria, nella quale anche noi abbiamo a suo tempo
pubblicato)
– implicante fattualmente l’accrescimento dei già pesanti oneri
probatori per il lavoratore ricorrente - secondo cui le
prescrizioni legali impositive degli obblighi in capo al datore di
garantire al prestatore l’effettivo disimpegno delle mansioni
pattuite (ex art. 2103 c.c.) nonché di assicurargli il
rispetto e la tutela (anche) della personalità morale sul lavoro (ex
art. 2087 c.c.), costituirebbero “obbligazioni negative” (cioè, di
non fare o divieti) e non inequivoche “obbligazioni positive” (di
fare). Con l’effetto obiettivo di far beneficiare il
convenuto-datore dell’esenzione dagli oneri probatori in tema di
dequalificazione e mobbing secondo la regola – correttamente
sancita da Cass. SU n. 13533/01 – per cui, mentre il debitore
(datore) è onerato della prova dell’esatto adempimento delle
obbligazioni di fare (o positive) su di lui gravanti, è esentato –
in via di eccezione – dagli oneri probatori per quelle cd.
“negative” (di non fare o divieti), gravanti invece sul
creditore/lavoratore.
-
Cosicché il suddetto A. - trasformando le “obbligazioni positive”,
tramite la presentazione del loro immanente rovescio, in
“obbligazioni negative” (è pacifico che ad ogni dovere di fare
corrisponde un divieto, di non fare!), e cioè l’obbligo di garantire
lo svolgimento delle mansioni contrattuali in “divieto di
demansionamento”, nonché l’obbligo di salvaguardia e rispetto della
personalità morale del lavoratore in azienda in “divieto di vessare
e perseguitare” direttamente o tramite i preposti - giunge ad
accollare indebitamente ai lavoratori-ricorrenti oneri ad essi non
pertinenti, in quanto gravanti sul datore-convenuto, tenuto ad
obblighi di fare, di assicurare o di attivarsi ad impedire.
-
La Cassazione – cfr. n. 4766/2006 (est. Nobile) e,
recentissimamente, n. 13821/2008 (est. Bandini) – ha evidenziato
l’erroneità di tale teorica (aderendo alla nostra posizione), con
l’affermare: «secondo il condiviso orientamento di questa Corte,
allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una
dequalificazione o venga dedotto un demansionamento riconducibili ad
un inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro
ai sensi dell'art. 2103 c.c., è su quest'ultimo che incombe l'onere
di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la
prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o
demansionamento, ovvero attraverso la prova che l'una o l'altro siano
stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri
imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio
generale risultante dall'art. 1218 c.c., da un'impossibilità della
prestazione derivante da causa a lui non imputabile (cfr., Cass., n.
4766/2006)».
-
Purtuttavia la stessa redattrice della Relazione mostra spesso e
volentieri di essere influenzata o condizionata dalla "deferenza" per
la teorica dell’accademico, non prendendo le necessarie distanze (ad
es., a proposito del mobbing discendente e relativi oneri probatori)
da quelle che noi consideriamo le sue stesse improprietà, talora
prestandovi adesione.
-
Nella lettura ci ha sorpreso poi la totale omissione, in nota come
d'uso, della menzione
di qualche lavoro di chi scrive, quale sostenitore – prima isolatamente e
poi con il conforto della Cassazione – dell’opposto orientamento.
-
Va ancora sottolineato
quello che noi - che non militiamo a favore dell'abusata esigenza
della "flessibilità", risoltasi obiettivamente in dannoso
"precariato"- giudichiamo un
eccesso di condivisione dell'innovativa nozione di professionalità
"dinamica", prospettata da Cass. n. 10091/2006 (est. Stile) in
maniera platealmente sbilanciata a favore delle
(pseudo) esigenze tecniche dell'impresa rispetto alla prudentissima Cass. SU
n. 25033/2006 (est. Amoroso), in quanto mentre l'una legittima in
astratto
"l'affidamento al lavoratore di compiti nuovi,
del
tutto estranei rispetto all'attività precedentemente svolta ed alle
cognizioni tecniche già acquisite,
purché
non venga del tutto (sic!, n.d.r.)
disperso il patrimonio professionale e di esperienza già maturato..."
onde pretendere da esso nel corso del rapporto prestazioni
professionali di carattere "polivalente" (tipiche del
lavoratore "jolly" o tuttofare), le SU invece
legittimano il ricorso e lo spiegamento della professionalità
"potenziale" solo se
la
fungibilità del lavoratore tra diverse mansioni sia
conseguente a pattuizioni collettive raggiunte "per sopperire a
contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la
valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i
lavoratori inquadrati in quella qualifica"
mediante rotazione dei lavoratori medesimi.
-
Quanto sopra rilevato è uno dei principali
“nei” da noi riscontrati in questa, peraltro pregevole, Relazione, dalle
apprezzate caratteristiche riepilogative, funzionali
ad un compito informativo/formativo (in una tematica tutt’altro che
agevole), dei recenti orientamenti giurisprudenziali.
-
Superando alcune difficoltà di piana comprensione – a causa dell’uso
di termini come “euristico” e “diacronico”, non proprio alla portata
di tutti, neppure degli stessi colleghi magistrati – i lettori/navigatori
troveranno in essa informazioni preziose, che avranno poi
l’accortezza di raffrontare con quanto da noi abbondantemente
già riportato nel sito.
-
Mario Meucci - Giuslavorista
Roma, 15 luglio 2008
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