Mobbing: “Cattiveria di Branco”
“Indubbiamente
cattivo è colui che, abusando del proprio ruolo di potere e prestigio, commette
ingiustizie e violenza a danno dei suoi simili; infinitamente più cattivo è
colui che, pur sapendo dell’ingiustizia subita da un suo simile, tacendo,
acconsente a che l’ingiustizia venga commessa”. Così descriveva Einstein
una delle forme di “cattiveria umana” più conosciuta e radicata nel tempo:
l’abuso della posizione di potere di un soggetto nei confronti di un altro.
IL
MOBBING
1.
Mobbing: “Cattiveria di branco”: Risol.2001/2339 Parlamento Europeo e circ.
71/2003 INAIL. - 2. Verso una definizione legislativa di Mobbing: sentenza della
Corte cost. n°359/2003 e L.R. Lazio n°16/2002. - 3. Elementi costitutivi del
Mobbing. - 4.Fasi di sviluppo del fenomeno quadro clinico delle patologie
ricollegabili al mobbing. - 5. Corte costituzionale, sentenza 113/2004:
incostituzionalità dell’art. 2751 bis. Responsabilità contrattuale del
datore per danno da mobbing? - 6. Tipologie di Mobbing. Conclusioni
1.Mobbing:
“Cattiveria di Branco”: Risoluzione
2001/2339 Parlamento Europeo e circ.
71/2003 INAIL.
“Indubbiamente
cattivo è colui che, abusando del proprio ruolo di potere e prestigio, commette
ingiustizie e violenza a danno dei suoi simili; infinitamente più cattivo è
colui che, pur sapendo dell’ingiustizia subita da un suo simile, tacendo,
acconsente a che l’ingiustizia venga commessa”. Così descriveva Einstein
una delle forme di “cattiveria umana” più conosciuta e radicata nel tempo:
l’abuso della posizione di potere di un soggetto nei confronti di un altro.
Che
sia vero o meno, per alcuni autori gli uomini moderni prima ed i contemporanei
dopo, hanno ereditato dagli antenati il senso della schiavitù, da un lato, e
quello del servilismo dall’altro. La seconda forma degenera nella
sopportazione passiva e masochistica, oltre che nell’omertà; la prima diviene
abuso di potere e tra le tante forme: mobbing.
Nel
regno animale alcune specie hanno sviluppano una forma di aggressione in gruppo,
efficace nei confronti dell’antagonista naturalmente e fisiologicamente più
forte: la sconfitta sicura derivante dal corpo a corpo è evasa attraverso
l’aggressione dell’orda che, determina la soccombenza dell’aggredito.
Di
tale concetto si rende idea con il vocabolo inglese “to Mob”, che, tradotto
in maniera più attendibile, vuol dire assalire/aggredire in gruppo. Ad esso
risale l’etimologia della parola mobbing, un fenomeno in cui un’associazione
di soggetti “aggredisce in branco” un individuo al fine di destabilizzarne
l’equilibrio e cagionargli un pregiudizio concreto ed effettivo.
Ricollegandosi
alla citazione iniziale, esso rappresenta una “cattiveria di branco”, che, a
dire il vero, non è certo un fenomeno contemporaneo e non appartiene solo ad
una branca delle attività umane.
La
sociologia, la filosofia e le scienze umane in generale, hanno riposto
particolare attenzione ai rapporti dei consociati nell’ambito di un contesto
sociale storicamente individuato e, non rare volte, si è arrivati alla
conclusione che homo homini lupus: l’individuo, in buona sostanza, sarebbe
portato, per sua natura, a delinquere nei confronti del suo simile, e, pertanto,
il gesto delittuoso sarebbe semplicemente un “gesto umano”, ovvero, “un
atto naturalmente insito nella specie umana”.
Al
di là delle infinite diatribe al riguardo, il mobbing, oltre il nomen juris, è
un fenomeno che da sempre si sviluppa nei più disparati contesti sociali: si
pensi ad esempio al “nonnismo”, piaga dei contesti militari; si pensi ancora
all’emarginazione scolastica a danno dei soggetti più diversi e così ancora
ai soprusi dell’individuo debole nei contesti familiari parentali.
Sulla
rilevanza del fenomeno basti considerare le cifre: nel 2000 un lavoratore su
dieci e stato vittima di mobbing; nel 2001, l’8% dei lavoratori dell’Unione
Europea, pari a 12 milioni di persone, è stato vittima del fenomeno sul posto
di lavoro.
Ciò
detto, quindi, stupisce che il “mobbing” sia stato riconosciuto
relativamente tardi dal diritto e dal diritto del lavoro in particolare.
In
realtà, la quaestio è più che altro formale.
Sostanzialmente,
infatti, una tutela contro le persecuzioni individuali, contro l’abuso dei
poteri gerarchicamente attribuiti e contro comportamenti pregiudizievoli
dell’individuo – lavoratore, non è stata certo assente: il revirement,
infatti, riguarda la ricostruzione in termini giuridici di un unico fenomeno
comprendente diversi comportamenti, diversi soggetti e diversi effetti, che,
prima, potevano essere disciplinati in modo del tutto separato ed adesso,
possono essere ricondotti alla medesima fonte causale.
Il
mobbing, infatti, costituisce, innanzitutto, una causa di un evento che produce
effetti giuridici.
Secondo
la tradizionali bipartizione, il rapporto causa – evento sarà regolato dalle
norme di cui agli artt. 40 – 41 del C.P. , ed il rapporto evento – effetti,
dall’art. 2056 c.c. o dall’art. 1218 c.c. e segg. a seconda che si tratti di
responsabilità ex contractu o responsabilità aquiliana.
Tanto
premesso, il problema principale che si pone è innanzitutto definire in termini
giuridici il mobbing in quanto il suo riconoscimento può dirsi ormai del tutto
pacifico.
Innanzitutto
è il caso di ricordare la risoluzione
A5-0283/2001 assunta dal Parlamento Europeo in data 20/09/2001, in cui si
dava atto della diffusione del fenomeno è si invitavano gli Stati membri a
porvi rimedio attraverso metodi interni ritenuti opportuni.
Secondariamente
è il caso di citare la circolare
n. 71 del 17/12/2003 assunta dall’Inail in relazione al fenomeno del
Mobbing, un documento ufficiale ed importante anche ai fini della valutazione
medico legale dell’illecito di cui si tratta.
La
circolare parla di “costrittività organizzative” come produttive di
disturbi psichici ed individua trai comportamenti mobbizzanti: marginalizzazione
dell’attività lavorativa, svuotamento delle mansioni, ripetuti trasferimenti
ingiustificati, esercizio esasperato di forme di controllo, esclusione reiterata
rispetto ad iniziative formative, ecc...
In
buona sostanza viene definito un iter diagnostico della malattia professionale
da costrittività organizzativa che, a ben vedere, appare essere una prima
definizione di mobbing a livello medico legale.
Rilevante
al riguardo l’allegato 1 alla circ.
71/2003 che cita espressamente il mobbing ed individua i principali quadri
morbosi psichici e psicosomatici.
2.
Verso una definizione legislativa di Mobbing: sentenza della Corte
cost. n°359/2003 e L.R. Lazio n°16/2002
Una
definizione legislativa di mobbing, nel nostro ordinamento, ancora non esiste.
Nella
XIV legislatura sono stati presentati ben 14 progetti di legge sul mobbing, (9
al Senato e 5 alla Camera), i quali, ovviamente, innanzitutto, propongono una
definizione normativa del fenomeno.
Ciò
premesso, in definitiva, la concreta individuazione del mobbing è di volta in
volta rimessa al sindacato del Giudice che, in assenza i tipizzazione normativa,
diventa un giudizio di merito non sindacabile in sede di legittimità laddove
congruamente e logicamente motivato.
A
dire il vero, può dirsi consolidata una definizione giurisprudenziale, ad opera
soprattutto della Corti di merito, le quali definiscono il il c.d. mobbing come
“una pluralità dì comportamenti, che si inseriscono in una precisa strategia
persecutoria, posti in essere dal datore di lavoro per isolare, fisicamente e
psicologicamente, il lavoratore” (Trib. Tempio Pausania, 10/07/2003).
In
altre pronunce, cambiano le sfumature ma resta centrale il concetto: “si è in
presenza di un comportamento qualificabile come mobbing quando le vessazioni
psicologiche inflitte alla vittima nell'ambiente di lavoro siano idonee a ledere
i beni della persona (quali la salute e la dignità umana) e siano attuate in
modo duraturo e reiterato,(Trib. Milano, 28/02/2003).
A
dire il vero, il problema si sposta dalla definizione, momento puramente
formale, agli elementi costitutivi ed identificativi, momento di applicazione
del diritto.
“I
caratteri identificativi del fenomeno mobbing - quali concordemente individuati
nei vari ambiti in cui ci si è occupati del fenomeno - sono rappresentati da
una serie ripetuta e coerente di atti e comportamenti materiali che trovano una
ratio unificatrice nell'intento di isolare, di emarginare, e fors'anche di
espellere, la vittima dall'ambiente di lavoro. Si tratta, quindi, di un
processo, o meglio di una escalation, di azioni mirate in senso univoco verso un
obiettivo predeterminato (Trib. Torino, 28/01/2003).
La
sentenza esprime, in linea di massima, l’idea giurisprudenziale consolidata
circa la verifica in concreto della sussistenza di una vicenda qualificabile
come Mobbing.
Innanzitutto,
al di là della questione centrale, è indispensabile che venga individuata
almeno una figura di cd. “mobber” , ovvero il soggetto che pone in essere la
condotta mobbizzante.
Sugli
altri elementi, in verità è polemica aperta, e si attende un intervento
legislativo.
Intervento
che, ad essere sinceri, è avvenuto, ma su base regionale.
La
legge regionale del Lazio n°16 del 2002, (Pubblicata nel B.U. Lazio 30 luglio
2002, n. 21, S.O. n. 3), infatti, ha introdotto disposizioni per prevenire e
contrastare il fenomeno del “mobbing” nei luoghi di lavoro.
All’art.
2 la suddetta legge ha introdotto una nozione del fenomeno, la prima in Italia:
“ per "mobbing" s'intendono atti e comportamenti discriminatori o
vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori
dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti
posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si
caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di
violenza morale”.
Lo
stesso articolo ha anche tipizzato i comportamenti che possono integrare gli
estremi del mobbing, ovvero: a) pressioni o molestie psicologiche; b) calunnie
sistematiche; c) maltrattamenti verbali ed offese personali; d) minacce od
atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente od avvilire, anche in forma
velata ed indiretta; e) critiche immotivate ed atteggiamenti ostili; f)
delegittimazione dell'immagine, anche di fronte a colleghi ed a soggetti
estranei all'impresa, ente od amministrazione; g) esclusione od immotivata
marginalizzazione dall'attività lavorativa ovvero svuotamento delle mansioni;
h) attribuzione di compiti esorbitanti od eccessivi, e comunque idonei a
provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche del
lavoratore; i) attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo
professionale posseduto; l) impedimento sistematico ed immotivato all'accesso a
notizie ed informazioni inerenti l'ordinaria attività di lavoro; m)
marginalizzazione immotivata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di
riqualificazione e di aggiornamento professionale; n) esercizio esasperato ed
eccessivo di forme di controllo nei confronti del lavoratore, idonee a produrre
danni o seri disagi; o) atti vessatori correlati alla sfera privata del
lavoratore, consistenti in discriminazioni sessuali, di razza, di lingua e di
religione
La
vita della L.R. 16/2002 è stata breve: la Corte costituzionale, con sentenza
10-19 dicembre 2003, n. 359, (Gazz. Uff. 24 dicembre 2003, n. 51, prima
serie speciale), ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale in quanto
“deve ritenersi precluso alle Regioni la possibilità di intervenire, in
ambiti di potestà normativa concorrente, con norme che vanno ad incidere sul
terreno dei principi fondamentali. La legge della Regione Lazio 11 luglio 2002,
n. 16, contenendo nell'art. 2 una definizione generale del fenomeno "mobbing"
che costituisce il fondamento di tutte le altre singole disposizioni, è
evidentemente viziata da illegittimità costituzionale. Siffatta illegittimità
si riverbera, dalla citata norma definitoria, sull'intero testo legislativo”.
Una
considerazione è evidente: la materia del Mobbing rientra in quelle di potestà
normativa concorrente.
Una
seconda implicita: il mobbing ha l’avvallo della Corte costituzionale.
Il
precedente della Regione Lazio ha, tuttavia, un valore non indifferente, perché,
a ben vedere, recepisce la definizione giurisprudenziale del fenomeno, senza
modificarne sostanzialmente la struttura.
Anche
in dottrina i vari autori hanno auspicato definizioni descrittive più o meno
attendibili: il problema essenziale è non dilatare troppo l’ambito
applicativo e nel contempo non ridurlo eccessivamente.
Una
interessante ricostruzione di un autore ne sottolinea il disvalore sociale e ne
evidenzia la gravità degli effetti sulla persona:“il mobbing è una
vessazione premeditata, continuata e finalizzata: “un linciaggio
psicologico”, un’intenzionale manifestazione di ostilità. Il mobbing è una
guerra combattuta soprattutto sul piano psicologico e strategico, di solito sul
posto di lavoro. Il mobbing è una guerra senza quartiere, con vincitori e
vinti, con danni morali e materiali”.
L’autore
condivide l’accezione di mobbing come terrorismo psicologico sul posto di
lavoro” e, al di là di teoremi efficaci, ne mette in rilievo la circostanza
per cui si sviluppi nell’ambiente più importante dell’uomo dal punto di
vista sociale: quello lavorativo, (da cui discende anche il benessere
familiare).
Altri,
invece, accolgono una definizione più medico – legale, preoccupandosi più
del fenomeno stesso che dei suoi effetti – conseguenze: “il “mobbing” può
definirsi come «un’attività persecutoria posta in essere da uno o più
soggetti (non necessariamente in posizione di supremazia gerarchica) e mirante
ad indurre il destinatario della stessa a rinunciare volontariamente ad un
incarico ovvero a precostituire i presupposti per una sua revoca attraverso una
sua progressiva emarginazione dal mondo del lavoro».
Altri
ancora scelgono la nozione adottata in sociologia del lavoro e quindi il mobbing
diviene “la condizione di stress intenzionalmente provocata dal leader o dai
suoi pretoriani, ovunque vi sia una gerarchia, naturale o imposta.. Il mobber
collassa la vittima per espellerla”.
La
nozione si ricollega agli studi psicologici sul fenomeno che, spesso, parlano
dell’effetto conosciuto come “sviluppo paranoicale” nel soggetto
mobbizzato: ama e odia il suo posto di lavoro fino a divenire instabile,
improduttivo e, quindi, al limite tra licenziamento e dimissioni.
Si
sottolinea, anche, come il mobbizzato tenda a “derealizzare” , come
conseguenza diretta dello stato di derisione e persecuzione. Ma sono solo
aspetti singolari che non coprono l’intero ventaglio di conseguenze sul
soggetto: in primis, la patologia.
Ed
in relazione agli effetti negativi notevoli del mobbing, un autore ne parla in
termini di denuncia quando sostiene che esso “è una piaga sociale conseguenza
dell’esasperata competizione tra gli individui incentivata dal sistema
socio/economico e dal mito dell’autoritarismo ed efficientismo di successo”.
Ciò
detto, rilevato quanto sia importante definire il fenomeno attraverso una
tecnica normativa adeguata, si può ricercare quali siano gli elementi
costitutivi del fenomeno, anche sulla base della giurisprudenza al riguardo ma
è opportuno rilevare quale sia stata la definizione adottata dall’Inail ai
fini dell’inquadramento della malattia professionale con la circolare citata,
(n°71/2001): “mobbing strategico è ricollegabile a quell’insieme di azioni
poste in essere nell’ambiente di lavoro con lo scopo di allontanare o
emarginare il lavoratore e riconducibile a quegli elementi di costrittività
organizzativa..”.
Una
definizione che, a ben vedere, differisce in parte da quella giurisprudenziale
data in quanto, scompare il requisito della ripetitività del comportamento e
compare quello specifico del fine perseguito.
3.Elementi
costitutivi del Mobbing
Al
di là delle ricostruzioni date dai diversi autori e dalle diverse scienze
intervenute, ai fini giuridici la nozione non può discostarsi da parametri
certi, univoci e logici, che consentano, soprattutto, una adeguata disciplina
processuale per quanto concerne gli oneri probatori: la tutela, altrimenti,
diverrebbe priva del requisito costituzionale dell’effettività.
I)
ATTIVITA’ PERSECUTORIA REITERATA NEL TEMPO. L’elemento oggettivo del mobbing
è da ricercare in tutti quegli atti e quei comportamenti diretti a ledere la
situazione giuridica soggettiva della vittima. Si tratta, pertanto, di una vera
e propria attività illecita finalizzata che, tuttavia, non necessita della
qualificazione in termini di fine. L’atto posto in essere, cioè, non deve
essere teleologicamente orientato al fine ultimo, (l’espulsione del soggetto
dal contesto lavorativo), ma è sufficiente che sia finalizzato alla
persecuzione rebus sic stantibus.
L’atto
singolo, cioè, deve essere, per quanto concerne la ricezione da parte della
vittima, pregiudizievole, persecutorio, offensivo; per quanto concerne gli
effetti nel quadro complesso, in quadrabile nella vicenda globale.
A
titolo di esempio, è riconducibile al fenomeno del mobbing lo scherno
provocatorio del collega in ufficio; non lo è, invece, la lite che lo stesso può
avere con la vittima fuori dal lavoro per ragioni inerenti un condominio.
L’attività
considerata, inoltre, deve essere reiterata nel tempo.
Secondo
alcuni testi esiste mobbing se c’è almeno un “attacco” alla settimana per
almeno 6 mesi. La tesi è riduttiva.
Secondo
il principio cardinale di “personalizzazione del danno” vigente a livello
costituzionale, (da ultimo attuato con la legge 57/2001 in materia
infortunistica e riconosciuto dalla Cassazione, da ultimo con le note sentenze
8827 ed 8828 del 2003), una situazione deve essere differenziata
ragionevolmente, (art.3 cost.), in ragione della persona stessa.
Dire
che sono necessari almeno sei mesi per un caso di mobbing è violare questo
principio: pertanto, sarà di volta in volta il Giudice a verificare, in base
all’individuo vittima, il tempo sufficiente a generare nello stesso gli
effetti da Mobbing.
Un
minimo, ovviamente, è configurabile per esigenze oggettive: nel senso che un
criterio oggettivo è applicabile ad ogni soggetto.
Convincente
chi parla in termini di ore sul luogo del lavoro e mansioni prestate: cosicché
sarebbe sufficiente anche un periodo lavorativo trimestrale di prova.
In
linea con quanto affermato circa il requisito temporale, sembra essere la
giurisprudenza che parla in generale di “ripetuti comportamenti” senza osare
indicarne il limite minimo temporale: “è configurabile il "mobbing"
in azienda nell'ipotesi in cui il dipendente sia oggetto ripetuto di soprusi da
parte dei superiori, volti ad isolarlo dall'ambiente di lavoro e, nei casi più
gravi, ad espellerlo, con gravi menomazioni della sua capacità lavorativa e
dell'integrità psichica”, (Trib. Torino, 11/12/1999).
La
durata, pertanto, dipenderà anche dall’intensità del mobbing, “dalla forza
dell’autore del mobbing e dal grado di resistenza della vittima”.
E’
indifferente la natura dell’attività persecutoria, (sia fisica o psicologica,
verbale o gestuale).
II)
STRUTTURA LAVORATIVA GERARCHICA
Inevitabilmente
in tanto si può parlare i mobbing in quanto sussista una struttura
gerarchicamente organizzata, in cui, quindi, è inquadrabile e può attecchire
il fenomeno che, non bisogna dimenticarlo, è un fenomeno di abuso di posizioni
qualificate, seppur in termini di genericità.
Sarà
allora mobbing non solo quello effettuato direttamente dal datore di lavoro ma
anche quello che da questi è tollerato o, addirittura, subito, (si vedranno più
avanti le possibili tipologie di mobbing).
Necessario,
quindi, il luogo di lavoro e la struttura, seppur non necessariamente in termini
formali e rigorosi: è sufficiente che sussista l’elemento citato, di fatto
ma, il criterio sfuma o si irrigidisce a seconda delle interpretazioni date al
fenomeno.
Per
alcuni, in verità, si potrebbe parlare di mobbing solo in un contesto
lavorativo organizzato e complesso: sarebbe questo apparato, infatti, a
funzionare da amplificatore degli effetti rendendoli mobbizzanti.
L’aggressione
di un collega all’altro, dove sono solo due colleghi, non può mobbizzare; il
richiamo verbale del datore di fronte agli altri sedici colleghi, invece, è
decisamente mobbizzante.
Il
criterio della ripetitività della condotta, infatti, servirebbe a sviluppare il
fenomeno che, tuttavia, in tanto potrebbe svilupparsi in quanto il contesto lo
consente.
Probabilmente
non bisogna, sedotti dalle nuove figure giuridiche e sociali, dimenticare i
precedenti istituti giuridici che, tutt’altro che insufficienti, in
determinati casi sono assolutamente i più congrui.
Non
tutto, quindi, è mobbing.
Un’offesa
ad alta voce potrebbe essere solo un’ingiuria, sanzionata a livello penale;
una lite tra colleghi, una condotta censurabile disciplinarmente.
Un
caso è discutibile in tal senso: “Costituisce causa di addebito della
separazione il comportamento del marito che assuma in pubblico atteggiamenti di
"mobbing" nei confronti della moglie, ingiuriandola e denigrandola,
offendendola sul piano estetico, svalutandola come moglie e come madre”, (App.
Torino, 21/02/2000).
Il
dubbio, in questa circostanza, è se la pubblica offesa sia da sola idonea a
costituire mobbing o se, al contrario, sia necessario anche il requisito
dell’approvazione di chi assisteva, (attiva o passiva), l’elemento finale
dell’emarginazione della lavoratrice, la sua percezione al riguardo.
To
mob, infatti, si ricorda, vuol dire “aggredire” ma “in branco”.
Critica,
in tal senso, una pronuncia polemica: “il fatto che il "mobbing" sia
stato oggetto di attenzioni sociologiche e anche televisive non lo rende
insensibile alle regole che vigono in campo giuridico allorquando ad esso si
vogliono collegare conseguenze in termini di risarcimento del danno. In questa
prospettiva occorre che chi invoca tale fatto come produttivo di danno ne provi
l'esistenza e ne dimostri la potenzialità lesiva”.
Nella
specie il tribunale ha stabilito che l'assenza di sistematicità, la scarsità
degli episodi, il loro oggettivo rapportarsi alla vita di tutti i giorni
all'interno di un'organizzazione produttiva che è anche luogo di aggregazione e
di contatto (e di scontro) umano escludesse che i comportamenti lamentati
potessero essere considerati dolosi. “Solo tale carattere potrebbe rendere
risarcibile un danno che - secondo esperienza comune - è davvero imprevedibile
(art. 1225 c.c.) sia con riferimento all'oggettività dei fatti ritenuti lesivi,
sia alla reattività del soggetto cui sono rivolti), (Trib. Milano, 20/05/2000).
III)
ELEMENTO SOGGETTIVO. Ai fini del Mobbing si discute circa la tipologia di
responsabilità e, quindi, l’elemento soggettivo. Come illecito
extracontrattuale richiederebbe il minimo della colpa; connesso, tuttavia, ad
una ricostruzione sul rischio, l’aumento dello stesso. Per altri, infine,
sarebbe indifferente il dolo del datore ma rilevante solo il danno sul
lavoratore, (responsabilità oggettiva o quasi).
Probabilmente
la prospettiva è quella già enunciata: non è necessaria una consapevolezza
del mobbing in capo ai mobbers, ma è sufficiente la intenzione e coscienza del
singolo atto.
IV)
NESSO EZIOLOGICO E DANNO. Secondo gli ordinari criteri, il danno prodotto dovrà
essere eziologicamente riconducibile all’attività persecutoria, oltre che
allegato, qualificato e non meramente enunciato.
La
giurisprudenza della Suprema Corte, al riguardo, non è copiosa. In una
pronuncia importante, tuttavia, si da atto della configurabilità del mobbing
quale sopruso del datore sul dipendente, in termini di illecito risarcibile.
“È
configurabile alla stregua di illecito risarcibile il comportamento del datore
di lavoro che si traduca in disposizioni gerarchiche rivolte al dipendente al
fine di indurlo ad atti contrari alla legge, potendo integrare tale
comportamento una violazione del dovere di tutelare la personalità morale del
prestatore di lavoro, imposta al datore di lavoro dall'art. 2087 del codice
civile. Tale profilo, (è) riconducibile al fenomeno del mobbing”, (Cass.
civ., Sez.lav., 08/11/2002, n.15749).
Di
certo il fenomeno è riconosciuto anche dalla Suprema Corte che con una sentenza
recentissima, si è pronunciata a Sezioni Unite sul problema della giurisdizione
del mobbizzato nell’ambito della P.A. , (sentenza Cass. SS.UU. 8438/2004),
incidentalmente trattando della natura della responsabilità connessa, nel caso
in esame, giudicata contrattuale.
4.
Fasi di Sviluppo del fenomeno e quadro clinico delle patologie ricollegabili al
mobbing
Il
fenomeno del Mobbing è ricostruito e studiato come un’ipotetica struttura
biologica con le sue fasi di sviluppo. Queste, ai fini pratici, consentono di
verificare la effettiva sussistenza dello stesso e la qualità e quantità dei
danni derivati.
Ma
le fasi sono discusse.
Tradizionalmente
se ne individuano quattro:
I)
fase dei segni premonitori: il soggetto si trova in condizione di visibilità
che attira l’antipatia e l’attenzione dei colleghi o viceversa del datore,
(può essere un qualsiasi motivo: aspetto estetico, doti lavorative, religione o
etnia)
2)
stigmatizzazione: il lavoratore viene isolato poco alla volta e diviene alieno
rispetto agli altri
3)
ufficialità: il soggetto mobbizzato diventa argomento “pubblico” nel posto
di lavoro così come ogni suo aspetto anche personale
4)
allontanamento: il mobbizzato viene licenziato perché inadempiente ovvero si
dimette in modo costretto.
Per
altra dottrina, invece, le fasi sarebbero sei: prima ancora della visibilità ci
sarebbe una fase di “conflitto mirato” prima dell’allontanamento la
comparsa dei primi sintomi di aggravamento della salute psico – fisica.
In
realtà, concretamente, le fasi non rilevano per il numero effettivo ma per
identificare lo sviluppo / avanzamento del mobbing e, quindi, l’incidenza sul
soggetto e la quantificazione approssimativa del danno.
Ciò
detto quanto residua è pura dissertazione.
Interessante,
invece, la cd. fase dell’emersione dei sintomi patologici, espressamente
disciplinata dalla circ. Inail si cui si è detto. E’ utile, infatti, per il
Giudice avere un quadro delle patologie riconducibili al fenomeno del Mobbing
che ben potranno essere indicatore ed indizi della sua presenza o del suo
essersi portato a termine.
Si
tratta di:
sindrome
da disadattamento
sindrome
traumatica da stress
entrambe
correlate allo stress subito dal lavoratore ed associabili ad una reazione
depressiva con disturbo di altri aspetti emozionali, con umore depresso, ansia
ed alterazione della condotta.
5.
Corte costituzionale, sentenza
113/2004: incostituzionalità dell’art. 2751 bis. Responsabilità
contrattuale del datore per danno da mobbing?
Avendo
definito il mobbing, attraverso una sintetica analisi di pronunce
giurisprudenziali, dottrine intervenute e diverse altre autorità, è il caso di
rilevare come il fenomeno sia ufficialmente “entrato nella giurisprudenza
costituzionale”, per alcuni autori”, definitivamente con la recente sentenza
113 del 2004.
Con
questa pronuncia la Corte ha stabilito che è incostituzionale l'art. 2751-bis,
n. 1, c.c., nella parte in cui non munisce del privilegio generale sui mobili il
credito del lavoratore subordinato per danni da demansionamento subiti a causa
dell'illegittimo comportamento del datore di lavoro”.
In
particolare, si legge che “nell'elaborazione dei giudici ordinari è
incontroverso che dalla violazione da parte del datore dell'obbligo di adibire
il lavoratore alle mansioni cui ha diritto possono derivare a quest'ultimo danni
di vario genere: danni a quel complesso di capacità e di attitudini che viene
definito con il termine professionalità, con conseguente compromissione delle
aspettative di miglioramenti all'interno o all'esterno dell'azienda; danni alla
persona ed alla sua dignità, particolarmente gravi nell'ipotesi, non di scuola,
in cui la mancata adibizione del lavoratore alle mansioni cui ha diritto si
concretizza nella mancanza di qualsiasi prestazione, sicché egli riceve la
retribuzione senza fornire alcun corrispettivo; danni alla salute psichica e
fisica. L'attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori a quelle a lui
spettanti o il mancato affidamento di qualsiasi mansione - situazioni in cui si
risolve la violazione dell'articolo 2103 cod. civ (c.d. demansionamento) - può
comportare pertanto, come nelle ipotesi esaminate dalle sentenze n. 326 del 1983
e n. 220 del 2002, anche la violazione dell'art. 2087 cod. civ.”.
La
sentenza, quindi, al di là della quaestio specifica ha un valore non
indifferente in quanto sembra risolvere l querelle circa la tipologia di
responsabilità civile derivante da mobbing.
Un
obbligo precisare che è esclusa la responsabilità penale specifica in
relazione all’abuso:”il c.d. "mobbing" non è di per sè
sufficiente ad integrare gli estremi del delitto di abuso di ufficio, dovendo in
ogni caso ricorrere gli elementi tipici del reato”, (Uff. indagini preliminari
Trib. Palermo, 06/06/2001).
Indubbia
invece la responsabilità civile, ma controversa la natura.
Per
alcuni autori, il datore risponde di mobbing ad opera sua o dei suoi dipendenti
per effetto della clausola generale di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. che
tutelando la salute del prestatore d’opera comprende anche le lesioni
derivanti dal mobbing.
Per
altri, invece, si tratterebbe di responsabilità extracontrattuale, in quanto il
datore o il collega del dipendente mobbizzato, rispondono per il neminem laedere
al di là degli obblighi contrattuali trattandosi di condotte atipiche.
Il
problema, di fatto, è risolto dalla Corte costituzionale indirettamente,
laddove, in caso di violazione di obblighi specifici o riconducibili all’art.
2087 c.c. , il mobbing determina responsabilità contrattuale.
In
caso di danno prodotto dai colleghi, allora il datore risponderà ex art. 1229
c.c., ovvero per fatto degli ausiliari, (cui è speculare, in via
extracontrattuale l’art. 2049 c.c.).
Probabilmente
l’ipotesi di responsabilità aquiliana è da rigettare, in quanto le presunte
condotte atipiche sono tutte tipizzabili attraverso l’art. 2087 c.c. che è
riconosciuta quel clausola generale di sicurezza.
Sempre
all’art. 2087 c.c. collegava l’illecito il precedente Cass. civ., Sez.lav.,
08/11/2002, n.15749, e così anche appare quello ex Cass. civ., Sez.lav.,
02/05/2000, n.5491, (ma diversamente sembrerebbe Cons. Stato, Sez.V, 06/12/2000,
n.6311).
La
soluzione della natura contrattuale della responsabilità sembra la più
attendibile secondo un ragionamento logico che porta a ritenere difficile
un’ipotesi ex art. 2043 c.c. allorché si sta svolgendo un rapporto di lavoro:
non solo, procedendo verso una tipizzazione delle condotte che determinano
mobbing, sembrerebbe difficili una conciliazione con l’atipicità della
responsabilità aquiliana, mentre, invece, risulta pienamente compatibile
l’art. 2087 c.c.
Danno
risarcibile, comunque, potrà essere quello economico ex art. 2043 c.c. ed anche
quello morale ed esistenziale ex art. 2059 c.c. : il primo risarcibile in
presenza astratta di reato il secondo senza la preclusione di all’art. 185
c.p.
Per
il danno biologico, questo dovrà essere provato, allegato e dovrà essere
altresì dimostrato il nesso eziologico tra l’attività di mobbing e gli
effetti, secondo il criterio di regolarità causale.
In
particolare, a seguito dell’intervento della Corte di Cassazione con le
celebri sentenze 8827 ed 8828 del 2003, a seguito della pronuncia della Corte
Costituzionale 233/2003 e della recente Cass. Pen. 2050/2004, (cd. caso Barillà),
il danno biologico sarà risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c. e non ex
art. 2043 c.c. (storico revirement giurisprudenziale).
6.
Tipologie di mobbing. Conclusioni
Dopo
aver delineato in modo sintetico il fenomeno del mobbing, in maniera altrettanto
sintetica, è il caso di porre l’attenzione sulle possibili tipologie di
mobbing in concreto verificabili.
Mobbing
ascendente: quello predisposto dai dipendenti contro il proprio responsabile, di
solito non il datore, ma il soggetto da questi predisposto;
Mobbing
verticale: posto in essere dal datore verso il subordinato
Mobbing
orizzontale: esercitato dai colleghi verso il soggetto individuale.
Secondo
taluni potrebbe anche ravvisarsi una ipotesi di mobbing atipico, laddove le
condotte mobbizzanti siano poste in essere in un contesto associativo differente
da quello lavorativo, (famiglia, scuola, ecc..).
Il
fenomeno, quindi, ha diverse possibili configurazioni e tutte, comunque,
ascrivibili di responsabilità civile.
E’
da condividere chi sostiene che il diritto è innanzitutto scienza umana e come
essa si adegua e si evolve in ragione dei mutamenti delle persone e degli
assetti sociali.
Certo,
nel caso in esame, non può che parlarsi di regresso, in quanto un fenomeno come
il mobbing ha raggiunto valori così allarmanti da indurre il legislatore a
progettare una misura ad hoc per la sua disciplina.
Alcuni,
infine, invocano anche una tutela in sede penale.
Al
di là della caoticità delle interpretazioni e delle teorie, il mobbing rimane
un illecito nei confronti del lavoratore che, sul posto di lavoro si vede
violato in una delle posizioni soggettive tutelate a livello costituzionale: il
danno, inoltre, è considerevole e sofferto.
In
attesa di una definizione legislativa, è dato ai giudici il compito di essere
recettori delle esigenze neonate, attraverso un opportuno rigore giuridico,
richiesto per evitare ingiustizie formali, ma anche una necessaria sensibilità
umana laddove in gioco sono le persone e non le leggi.
Giuseppe Buffone – ricercatore/dottorando
(fonte:
www.altalex.com) 21.5.2005
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