Milioni
di precari, un orizzonte buio
Co. co. co, brutto acronimo di "collaboratori coordinati e
continuativi", è divenuto simbolo e sintomo dell'indebolimento sociale del
paese: sono co. co. co, nel linguaggio comune, tutti coloro che, pur lavorando,
non hanno un posto fisso e, del posto fìsso, non possono godere i vantaggi:
stipendio sicuro e relative sicurezze oggi, una discreta pensione domani.
Naturalmente, è una semplificazione. Nel grande calderone del
lavoro atipico ci stanno situazioni molto diverse, dai ragazzi di Mc Donald's e
dell'American Express, di Virgilio e di Tim alle donne senza età delle imprese
di pulizia e di tanti cali center, da professori universitari agli
amministratori di condomini e ai pensionati che continuano a fare consulenze:
questi ultimi hanno mercato, un'età media piuttosto alta, un buon reddito e
solo formalmente appartengono al mondo del precariato. I precari veri lo sono
nel tempo, nei soldi, nelle garanzie. Quanti siano esattamente non si sa: i
collaboratori, detti anche parasubordinati, sono due milioni e mezzo, calcolati
sulla base delle "posizioni" Inps, ma non è chiaro il numero esatto
di quelle ancora attive (e dal numero andrebbero sottratti i "ricchi"
che hanno scelto a ragion veduta quel tipo di contratto). Poi ci sono 250 mila
lavoratori interinali e una vera moltitudine di appesi ai contratti più
disparati: part time, apprendistato, formazione lavoro, stagionali, associazione
in partecipazione. «Un esercito di quattro milioni», calcola Emilio Viafora,
segretario di NldiL-Cgil, l'organizzazione che da un paio d'anni è diventato un
punto di riferimento per gli atipici, "vittime spesso di abusi".
Valutazioni più prudenziali dicono tre.
A volte si tratta di scelte, nate dall’ esigenza di avere tempo
libero per sé o per studiare o per curare la famiglia. Più spesso sono
condanne, talora a vita. Paola L., 42 anni, va avanti da 23 a contratti di
collaborazione di tre-sei mesi eternamente rinnovati e mai trasformati in posto
fisso. E non è certo un caso isolato. Le banche e le assicurazioni sono piene
di ragazzi che turano avanti senza alcun minimo garantito, sulla sola base delle
provvigioni che incassano. Con frequenza il precariato, "lavoro non
standard" secondo la pudica definizione
europea, maschera lavori dipendenti: le aziende pagano meno ed evitano i
vincoli dell'assunzione a tempo indeterminato. Dice Paolo Seghi, responsabile di
NIdiL-Cgil a Verona: «Nel mitico Nord-est talvolta rappresenta un periodo di
prova, 6-8-12 mesi senza garanzie, che prelude con frequenza all'assunzione. Ma
come lavoro a progetto passa perfino la chiusura degli scatoloni». Nel Veneto
si raccoglie un sesto del lavoro temporaneo italiano: in maggioranza sono
giovani tra i 21 e i 31 anni, al 60% maschi, con buoni livelli culturali (quasi
la metà ha un diploma superiore o la laurea). Tra le vittime della flessibilità
ci sono anche molti che lavorano in strutture pubbliche o enti locali, che
aggirano così i blocchi delle assunzioni. Sintetizza Paolo Onofri, professore
di economia all'università di Bologna, già consulente di governi di
centro-sinistra e gran conoscitore dei problemi del welfare. «Si è cercato di
guadagnare flessibilità per la struttura produttiva caricandone il costo sulle
spalle dei giovani che entrano nel mondo del lavoro. La collettività dovrebbe
dargli qualcosa in cambio, mane gli esecutivi dell'Ulivo né quello attuale
finora ne sono stati capaci».
Il risultato, come dice la specifica ricerca del Censis, è che i
co. co. co. fluttuano nel presente tra lavoro e famiglia. Questa torsione
sull'oggi, da prettamente economica, diventa quasi antropologica, addirittura
filosofia di vita: in una società senza direzione di marcia unitaria cresce la
tendenza a concentrarsi prevalentemente sulla dimensione contingente. «Ci
penserò domani», ha sintetizzato il direttore del Censis, Giuseppe Roma. «Si
tratta di figli legittimi di una società rannicchiata nel presente che tende a
consumare il patrimonio accumulato piuttosto che ad utilizzarlo per creare nuova
ricchezza. Quindi è ingiusto stigmatizzarli come tardoadolescenti opportunisti,
perpetuamente agganciati al cordone ombelicale». La soddisfazione per la
condizione professionale attuale, quando c'è, è strettamente associata alla
sua percezione come di una realtà transitoria in attesa di altre ipotesi
lavorative. Ma per sopravvivere è spesso necessario ricorrere i genitori per
ottenere aiuto (lo fa il 74% degli interpellati, addirittura l'86,6 % nel sud e
nelle isole), rallentando la capacità economica e la propensione al consumo dei
genitori. «Giocano tante cose, anche gli opportunismi incrociati di padri e figli», riflette Amedeo Cottine, sociologo torinese, «ma
per quanto rapidi siano i meccanismi di adattamento all'insicurezza, è
difficile avere una visione abbastanza certa del futuro».
Il risultato è che i co. co. co, anche quelli economicamente
soddisfatti, magari perché sommano più rapporti di lavoro, non fanno nulla per
la propria pensione, non svolgono attività di formazione, non credono nel
sindacato: in parte perché dispongono di pochi soldi e preferiscono le
soluzioni fai-da-te, in parte per sfiducia nel proprio avvenire previdenziale
(molti, addirittura il 97% nel Nord-Est, temono che la pensione sarà
inadeguata) e negli effetti pratici di migliori dotazioni professionali, anche
se subiscono sulla propria pelle le conseguenze del nomadismo. «Sono aspetti
emblematici della crisi del ceto medio», dice il sociologo Arnaldo Bagnasco, «da
una parte i vantaggi, legati alla mobilità e allo spostamento da un'attività
all'altra, dall'altra mille problemi, al di là del guadagno. C'è chi riesce a
darsi un progetto di vita duraturo e chi campa alla giornata. Ma quali sono le
conseguenze su una società resa erratica e aleatoria, sui matrimoni, sui figli,
sulle famiglie?». Studi americani sostengono che il continuo cambiamento e
l'instabilità di un progetto di vita interferiscano addirittura col carattere.
La flessibilità ha indubbiamente permesso di incrementare
l'occupazione, ma la condizione e il potere contrattuale dei lavoratori sono
divenuti più fragili. Globalizzazione e new economy hanno introdotto una
tendenza sistemica a creare "un nuovo esercito industriale di riserva"
da marginalizzare dentro o fuori dal mercato del lavoro a seconda della
congiuntura. Ne derivano, dice il Censis, forme neomachesteriane di subordinazione e il ripristino di
una feroce gerarchizzazione di fatto. «Il che aggrava le distorsioni tra
garantiti, semi-garantiti e non garantiti», valuta Maurizio Ferrerà,
cattedra alla università statale di Milano. I precari non hanno ovviamente la
cassa integrazione riservata alle grandi aziende industriali, prevista per
periodi brevi ma spesso prorogata per anni. E la mobilità, che scatta in casi
particolari, valutati tra governo, aziende e sindacati e garantisce circa l'80 %
della retribuzione in attesa di ricollocamento, è un sogno proibito consentito,
se va bene, a chi ha un contratto a tempo determinato. «Sono italiani privi di
molti diritti di cittadinanza», afferma Viafora. Non vengono pagati nei periodi di malattia,
la conservazione del posto dipènde dal datore di lavoro, la maternità è solo
parzialmente coperta con un'indennità alle donne che abbiano lavorato almeno un
anno. Molte, per il rischio di perdere il posto, la posticipano il più
possibile e restano al lavoro fin quasi alla vigilia del parto. Anche il welfare
locale, dalle graduatorie per gli asili nido al sostegno per l'affitto di casa,
penalizza i co. co. co.
Quelli che non sono working poors, "poveri che lavorano"
secondo la classificazione sociologica, hanno buone probabilità di diventare
indigenti tra qualche anno. Versano contributi minori rispetto ai dipendenti a
tempo indeterminato, ma al termine di una vita di lavoro potranno contare su
pensioni nell'ordine del „ 30% delle retribuzioni. Se nel frattempo avessero
risparmiato qualcosa, avrebbero fatto molta fatica ad ottenere, per esempio, un
mutuo per comprarsi una casa. Senza solide garanzie, la stessa banca che fa un
prestito a un operaio o a un impiegato che guadagna mille euro al mese lo nega a
un precario che ne incassa il doppio. Non c'è quindi da meravigliarsi che
tutti, anche quelli che si dichiarano soddisfatti del ruolo professionale e
della retribuzione, abbiano paura. Il presente è malcerto, manca soprattutto il
collante identitario del welfare. C'è qualche segno di miglioramento. Entro i
primi mesi del prossimo anno i 4350 collaboratori coordinati e continuativi di
Atesia, il call-center di Telecom, avranno un contratto un po' più garantito,
come previsto dalla legge Biagi. Anche altre società, di ricerca e marketing
strategico, immobiliari (la Gabetti per l'area di Roma) stanno studiando accordi
per maggiori tutele.
Ma la maggioranza del grande esercito dei co. co. co, in gran parte
divenuti co. pro (collaboratori a progetto), siano ricercatori, promotori
commerciali, commessi o facchini (il 30%, 63% nel nord-est, fa lavori manuali)
continua a soffrire. Per forza, sorride triste Seghi, la nuova sigla calza a
pennello. «I più fanno un lavoro di copro, in greco cacca, a rischio,
intermittente». Il sindacalista ha l'ottica del suo mestiere; ed è innegabile
che i contratti parasubordinati coniughino le esigenze strutturali dell'economia
con la disponibilità di tanti che, altrimenti, resterebbero disoccupati. Ma il
co. co. co costretto a restarlo è, in fondo, la personificazione dell'Italia
che abbiamo descritto in questa inchiesta: quella che si adatta, socialmente
instabile, timorosa della povertà. Pochi soldi, poche garanzie: è il cittadino
al minimo.
GIULIO
ANSELMI
(da “la repubblica”, 21 giugno 2004, p.1 e 7)