Opinioni retrospettive su "Libro bianco" ... e "legge 30"
 
Il Libro Bianco del Ministro Maroni (ovvero un ritorno al passato nel futuro del diritto del lavoro)
 
E' stato detto che il Libro Bianco del Ministro Maroni sia un prodotto ben confezionato. L'affermazione è sicuramente vera, ma in una società, come la nostra, in cui sempre maggiore peso acquista il contenitore rispetto al contenuto, è d'obbligo, per chi voglia consapevolmente rendersi conto fino in fondo di quale sia l'oggetto di quella confezione, tentare di verificarne la reale incidenza sui rapporti economici e sociali della società.
Il Libro parte dall'ovvio rilievo che la nostra partecipazione all'Unione Europea (fino a quando?) imponga degli obblighi a cui il nostro ordinamento ancora non ha fatto fronte e prontamente disegna un quadro di sostanziale sfrenato liberismo in cui, bontà sua, lo stesso Libro si prospetta come una sorta di calmiere a favore delle posizioni più deboli perché più esposte.
Ecco, allora che viene tracciata una prospettiva di paese delle meraviglie (come al solito) in cui l'americano diritto a perseguire la felicità viene realizzato innanzitutto sul piano del lavoro. E' tutto un rifiorire di more jobs e better jobs (perché poi usare l'inglese quando di poteva dire: più occasioni di migliori lavori?), per prospettare una sorta di Eldorado alla portata di tutti, basta solo andarlo a cogliere.
Quel che è vero, invece, è che la storia della legislazione lavorista nell'unione europea, lungi dall'essere definitivamente scritta è sempre molto attenta nel bilanciare gli indirizzi a favore di una scelta economica, sicuramente non protezionista, anzi di favore per il mercato, con le protezioni individuali e collettive. Allo scopo basta per tutti pensare al recentissimo trattato di Nizza e all'affermazione ivi contenuta dei diritti dei lavoratori all'informazione e alla consultazione nell'ambito dell'impresa (art. 27), del diritto di negoziazione e di azioni collettive (art. 28), oltre alla tutela contro il licenziamento ingiustificato (art. 30).
La verità è che il Libro, oltre l'apparenza, procede con andamento sicuramente sinusoidale, quando non schizofrenico, facendo, da un lato, mere petizioni di principio a favore del massimo della protezione contro i pericoli del mercato ma, dall'altro, prevedendo concretissimi strumenti che portano ad una costante e di fatto irreversibile, precarizzazione permanente dei lavoratori.
La contestazione punto per punto dei numerosi argomenti svolti nel libro non è cosa che possa essere qui fatta, ma quel che preme sottolineare è che di tutte le (sconvolgenti) prospettive che offre, alcune sono non condivisibili ma altre sono radicalmente inaccettabili poiché contrastano a prima vista, non solo con la storia di questo paese, quando con l'impianto fondamentale dell'ordinamento. Ma di tanto l'attuale classe politica dirigente pare pienamente consapevole, tant'è che ad ogni giro di pagine del Libro, come ad ogni occasione comiziale, non si fa che promettere una completa “rivisitazione” dell'esistente. Viene prospettata a tale proposito, come una sorta di panacea, la scrittura di una serie di testi unici, anche se non è spesa una parola, neanche una sola, sulla Costituzione Repubblicana. Di cui se ne afferma, ad ogni piè sospinto, la necessaria ed imminente riforma (addirittura dei Principi Fondamentali), quasi facendo finta che per la sua modifica non occorra una maggioranza particolarmente qualificata e, quindi, un ampio consenso popolare.
Del libro Bianco, dunque, si possono dare diverse chiavi di lettura.
Così si può affrontarne la filosofia di fondo, che è sicuramente quella individualista, egoista e competitiva, ovvero la prospettiva economica, la quale si basa sull'equazione indimostrata secondo cui alla polverizzazione delle figure contrattuali corrisponda una certa crescita economica.
Il Libro Bianco, poi, può leggersi dal punto di vista squisitamente giuridico, verificando immediatamente una sorta di nemmeno tanto occulto ribaltamento della gerarchia delle fonti del diritto, dato che viene posto all'apice il contratto individuale, con poteri ampiamente derogatori della contrattazione collettiva che viene degradata a livello di norma quadro. La legge, invece, chiamata soft (con un superfluo uso dell'inglese, visto che ci si vuole riferire alle norme che da sempre definiamo 'derogabili'), è una sorta di suggerimento - o, suggestion, per accontentare gli inglesi - e quel che è veramente grave, lo è anche se ha ad oggetto la sicurezza e tutela personale sul posto di lavoro, secondo il nobile principio più salario e meno tutela, accettato sempre liberamente (è ovvio) nel contratto individuale.
La chiave di lettura senza dubbio più interessante, almeno per chi ha a cuore la storia di questo singolare paese, è la guerra senza quartiere che il Libro ha dichiarato al sindacato.
Sotto il profilo di tattica militare - visto che di guerra si tratta - viene adottata la più classica delle manovre: un accerchiamento senza scampo.
A ben vedere, però, a parte le quasi cento pagine di ben confezionata cortina fumogena, l'idea guida che emerge, fuor di metafora, è l'annientamento del sindacato che è nel contempo, passaggio obbligato e scopo dell'azione intrapresa per raggiungere l'obbiettivo di fondo, cioè l'isolamento del lavoratore di fronte al datore di lavoro (che qualcuno, dotato di una certa intelligenza, aveva suggerito di chiamar 'prenditore di lavoro').
Al sindacato non viene riconosciuto alcun merito, neppure di carattere storico. Non viene reso manco l'onore delle armi ricordando ad esempio, che la nostra democrazia non sarebbe stata quel che è se non fosse stata fatta la scelta fondamentale, dopo la guerra, di isolare l'estremismo e di costituire un argine invalicabile contro il terrorismo (chissà se qualcuno ricorda ancora Guido Rossa?).
Si, è vero, viene richiamato il merito di aver arginato il disastro economico dei primi anni '90 (eredità della dissennata politica del debito pubblico incontrollato degli anni '80 secondo “l'arricchitevi” di quegli anni) ma viene enunciato come una sorta di collaborazione, neanche poi tanto indispensabile, come quella che si indica alla fine dei film per i ringraziamenti di routine. E comunque, si dice che la concertazione ha fatto il suo tempo, essendo venuta l'ora del cosiddetto dialogo sociale. Di cosa questo sia se ne ha avuto prova nei giorni della presentazione delle Deleghe per il lavoro e la previdenza, dove alla caparbia ricerca dell'accordo o, quanto meno, dei punti di non contrasto su materie che segneranno il futuro della vita di milioni di persone, che caratterizzava la tecnica concertativa, si è sostituita una sorta di pantomima della democrazia del lavoro. Infatti, in riga con il paternalismo, prospettato come nostrana versione dolce del leaderismo peronista, il famoso dialogo è consistito in una sorta di intervallo scolastico in cui viene consentito ai 'ragazzi' di scambiarsi qualche idea, richiamandoli, però, ciascuno al proprio posto, al suono di una campanella saldamente tenuta in mano dal padre/padrone di turno.
Senza più una funzione di concorso alla realizzazione della politica economica del paese, nessun senso ha mantenere rilevanza alla contrattazione collettiva di livello nazionale alla quale non resta altro che fungere da mera derogabile cornice, in cui inserire la vera contrattazione quella aziendale.
L'operazione è fine, portando con sé come conseguenza automatica, quindi indolore, la frantumazione dei lavoratori (una volta si diceva classe operaia), pronti per essere divisi, come la nazione, fra ricchi e poveri, tutelati e no ('uomini e caporali', avrebbe detto Totò).
Nonostante il quadro fin qui tracciato risulti sufficientemente a tinte fosche, l'operazione revisionista non sarebbe completa se non si minasse fin dalle radici la stessa essenza della solidarietà sindacale operando su diverse direzioni.
Innanzitutto, la riforma dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. E' questo un argomento che merita di suo un'intera biblioteca, non foss'altro perché la sua emanazione è stata preceduta da oltre mezzo secolo di discussioni politiche e giuridiche. Eliminare lo spauracchio della reintegrazione sul posto di lavoro, a seguito di accertamento dell'inesistenza della giusta causa o del giustificato motivo posti dal datore di lavoro a giustificazione del licenziamento, vuol dire avere (finalmente) dei luoghi di lavoro con lavoratori lobotomizzati, che è meglio di avere una fabbrica senza operai. Le macchine, infatti, non sono sensibili nel bene e nel male, il che vuol dire che manca loro quella dose di flessibilità pur sempre indispensabile alla produzione. Eliminare l'art. 18 significa anche non avere rivendicazioni in merito all'inquadramento, alle mansioni superiori, allo straordinario, alle ferie e quant'altro, posto che la minaccia del licenziamento è sempre dietro la porta ed il costo di una sua illegittimità può essere agevolmente preventivato fra quelli della produzione.
Ma l'argomento che, com'è noto, è centrale in questa (storicamente non necessaria) discussione, è semplicemente sorvolato nel Libro, sicché l'Autore non ha dovuto neppure fare i conti con quel che appare indiscutibile, l'essere, cioè, questa norma l'attuazione immediata del diritto al lavoro espresso nell'art. 4 della Costituzione.
Il Libro Bianco e i suoi megafoni nulla dicono di tutto ciò e non rendono conto di come ritengono di tutelare il lavoro se lo strutturano quasi macchiettisticamente, deprivandolo dell'essenza fondamentale di realizzazione della dignità umana, poiché non a caso l'art. 1 della solita Costituzione afferma essere l'Italia una repubblica fondata sul lavoro.
L'art. 18 dello Statuto, secondo le parole di un grande giurista del passato, pone l'essere del lavoratore di fronte all'avere del datore di lavoro ed il suo scardinamento vale ad effettuare la monetizzazione della dignità del lavoro, un'operazione di cui andare veramente orgogliosi.
L'altro passo nella direzione dell'annientamento del sindacato è rappresentato dalla polverizzazione dei tipi di contratto previsti nel Libro.
Molto ipocritamente vengono scritte diverse pagine e numerosi richiami per affermare che il Governo ritiene suo obiettivo la massima diffusione possibile del contratto full-time e a tempo indeterminato. A fianco a questa (vuota) petizione di principio prevede, però, una miriade di forme contrattuali, anche mutuandoli da realtà socio-economiche lontanissime dalla nostra, intesa in senso europeo. Vengono proposte, infatti, delle figure contrattuali che nessun paese europeo annovera nel proprio ordinamento (basta pensare al leasing di mano d'opera).
E, allora, chi più ne ha più ne metta, dal classico part-time (oggi rivisitato per fargli prendere definitivamente il posto del full-time), all'interinale, dal rapporto intermittente al coordinato e continuativo, dal lavoro condiviso al telelavoro ed altre amenità.
Ora, per quale ragione un datore di lavoro che ha a disposizione una simile pletora di alternative possa sentirsi indotto a contrarre l'agognato rapporto a full-time e a tempo indefinito, non è dato saperlo e non viene spiegato, perché non è spiegabile.
Né può dubitarsi che questo abbia a che vedere con la sconfitta del sindacato, dato che un luogo con una presenza così variegata di figure, ciascuna portatrice di interessi e diritti diversi, quanto ad orario, turni di ferie, retribuzione, straordinario ed altro è, in tutta sincerità, poco governabile da un sindacato che necessariamente procede per campagne unitarie. E' evidente che in una situazione di frantumazione i potenziali conflitti fra i lavoratori possono essere risolti solo dal vertice aziendale che non è difficile immaginare, replicherà quanto meno il paternalismo di più alti vertici.
In questo quadro, al contratto individuale ci si arriva obbligatoriamente.
Che contratto potrà mai essere è facile prevederlo.
Secondo il Libro Bianco, ormai sul mercato si aggirano solo persone ad altissima specializzazione che possono contrattare la loro professionalità su un piano di assoluta parità con il datore di lavoro, senza più bisogno di alcuna mediazione sindacale. Di fronte a queste affermazioni non si può non guardarsi intorno e vedere chi è il lavoratore degli anni duemila, perché se effettivamente vi sono dei nuovi tecnici e sorgono nuove professionalità, è altrettanto vero che vi sono ancora le grandi fabbriche, la polverizzazione del lavoro nel terziario, per non parlare delle fasce di quasi emarginazione in cui finiscono non solo i soliti albanesi (ma quanto mai saranno!) ma tanti nostri concittadini (basta pensare all'enorme masse di lavoratori delle pulizie, soggiogati in quelle strane forme cooperativistiche) o ai lavoratori dell'edilizia e agli stagionali.
Va dato atto, però, dell'originalità della 'pensata'. Nessuno mai prima aveva ritenuto che i rapporti di lavoro potessero essere governati da contratti individuali, l'uno diverso dall'altro!
Vero è, al contrario che il sindacato è nato proprio per questo, che le lotte operaie e contadine dell'altro secolo (pardon, di due secoli fa), sono sorte proprio per superare le divisioni e per fare di più debolezze una forza sola, in grado di sottrarre la gente dal servaggio, di renderla titolare di prerogative dell'uomo lavoratore, consapevole del proprio valore e della propria determinante importanza nella costruzione della società. Il sindacato è nato per riequilibrare una situazione che, in natura è squilibrata a favore di chi detiene il potere economico e che era giusto pareggiare almeno in parte, dato che il datore di lavoro oggi ha sempre il potere di licenziare, a differenza dell'inizio del secolo scorso quando doveva ricorrere al giudice per un preventivo giudizio di legittimità.
Ora, invece, il Libro Bianco propone piuttosto l'arbitrato equitativo invece dei giudici. Che è il coronamento dell'architettura finora tracciata, poiché lasciando al giudice del lavoro l'accertamento della legittimità dell'operato datoriale si può rischiare di ricreare per via pretoria, magari per quel vizietto di voler sempre applicare la Costituzione, una serie di principi che vanificherebbero il partoriendo grande corpus iuris.
Per quanto possa essere bizantinamente congeniato, il giudizio arbitrale, seppure ha un senso, dato che si tratta dell'abdicazione dello Stato ad una sua funzione fondamentale, lo manifesta solo in un giudizio fra eguali. Mentre in un rapporto fra ineguali ha un sapore paternalistico, quando non trasborda addirittura in un giudizio dal sapore caritatevole.
Anche l'arbitrato però ha il sapore di un déja vù poiché già molti decenni fa la magistratura del lavoro era retta da probiviri.
A ben vedere tutto quanto, nonostante il packing (che in italiano vuol dire impacchettamento), ha il sapore del già visto e del già letto.
Qui non si sta facendo altro che portare indietro l'orologio della storia, in quegli anni bui dai quali la società occidentale ne uscì grazie anche al movimento sindacale, sebbene a costo di tenaci e durature lotte. 
Dott. Gaetano Schiavone – Giudice del lavoro del Tribunale di Pisa
(fonte: Il Libro Bianco sul mercato del lavoro e la sua attuazione legislativa. Una riflessione sul cambiamento. Firenze, 18 gennaio 2002, in www.dirittodellavoro.it/public/current/miscellanea/atti/dantona2002/versione%20integrale%20corretta%202.rtf )

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