LA
LEGGE DELEGA IN MATERIA DI MERCATO DEL LAVORO
di Mario Fezzi
Il diritto
del lavoro - e quindi la tutela dei diritti dei lavoratori – ha subito profonde
e spesso contrastanti modificazioni negli ultimi trent'anni. La promulgazione
dello Statuto dei Lavoratori nel 1970, ma soprattutto la legge 533 del 1973 di
riforma del processo del lavoro (che lo ha trasformato da processo lento e
scritto in un giudizio teoricamente velocissimo e a carattere prevalentemente
orale) hanno dato impulso alla materia.. Altre leggi di tutela dei diritti dei
lavoratori sono state rapidamente introdotte (basti pensare alle legge di
parità del 1977): in questa fase la tutela dei diritti è intensa e
sufficientemente reale. Il processo del lavoro viene applicato con un certo
rigore da parte della magistratura e i tempi dei procedimenti sono brevi, ma
soprattutto efficaci, poiché garantiscono giustizia effettiva (mentre una
giustizia resa a distanza di anni si trasforma comunque in un'ingiustizia, in
quanto ben raramente c'è modo, per il tempo trascorso, di "rimettere le
cose a posto"). Una prima svolta, significativa, si ha però agli inizi
degli anni ottanta con il c.d. Protocollo Scotti (gennaio 1982): inizia la fase
della deregulation , termine che viene adottato per indicare la progressiva eliminazione
di garanzie a favore dei lavoratori. Si tratta però ancora di una fase
altalenante: alla eliminazione di alcuni dei tanto odiati lacci e laccioli si
accompagna anche e ancora l'introduzione di altre norme di tutela in materie
diverse (nel 1984 si introducono i contratti di solidarietà e il part time, ma
anche i contratti di formazione e lavoro; nel 1987 si dà invece una prima
consistente spallata al contratto a termine, la cui regolamentazione, rigida e
rigorosa, risale al 1962). Gli anni novanta si aprono con una legge (la 223 del
1991) che, pur limitandosi a regolamentare quanto di fatto già avveniva, apre
la strada ai licenziamenti collettivi, privati di alcun controllo
giurisdizionale in termini di opportunità o di necessità della scelta aziendale.
Il resto del decennio si caratterizza per un'ulteriore erosione dei diritti dei
lavoratori, questa volta attuato con piccole ma sostanziali modifiche alle leggi
esistenti. Fin qui il sistema, in qualche modo, regge. Il processo del lavoro
rallenta e diviene in alcune realtà lento e farraginoso; ma nel complesso la giustizia
del lavoro resta il modello cui tendere, anche per la giustizia civile; i
lavoratori pretendono ancora il rispetto dei loro diritti anche in sede
giudiziale (anche se comincia a notarsi una tendenza a rivendicare il rispetto
dei diritti lesi non più nel corso del rapporto, ma alla sua cessazione); il
sindacato fa la sua parte e le cause per attività antisindacale crescono di
numero e di intensità. La svolta, la vera svolta, avviene con il disegno di
legge collegato alla Finanziaria 2002 contenente la "Delega al Governo in
materia di mercato del lavoro", deliberato dal Consiglio dei Ministri il
15 novembre 2001. La Legge Delega, in attuazione della quale il Governo dovrà
approvare entro un anno uno o più decreti attuativi delle novità ivi contenute,
è figlia diretta e legittima del Libro Bianco presentato nell'ottobre 2001 dal Ministro
del lavoro e delle Politiche Sociali. Con la Legge Delega l'intero diritto del
lavoro viene stravolto: dalla tutela del lavoro si passa
all'istituzionalizzazione della precarizzazione. Il rapporto che era stato
privilegiato dall'ordinamento (quello a tempo indeterminato) diviene
l'eccezione, mentre la regola è rappresentata dal lavoro precario e privo di
garanzie di mantenimento. Il lavoro (dell'uomo) viene trattato alla stregua di
una merce che si cede, si affitta, si chiama volta per volta solo quando serve,
si "somministra". Si cancellano norme fondamentali (quella
sull'intermediazione di mano d'opera, per esempio) che imponevano principi
elementari di civiltà, introducendo come normale, e non più solo come
temporaneo, il ricorso all'affitto di persone. Nell'ambito della riscrittura di
tutto il diritto del lavoro (che, è bene ribadirlo, riguarda i diritti dei
lavoratori), la minacciata sospensione dell'applicabilità per 4 anni
(rinnovabili) dell'art.18 S.L., sull'obbligo di reintegrazione a fronte di
licenziamento riconosciuto illegittimo dalla magistratura, appare quasi come
misura di poco conto e di secondaria importanza. Non bisogna peraltro
dimenticare che i contenuti della legge delega si accompagnano al D.Lgs. 368
del 6.9.2001, con il quale è stata abrogata la legge 230/1962 sul contratto a
termine, la cui disciplina è stata integralmente modificata attraverso una
liberalizzazione generalizzata di questo tipo di contratto. Mentre fino
all'entrata in vigore di questa norma il rapporto di lavoro a termine era
comunque ancora soggetto a una serie di rigorose condizioni previste dalle
legge o dalla contrattazione collettiva, con l'art.1 del D.Lgs.368 si
stabilisce che "E' consentita l'apposizione di un termine alla durata del
contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico,
produttivo, organizzativo o sostitutivo". E quindi, sostanzialmente, senza
limiti. Ed ecco i contenuti più significativi della legge delega:
1. COLLOCAMENTO: si
interviene ancora una volta sul collocamento confermando e ribadendo il principio
dell'assunzione diretta generalizzata, abrogando definitivamente ogni norma
residua sul collocamento pubblico e affidando ogni attività di intermediazione
tra domanda e offerta di lavoro a soggetti privati.
2. ABROGAZIONE DELLA LEGGE 1369/60 (Divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro) e sua sostituzione con una disciplina che riconosce e autorizza la somministrazione di mano d'opera. In sostanza il lavoratore (con le sue prestazioni lavorative) diviene una merce liberamente commerciabile (il contratto di somministrazione infatti è stato pensato e viene normalmente utilizzato per la fornitura periodica di beni o servizi), mentre si riconosce la liceità del trarre profitto dal lavoro altrui, attraverso una vera e propria attività di interposizione, che non sarà necessariamente temporanea, come avviene per il lavoro interinale, ma addirittura teoricamente permanente. Un principio cardine del nostro ordinamento, secondo il quale nessuno deve esercitare a scopo di lucro un'attività il cui oggetto sia solo quello di far lavorare qualcuno alle dipendenze di qualcun altro, viene così smantellato e sostituito con il suo opposto. E siccome l'interposizione è brutta a dirsi, si preferisce chiamarla somministrazione. Nasce così per via legislativa una nuova professione: quella del commerciante in lavoro altrui.
3. MODIFICA
DELL'ART.2112 C.C. La vicenda dell'art.2112 del codice civile è strana. La
norma nasce originariamente allo scopo di tutelare i lavoratori nel caso di
cessione dell'azienda da cui dipendono, garantendo loro il passaggio, a
condizioni invariate, alle dipendenze dell'acquirente. Negli ultimi anni la
stessa norma si è rivolta contro i lavoratori, attraverso il meccanismo degli
scorpori aziendali (via via chiamati esternalizzazioni, outsourcing e altro)
tecnicamente formalizzati attraverso singole cessioni di ramo d'azienda,
riconosciute e legittimate dall'art.2112 c.c. In genere a essere ceduti
all'esterno sono i servizi (magazzino, pulizie, fatturazione, assistenza
tecnica, manutenzione, etc.), ma in molti casi viene scorporato un pezzo, a
volte anche rilevante, dell'attività produttiva. Tutto quello che si può
staccare dal nucleo principale dell'azienda viene scorporato, per lasciare solo
quello che viene definito il core business. In questo modo migliaia di
lavoratori si sono trovati a passare dalle dipendenze di imprese di grosse
dimensioni a piccole imprese, in molti casi prive dei requisiti numerici per la
tutela contro i licenziamenti illegittimi. La linea di difesa in tutti questi
casi era rappresentata dalla dimostrazione giudiziale della mancanza di autonomia
funzionale del ramo d'azienda ceduto. Se un certo settore aziendale è privo di
autonomia funzionale rispetto all'intera azienda, non può certo parlarsi di
ramo d'azienda e quindi a maggior ragione di cessione di ramo d'azienda. Insomma,
l'unica difesa per i lavoratori che venivano ceduti a piccole imprese o
comunque a imprese terze, era quella di tentare di dimostrare l'insussistenza
di questo requisito. Ebbene, la legge
delega si occupa anche di questo e dispone la modifica dell'art.2112 c.c.
attraverso l'eliminazione del requisito dell'autonomia funzionale del ramo
d'azienda preesistente al trasferimento. In buona sostanza qualunque pezzo di
un'azienda, sia o non sia autonomo, potrà agevolmente essere ceduto
all'esterno, insieme con i dipendenti relativi, senza più alcuna possibilità di
opporsi alla cessione.
4.
REVISIONE DELLA MISURE DI INSERIMENTO AL LAVORO NON
COSTITUENTI RAPPORTO DI LAVORO: si prevede, con una tecnica luminosa di
ipocrisia legislativa, che si possano inserire al lavoro, per periodi da un
mese a un anno, persone che dovranno lavorare normalmente, ma nei cui confronti
non potrà applicarsi alcuna norma di tutela, non essendo essi titolari di
un rapporto di lavoro. Anche la retribuzione è aleatoria in queste ipotesi: si stabilisce
infatti che possa essere prevista "la eventuale corresponsione di un
sussidio".
5.
MODIFICA DEL PART TIME: si prevede l'agevolazione del
ricorso a prestazioni di lavoro supplementare nel part time orizzontale e a
forme flessibili ed elastiche di lavoro a tempo parziale nel part time
verticale e misto; viene poi prevista
l'estensione delle forme flessibili ed elastiche ai contratti a part time a
tempo determinato. Tutto questo senza tenere in gran conto il consenso del
lavoratore ad accettare questo elevato grado di flessibilità: la legge 61/00
infatti prevede che per l'effettuazione di prestazioni di lavoro supplementare
sia indispensabile in ogni caso il consenso del lavoratore interessato. La
legge delega prevede invece solo che le varie forme flessibili siano adottate
"anche sulla base del consenso del lavoratore interessato". La legge
61/00 poi stabiliva, anche attraverso il rinvio alla contrattazione collettiva,
una serie di limiti all'effettuazione di lavoro straordinario o supplementare. La
legge delega intende invece eliminare ogni limite, attraverso l'abrogazione e/o
l'integrazione di ogni norma contrastante.
6.
LAVORO A CHIAMATA: viene introdotta questa nuova figura
(che anche nella terminologia ricorda da vicino la figura del Caporalato) di
lavoratore discontinuo o intermittente, a scelta non sua, ma del datore
di lavoro. Il lavoratore deve restare a disposizione per l'eventualità che il
datore di lavoro necessiti della sua prestazione. Gli verrà pagato solo il
lavoro effettivamente prestato, mentre potrà percepire un'indennità di disponibilità
per il tempo in cui rimane in attesa di essere chiamato.
7.
RAPPORTI DI LAVORO INTERINALE E CONTRATTI A TERMINE
potranno essere stipulati appositamente per la copertura delle quote obbligatorie
di assunzione di lavoratori disabili e appartenenti alle categorie assimilate.
8.
LAVORO A PROGETTO E A PROGRAMMA: potranno essere
stipulati contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo
svolgimento di attività connesse a uno o più progetti o programmi di lavoro o
fasi di esso.
9.
BUONI - LAVORO: viene prevista l'ammissibilità di
prestazioni di lavoro occasionale e accessorio, attraverso la tecnica di buoni
corrispondenti a un certo ammontare di attività lavorativa. Qui la legge delega
sfiora il ridicolo con la previsione di questi rapporti di lavoro occasionali
la cui costituzione e titolarità sarebbe incorporata in buoni-lavoro che potrebbero
essere acquistati unitamente a un chilo di pane e a due etti di prosciutto.
Nasce così anche un'altra professione: quella del negoziante che vende ore di
lavoro altrui.
10.
JOB - SHARING: viene introdotta la ammissibilità di
prestazioni ripartite fra due o più lavoratori, obbligati in solido nei
confronti del datore di lavoro, per l'esecuzione di un'unica prestazione
lavorativa.
11.
CERTIFICAZIONE DEI RAPPORTI DI LAVORO: nell'ambito dei
tanti e variegati lavori atipici previsti dalla legge delega potrebbe però
sorgere un consistente contenzioso se l'applicazione del rapporto di lavoro, soprattutto
per quanto concerne le collaborazioni coordinate e continuative, si traducesse
in concreto in niente altro che in un normale rapporto di lavoro subordinato.
La legge delega dispone però anche in questa materia. Le parti (datore di
lavoro e lavoratore) prima di instaurare un rapporto potranno comparire avanti
a un'apposita Commissione per dichiarare la vera natura del rapporto che andrà
a costituirsi. Di questa dichiarazione il Giudice eventualmente chiamato, in
seguito, a stabilire l'effettiva natura del rapporto intercorso, dovrà tenere
conto, valutando il comportamento delle parti in sede di certificazione. La procedura
ha carattere volontario: ma non è ben chiaro come potrebbe il lavoratore
disoccupato, cui venga offerta un'occasione di lavoro, rifiutarsi di aderire a
questa richiesta "volontaria", senza avere la certezza che quel
rapporto non verrà più instaurato, non appena manifestato il rifiuto. E ancora,
non è chiaro cosa impedirà a datori di lavoro disinvolti, una volta ottenuta la
certificazione, di pretendere prestazioni che vadano bel al di là del contratto
stipulato, senza rischiare a posteriori un intervento giudiziario
riparatore.
12.
SOSPENSIONE DELL'ART.18 S.L. : le legge delega prevede
una modifica dell'apparato sanzionatorio a carico del datore di lavoro in caso
di licenziamento ingiustificato, eliminando la reintegrazione e sostituendola con
un risarcimento, per un periodo sperimentale di quattro anni, fatta salva la
possibilità di proroghe in relazione agli effetti registrati sul piano occupazionale.
La deroga all'art.18 s.l. non è applicabile in caso di licenziamento
discriminatorio, di licenziamento a causa di matrimonio, di malattia e di
maternità. La deroga non è peraltro assoluta, ma limitata a tre ben precise
tipologie: a) rapporti di lavoro regolarizzati a seguito di misure di
riemersione (dal lavoro nero); b) lavoratori assunti a termine, il cui rapporto
venga trasformato a tempo indeterminato; c) lavoratori di imprese minori (cioè
sotto i 15 dipendenti) che abbiano superato, per effetto di nuove assunzioni,
la soglia dei 15 dipendenti, non potendosi computare nel numero dei dipendenti
le persone assunte, per il primo biennio. La prima considerazione che si impone
è che l'esperienza legislativa del nostro paese insegna che ogni volta che si è
modificato in via transitoria e provvisoria un istituto, non si è mai tornati
indietro: con il passar del tempo e con qualche proroga giustificata e
giustificabile, la modifica prima o poi diviene definitiva e totale. La seconda
considerazione, sempre derivata dall'esperienza legislativa italiana, è che le
modifiche introdotte solo per alcune categorie ben determinate, vengono in
breve tempo estese a tutta la popolazione di riferimento. L'importante, inizialmente,
è infrangere il tabù dell'intoccabilità dell'art.18 s.l. Compiuta questa
operazione e superato l'impatto sociale che ne può derivare, diventa solo un
problema di scelta dei tempi in cui estendere in via definitiva, e senza troppo
clamore - in quanto tutto viene
metabolizzato prima o poi - la deroga a tutti i rapporti di lavoro. Peraltro
già le deroghe che la legge delega introduce sono di particolare rilievo. Il
fatto che non sia applicabile l'art.18 s.l. ai lavoratori assunti a termine e
successivamente confermati a tempo indeterminato può produrre un solo effetto:
tutti, ma proprio tutti, i nuovi assunti verranno prima fatti passare
attraverso un contratto a termine (che avrà quindi il nuovo scopo di sostituire
il periodo di prova) e solo in un secondo momento il loro contratto verrà trasformato
a tempo indeterminato. In questo modo la deroga all'art.18 s.l. opererà nei
confronti di tutti i nuovi assunti. E quindi si creerà una sorta di doppio
binario di tutele; i vecchi assunti godranno della tutela dell'art.18, mentre i
nuovi ne saranno privi. Con un turn over lavorativo ragionevole, in pochi anni
la tutela fornita dall'art.18 s.l. scomparirà del tutto, restando solo sulla
carta. A questo proposito è bene precisare che il luogo comune secondo cui eliminando
l'art.18 S.L. si intervenga solo sulla materia dei licenziamenti è totalmente
falso. In realtà, eliminando la reintegrazione, si interviene sulla materia dei
diritti: di tutti i diritti in azienda. L'art.18 infatti rappresenta la
condizione di effettività della tutela del diritto al lavoro. Il ripristinare
nel nostro paese la libertà di licenziamento non può che riflettersi anche sui
diritti di libertà primari (libertà di pensiero, di espressione, di adesione a
partiti politici o a formazioni sindacali, etc.) e su ogni altra forma di tutela
(a cominciare da dignità e sicurezza). Chi infatti può essere licenziato senza
ragione legittima e senza la possibilità di ottenere un rimedio giudiziale
effettivo, ben difficilmente si opporrà a qualsiasi forma di pressione, di
molestia, di sopruso nello svolgimento del rapporto di lavoro. Il sapere di
poter essere estromessi dal posto di lavoro senza alcun rimedio reale,
costringerà ogni lavoratore ad accettare anche condizioni di lavoro, di
salario, di igiene, di sicurezza, di inquadramento assolutamente inadeguate: il
reagire e protestare può infatti determinare la perdita del lavoro.
13. ARBITRATO.
Per concludere, la legge delega si occupa anche del contenzioso giudiziario
("al fine di ridurre il contenzioso in materia di controversie individuali
di lavoro") introducendo Collegi o Camere Arbitrali stabili su tutto il
territorio nazionale, con il compito di decidere, in sostituzione dei giudici
del lavoro, le controversie che abbiano ad oggetto diritti dei lavoratori
derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi,
stabilendo così che il lodo dovrà essere emesso secondo equità e non secondo
legge o contratto. La procedura avrà carattere volontario, dovrà appunto essere
decisa secondo equità, e il lodo arbitrale non sarà appellabile, ma solo
impugnabile per vizi procedurali. In materia di licenziamento ritenuto
illegittimo, sarà il Collegio a stabilire, con totale discrezionalità, se
disporre la reintegrazione nel posto di lavoro, ovvero optare per un
risarcimento del danno, con quantificazione ad esso interamente rimessa. Se si
può concordare o meno sul fatto che la via arbitrale possa essere una soluzione
ai problemi della giustizia del lavoro, si può però essere certi che non è
questo tipo di arbitrato che può essere accettato e riconosciuto come panacea
dei mali della giurisdizione. In questo giudizio arbitrale l'alternativa tra
reintegrazione e risarcimento, in caso di licenziamento illegittimo,
riguarderebbe da subito tutti i lavoratori (anche quelli che oggi lavorano a
tempo indeterminato), e l'equità degli arbitri si estenderebbe non soltanto
alla sanzione (risarcimento o reintegrazione) ma anche alla sussistenza della
giusta causa, con discrezionalità assoluta, non essendo tenuti all'applicazione
e al rispetto di norme di legge o di contratto collettivo. Come è abbastanza
chiaro l'impianto della Legge Delega appare finalizzato a modificare
profondamente il diritto del lavoro e a dargli connotati di flessibilità e di
arbitrarietà, difficilmente riscontrabili in paesi economicamente sviluppati.
Un aspetto fondamentale del mercato del lavoro nei paesi in via di sviluppo
(America Latina, Cile, Messico, buona parte dell'Africa, molti stati dell'India,
sud est asiatico, Tailandia, Indonesia) è costituito dall'enorme estensione del
cosiddetto "lavoro informale", vale a dire del lavoro in relazione al
quale la regolamentazione legislativa è praticamente inesistente. Si tratta di lavori
che si possono appropriatamente definire informali perché sono di fatto privi
di ogni forma giuridica. Ovviamente, data l'estensione di questo tipo di
rapporti in questi paesi, si determina l'insorgere di una serie di problemi
economici, sociali, culturali, politici. Di conseguenza i Governi di quei paesi
cercano di fare il possibile per "formalizzare l'informalità" del
mercato del lavoro. Il governo italiano invece sembra puntare allo scopo
contrario: informalizzare per quanto possibile un mondo del lavoro al quale è
stata data con decenni di fatica una consolidata forma giuridica (Luciano Gallino,
Una riforma che avvicina l'Italia al terzo mondo, La Repubblica 27
novembre 2001).
Chi
vuole spegnere la voce del sindacato
di Luciano Gallino
Come
ogni sistema di governo ispirato dal culto del capo, al fine di potersi
radicare durevolmente nel paese, il berlusconismo ha assoluto bisogno di
indebolire il sindacato.
Nel regime verso il quale il suo governo pare voler condurre il paese,
nessuna forma di rapporto sociale organizzato si deve frapporre tra la persona
del capo e gli individui. Quali
sedi in cui si costruivano pressoché giorno per giorno rapporti sociali
profondi, quelli che all'occasione fan sentire la propria identità personale
rinsaldata in una identità collettiva, i partiti politici sono andati in
crisi per conto loro. La chiesa,
da questo specifico punto di vista, non sembra stia molto meglio, anche se una
importante funzione sussidiaria continuano a svolgerla le associazioni
cattoliche. Le organizzazioni non governative stanno crescendo, ma esercitano
una presa ancor debole nella società politica. Resta in prima fila, ad
impedire che i messaggi del capo arrivino direttamente alla mente e al cuore
degli individui, il sindacato. Dunque è necessario ridurlo all'impotenza.
Nell'attacco
al sindacato le strategie adottate dal governo Berlusconi sono principalmente
due. La prima, sviluppata in sintonia
con i ceti sociali che lo sostengono, consiste nell'etichettarlo
instancabilmente come residuo pre-moderno, istituzione demodé, struttura in
ritardo irrimediabile sui tempi. E’ una strategia che sin dagli Anni '80 è
stata attuata con successo in Gran Bretagna e, con altrettanto fragore seppure
finora con minor successo, in Francia, specie ad opera dell'associazione
padronale. Il sindacato, predica tale strategia, è un ostacolo alla
modernizzazione del paese. Chi lo
sostiene, compresi i lavoratori che ancora vi credono e ad esso si iscrivono,
è un nemico della libertà e del nuovo che si affaccia prepotentemente nel
mondo. Da siffatta ideologia
della modernità ha scritto recentemente Laurent Joffrin, capo-redattore del Nouvel Observateur, in un graffiante saggio su "Le gouvernement
invisible" - deriva che viene «reputato moderno ciò che risponde ai
criteri dell'ideologia liberale libertaria.
Tutto il resto si trova respinto nelle tenebre dell'arcaismo. Così,
sotto la copertura della novità, della modernità, la scala dei valori è
brutalmente cambiata: la libertà fa premio sull'eguaglianza, l'individuo
sulla collettività, la società civile sulla società politica e il mercato
sullo Stato»
Non bastasse
la poderosa offensiva del berlusconismo, le difficoltà per il sindacato
italiano sono accresciute dal fatto che l'ideologia della modernità ha fatto
presa anche su una parte significativa della sinistra.
Si veda quel che è accaduto in occasione dell'ultimo congresso dei
D.S. La mozione in cui più chiaramente si parlava di questioni di interesse
effettivo per la vita di tante persone, come le conseguenze della
globalizzazione, le nuove povertà, l'occupazione, i salari che in termini
reali sono fermi da oltre un decennio, era quella di Berlinguer. Essa fu
sconfitta non da ultimo perché in molte sezioni del partito essa venne
presentata dai dirigenti o dai segretari locali come un insieme di idee
vecchie superate, non all'altezza dei tempi. I tempi chiedono, essi
assicuravano ai presenti, che si proceda per la strada della modernizzazione.
Che è un tema, a ben guardare e ricordare, ch'era di moda, ed allora aveva si
dei contenuti reali e comprensibili per le persone, intorno agli anni '60.
Nella misura - amplissima – in cui
dette questioni hanno dei risvolti sindacali, la sconfitta della
mozione Berlinguer, non tanto per la cosa in sé, ma per il modo in cui è
stata costruita in nome dell' ideologia della modernità interpretata da
sinistra, è stata una sconfitta anche per il sindacato.
E non soltanto per la Cgil.
L'altra
strategia che il governo Berlusconi sta perseguendo allo scopo di
drasticamente ridurre il peso del sindacato sta scritta in tre documenti, il
"Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia" predisposto
dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali; il documento in cui si
propone la "Delega al Governo in materia di mercato del lavoro",
e la "Relazione di accompagnamento" alla proposta stessa. In tutto sono 137 pagine fitte di analisi, di misure da
adottare; di programmi e di procedure da porre in essere. Sicuramente ben pensate e ben costruite.
Dirette ad uno scopo che, arrivati alla centotrentasettesima pagina, e
dopo qualche rilettura, emerge con la massima chiarezza.
Insieme con l'avvio della demolizione dell'art. 18 dello Statuto dei
lavoratori, tale scopo si può compendiare in una sola frase: il regime che
avanza punta tutto sulla individualizzazione dei rapporti di lavoro. Sul
mercato del lavoro l'individuo, il lavoratore, deve essere e sentirsi solo.
Con le sue competenze professionali, la sua voglia di fare, la sua
disponibilità ad accettare - se disoccupato - qualsiasi lavoro e salario gli
venga offerto. Messo di fronte dalla legge ad una varietà di tipologie di
lavoro tra cui scegliere ch'è semplicemente impressionante: lavoro a
chiamata, temporaneo, coordinato e continuativo, occasionale, accessorio,
intermittente, a prestazioni ripartite, a tempo parziale verticale od
orizzontale, oppure con contratto a tempo determinato che diventa
indeterminato se l'impresa - grazie alle modifiche dell'art. 18 - acquista il
diritto di porvi termine quando crede. Però un individuo sospinto sempre più
lontano dalle tutele sindacali, grazie anche alla prevista riduzione della
portata dei contratti nazionali a favore di quelli aziendali. Ciascuno per
sé, e il capo del governo per tutti. Perché soltanto un capo onnisciente e
pressoché onnipotente può pensare, e riuscire a far credere, di poter
assicurare un lavoro decente, un futuro prevedibile, la possibilità di
costruirsi una vita, a lavoratori che il sindacato non potrà più sostenere
perché in una medesima azienda saranno presenti dieci tipologie di lavoro,
venti aziende sub-appaltatrici differenti, centinaia di contratti individuali
ed un livello salariale minimo affidato non ad un contratto nazionale, bensì
al mercato del lavoro locale.
La
società non esiste, esistono soltanto gli individui, diceva vent'anni fa la
signora Thatcher. Quello che ci
viene proposto dal regime emergente, attraverso le modifiche che vuole
introdurre in materia dì mercato dei lavoro, va dunque ben al di là di
questo e della posizione del sindacato. E’
un modello di non società nel
quale gli innumeri fili della
devozione di ciascun individuo nei confronti d'una personalità carismatica -
della quale cioè si crede che sia dotata di poteri all'incirca sovrumani -
sostituiscono la maggior parte delle strutture sociali intermedie che hanno
per generazioni conferito identità e dignità alle persone, e contribuito a
trasformare la debolezza del singolo in una forza relativa, anche se pur
sempre impari a confronto della controparte.
Se un simile modello di convivenza si affermerà, per di più - come
risulta finora - con un ampio consenso popolare, gli storici del futuro
avranno il loro da fare per comprendere un enigma: in che modo gli abitanti
d'un grande paese abbiano potuto consegnarsi ad esso, l'uno descrivendolo con
compiacimento all'altro come una genuina forma di progresso rispetto alle
bassure d'una democrazia che tra i suoi pilastri aveva anche il sindacato.
(Luciano
Gallino, in “la Repubblica”, 15 gennaio 2002, p.16)
(Ritorna all'elenco Articoli presenti nel sito)