Condivisibili critiche dottrinali all’orientamento di Cass. n. 4913/2001 – introduttiva di valori di concentrazione per la fruizione dei benefici previdenziali per esposizione ad amianto – che, tuttavia, si riconferma con la successiva Cass. n. 8859 del 28.6.2001

 

Uso improprio delle soglie di allarme del D.Lgs. 277/91: genesi di una nuova nozione di esposizione ad amianto (di Lisa Giometti)

 

            A più di un anno di distanza dalla pronuncia di legittimità costituzionale (Corte Costituzionale, 12 gennaio 2000 n. 5) (1) dell’art 13, co. 8, L. 257/92, la sentenza in epigrafe (Cass. n. 4913 del 3.4.2001)(2)  afferma il principio per cui il beneficio della rivalutazione dei periodi contributivi soggetti all’assicurazione Inail non va riconosciuto per la semplice esposizione ad amianto protrattasi per più di dieci anni, ma piuttosto per una esposizione qualificata dalla presenza di amianto negli ambienti di lavoro quantomeno in una concentrazione media annuale pari a 0,1 fibre per cm cubo su otto ore al giorno, sulla base dei criteri di giudizio mutuati dall’art 24, co. 3, D.lgs n. 277/91.

            La Cassazione ritiene in tal modo di aver completato il percorso logico argomentativo della sentenza della Corte Costituzionale n. 5 del 2000.

            In quell’occasione, il Giudice delle leggi ha ritenuto il precetto normativo immune dal vizio denunciato dai giudici a quo ed ha di conseguenza escluso la fondatezza della questione di legittimità sollevata con riferimento all’art 3 della Costituzione sul presupposto dell’eccessiva indeterminatezza della fattispecie.

            Il rinvio operato dall’art 13, co. 8 ai periodi soggetti all’assicurazione Inail - quale presupposto e oggetto della maggiorazione - richiama la nozione di rischio, assunta a condizione di operatività del sistema assicurativo, ad integrare la fattispecie istitutiva del beneficio previdenziale.

            E’ dunque in tal senso che la Corte Costituzionale ha affermato che “il concetto di esposizione ultradecennale, coniugando l’elemento temporale con quello di attività lavorativa soggetta al richiamato sistema di tutela previdenziale (art 1 e 3 del Dpr n. 1124 del 1965), viene ad implicare, necessariamente, quello di rischio, e, più precisamente di rischio morbigeno rispetto alle patologie, quali esse siano, che l’amianto è capace di generare per la presenza nell’ambiente di lavoro”.

            Il concetto di esposizione ultradecennale attraverso la combinazione di due dati, il criterio di rischio assicurabile secondo il sistema delineato dal D.p.r. n. 1124/65 (art 1 e 3), e la durata dell’esposizione, appunto più che decennale, rende la previsione normativa autosufficiente escludendo qualsiasi residuo margine di intervento in funzione suppletiva – integrativa sia ad opera della giurisprudenza che di organi amministrativi.

            Col che la Corte Costituzionale ritiene ab origine la fattispecie sufficientemente determinata e ridimensiona le preoccupazioni espresse dai giudici a quo in merito al rischio che la norma, suscettibile di diverse interpretazioni, possa trovare in sede amministrativa o giudiziaria un’applicazione diseguale con lesione del principio di parità di trattamento di cui all’art 3 della Costituzione.

            Nell’impianto ricostruttivo della pronuncia in commento, la soglia di esposizione che dà diritto alla rivalutazione dei periodi lavorativi - se ed in quanto assistiti dalla relativa copertura assicurativa - coincide con il raggiungimento delle soglie di allarme di cui all’art 24 e 31 del D.Lgs. n.277/91.

            Nonostante il diverso avviso della Cassazione, tale conclusione pare disattendere l’iter argomentativo della pronuncia del 2000 andando oltre le intenzioni della Corte Costituzionale.

            E’ infatti proprio sulla scorta del sistema di prevenzione così come strutturato dal D.Lgs. 277/91 che la Corte Costituzionale prende atto che l’esposizione ad amianto assicurabile non può essere predeterminata nella sua intensità.

             Secondo l’intendimento della Corte Costituzionale il rischio rilevante - tanto a fini assicurativi che previdenziali - è tale in quanto morbigeno: lo si deve pertanto apprezzare avendo riguardo all’efficienza causale “rispetto alle patologie, quali esse siano, che l’amianto è capace di generare per la presenza nell’ambiente di lavoro”.

            A tale ultimo proposito, si noti che il D.Lgs. n. 277/91 fa obbligo di adottare le misure di protezione contro i rischi connessi all’esposizione ad amianto per tutte le attività nelle quali vi è rischio di esposizione alla polvere proveniente dall’amianto e dai materiali contenenti amianto (art 22).

Analogamente, la direttiva 83/477/CEE del 19 settembre 1983 ritenendo di dover escludere che “le attuali conoscenze scientifiche siano tali da consentire di stabilire un livello al di sotto del quale non vi sono più rischi per la salute”, individua il proprio campo di applicazione con riferimento “alle attività nelle quali i lavoratori sono, o possono essere, esposti durante il lavoro alla polvere proveniente dall’amianto o dai materiali contenenti amianto” e prescrive pertanto “per qualsiasi attività che possa presentare un rischio di esposizione alla polvere proveniente da amianto o da materiali contenenti amianto la valutazione del rischio in modo da stabilire la natura ed il grado dell’esposizione” (art 3, commi 1 e 2).

In altri termini, la Corte di Cassazione pare ignorare che il D.Lgs. 277/91 configura un sistema di prevenzione il cui scopo è azzerare il rischio per qualsiasi livello esposizione e non graduare l’efficacia delle misure di sicurezza in relazione all’intensità dell’esposizione: diversamente la norma si porrebbe in contrasto con il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile che costituisce il fondamento del nostro sistema di sicurezza ed igiene del lavoro (Corte Costituzionale, sentenza n. 312/96 (3).

E’ infatti pacifico che le concentrazioni di fibre cui la Corte di Cassazione si riferisce (art 24 e 31, D.Lgs. 277/91) “non possono correttamente essere definite come valori limite, perché non hanno funzione specifica propria di demarcare in modo rigido la linea di discrimine fra innocuo e nocivo, bensì quella diversa di indicare semplicemente il raggiungimento di determinate soglie di allarme a partire dalle quali, indipendentemente dall’adozione delle normali misure tecniche organizzative per abbattere quanto più possibile il rischio, deve attivarsi tutto un complesso e graduato sistema di informazione e controllo, oltre che di impiego di mezzi personali di protezione, allo scopo di intervenire sull’altro versante  della prevenzione riguardante la riduzione dei tempi di esposizione dei lavoratori alle fonti di nocività, non altrimenti eliminabili.”(4).

Dunque, anche a voler tralasciare che non è consentito trasporre a fini previdenziali le indicazioni fornite dal legislatore ai fini della prevenzione del rischio, va fatto rilevare che l’impianto normativo del decreto non avvalora la conclusione fatta propria dalla Cassazione, ma anzi la contraddice.

Anche sul versante preventivo, la presenza generica e non altrimenti qualificata di amianto nell’ambiente lavorativo costituisce di per sé un rischio per la salute (il rischio minimo o di partenza richiamato dalla Corte Costituzionale) e allo stesso tempo rappresenta la concentrazione massima che un sistema di prevenzione volto ad eliminare - non a contenere - il rischio possa concepire prevedendo già in relazione al verificarsi di tale circostanza l’adozione di tutte le possibili misure di abbattimento del rischio.

            In questo senso, la Corte Costituzionale constatava che la presenza di amianto nei luoghi di lavoro è “evenienza  tanto pregiudizievole da indurre il legislatore a fissare, a fini di prevenzione, il valore massimo di concentrazione di amianto nell’ambiente lavorativo che segna la soglia minima del rischio di esposizione (decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277)” e prendeva atto dell’operare delle misure di sicurezza al verificarsi di un’esposizione generica in quanto portatrice di un rischio effettivo per la salute.

In conclusione, “i lavoratori esposti all’amianto sono secondo l’art 13, co. 8, come interpretato dalla Corte Cost., quelli che per essere stati esposti alla sostanza per più di dieci anni, hanno corso il rischio di contrarre le malattie da amianto quali esse siano: questo, niente altro, è il rischio morbigeno secondo il sistema di assicurazione gestito dall’Inail, ritenuto dalla Corte elemento della fattispecie legale attributiva del beneficio previdenziale” con l’avvertenza che “ogni riferimento al sistema dell’assicurazione obbligatoria ed al concetto di rischio morbigeno, contenuto nella sentenza della Corte Costituzionale, deve essere letto ovviamente alla luce del sistema c.d. misto la cui introduzione (sentenza Corte Costituzionale n. 179/88) ha segnato la fine del sistema tabellare chiuso…ed ha consentito l’introduzione di un nuovo sistema, appunto misto, con liste aperte in grado di tutelare più adeguatamente il lavoratore (perché capace di allargare con i mezzi di prova ordinari l’area dell’accertamento dell’eziologia professionale). Il sistema di assicurazione misto, rifugge da limitazioni o regole predeterminate; ad esempio la fissazione di un parametro rigido di esposizione a proposito della tutela delle patologie correlate all’amianto porterebbe ad una nuova chiusura del sistema misto costituzionalizzato dalla Corte (come l’unico in grado di tutelare efficacemente, senza vuoti,il lavoratore sul piano assicurativo) (5).

 Col che, l’esposizione ad amianto - ritenuta di per sé nociva tanto dal legislatore comunitario quanto da quello nazionale - se di durata ultradecennale, dà diritto alla rivalutazione contributiva a prescindere dalle soglie di allarme individuate dal D.Lgs. n. 277/91.

Lisa Giometti

(per concessione di “D&L, Riv. crit. dir. lav.” ove è stato poi pubblicato sul n. 3/2001,794)

 

NOTE

 

(1) Corte Costituzionale, 12 gennaio 2000, in D&L, Riv. crit.dir.lav., 2000, 318, n. Giometti.

(2) Cass. n. 4913/2001 ha così affermato: “Il disposto del comma 8 dell’art 13 della legge 27 marzo 1992 n. 257 (“Norme relative alla cessazione dell’impiego di amianto”) va interpretato nel senso che il beneficio stesso va attribuito unicamente agli addetti a lavorazioni che presentano valori di rischio per esposizione a polveri di amianto superiori a quelli consentiti dagli art 24 e 31 D. Lgs. 15 agosto 1991 n. 277. Nell’esame della fondatezza della domanda di detto beneficio il giudice di merito deve accertare,  nel rispetto dei criteri di ripartizione dell’onere probatorio ex art 2697 c.c., se colui che ha avanzato domanda del beneficio in esame, dopo avere provato la specifica lavorazione praticata e l’ambiente dove ha svolto per più di dieci anni (periodo in cui vanno valutate anche le pause “fisiologiche” proprie di tutti i lavoratori) detta lavorazione, abbia anche dimostrato che tale ambiente ha presentato una concreta esposizione al rischio alle polveri di amianto con valori limite superiori a quelli indicati nel suddetto decreto n. 277 del 1991.

(3) Corte Costituzionale, 25 luglio 1996 n. 312, in Foro it., 1996, I, 2957.

(4) A. Culotta, Il sistema prevenzionale italiano dopo il recepimento in legge delle direttive comunitarie sui rischi lavorativi da piombo, amianto, rumore, in questa rivista, 1992, I, 346; Nuovi scenari prevenzionali dopo l’entrata in vigore del D.lgs 15.8.1991, n. 277 di recepimento delle direttive CEE sui rischi da piombo, amianto e rumore, in Riv. pen. econ., 1992, 35.  

(5) Trib. Ravenna, 13 aprile 2000, in “Lav. giur.”, n. 7/2000, p.651 e ss. con commento di Miscione ed integralmente in “Lav. prev. Oggi” n. 5/2001; in senso conforme, Trib. Terni, 18 dicembre 2000, n 221, inedita per quanto consta; Pret. Firenze 13 gennaio 1999, in D&L, 1999, 730, n. Monaco, L’esposizione ultradecennale ad amianto, fra legge e interpretazione; Pret. Pistoia, 31 dicembre 1998, in D&L, 1999, 729; Pret. Pistoia, 30 dicembre1998, in D&L, 1999, 434.

 

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P.S. (di Mario Meucci) – Mentre piovono le critiche per una presa di posizione di natura “politica” più che “giuridica” della S. corte, volta a limitare la c.d. “platea suppostamente indeterminata dei beneficiari”, si ha notizia che la Cassazione ha riconfermato l’orientamento espresso nella decisione n. 4913/2001 nella successiva n. 8859 del 28 giugno 2001 (Pres. Amirante, Rel. Coletti). In quest’ultima decisione che sinteticamente si riassume  - ma che di seguito pubblichiamo integralmente - è stato sostanzialmente detto che: “La legge 27 marzo 1992 n. 257 ha introdotto benefici pensionistici per coloro che abbiano lavorato in condizioni di esposizione alla inalazione di fibre di amianto. Essa ha una portata generale e pertanto non può essere interpretata nel senso che si riferisca ai soli lavoratori che, a seguito della soppressione della lavorazione dell’amianto, siano stati coinvolti in situazioni di crisi aziendale. Tuttavia, perché possa riconoscersi a un lavoratore il diritto ai benefici previsti da questa legge, non è sufficiente che egli sia stato comunque esposto ad inalazioni di polveri di amianto anche di minima identità. La legge infatti deve essere interpretata – come è stato affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 5 del 2000 – nel senso che il beneficio pensionistico vada riconosciuto ai lavoratori che abbiano svolto la loro attività in ambienti in cui fosse presente una concentrazione di fibre di amianto superiore a determinati valori e tale da causare una situazione di effettivo rischio per la salute. Questi valori possono essere individuabili nei parametri indicati dagli articoli 24 e 31 del decreto legislativo n. 277 del 1991, che in attuazione delle direttive europee in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da agenti chimici, ha fissato i limiti di concentrazione di fibre di amianto respirabili nei luoghi di lavoro”. 

Una nuova decisione della Cassazione, sezione lavoro (n. 8859/2001,confermativa della precedente n. 4913/2001) sui requisiti degli esposti ad inalazione di fibre d’amianto per poter fruire della supervalutazione dell’anzianità contributiva.

Corte di Cassazione, Sez. lav., sentenza 28 giugno 2001, n. 8859 (udienza 16 marzo 2001) – Pres. Amirante – Rel. Coletti – Vayr (Avv. ti Vacirca e Sonetto) c. INAIL  (Avv. ti Catania, De Ferrà), c. IVECO Spa (Avv.ti  Tamajo, Bonamico, Borsotti), c. FIAT AVIO Spa (Avv.ti Tamajo, Bonamico, Borsotti),  c. INPS (Avv.ti De Angelis, Di Lullo).

Benefici pensionistici – Lavoratori esposti a polveri d’amianto – Art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992 – Interpretazione – Spettanza non generalizzata  del beneficio da esposizione ad amianto ma  circoscritta  individualmente a chi abbia provato di essere stato esposto a valori soglia di inalazione  di fibre presenti nell’ambiente lavorativo in misura eccedente quella fissata (a fini di prevenzione rischi per la salute) dal d. lgs. n. 277 del 1991.

Risponde a criteri di coerenza logica, da presumersi essere sottesi ad ogni intervento legislativo, ritenere che la legge n. 257 del 1992 abbia tenuto presente – nel momento in cui interveniva su un assetto industriale caratterizzato da un vasto panorama di imprese esposte in maniera differenziata al rischio amianto – il decreto legislativo n. 277 del 1991 (che difatti ha essa stessa provveduto a modificare tramite l’art. 3, comma 4); decreto che, in attuazione delle direttive europee (in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da agenti chimici), fissava, agli artt. 24 e 31, i limiti di concentrazione di fibre di amianto respirabili nei luoghi di lavoro, stabilendo anche, in caso di necessità di svolgimento dell’attività lavorativa e di impossibilità di rimuovere le cause di inquinamento con misure adeguate, “tutte le misure di protezione dei lavoratori addetti e dell’ambiente, tenuto conto del parere del medico competente” (cfr. commi 4 e 5 dell’art. 31).

Tanto porta ad escludere che il provvedimento normativo del 1992 abbia voluto attribuire il beneficio della rivalutazione (nella specie rivendicato) a tutti i lavoratori comunque esposti ad inalazione di polveri di amianto anche di minima entità, abbia voluto cioè attribuire detto beneficio anche ai soggetti destinati a spiegare la loro attività in ambienti in cui fosse presente una concentrazione di fibre di amianto destinata a rimanere al di sotto dei valori limite legislativamente  ritenuti a rischio e individuabili in quelli indicati negli artt. 24 e 31 del d.lgs. n. 277/1991.

E questa conclusione riceve un decisivo avallo della considerazione che una diversa interpretazione finirebbe per legittimare un notevole “sforamento” di ogni pur attendibile previsione di spesa, portando perciò a ipotizzare quella violazione dell’art. 81 Cost., che la Corte Costituzionale, nella ricordata sentenza n. 5/2000, ha escluso sulla base della (più restrittiva) tesi che individua la necessità di un duplice requisito per l’acquisizione del diritto al beneficio di cui all’art. 13, comma 8, della legge n. 297/1992: vale a dire il dato temporale (almeno dieci anni di esposizione) e la presenza nell’ambiente di lavoro di una concentrazione di fibre di amianto superiore ai valori limite fissati dal d.lgs. n. 277/1991.

 

Svolgimento del processo. – Bruno Vayr, con ricorso in data 13 aprile 1995 al Pretore di Torino, conveniva in giudizio la società Fiat Avio spa e l’INPS per sentir dichiarare il proprio diritto al beneficio previsto nell’art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992 n. 257 e consistente nell’applicazione del coefficiente moltiplicatore 1.5 al periodo lavorativo dal 9.9.1960 al 1985, sul presupposto di una sua asserita pregressa esposizione alla inalazione i fibre i amianto a causa della specifica attività manuale prestata in lavorazioni a rischio presso varie aziende del gruppo.

Lamentava che l’INAIL non aveva rilasciato alcuna dichiarazione attestante tale esposizione al rischio specifico, nonostante le sue richieste, per cui ipotizzava la necessità di chiamare in causa anche l’INAIL e chiedeva, in particolare, che venisse accertato che presso lo stabilimento Fiat Grandi Motori di via Cuneo a Torino, presso il quale aveva lavorato per lunghissimo tempo, venivano svolte lavorazioni soggette all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’esposizione all’amianto.

Si costituiva la spa Fiat Avio che eccepiva la propria carenza di legittimazione passiva per il periodo antecedente al 1977, data nella quale era stata costituita, mentre, in fatto, contestava che il Vayr, per le mansioni svolte presso di essa, fosse mai stato esposto a fibre di amianto.

All’udienza del 31 maggio 1995 il Pretore disponeva di ufficio la integrazione del contraddittorio nei confronti delle società Iveco s.p.a. e Fiat s.p.a. nonché, su richiesta del ricorrente, dell’INAIL.

Le due società intervenute chiedevano il rigetto della domanda, come pure l’INAIL, il quale eccepiva anche la propria carenza di legittimazione passiva.

Con sentenza in data 30 aprile 1998 il Pretore, accogliendo il ricorso del Vayr, dichiarava il diritto del ricorrente a beneficiare dell’incremento pensionistico ex art. 13, comma 8, della legge n. 257/1992 e successive modifiche quanto al periodo lavorato dal settembre 1960 al dicembre 1973 alle dipendenze della Fiat spa presso lo stabilimento Grandi Motori di Torino; conseguentemente condannava l’INPS, l’INAIL e la Fiat spa, in solido tra loro, a pagare le spese di CTU e a rifondere al ricorrente le spese di lite; compensava tali spese quanto ai rapporti tra il ricorrente, da un lato, e la Iveco spa e Fiat Avio spa dall’altro, nonché ai rapporti tra l’INAIL e la Fiat Avio spa.

Avverso tale sentenza proponevano appello l’INAIL, l’INPS, la Iveco spa, la Fiat spa e la Fiat Avio spa, chiedendone la riforma.

Il Vayr resisteva e chiedeva, comunque, la declaratoria dell’intervenuto giudicato su quelle parti della sentenza contro le quali non erano stati volti specifici motivi di gravame.

Con sentenza in data 2 settembre 1999 il Tribunale di Torino dichiarava improponibile la domanda nei confronti dell’INAIL, della Fiat Avio spa, della Iveco spa e della Fiat spa , mentre la respingeva nei confronti dell’INPS sulla base delle seguenti considerazioni.

Il giudice di appello ha interpretato la previsione dell’art, 13, comma 8 della legge n. 257/1992, nel testo sostituito dal decreto-legge n. 169/1993, convertito con modificazioni dalla legge n. 271/1993, nel senso che essa si riferisce ai soli lavoratori che, a seguito della soppressione della lavorazione dell’amianto, sarebbero stati coinvolti nella crisi e per i quali urgeva fornire misure che consentissero l’aumento della anzianità assicurativa, non più conseguibile attraverso il reimpiego nel settore; non dunque a tutti coloro che, nell’arco della loro attività lavorativa, siano stati esposti ad amianto, ma unicamente ai lavoratori che tale esposizione abbiano subito in quanto dipendenti di quelle aziende costrette a dismettere la lavorazione o l’estrazione dell’amianto a seguito della legge n. 257/1992. In tal modo individuati la “ratio” della norma e l’ambito della sua operatività, ha affermato il Tribunale la insussistenza del diritto rivendicato, dal momento che il Vayr era stato dipendente della Fiat spa, poi della Iveco spa e successivamente della Fiat Avio spa, cioè di aziende nessuna delle quali aveva mai partecipato ai processi produttivi individuati dagli artt. 1 e 2 della legge  n. 257/1992. Non solo, in base a quanto ricostruito dalla sentenza del Pretore, il lavoratore aveva svolto mansioni che in astratto potevano averlo esposto al rischio amianto solamente per il periodo in cui era stato alle dipendenze della Fiat spa settore “Grandi Motori”, cioè solamente fino al 1973, mentre in seguito e per oltre vent’anni aveva svolto altri tipi di attività; ciò che rendeva inverosimile ipotizzare che egli rientrasse tra i soggetti ai quali, per ovviare al rischio di non poter trovare altra collocazione sul mercato del lavoro a causa della dismissione delle lavorazioni dell’amianto, la legge del 1992 e successive modifiche riservava il beneficio della supervalutazione. In ogni caso, ha concluso il Tribunale, unico soggetto passivamente legittimato, rispetto a richieste di accertamento del diritto previsto dall’art. 13, comma 8 della stessa legge era l’INPS; con la conseguenza che la domanda nella specie proposta con il ricorso introduttivo doveva essere respinta nei confronti dell’Istituto previdenziale, mentre doveva essere dichiarata improponibile nei confronti delle altre parti (INAIL e datori di lavoro), tanto più che verso tali soggetti era limitata a una richiesta di rilascio (o di condanna al rilascio) della attestazione circa la esposizione all’amianto, che non era idonea a legittimare, di per sé sola, una autonoma azione giudiziale, riguardando un mero presupposto del diritto che il ricorrente intendeva far valere.

Ricorre per la cassazione di questa sentenza Bruno Vayr con quattro motivi.

Resistono con controricorso le società Fiat spa, Iveco spa, Fiat Avio spa nonché l’INPS e l’INAIL. Hanno prodotto successiva memoria il Vayr e la Fiat spa.

 

Motivi della decisione.

 

Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 112 e 324 c.p.c. nonché dell’art. 2909 cod. civ., vizio di omesso esame di fatti decisivi e difetto assoluto di motivazione. Sostiene che, con i rispettivi atti di appello, le società Fiat spa, Iveco spa e Fiat Avio spa, nonché l’INPS e l’INAIL avevano messo in discussione solo alcune parti della sentenza di primo grado, omettendo di censurare specificamente gli accertamenti preliminari contenuti nel dispositivo della decisione pretoriale relativamente all’avvenuta esposizione al rischio specifico amianto presso gli stabilimenti della Fiat spa, sicchè su tali accertamenti si era formato il giudicato e la sentenza di appello non poteva in alcun modo ritenersene investita.

Il motivo non è fondato.

Non può invero condividersi l’assunto del ricorrente secondo il quale si sarebbe formato il giudicato sulla sua avvenuta esposizione al rischio specifico amianto per mancata impugnazione del relativo accertamento contenuto nella sentenza del Pretore, atteso che la formazione del giudicato sui capi della sentenza di primo grado non investiti dall’impugnazione può verificarsi soltanto con riferimento ai capi di detta sentenza completamente autonomi, in quanto concernenti questioni affatto indipendenti da quelle investite dai motivi di gravame, perché fondate su autonomi presupposti di fatto e di diritto tali da consentire che ciascun capo conservi efficacia precettiva anche se gli altri  vengono meno, e non con riguardo ad affermazioni contenute nella sentenza stessa che costituiscano mera premessa logica della statuizione adottata (v. per tutte sul punto Cass. 15 settembre 1999 n. 9823, 9 novembre 1992 n. 12062).

Nel caso concreto, appare evidente che l’affermazione del Pretore circa la esposizione del Vayr  a fibre di asbesto nel periodo (dal settembre 1960 al dicembre 19) in cui fu occupato alle dipendenze della Fiat è inidonea al giudicato, in quanto non ha costituito una autonoma statuizione su questione controversa, ma è stata enunciata soltanto al fine di dare rilevanza a detta esposizione, in relazione alla pretesa del lavoratore di riconoscimento del beneficio della supervalutazione dei periodi di contribuzione previsto dall’art. 13, comma 8 , della legge n. 257 del 1992, che costituiva l’oggetto della domanda giudiziale dallo stesso proposta.

Al che è da aggiungere che il giudicato su un punto di fatto, sull’accertamento cioè di un fatto storico compiuto dal giudice per pronunciarsi sulla situazione di vantaggio dedotta in giudizio è del tutto estraneo al sistema, dal momento che la tutela giurisdizionale – e quindi la sentenza che di essa è il frutto – è strumentale all’accertamento della esistenza o inesistenza del diritto (o del rapporto) dedotti in giudizio come “petitum” o, al limite, come si sostiene da una parte della dottrina, di diritti distinti da quello controverso, ma integranti un elemento della fattispecie costituiva di esso (c.d. diritti pregiudiziali).

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 13 commi 7 e 8 della legge 27 marzo 1992 n. 257, come modificato dalla legge 4 agosto 1993 n. 271, errata applicazione della stessa norma nel testo modificato dal d.l. 5 giugno 1993 n. 169 non convertito in legge, falsa applicazione degli artt. 1 e 2 della legge n. 257/1992, omesso esame di fatti decisivi e di difetto assoluto di motivazione, di violazione del d.p.r. 13 aprile 1994 n. 336, vizio di motivazione illogica e contraddittoria. Sotto un primo profilo – la individuazione cioè dei soggetti destinatari del beneficio della rivalutazione – assume che il giudice di appello ha dato applicazione a una disposizione non convertita in legge (l’art. 13, comma 8, nel testo di cui al d.l. n. 169/1993) anziché alla norma vigente, costituita dal testo dell’art. 13, comma 8, introdotto dalla legge n. 271/1993, la quale ha esteso tale beneficio a tutti i lavoratori (indipendentemente dal settore merceologico di appartenenza del datore di lavoro) esposti al rischio derivante dall’inalazione di fibre di amianto. Sotto un secondo profilo – inerente alla esposizione a rischio – osserva che la tutela previdenziale non è limitata ai soli casi in cui vi sia stata esposizione di livello tale da determinare il concreto rischio di asbestosi, ma è estesa a tutti i casi in cui vi sia stata esposizione del lavoratore all’amianto (esposizione accertata nel caso concreto con statuizione non impugnata).

Questo motivo è fondato nei limiti delle considerazioni che seguono.

La questione sottoposta, nella prima parte, all’esame della Corte concerne l’interpretazione  dell’ottavo comma dell’art. 13 della legge 27 marzo 1992 n. 257, il cui testo vigente è il seguente: “Per i lavoratori che siano stati esposti all’amianto per un periodo superiore a dieci anni, l’intero periodo lavorativo soggetto all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dalla esposizione all’amianto, gestita all’INAIL, è moltiplicato, ai fini delle prestazioni pensionistiche, per il coefficiente di 1,5”.

La noma è il risultato di successive modifiche apportate in sede legislativa in quanto, nella sua iniziale formulazione, disponeva, ai fini del conseguimento delle prestazioni pensionistiche, la rivalutazione dei periodi di lavoro soggetti ad assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dalla esposizione all’amianto gestita dall’INAIL, quanto detti periodi superavano i dieci anni.

Una prima modifica dell’originario testo si ebbe con il decreto legge 5 aprile 1993 n. 95, che individuava nei lavoratori occupati nelle imprese di cui al comma 1 dell’art. 13 della legge n. 257 del 1992 (vale a dire, nelle imprese che utilizzano ovvero estraggono amianto, impegnate in processi di ristrutturazione e riconversione produttiva) i destinatari del beneficio della supervalutazione del periodo contributivo ed, affrontando per la prima volta il problema dell’oggetto della rivalutazione, disponeva che la stessa interessava “l’intero periodo” lavorativo soggetto all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dalla esposizione all’amianto, ponendo così fine a possibili operazioni ermeneutiche dirette a computare, invece, ai fini della supervalutazione dei contributi, solo il periodo eccedente i dieci anni di esposizione.

La non conversione del suddetto decreto e l’intento di delimitarne più chiaramente l’ambito operativo condussero al decreto legge 5 giugno 1993 n. 169 che, pur mantenendo la scelta di consentire la rivalutazione dell’intero periodo contributivo soggetto all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dalla esposizione ad amianto, limitava il riconoscimento del beneficio ai soli “lavoratori dipendenti dalle imprese che estraggono amianto o utilizzano amianto come materia prima, anche se in corso di dismissione o sottoposte a procedure fallimentari o fallite o dismesse”.

In sede di conversione il decreto n. 169/93, fu, però modificato perché non si ritenne equo fare riferimento alla tipologia delle imprese per delimitare la concessione del beneficio.

Con la legge di conversione 4 agosto 1993 n. 271 venne quindi eliminato il riferimento ai lavoratori di “imprese che estraggono o utilizzano amianto come materia prima …” e si seguì un soluzione – quella del testo normativo vigente – che, tenendo conto della capacità dell’amianto di produrre danni all’organismo in relazione al tempo di esposizione, consente una maggiorazione dell’anzianità contributiva per tutti i lavoratori che vi siano stati esposti per più di dieci anni, indipendentemente dal settore di appartenenza dell’impresa datrice di lavoro.

Che la lettura del comma 8 dell’art. 13 (come modificato) della legge n. 257/1992 dia necessariamente il risultato secondo il quale non sussistono limiti soggettivi per l’accesso al beneficio previdenziale è conclusione avvalorata dalle considerazioni svolte dalla Corte Costituzionale nella motivazione della sentenza 12 gennaio 2000 n, 5, con la quale il giudice delle leggi ha dichiarato non fondate le questioni di costituzionalità della norma, sollevate in riferimento agli artt. 3 e 81 della Costituzione. Ha rilevato, infatti, la Corte come la legge n. 271 del 1993 abbia soppresso la locuzione “dipendenti delle imprese che estraggono amianto o utilizzano amianto come materia prima …” di cui al convertito provvedimento di urgenza (d.l.  n. 169/93) al preciso scopo di soddisfare  “l’esigenza di attribuire centralità, ai fini dell’applicazione del beneficio previdenziale, all’assoggettamento dei lavoratori all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’amianto, escludendo, al tempo stesso, ogni selezione che potesse derivare dal riferimento alla tipologia dell’attività produttiva del datore di lavoro”.

Così individuato l’ambito (soggettivo) di operatività della menzionata disposizione, fondatamente il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata è incorsa in violazione della stessa, nella parte in cui ha ritenuto assorbente – per escluderne l’applicazione nel caso concreto – la considerazione che nessuna delle società datrici di lavoro aveva mai partecipato a processi produttivi di estrazione o lavorazione dell’amianto che la legge n. 297/92 imponeva di dismettere.

Né consegue che non poteva essere negato al Vayr il richiesto beneficio previdenziale -  ovviamente se e in quanto ricorressero tutti gli altri requisiti integranti la fattispecie descritta dall’art. 13, comma 8, della legge n. 257/1992 – per il solo fatto di aver lavorato alle dipendenze di imprese  diverse da quelle individuate nell’art. 13, comma 1, della stessa legge.

Altra questione è quella, sollevata nella seconda parte del motivo di ricorso, relativa alla esposizione a rischio.

Pacifico essendo in causa – posto che il Vayr non ha impugnato la statuizione del Pretore, che ne aveva accertato il diritto al beneficio della rivalutazione “quanto al periodo lavorato indicato sub 1” (vale a dire quello in cui lavorò presso lo stabilimento Grandi Motori di proprietà della FIAT s.p.a. dal settembre 1960 al dicembre 1973) – che il solo periodo di tempo considerabile, ai fini di una sua ipotetica esposizione a fibre di amianto, è appunto quello trascorso alle dipendenze della Fiat spa, osserva la Corte che, con la già citata sentenza n. 5 del 2000, la Corte Costituzionale ha dato una interpretazione dell’art. 13, comma 8, che rifiuta una estensione del beneficio da tale norma previsto a tutti indistintamente i lavoratori addetti, per oltre dieci anni, a lavorazioni che comunque li abbiano esposti ad inalazione di fibre di amianto. Corollario di un siffatto rifiuto è poi la necessità, a più riprese avvertita dal giudice delle leggi, di agganciare detta esposizione a dei chiari “standars” parametrici di rischio, che limitino la platea dei beneficiari e valgano a fondare la disposizione in esame su ragioni logico-giuridiche capaci di sottrarla ad ogni applicazione diretta a violare il fondamentale principio di cui all’art. 3 Cost. A tal fine, la Corte ha sottolineato la correlazione che il comma 8 dell’art. 13, opera con il sistema generale dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’amianto, gestita dall’INAIL, osservando quindi come, nell’ambito di tale correlazione, il concetto di esposizione ultradecennale venga necessariamente ad implicare quello di rischio – più precisamente, di rischio morbigeno rispetto alle patologie, quali esse siano, che l’amianto è capace di generare per la sua presenza nell’ambiente di lavoro – ed affermando come costituisca adeguato parametro di definizione del rischio di esposizione rilevante (ai fini del riconoscimento del beneficio previdenziale) il valore massimo di concentrazione dell’amianto nell’ambiente lavorativo fissato come soglia limite dal legislatore, sia pure a fini di prevenzione, nel decreto legislativo 15 agosto 1991 n. 277 e successive modifiche.

La lettura della norma seguita dalla Corte Costituzionale è stata oggetto di contrapposte critiche in dottrina, in particolare (per quanto interessa il presente giudizio) addebitandosi alla Corte di avere – con il richiamo al d.lgs. n. 277/91 e con il far coincidere l’esposizione richiesta dal comma 8 dell’art. 13 con le regole proprie della legislazione prevenzionale – finito per neutralizzare la portata precettiva delle norme sull’assicurazione obbligatoria contro le malattie causate da amianto (a partire dal d.p.r. 20 marzo 1956 n. 648, recante norme modificatrici della legge 12 aprile 1943 n. 455, istitutiva dell’assicurazione obbligatoria contro la silicosi e l’asbestosi, fino al recente d.p.r. 13 aprile 1994 n. 336), che individuano le lavorazioni a rischio come quelle che “comunque espongono alla inalazione di fibre di amianto” ed alla cui stregua dovrebbe riconoscersi il ricordato beneficio previdenziale anche a quei lavoratori inseriti in realtà produttive nelle quali, verificandosi dispersione di fibre di amianto, si presenta un rischio inferiore a quello richiesto per rendere operanti gli obblighi prevenzionali  di cui al menzionato d.lgs n. 277/1991.

Sennonché, per escludere la rilevanza delle norme del sistema delle assicurazioni sociali, al fine di individuare l’ambito applicativo del disposto dell’art. 13, comma 8 della legge n. 257/1992, è determinante la considerazione che la indicazione, nelle annesse tabelle, de “i lavori … che comunque espongono ad inalazione di polvere di amianto” risponde all’esigenza, sottesa a ciascuna lavorazione tabellata, di far ritenere provato il nesso eziologico tra malattia professionale e lavorazione. Altre finalità persegue invece il citato comma 8 dell’art. 13, atteso che il beneficio pensionistico è destinato ad operare in un diverso contesto fattuale, che prescinde dal verificarsi della malattia, sicché può affermarsi sinteticamente che, mentre quest’ultima disposizione spiega i suoi effetti antecedentemente all’infermità (che può anche non manifestasi), le disposizioni della legislazione antinfortunistica sono destinate, di contro, ad operare se ed in quanto si manifesti l’infermità tabellata.

Quanto poi all’obiezione, secondo cui si sarebbe introdotta, a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale, una innovazione diretta a contraddire tutte le regole sottese alle assicurazioni sociali perché volta alla monetizzazione del mero rischio e non della malattia, è agevole rilevare come una siffatta argomentazione non consenta in alcun modo di considerare illegittimi e privi di giustificazione sociale benefici, come quello in oggetto, che vengono attribuiti – in attuazione dei principi di solidarietà i cui è espressione l’art. 38 Cost. – in funzione compensativa dell’obiettiva pericolosità dell’attività lavorativa svolta.

Peraltro, sui contenuti e sulla portata  della indicata sentenza costituzionale, questa Corte si è già pronunciata (con decisione resa all’udienza 15 gennaio 2001 e poi pubblicata in data 3 aprile 2001 n. 4913, alla cui complessa ed esaustiva motivazione si rinvia), rilevando come l’applicazione dei generali criteri (letterale, sistematico e teleologico) di interpretazione della legge renda certa la conclusione cui il giudice delle leggi è pervenuto e come risponda a criteri di coerenza logica, da presumersi essere sottesi ad ogni intervento legislativo, ritenere che la legge n. 257 del 1992 abbia tenuto presente – nel momento in cui interveniva su un assetto industriale caratterizzato da un vasto panorama di imprese esposte in maniera differenziata al rischio amianto – il decreto legislativo n. 277 del 1991 (che difatti ha essa stessa provveduto a modificare tramite l’art. 3, comma 4); decreto che, in attuazione delle direttive europee (in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da agenti chimici), fissava, agli artt. 24 e 31, i limiti di concentrazione di fibre di amianto respirabili nei luoghi di lavoro, stabilendo anche, in caso di necessità di svolgimento dell’attività lavorativa e di impossibilità di rimuovere le cause di inquinamento con misure adeguate, “tutte le misure di protezione dei lavoratori addetti e dell’ambiente, tenuto conto del parere del medico competente” (cfr. commi 4 e 5 dell’art. 31).

Tanto porta ad escludere che il provvedimento normativo del 1992 abbia voluto attribuire il beneficio della rivalutazione nella specie rivendicato a tutti i lavoratori comunque esposti ad inalazione di polveri di amianto anche di minima entità, abbia voluto cioè attribuire detto beneficio anche ai soggetti destinati a spiegare la loro attività in ambienti in cui fosse presente una concentrazione di fibre di amianto destinata a rimanere al di sotto dei valori limite legislativamente  ritenuti a rischio e individuabili in quelli indicati negli artt. 24 e 31 del d.lgs. n. 277/1991.

E questa conclusione riceve un decisivo avallo della considerazione che una diversa interpretazione finirebbe per legittimare un notevole “sforamento” di ogni pur attendibile previsione di spesa, portando perciò a ipotizzare quella violazione dell’art. 81 Cost., che la Corte Costituzionale, nella ricordata sentenza, ha escluso sulla base della (più restrittiva) tesi che individua la necessità di un duplice requisito per l’acquisizione del diritto al beneficio di cui all’art. 13, comma 8, della legge n. 297/1992: vale a dire il dato temporale (almeno dieci anni di esposizione) e la presenza nell’ambiente di lavoro di una concentrazione di fibre di amianto superiore ai valori limite fissati dal d. lgs n. 277/1991.

La verifica della sussistenza di tali concorrenti presupposti dovrà, ovviamente, essere compiuta, tenuto conto della “ratio” e delle finalità che caratterizzano il beneficio in oggetto, avendo riguardo alla posizione del singolo lavoratore.

In tale compito valutativo il giudice del merito dovrà orientasi applicando i principi già fissati dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento all’assicurazione per le malattie professionali, e dovrà pertanto accertare – nel rispetto dei criteri di ripartizione dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 cod. civ. (sempre che non voglia avvalersi dei poteri di ufficio ad esso riconosciuti nel rito del lavoro) – se colui che ha fatto richiesta del beneficio previdenziale, dopo aver indicato e provato sia la specifica lavorazione praticata, sia l’ambiente dove ha svolto per più di dieci anni detta lavorazione, abbia anche dimostrato che tale ambiente presentava una concreta esposizione al rischio delle polveri di amianto con valori limite superiori a quelli fissati negli artt. 24 e 31 del ricordato d. lgs. n. 277 del 1991.

Per le ragioni fin qui esposte e nei limiti precisati il motivo di ricorso va accolto con rinvio della causa, previa cassazione sul punto della sentenza impugnata, ad altro giudice di merito, essendo necessario accertare se il ricorrente, nel periodo di tempo intercorso tra il settembre 1960 e il dicembre 1973, sia stato concretamente esposto per oltre un decennio al rischio di inalazione di polveri di amianto in misura superiore ai valori limite più sopra indicati.

Con il terzo motivo e con deduzione di violazione degli artt. 99, 100, 101 e 102 c.p.c., di omesso esame di fatti decisivi, di illogicità e contraddittorietà di motivazione, sostiene il ricorrente che la declaratoria di improponibilità della domanda nei confronti delle società del gruppo Fiat e dell’INAIL si fonda su una non corretta interpretazione del contenuto della stessa, che  era diretta, in ultima istanza, ad ottenere il riconoscimento del diritto previsto dall’art. 13, comma 8 della legge del 1992, essendo evidente che, per giungere ad una tale pronuncia, era necessario chiedere al giudice di accertare preliminarmente la sussistenza dei requisiti ai quali la legge del 1992 subordina il riconoscimento del beneficio previdenziale; accertamenti preliminari questi che, involgendo la esistenza di diritti soggettivi e obblighi propri del rapporto di assicurazione obbligatoria, non potevano che essere condotti in contraddittorio con i soggetti (datore di lavoro e INAIL) che tale assicurazione avrebbero dovuto per legge attivare. A sostegno della legittimazione passiva di tali soggetti in controversie come quella in oggetto, richiama il ricorrente anche la procedura amministrativa stabilita in sede congiunta da INPS, INAIL, Ministero del Lavoro e parti sociali, che ha previsto, ai fini del conseguimento del beneficio di cui all’art. 13 cit., la coesistenza di due dichiarazioni (nella specie omesse) rilasciate rispettivamente dal datore di lavoro e dall’INAIL ed attestanti l’avvenuta esposizione all’amianto del lavoratore e la durata di essa, prevedendo altresì che le conclusioni cui addiviene l’INAIL sono pregiudiziali e vincolanti nei confronti dell’INPS. A meno di voler sostenere che gli atti e comportamenti previsti alla normativa amministrativa in materia previdenziale sono del tutto facoltativi, sì che il lavoratore non potrebbe vantare nessun diritto di richiederne il rispetto, le conclusioni del Tribunale non possono non ritenersi errate.

Questo motivo non è fondato.

La domanda proposta dal ricorrente, come del resto lo stesso  appare riconoscere, aveva ad oggetto l’accertamento giudiziale del (suo) diritto alla rivalutazione contributiva prevista dall’art. 13, comma 8, della legge n. 257/92; e, rispetto a una domanda di tale contenuto, correttamente è stato affermato dal Tribunale che l’unico soggetto legittimato a stare in giudizio è l’INPS, non l’INAIL, né tantomeno, il datore di lavoro, posto che il beneficio richiesto, riguardando la rivalutazione secondo il coefficiente di 1,5 del periodo lavorativo per cui è durata l’esposizione al rischio amianto, al fine di un più rapido raggiungimento dell’anzianità contributiva utile per ottenere le prestazioni pensionistiche dell’assicurazione generale obbligatoria, ha, con tutta evidenza carattere pensionistico e il solo soggetto tenuto in ipotesi ad operare la prevista rivalutazione non può che essere l’INPS.

Né può sostenersi che l’accertamento dell’avvenuta esposizione del lavoratore a polvere di amianto nella misura legislativamente ritenuta a rischio per il prescritto periodo (ultradecennale), possa costituire, di per sé, oggetto di un’autonoma azione giudiziale nei confronti del datore di lavoro e dell’INAIL, trattandosi di un accertamento che non è preordinato alla tutela di specifici “diritti” o, comunque, a superare uno stato di incertezza oggettiva sulla esatta portata dei diritti e obblighi scaturenti dai rapporti con tali soggetti, ma riguarda una mera circostanza di fatto da cui eventualmente potrebbero anche derivare posizioni giuridicamente rilevanti – diverse da quelle attribuite dalla norma dell’art. 13, comma 8, della legge n. 257/1992 – tali da legittimarne la chiamata in causa (a titolo esemplificativo, si pensi che il lavoratore esposto che abbia contratto una malattia professionale da amianto può pretendere, nei confronti dell’INAIL, l’erogazione delle prestazioni oggetto del regime assicurativo contro le malattie professionali e che il danno biologico prodotto dalla insorgenza di una tecnopatia dà diritto al risarcimento dei danni a carico del datore di lavoro), sempre che, tuttavia, si tratti si posizioni specificamente dedotte in causa, ciò che non risulta nella presente controversia (vedi, in termini generali, Cass. 9 aprile 1986 n. 2488, 6 febbraio 1990 n. 819, 4 maggio 1996 n. 4124, 28 giugno 1997 n. 5819, 10 agosto 2000 n. 565).

Giuridicamente corretta è, pertanto, la decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto carenti di legittimazione passiva l’INAIL e i vari datori di lavoro di Vayr (Fiat spa, Iveco spa e Fiat Avio) e ha, per tale ragione, dichiarato improponibili le domande svolte nei loro confronti.

Con il quarto motivo sostiene il ricorrente che la sentenza impugnata viola gli artt. 91 e 92 c.p.c. e contiene una decisione illogica, carente e contraddittoria nella parte in cui definisce il regime delle spese, in quanto le società Iveco spa e Fiat spa erano intervenute in giudizio per ordine del giudice di primo grado, a seguito della eccezione della propria carenza di legittimazione passiva sollevata, con riguardo al periodo anteriore al 1977, dalla convenuta Fiat Avio spa. Il fatto che per scelta processuale della Fiat Avio spa fossero state chiamate a rispondere per tale periodo le altre società del gruppo, era circostanza che non poteva essere addebitata al Vayr, tanto più ai fini della liquidazione delle spese.

Anche quest’ultimo motivo non è fondato.

In proposito è sufficiente richiamare il costante insegnamento di questa Corte, alla stregua del quale il regolamento delle spese processuali è censurabile in sede di legittimità soltanto quando le spese siano poste, totalmente o parzialmente, a carico della parte totalmente vittoriosa, mentre esula dal sindacato della Corte di cassazione e rientra nel potere discrezionale del giudice la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (vedi, tra tante, Cass. 3 luglio 2000 n. 8889, 27 dicembre 1999 n. 14576, 4 gennaio 1995 n. 79, 29 gennaio 1990, n. 551).

Nel caso concreto è ovvio constatare che il giudice del merito non ha in alcun modo sovvertito il principio della soccombenza, dal momento che la domanda del Vayr è stata rigettata nei confronti dell’INPS e dichiarata improponibile nei confronti delle società Fiat spa, Iveco spa e Fiat Avio spa, nonché dell’INAIL; anzi la condanna del soccombente è stata temperata dalla parziale compensazione delle spese, poste a suo carico, per entrambi i gradi di merito, solamente per la metà.

In conclusione, il ricorso va accolto solo in relazione al secondo motivo e nei limiti più sopra indicati, con la precisazione che tale accoglimento vale nei soli confronti dell’INPS – unico soggetto passivamente legittimato rispetto alla domanda proposta dal Vayr – mentre va rigettato per il resto.

In relazione al motivo accolto, la sentenza d’appello deve essere cassata e la causa va rinviata ad altro giudice, designato nella Corte d’appello di Torino, per gli ulteriori accertamenti di fatto.

Provvedendo direttamente al regolamento delle spese del giudizio di cassazione, nell’esercizio della facoltà prevista dall’art. 385, terzo comma, c.p.c., ritiene la Corte di operarne la totale compensazione tra il ricorrente e tutte le altri parti, ravvisata la ricorrenza di giusti motivi.

 

P.Q.M.

 

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso per quanto di ragione nei confronti dell’INPS e rigetta per il resto il ricorso. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Torino. Compensa le spese del giudizio di cassazione tra il ricorrente e tutte le altre parti.

Così deciso in Roma il 16 marzo 2001.

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