Governo e D’Amato uniti nella lotta

 

Sembrava un’impuntatura tutta ideologica e semmai dettata da aspirazioni personali di carriera politica attribuite a Sergio Cofferati, quella sulla rigida difesa dell'articolo 18: che cosa sarà mai, dopottutto, una deroga così limitata e sperimentale alla giusta causa che coinvolgerà qualche centinaio di lavoratori? L'obiettivo della flessibilità in uscita -vale a dire del licenziamento senza reintegro- per così pochi casi non apre forse la porta alla crescita delle piccole imprese, all'emersione del sommerso, a nuove e cospicue assunzioni dl giovani disoccupati? La Cgil, ed ora con lei anche la Cisl, la Uil e perfino il sindacato di destra, non si accorgono di dividere la  generazione del padri ipergarantiti da quella dei figli che aspettano da anni fuori dai cancelli delle fabbriche, demotivati e senza diritti? “Scioperate contro i giovani e contro il futuro” aveva gridato Berlusconi e l' ha ripetuto ieri a gran voce, forte del suo recente accordo con Tony Blair.

Ci sono caduti in tanti in questa trappola, perfino commentatori ed economisti indipendenti, perfino onesti osservatori di appartenenza ulivista. E invece non era così, non è affatto così e avrebbe dovuto metter sull'avviso gli uomini di buona fede il fatto che la riforma dell'articolo 18 voluta dai governo e dalla Confindustria non aveva suscitato alcun entusiasmo proprio in quella fascia di piccole imprese del nord e del nord-est che avrebbero dovuto esserne le principali destinatarie e beneficiarie. E in quel vastissimo settore rappresentato dalla Confcommercio che costituisce l'ossatura dell'economia terziaria. Che cosa c'era sotto l'indifferenza del potenziali beneficati? In realtà c'era e c'è la consapevolezza che se la piccola impresa non cresce oltre la soglia dei 15 dipendenti la ragione non risiede affatto nel timore di entrare nell'universo del lavoro garantito dalla giusta causa.  Le ragioni del nanismo, che peraltro non ha affatto impedito quel vero e proprio miracolo economico che ha trasformato l’Italia da Novara a Varese, da Mortara a Piacenza, da Bergamo a Treviso, a Pordenone, a Udine, a Bolzano, a Ferrara, a Vicenza, a Brescia, a Verona, alle Marche e a tutta la costiera adriatica.

Quel nanismo è determinato dalla volontà dei piccoli e piccolissimi imprenditori di mantenere l'azienda al livello del nucleo familiare, di non avere altri padroni che se stessi, di accettare tutt'al più la costruzione di reti consorziali ma non di affrontare il mare aperto dell'economia finanziaria, dell’azionariato, del management distinto dalla proprietà.

In grande Berlusconi imprenditore docet.

Del resto il limite dei 15 dipendenti che tratterrebbe la crescita delle piccole imprese e quindi la maggiore occupazione se svincolata dalla remora della giusta causa, è assai poco affollato. La massa dei piccoli imprenditori "fai-da-te" si colloca attorno a gli 8-12 dipendenti. Come mai quelle decine e anzi centinaia di migliaia di aziende non si affrettano a colmare il vuoto di potenziale e desiderata occupazione attestandosi al confine dei 15 occupati ? Dunque non è questa la filosofia che ispira il governo e la Confindustria.

E non è neppure quella di favorire l'emersione dal sommerso perché esso non ha alcuna intenzione di emergere. Si sente protetto dalla sua imprendibilità contributiva, fiscale, salariale. E infatti se ne rimane acquattato nei suoi anonimi rifugi nonostante le proroghe e gli sconti di più in più consistenti che il ministro Tremonti offre e concede di mese in mese, di settimana in settimana, allungando all'infinito i termini di scadenza per l'emersione.

I sommersi sarebbero forse (forse) disposti ad emergere solo a patto di conservare per sé e per i propri eredi e successori uno specialissimo statuto permanente che gli garantisca tutte le franchigie delle quali godono attualmente. Ma mentre questa è la richiesta e la contropartita desiderata, gli stessi richiedenti si rendono ben conto che un siffatto statuto permanente senza limiti di tempo andrebbe a sbattere contro il dettato costituzionale e contro le direttive europee che non ammettono sul mercato una categoria di soggetti privilegiata da una condizione così speciale. Perciò i sommersi non emergono e non emergeranno. Ci vuol altro per convincerli che non l'esenzione dal reintegro del dipendente licenziato senza motivo.

(Sia detto qui di passata: la norma prevista in legge delega di stabilire solo per le aziende meridionali la licenziabilità senza reintegro crea anch'essa una disparità di trattamento territoriale che potrebbe provocare con ogni probabilità una sentenza annullatoria da parte della Corte costituzionale e ampie contestazioni dalla Commissione di Bruxelles. Si vedrà).

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Qual è dunque il motivo di questa "spallata" che il governo - questa volta compatto in tutte le sue componenti – ha deciso di effettuare sotto braccio alla Confindustria?

Berlusconi sapeva benissimo, e D'Amato altrettanto, che prender di petto il sistema delle garanzie sul lavoro avrebbe ricompattato le tre organizzazioni sindacali. Avrebbe, come ha detto proprio ieri il leader della Cisl, scatenato una risposta sindacale «che andrà molto al di là dello sciopero generale unitario e durerà a lungo con modalità impreviste e dolorosamente incisive sulla pace sociale». Non è Cofferati a indicare queste preoccupanti prospettive, ma il moderato e prudente Pezzotta, quello che Fini e Maroni credevano d'aver già nella manica.

Tutto questo per sancire legislativamente una misura che riguarderebbe a titolo sperimentale qualche centinaio di licenziamenti adeguatamente risarciti e favorirebbe qualche migliaio di nuovi eventuali occupati? Uno sconquasso di tali dimensioni, il superamento di ogni divergenza non solo tra i sindacati ma tra l'opposizione sindacale e quella politica: insomma una montagna di guai per l'economia italiana e per lo stesso governo che partorisce il topolino della delega limitata e sperimentale?

Via, non è credibile. Dietro a questa facciata di apparenti e inesplicabili stupidità c'è qualche cosa di assai più sostanziale e corposo, che non è difficile individuare. Del resto è stato lo stesso presidente del Consiglio a fornirne la traccia nella conferenza stampa di ieri durante il vertice di Barcellona. 

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Un segnale preciso proviene dal progetto di decontribuzione del 3-5 per cento riservato ai lavoratori neo-assunti dalle imprese sulla base della legge Tremonti. Il vantaggio per le aziende è notevole (per il lavoratore-contribuente è assai più modesto). L'obiettivo che la proposta vorrebbe realizzare sarebbe meritevole di appoggio: ridurre la differenza tra il costo del lavoro e il salario netto in busta paga. Ma lo sarebbe se quella decontribuzione fosse messa a carico della fiscalità generale, cioè dell'intera collettività. Viceversa non è affatto così: il governo ritiene e spera (spera) che la minor contribuzione, quindi il minor introito nelle casse dell'Istituto di previdenza, quindi le minori risorse per far fronte alle future pensioni dei lavoratori giovani, siano colmati dalla pensione integrativa erogata dai fondi-pensione.

Questa speranza è molto improbabile. Calcoli recenti effettuati da fonti attendibIlI (ne dà conto il Sole-24 Ore di ieri) stimano che il rendimento delle pensioni integrative non colmerà in nessun caso le minori erogazioni dell' Inps derivanti dalla decontribuzione. Senza dire che la pensione integrativa era stata pensata non già per compensare la diminuzione della pensione obbligatoria ma per accrescerla.

Pensate al momento in cui la decontribuzione andrà a regime: il deficit di contributi derivante da questa normativa si sommerà a quello ancor più massiccio derivante dall'invecchiamento della popolazione. Risultato inevitabile: una diminuzione drastica della copertura previdenziale. Ha detto Berlusconi nella conferenza stampa di ieri: «Se avessi saputo che avrebbero scioperato comunque per la bazzecola dell'articolo 18 gli avrei dato almeno buone ragioni per scioperare».

A Barcellona i giornalisti si sono interrogati a lungo sul significato recondito di questa enigmatica frase. Non tanto recondito, anzi molto chiaro: pensioni a sessantacinque anni e taglio delle erogazioni della pensione obbligatoria. Se mettete questi obiettivi in parallela sintonia col piano Sirchia, cioè con il taglio delle prestazioni gratuite da parte del Servizio sanitario nazionale, avrete la visione esatta (e temo incompleta) del programma della destra.

Lo scontro sull'articolo 18 assume in questo quadro il ruolo dell'apertura del gioco in una partita a scacchi: l'apertura e i suoi esiti successivi hanno il compito di determinare l'intero andamento della partita; quello dei giocatori che "subisce" l'apertura di gioco continuerà a subire l'iniziativa dell'avversario fino al termine della partita.

Questa era ed è la posta in gioco, sia per i vecchi lavoratori e pensionati sia per i lavoratori giovani e pensionabili in futuro. Per fortuna il sindacato l' ha capito in tempo, perciò la partita è rimasta aperta e le mosse di apertura del governo non hanno funzionato come trappola che avrebbe dovuto dividere i sindacati e isolare la Cgil anche dal suo naturale retroterra politico.

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Ma dunque, obietteranno gli onesti economisti fiduciosi nelle virtù del mercato, la flessibilità del lavoro in entrata ma anche in uscita non ci sarà mai nel nostro Paese? In America c'è e a quanto pare funziona. In Gran Bretagna anche. Ormai si fa strada dovunque nel prospero Occidente. La Comunità europea lo raccomanda vivamente e così l'Ocse, e così il Fondo monetario e così la Banca centrale europea. Il governatore Fazio con quel tema ci fa i gargarismi tutti i giorni, salvo elevare contemporanee omelie a sostegno dei ceti deboli. Pensa forse, il governatore, ai balli di beneficenza organizzati da qualche onorevole Santanchè o ad altri consimili e commendevoli iniziative?

Michele Salvati, economista che stimo e di cui mi dichiaro amico, ha posto anche a me questi dubbi suoi e di altri suoi colleghi e in un recente articolo su questo giornale ha ricordato che anch'io qualche tempo fa mi ero detto favorevole ad accrescere il tasso di flessibilità del lavoro.

E’ vero, l' ho detto e lo ridico. Ma Salvati e quelli che la pensano come lui dimenticano  un elemento della massima importanza e questo elemento è il tempo.Non scordatevi mai, voi economisti, voi sociologi, voi politici, voi filosofi, del tempo, dei suoi ritmi, delle sue scadenze.

L'economia di tutto il mondo va verso la flessibilità che frantuma le classi, travalica i confini e le culture, scompagina assetti che sembravano duraturi, scuote radici, famiglie e istituzioni.

Ci si può globalmente opporre a questo movimento tellurico ma è illusorio (ammesso pure che fosse utile) sperare di arrestarlo. Quel movimento andrà avanti. Il problema è dunque di governarlo. Dico cose già dette e me ne scuso.

Governare la flessibilità per quanto riguarda il lavoro significa preparare in via preliminare il quadro normativo entro il quale collocarla. Quindi preparare i nuovi ammortizzatori sociali a cominciare dallo stipendio sociale per i disoccupati; preparare il nuovo statuto dei lavoratori e dei diversi lavori che potranno ricoprire durante la loro vita operativa; includere in queste normative anche gli immigrati, residenti ma non cittadini; significa armonizzare o almeno coordinare i sistemi di previdenza e di assistenza entro il perimetro dell'Unione europea.

Tutte queste cose vanno fatte prima e soltanto a quel punto le rigidità potranno lasciare il posto alle nuove e più ampie flessibilità.

Si tratta dunque, amico Salvati, di una questione di priorità e di tempistica. Prima si comincia da quel che serve ai lavoratori, giovani e vecchi; garantiti o esclusi dal circuito delle garanzie, poi cadranno le rigidità. E a chi obietta che è meglio l'uovo oggi che la gallina domani rispondo che l'uovo è già entrato in gioco, e da due anni l'occupazione è in aumento e la disoccupazione in calo, e un livello accettabile di flessibilità è già stato utilmente introdotto. Ma che nessuno ancora ha posto mano ai nuovi diritti e alla loro codificazione, meno che mai il governo di Berlusconi Fini e Bossi.

Questo è dunque il significato della lotta che si è accesa sul terreno del lavoro. Metteteci tutto il resto, dalla legalità all'informazione, e vedrete se vale la pena dibattersi.

Io credo di sì.

Eugenio Scalfari

(articolo di fondo in “la Repubblica” del 17.3.2002, p.1-17)

 

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