Dopo la flessibilità cosa? Riflessioni sulle politiche del lavoro

 di Luigi Mariucci

(Il saggio è destinato agli Scritti in onore di Giorgio Ghezzi ed è pubblicato sul n. 4/2004 della Rivista giuridica del lavoro)

Sommario: 1. L’errore strategico della recente legislazione sulla flessibilità del lavoro. 2. Dopo la flessibilità cosa? Gli orientamenti di fondo. 3. Ridurre la flessibilità. Come. 4. Regole della rappresentanza sindacale 5. Concertazione e assetti istituzionali 6. Conclusioni

 

1.  L’errore strategico della recente legislazione sulla flessibilità del lavoro.

        Massimo D’Antona scriveva già nel 1993, in relazione alle misure sulla flessibilità del lavoro previste dal protocollo del 23 luglio: “è un programma che ha il limite evidente di ripercorrere sentieri battuti. L’idea che quote aggiuntive di flessibilità nelle tipologie dei rapporti di lavoro possano produrre occupazione è palesemente obsoleta. Il mercato del lavoro è ormai in Italia flessibilizzato in misura più che adeguata alle esigenze effettive delle imprese e non vi sono margini ulteriori per creare convenienze alle assunzioni”[1]. Dieci anni dopo invece sono entrati in vigore la legge delega n. 30 del 14 febbraio 2003 sulla “riforma del mercato lavoro” e il d. lgs. n. 276 del 10 settembre 2003, corretto dal successivo d. lgs. n. 251 del 6 ottobre 2004 e accompagnato da una miriade di decreti e circolari ministeriali. Si tratta di un materiale normativo imponente: il solo d. lgs. n. 276 del 2003 contiene 86 articoli, molti dei quali composti da decine di commi. In termini di semplificazione c’è di che rimpiangere i 41 articoli dello Statuto dei lavoratori del 1970 e le asciutte norme (artt. 2094-2134) del codice civile del 1942.

Questo complesso intervento legislativo si è fondato su un presupposto. Si supponeva che il mondo occidentale fosse alle soglie di una nuova crescita. La terapia, per l’Italia, era quindi conseguente: si trattava di favorire l’aggancio a quella crescita, in particolare liberalizzando il mercato del lavoro, nella doppia linea di ridurre le protezioni per i lavoratori occupati e di allargare a dismisura le forme flessibili di lavoro, sub specie di contratti c.d. atipici. L’intervento legislativo si è quindi realizzato attraverso la seguente sequenza: generalizzata liberalizzazione del collocamento, moltiplicazione delle figure flessibili di contratto di lavoro subordinato, dal part-time elasticizzato al lavoro a chiamata, dalla somministrazione di lavoro a tempo indeterminato al lavoro occasionale, quindi flessibilizzazione del rapporto tra le fonti mediante un insieme di rinvii legislativi a una contrattazione collettiva indeterminata sotto il profilo della dimensione degli stessi contratti, da stipularsi da parte di “sindacati comparativamente più rappresentativi”, essendo in genere considerati fungibili i diversi livelli, nazionali, territoriali e aziendali di contrattazione; misure di liberalizzazione dei trasferimenti di ramo d’azienda e delle diverse tecniche di esternalizzazione, con particolare riferimento agli appalti, infine flessibilizzazione della stessa fattispecie costitutiva del diritto del lavoro, il lavoro subordinato, attraverso l’introduzione della ambigua nozione di lavoro a progetto e delle insidiose procedure di c.d. certificazione[2].

Tale disegno era stato enunciato già dal “libro bianco del lavoro” pubblicato dal governo nell’ottobre 2001. Basti ricordare alcune formulazioni di quel documento: “continuare ad accrescere la flessibilità del mercato del lavoro”, necessità del “passaggio da una politica dei redditi a una politica della competitività”, “dalla concertazione al dialogo sociale”, “rimodulazione delle tutele” sono le parole chiave[3]. Il successivo d.d.l. n. 848 presentato dal governo il 15 novembre 2001 dimostrava poi che il cuore di quel progetto riguardava essenzialmente due obiettivi: la flessibilizzazione del rapporto “tipico” di lavoro, per un verso, essendo evidente che l’insieme di deroghe proposte alla disciplina di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori comportava una sua sostanziale e progressiva sterilizzazione[4] e la destabilizzazione del sistema sindacale, per l’altro, attraverso la messa in mora delle pratiche di concertazione, considerate bloccanti e comunque disfunzionali, e la stessa esplicita teorizzazione dell’accordo “con chi ci sta”, di cui è stata emblematica espressione il “patto per l’Italia” del 5 luglio 2002[5]. Entrambi gli obiettivi sono stati mancati.

Infatti il disegno di legge originario è stato poi scorporato in due parti. Una sezione di quel testo è entrata in vigore con la legge n. 30 e il d. lgs. n. 276 del 2003. Invece la seconda parte (d. d. l. n. 848 bis) relativa alle modifiche dell’art.18 e alla riforma degli ammortizzatori sociali giace ancora in Parlamento. Cosicché della disciplina dei licenziamenti, la cui riforma era invocata a gran voce come strumento essenziale per promuovere nuova occupazione, non si sono neppure modificate le parti che invece meritavano di esserlo, quali l’accelerazione delle procedure per le controversie giudiziarie. Nel corso di una recente audizione al Senato i rappresentanti della stessa Confindustria hanno dichiarato di non essere più interessati al tema. Si è ingaggiata quindi una vana battaglia, che tuttavia ha occupato la scena politica e sociale per circa due anni: un pomo della discordia alla resa dei conti inutile. Assieme alla invocata modifica dell’art.18 dello Statuto sono rimaste al palo le nuove norme sull’arbitrato e soprattutto sugli ammortizzatori sociali, per i quali non sono disponibili risorse, mentre proseguono imperterriti gli interventi straordinari sulle crisi aziendali anche mediante prepensionamenti ovvero mobilità c.d. lunga, sulla falsariga delle vecchie normative di cassa integrazione[6]. Quanto ai rapporti sindacali si è aperta una nuova fase descrivibile in termini di unità d’azione, comunque lontana dalle contrapposizioni verificatesi al tempo dell’effimero, quanto ridondante nel titolo, “patto per l’Italia”, ed emblematizzata dalla proclamazione di scioperi generali unitari contro il progetto di legge finanziaria per il 2005.

Il disegno qui descritto si è rivelato inefficace perché fondato su un presupposto errato. Non era vero infatti che all’inizio del nuovo millennio il mondo capitalistico-occidentale avesse di fronte a sé una nuova e lineare fase di crescita, nella prospettiva di una irenica e felice globalizzazione. Dopo l’attentato dell’11 settembre alle due torri, e gli interventi in Afghanistan e in Irak, il mondo si è avventurato invece in una micidiale spirale di guerra-terrorismo. Le economie occidentali sono entrate in una fase di depressione, alimentata anche da clamorosi scandali finanziari che hanno svelato i caratteri di una vera e propria “economia della truffa”[7]. In Italia poi si è avviata una tendenza generalmente definita dalle più diverse e autorevoli fonti in termini di perdita di competitività del sistema, basso tasso di innovazione tecnologica, caduta del potere d’acquisto delle retribuzioni e conseguente riduzione dei consumi, rinnovata crisi della finanza pubblica: nessuna delle analisi serie dei fattori del “declino italiano” indica nella rigidità dell’uso della forza lavoro la radice dei problemi, e nelle misure di flessibilizzazione del lavoro la terapia. Basta questo per concludere che è meglio concentrarsi sul modo in cui rettificare gli errori concettuali di fondo di quel disegno, piuttosto che occuparsi della modesta dimensione attuativa dei provvedimenti in oggetto.

Tuttavia si può osservare che quanto alla concreta attuazione della normativa, nonostante l’enfasi ministeriale[8] i dati empirici risultano alquanto scarni: del lavoro a chiamata non si hanno tracce, se non per qualche clausola di contratti collettivi in settori marginali e per un decreto ministeriale il quale ha disposto che il lavoro intermittente possa essere svolto niente meno che per le attività discontinue di cui alla tabella allegata al regio decreto del 1923 sull’orario di lavoro; quanto alla somministrazione del lavoro a tempo indeterminato sembra si debba registrare un solo e isolato caso; sul piano dei soggetti legittimati alla intermediazione del lavoro si registra una situazione confusa, mentre nessun esito concreto ha avuto la scelta di individuare negli enti bilaterali “la sede privilegiata per la regolazione del mercato del lavoro” secondo la dizione di cui alla lett.h), art.2 d. lgs. n. 276/2003; modesto e ambiguo risulta l’effetto della trasformazione dei cococo (collaborazioni coordinate e continuative) in cocopro (lavori a progetto), tra cococo che rimangono sulla base delle ampie eccezioni previste dal d. lgs. n. 276, trasformazione dei cococo nella incerta e altrettanto precaria figura dei cocopro, trasformazione dei cococo in partite Iva e altre forme di aggiramento della legge; della certificazione dei contratti di lavoro non si hanno tracce concrete, salvo l’emanazione di decreti e circolari che incrementano il crescere geometrico della produzione cartacea, senza alcuna vera interlocuzione con i processi sociali concreti. Vi sarà tempo in ogni caso di procedere a una puntuale verifica da svolgersi con metodo empirico scevro da ogni pregiudiziale.

La debolezza del disegno legislativo in oggetto, al di là della esiguità del suo profilo attuativo, sta comunque in un punto di fondo. Quel disegno, come si è detto, in nessun modo ha interagito con i processi di crisi industriale e sociale verificatisi negli ultimi anni. La controprova viene da una sommaria osservazione dei più rilevanti conflitti sociali accaduti in questo periodo. Se si guarda alla crisi Fiat, al crack Cirio e Parmalat, alla crisi Alitalia, ai conflitti aperti in tutti i più rilevanti settori pubblici è facile rilevare che nessuno, in questi casi, ha indicato nella rigidità del lavoro e nella adozione di misure di flessibilizzazione la questione di fondo. Il problema è evidentemente un altro. Si prenda il caso Fiat: la flessibilità del lavoro in alcun modo è stata evocata come rimedio alla crisi strutturale di quella storica industria nazionale. Oppure il caso Alitalia: la crisi della compagnia di bandiera è stata affrontata con la stipulazione di un accordo di carattere concessivo, in ordine non solo alle procedure di riduzione di oltre 3000 unità di lavoro ma anche alla ridefinizione degli assetti retributivi e dei contenuti della prestazione di lavoro per i dipendenti la cui occupazione viene salvaguardata. Ma non risulta che sia stato impiegato nessuno degli strumenti previsti dal complesso armamentario della legge n. 30, salvo un marginale riferimento alle normative sul distacco. Che dire poi degli altri punti forti del conflitto sociale: lo sciopero degli autoferrotranviari di Milano che in violazione delle regole di legge ha bloccato quella città per una intera giornata, la lotta degli operai di Melfi, l’agitazione nel pubblico impiego, dalla sanità alla scuola. In conclusione: la legge n. 30 del 2003 non ha “parlato” con nessuno dei più significativi conflitti sociali degli ultimi anni. Basta questo a dire che si è trattato di una legge più che sbagliata “sfasata”, la cui entrata in vigore è coincisa con una diffusa consapevolezza del suo essere fuori contesto.

Per meglio spiegare l’affermazione si può fare un parallelo con l’entrata in vigore di un’altra legge, in un diverso periodo storico: lo Statuto dei lavoratori del 1970. Anche quella legge aveva alcuni punti deboli e fu sottoposta a una valutazione critica da parte della dottrina giuslavoristica: si parlò infatti di una “legge malfatta”[9]. Ma essa, nonostante i suoi limiti, aveva dalla sua parte una virtù: fu l’espressione autentica di una fase di evoluzione sociale e politica, comunicò con i conflitti sociali e con la politica di allora. Perciò, nonostante le sue “rughe”[10] resta tutt’oggi attuale e consiste in un prodotto normativo duraturo. Al contrario la congerie di norme introdotte dalla legge n. 30 del 2003 e dai successivi provvedimenti attuativi sembra costruita sulla sabbia, in attesa di una piccola marea destinata a cancellarla.

La terapia si è rivelata dunque inefficace perché era sbagliata la diagnosi. Il problema dell’Italia non è quello di destabilizzare il sistema di garanzie del lavoro dipendente attraverso politiche di flessibilizzazione estrema dell’uso della forza-lavoro, inseguendo una tardiva e irrealistica imitazione del modello americano o affrontando la competizione globale sulla base di una impraticabile gara alla riduzione dei costi e delle tutele del lavoro[11]. Al contrario: il paese deve puntare sulla qualificazione del suo tessuto produttivo e professionale. E’ lo stesso problema che ha l’Europa. Non ha caso il “libro bianco del lavoro” del 2001 invocava a sostegno della sua strategia una accezione di politiche del lavoro europeo del tutto parziale: leggendo quel testo sembrava che l’Europa ci chiedesse a gran voce l’abrogazione della tutela reale contro i licenziamenti illegittimi, l’introduzione del part time elasticizzato, il lavoro a chiamata, la somministrazione di manodopera, la destrutturazione dell’intervento pubblico sul mercato del lavoro. Era una visione più che iper-liberista scolastica[12]. Al contrario l’Europa chiede oggi a se stessa, specie dopo l’allargamento[13], un’altra cosa: un aggiornamento dei modelli di protezione sociale e di Welfare coerente con la sua tradizione. Questa del resto è l’unica via attraverso cui sia possibile pensare l’Europa come un soggetto della scena globale, capace di promuovere nuove regole della competizione, specie dopo le sfide costituite dall’allargamento della Unione europea e dalla firma della nuova Costituzione europea effettuata a Roma nell’ottobre 2004[14].

Azzardo qui una valutazione, rischiosa come tutte le indicazioni “sul futuro”, secondo quanto ha ricordato Giuliano Amato nel presentare una antologia postuma degli scritti di Federico Mancini[15]. L’epoca della ideologia della flessibilità, intesa come valore in sé, come criterio discretivo dirimente, quasi fosse una dimensione necessaria del pensiero è in via di esaurimento. Va elaborato un nuovo orientamento il quale non può essere di segno nostalgico all’insegna di una sia pure involontaria laudatio temporis acti. A questo fine non basta una impostazione di tipo semplicemente correttivo, come quella pure meritoriamente proposta da chi ha suggerito la formula di una flessibilità “mite” ovvero “temperata”[16]. Occorre qualcosa di più.

Una prima ipotesi è stata individuata nell’ambito di una cosiddetta “strategia dei diritti”. E’ questa l’impostazione che ha caratterizzato l’iniziativa della Cgil nei primi anni 2000. E’ sembrato in quel periodo che affermazioni quali “diritti del lavoro uguale diritti di libertà” ovvero “i diritti del lavoro sono la radice più profonda dei diritti di libertà” tornassero ad avere un senso comune, che fossero capaci di una efficace comunicazione sociale e politica, e che quindi il tema dei diritti del lavoro assumesse di nuovo un significato forte, orientativo delle politiche pubbliche. Che su quella base si potesse fondare perciò una nuova piattaforma di politica del diritto in cui al lavoro veniva restituito un rilievo essenziale. Non è stato così. Il lavoro è tornato nel silenzio e ha perso di nuovo la capacità di determinare l’agenda politica, nonostante il persistere e anzi il diffondersi di rilevanti conflitti sociali. Bisogna quindi prendere atto che i temi del lavoro non sono considerati dalla politica ufficiale come temi cardinali, ma solo accessori. Quella strategia si è rivelata quindi utile sul piano difensivo ma inefficace su quello propositivo, come ha rivelato la successiva e perdente iniziativa del referendum svolto nella primavera del 2003 sullo stesso art. 18 dello Statuto dei lavoratori, mirata alla estensione alle piccole imprese della tutela reale contro i licenziamenti illegittimi e risultata sconfitta per mancato raggiungimento del quorum[17].

C’è bisogno di una nuova elaborazione in ordine al significato e al valore dei diritti/doveri del lavoro subordinato nelle società contemporanee. Poiché di questo in effetti si tratta: del modo in cui la cultura e il pensiero giuridico-politico affrontano nel mondo di oggi la gigantesca espansione su scala globale del classico lavoro subordinato, con buona pace delle dissertazioni sull’esaurimento del criterio della subordinazione come discrimine giuridico tra le diverse forme di lavoro a favore di un lavoro c.d. “senza aggettivi”, ritagliato su una analisi riferita a un piccolo e privilegiato specchio di mondo, quello dei paesi occidentali. Non basta proclamare l’esistenza dei diritti umani, dei diritti fondamentali, dei diritti di cittadinanza e non-discriminazione dichiarati già ai tempi della grandi rivoluzioni del ‘700[18]. Questo non basta in ogni caso al diritto del lavoro, il quale non può che vivere nella realtà. Non può essere una disciplina in cui si discetta di diritti tanto sacrosanti quanto astratti perchè sganciati da ogni verifica di effettività. E’  lungi da chi scrive l’idea che la proclamazione dei diritti consista in un esercizio retorico, e alla resa dei conti inutile. E’ ben chiaro infatti che anche la semplice acquisizione formale dei diritti consiste di per sé in un progresso della civiltà giuridica. Anche se i diritti proclamati sulla carta non sono realizzati è necessario che restino scritti, per mantenere viva la tensione tra diritti e realtà. In altri termini, il fatto che non tutti gli italiani abbiano un buon lavoro e non tutti gli americani siano effettivamente felici non comporta l’inutilità dell’art.4 della costituzione italiana o della norma della costituzione americana sul “diritto alla felicità”. Tra norma e fatti è bene infatti che sia mantenuta viva una dialettica, purchè si sia consapevoli della tensione contraddittoria tra i due termini, e  non si confonda qualche buona sentenza delle corti internazionali, a partire da quelle della corte di giustizia europea, con la dimensione effettiva delle condizioni concrete di lavoro e di vita. Quei diritti si tratta infatti di inverarli nelle società di oggi, il che è tutt’altro paio di maniche. Ciò vale in particolare per il diritto del lavoro, il quale vive come disciplina proprio in ragione della necessaria e particolare interazione tra diritti individuali, poteri collettivi e norme imperative di legge. Infatti il diritto del lavoro più di altri rami del diritto è condannato alla concretezza. Essendo esposto sulla frontiera più avanzata dei rapporti tra economia, società e diritto, ad esso non tocca mai una condizione di stabilità e di equilibrio. In questo consiste la fragilità della materia, ma anche il suo fascino[19].

   

    2.  Dopo la flessibilità cosa? Gli orientamenti di fondo.

       E’ quindi aperto un grande interrogativo, anzitutto sul piano concettuale e teorico. Appunto, dopo la flessibilità cosa? La flessibilità ha ispirato con diversi accenti la legislazione lavoristica da trent’anni a questa parte. Si provi a fare un passo indietro. Immaginiamo di tornare agli anni ’70. Era appena entrato in vigore lo statuto dei lavoratori, che nel suo intreccio tra garanzia dei diritti individuali e promozione dei diritti sindacali aveva cambiato radicalmente la struttura dei rapporti di lavoro e le relazioni sociali. Qualche anno dopo (nel 1975) fu sottoscritto un accordo sindacale dal significato epocale, l’accordo c. d. Lama - Agnelli sul “punto unico di contingenza”. A quel tempo la struttura retributiva del lavoro dipendente era fatta così: ogni tre mesi l’Istat rilevava l’indice di incremento dei prezzi, e di seguito venivano automaticamente adeguate le retribuzioni di tutti i lavoratori dipendenti; gli scatti di contingenza si applicavano poi sugli istituti della retribuzione differita, quindi rivalutavano gli scatti di anzianità già maturati e l’indennità di anzianità che allora si conteggiava moltiplicando l’ultima retribuzione per ogni anno di lavoro; in alcuni settori esistevano persino scale c.d. anomale, che comportavano aumenti in percentuale della retribuzione determinando così, con i vari ricalcoli, incrementi reali di salari e stipendi. Quel mondo era sottoposto a forti contestazioni, ma visto oggi, a trent’anni di distanza, sembra il paese di Bengodi. Come si può descrivere altrimenti un assetto retributivo del lavoro dipendente che essendo fondato sulla indicizzazione di salari e stipendi impediva di scaricare sul lavoro produttivo i costi della inflazione? Questo era infatti esattamente il senso di quell’accordo, sottoscritto non da dilettanti ma dai più autorevoli rappresentanti del mondo del lavoro e dell’industria del tempo: un “patto tra produttori”, diretto a mettere al riparo dall’inflazione la retribuzione del lavoro appunto produttivo. Quel sistema non poteva reggere: infatti a fronte di tassi di inflazione arrivati rapidamente a percentuali sudamericane si avviò una lunga fase di interventi legislativi mirati a ridurre le rigidità retributive: così prima furono sterilizzati gli effetti della contingenza sugli altri elementi retributivi, in particolare scorporando la scala mobile dal calcolo della indennità di anzianità, poi furono progressivamente eliminati, per via legislativa e contrattuale, i vari automatismi composti[20], infine si aggredì il nucleo di quel sistema ridimensionando e infine abolendo la stessa scala mobile: il tragitto di tali interventi va dal 1977 al 1992. Si trattò di una lunga “legislazione dell’emergenza”, dato che il provvedimento conclusivo sul superamento della scala mobile, definitivamente sancito dal protocollo del 23 luglio 1993, fu adottato a ridosso di una fase drammatica, caratterizzata dal crollo della prima Repubblica e dalla presentazione dei suoi disastrosi conti finanziari: dal 1980 al 1992 il debito pubblico era cresciuto infatti di ben otto volte. Guardata a ritroso quella fase può quindi essere descritta in termini di un massiccio ricorso a interventi di flessibilità sul punto cruciale del rapporto di lavoro: l’assetto retributivo. Cosicché oggi non c’è più la scala mobile, ma un sistema di adeguamento ex post delle retribuzioni al costo della vita, definito come “scala mobile carsica”e fondato sulla c.d. indennità di vacanza contrattuale, a seguito del quale specie dopo l’adozione dell’euro, che ha determinato una svalutazione di fatto della vecchia lira a fronte della nuova moneta particolarmente accentuato in Italia rispetto agli altri paesi europei, si è registrata una erosione di salari, stipendi e pensioni ben superiore alle cifre dichiarate ufficialmente dall’Istat. Con ciò si vuol dire che per ragionare seriamente di flessibilità del lavoro oggi occorre avere ben presenti gli strumenti di flessibilità già adottati in passato. Non si tratta evidentemente di restaurare quei meccanismi, ma di concettualizzare il fatto che non si può svolgere una riflessione sul futuro senza una adeguata metabolizzazione dell’esperienza passata.

Si può fare un altro esempio. Sempre nell’anno sopra richiamato, il 1975, si stipulò un altro accordo interconfederale sul salario garantito poi tradotto nella legge n. 164 del 1975 di riforma della Cassa integrazione guadagni. Anche quello fu un intervento di rilevanza cruciale. Lì si introdusse infatti una tutela molto rilevante, tramite garanzia salariale, per i lavoratori dell’industria occupati in aziende in crisi o in ristrutturazione. Quell’intervento contrattual-legislativo ha segnato un preciso indirizzo dell’intervento pubblico sul mercato del lavoro: la priorità era individuata anzitutto nella salvaguardia dei lavoratori già occupati a rischio di perdita del posto di lavoro. Da lì seguii poi una lunga serie di misure successive, tra cui spiccano le discipline sulla mobilità interaziendale introdotte dalla legge n. 675 del 1977, che chi scrive definì in termini di “licenziamenti impossibili” fino alla regolamentazione introdotta dalla legge n. 223 del 1991. La scelta nella sostanza era chiara: si trattava di una tutela forte (si può dire corporativa?) a favore di lavoratori già entrati nel mercato del lavoro, mentre nessuno strumento di promozione dell’impiego veniva assicurato a chi nel mercato doveva ancora entrare. A quel tempo infatti l’indennità di disoccupazione ammontava a una cifra esigua, per l’esattezza si trattava di 800 lire al giorno nel 1988[21]. Essa peraltro, pure essendo stata incrementata fino al 60% della retribuzione media precedente, è disposta tutt’oggi appunto a favore dei di-soccupati, cioè di chi ha perso un posto di lavoro e può quindi vantare una anzianità di lavoro, non di chi il lavoro non l’ha mai avuto, gli in-occupati. Per questi è stata introdotta una sola misura: il c.d. reddito di inserimento, delegato ai comuni, una misura che dal diritto al lavoro sconfina nella pura assistenza sociale essendo correlata alla individuazione di una “fascia di povertà”, il cui parametro fu individuato nel 1998 nella cifra di 500.000 lire mensili[22]. Perciò, in parallelo, cominciarono a introdursi legislazioni orientate a flessibilizzare i meccanismi di accesso al mercato del lavoro: interventi di promozione della occupazione giovanile, contratti di formazione-lavoro, part - time[23], liberalizzazione dei contratti a termine, consentendo alla contrattazione collettiva di derogare all’elenco tassativo stabilito per legge, fino alla deroga parziale al divieto di interposizione nei rapporti di lavoro introdotto con il lavoro temporaneo o interinale dalla legge n. 196 del 1997[24], sono i passaggi di una lunga legislazione sulla flessibilità del lavoro. In questo senso il “libro bianco” del governo del 2001 e i successivi provvedimenti legislativi non inventano nulla di nuovo: estremizzano una tendenza, trasformandola in un archetipo, e facendo della flessibilizzazione la chiave di volta di una ampia ri-disciplina del diritto del lavoro[25]. Gli interventi in oggetto fotografano la situazione data, quindi la istituzionalizzano, infine legittimandola perciò stesso la incentivano. Per questo è necessario disporre di una visione più ampia, capace di guardare oltre il presente e il futuro prossimo, per immaginare una diversa dimensione delle politiche del lavoro che vada al di là di una semplice azione di contrasto alle politiche in atto.

A quanto detto fin qui va aggiunto un ulteriore richiamo. Tra le molte cose che sono cambiate una, essenziale, riguarda l’identità e la funzione dello Stato. Lo Stato-nazione ancora in qualche misura isolato in sé stesso e che poteva guardare con sufficienza alle direttive comunitarie non esiste più[26]. In particolare non esiste più un diritto del lavoro nazionale esclusivo[27]. Basti dire che molti dei provvedimenti legislativi adottati in materia lavoristica in Italia da vari anni a questa parte sono stati disposti con decretazione legislativa in attuazione di direttive comunitarie (così in materia di trasferimenti di azienda, contratti a termine, lavoro a part time, orario di lavoro). Il futuro scenario della Unione Europea, tra allargamento e nuova Costituzione, indurrà altri e rilevanti cambiamenti, il cui esito concreto non è al momento decifrabile.

Ciononostante oggi molti segnali indicano che il pendolo del ciclo sociale accenna a muoversi ancora una volta in un’altra direzione. Tende a riaffermarsi il valore della stabilità dei rapporti di lavoro. Sembra una impresa impossibile. Come appariva impossibile l’iniziativa di quegli operai a cui l’iconografia attribuisce il primo atto diretto alla costituzione di un sindacato nell’epoca proto-capitalistica, i quali affissero di notte sulla porta di casa del loro padrone un minaccioso manifesto che recitava più o meno così: “mr. Johns se non dai una ghinea in più ai tuoi operai finirai all’inferno, come è vero che esiste Dio”[28]. La citazione, un po’ cruda, serve a dire che la storia non è finita, e che essa in qualche misura sta nelle nostre mani.

Per affrontare seriamente la questione occorre andare con ordine e provare a ragionare anzitutto in termini generali.

Se si guarda al tema del lavoro e dell’impresa nello scenario della competizione globale è sempre più evidente l’alternatività tra due diverse direzioni. La prima assume il mercato come regola dirimente. La seconda individua il punto di partenza nei diritti e nella dignità delle persone che lavorano. Nel primo caso competitività e flessibilità diventano valori in sé, il mercato è la variabile indipendente, e il resto, come l’intendenza, segue. Nel secondo caso i diritti delle persone che lavorano vengono prima, e il mercato è assunto come un vincolo di cui tenere conto. E’ bene chiarire subito che questa seconda prospettiva non si muove in una dimensione utopica, ma realistica. Un compromesso e una mediazione alla fine comunque vanno stipulati, in relazione alle condizioni materiali. La differenza sta nel fatto che nel primo ordine di pensiero il negoziato si svolge inevitabilmente al ribasso, cedevolmente; nell’altro ordine di ragionamento l’esito del negoziato non è scontato, perché il conflitto può svolgersi in maniera aperta e quindi utile. Se si volesse dirlo con più enfasi si potrebbe affermare che secondo la prima via l’esito è comunque determinato, perché le ragioni della economia inevitabilmente prevarranno, mentre per l’altra via la partita resta in qualche misura da giocare poiché la politica mantiene una sua autonomia, di modo che l’evoluzione storica non risulta determinata a senso unico.

E’ utile chiarire che l’alternatività qui descritta non è una invenzione dell’oggi. Essa percorre la vicenda politica e sociale degli ultimi secoli, a partire da quello spartiacque costituito nella storia dell’occidente dalle grandi rivoluzioni del ‘700. Naturalmente cambiano le forme e le circostanze, ma in termini concettuali il problema in fondo è sempre lo stesso.

La principale variante della nostra epoca è costituita appunto dalla globalizzazione[29]. La competizione diretta sui mercati globali fa apparire irrilevanti i contrasti che si possono frapporre in singoli sistemi locali o addirittura nazionali. La stessa dimensione europea appare inadeguata, e da qui trovano origine le tensioni che percorrono la revisione del modello sociale europeo. Ma, a ben vedere, anche in questo caso gioca più la crescita di scala della dimensione che la natura sostanziale del problema. Le possibilità di successo di una azione per la conquista dei diritti sociali sembrano maggiori nell’ambito di mercati chiusi, come poteva accadere agli inizi del ‘900 per le lotte bracciantili. Se i braccianti si rifiutavano di accudire le stalle gli agrari non erano certo in condizione di disporre tempestivamente misure alternative, se non quella di cercare “crumiri” da sostituire agli scioperanti. Essi avevano tuttavia altri strumenti di pressione, alquanto efficaci: la forza dell’apparato repressivo statuale in primo luogo e poi soprattutto la fame delle famiglie contadine.

Ma c’è un altro esempio, che spesso propongo ai miei studenti, che meglio indica come nonostante il mutare delle forme la sostanza concettuale del problema resti in fondo la medesima. Nell’Inghilterra della prima rivoluzione industriale, nel 1833, fu approvata una delle prime leggi sul lavoro di cui si abbia memoria, il Factory Act. Questa legge disponeva la seguente limitazione dell’orario massimo di lavoro dei minori: “48 ore settimanali e 9 giornaliere, per i fanciulli fra i 9-13 anni; 69 ore settimanali e 12 giornaliere, per gli adolescenti tra i 13-18 anni”. E’ bene chiedersi perché nel lontano 1833 inglese si fece una legge siffatta. La prima risposta che viene spontaneo dare è che in quel periodo evidentemente accadeva che normalmente i bambini di 9 anni lavorassero più di 9 ore al giorno e più di 48 ore settimanali. La seconda domanda allora è: ma come potevano essere talmente crudeli gli imprenditori di quel tempo da costringere i bambini a ritmi così massacranti di lavoro? La risposta è che non si trattava di crudeltà, ma di un problema di competitività e di costi. Infatti i bambini, oltre a percepire un salario minore, consentivano un notevole risparmio dei costi di produzione, specialmente nelle miniere, dove solo col lavoro dei piccoli si potevano usare per scavare il carbone cunicoli di dimensioni più ridotte. L’imprenditore che non avesse usato quelle misure sarebbe semplicemente fallito, perché soggetto alla concorrenza degli altri imprenditori: si trattava quindi, già allora, di una forma embrionale di globalizzazione. Non si prenda l’esempio come un richiamo retrò, ma per la sua valenza concettuale: se non si fissa un limite cogente e imperativo al mercato, il mercato e la competizione economica per loro natura travolgono ogni confine. Si pensi al lavoro degli schiavi, su cui si sono rette le magnificenze della civiltà greco-romana. Si dice che nella biblioteca di Alessandria, prima del suo incendio, fossero già contenute le intuizioni tecniche che quasi duemila anni dopo avrebbero portato alla rivoluzione industriale, a partire dalla scoperta della macchina a vapore. Poiché esisteva il lavoro degli schiavi quelle invenzioni non avevano però utilità pratica[30]. Perciò alla fine bruciò la biblioteca di Alessandria. Tutto ciò non è poi tanto distante dall’oggi: che altro è il “contratto di soggiorno” previsto dalle leggi vigenti sulla immigrazione extracomunitaria se non una moderna forma di “contratto servile” in base al quale il datore di lavoro oltre al controllo sulla prestazione di lavoro assume quello di determinare il destino complessivo del dipendente, a partire dalla possibilità di abitare un certo territorio?[31]

Per ragionare sugli orientamenti di fondo in termini realistici occorre anzitutto una convincente tematizzazione.

Inutile dire qui delle trasformazioni del lavoro in senso sociologico. Si tratta di cose note e su cui è disponibile un’ampia pubblicistica. Sinteticamente i fenomeni prevalenti nei paesi c. d. occidentali sono costituiti dal (parziale) superamento del modello fordista di organizzazione del lavoro, dal suddividersi dell’impresa-madre in una molteplicità di attività esternalizzate, dal diffondersi di forme strutturalmente flessibili di impresa e di lavoro, dal crescere del lavoro atipico, nel modo sia di rapporti di lavoro tecnicamente subordinati ma di tipo precario (lavoro a termine, interinale, a part time, occasionale ecc.) sia di rapporti di lavoro di tipo semiautonomo o semisubordinato, oggi prevalentemente aggregati nella figura delle collaborazioni coordinate e continuative[32].

Sul piano della valutazione sociologica ci si può limitare a una osservazione sintetica: il vero fenomeno caratteristico dell’epoca presente non è costituito dal declino della natura subordinata dei rapporti di lavoro, di cui molto si parla, quanto piuttosto dalla frammentazione, fino alla atomizzazione individualistica, dei mercati del lavoro nei paesi industriali maturi e nella moltiplicazione a scala geometrica delle forme subordinate di rapporto di lavoro alla dimensione globale. Gli orientamenti di fondo vanno quindi tradotti in una rigorosa selezione tematica, tenendo conto dell’assetto nazionale e degli scenari globali, come si proverà a fare qui di seguito.

 

    3.  Ridurre la flessibilità. Come.

Per ridurre gli eccessi delle politiche di flessibilizzazione del lavoro fin qui adottate occorre in primo luogo svolgere una operazione culturale, cominciando col dire agli imprenditori che con la precarietà e la riduzione del costo del lavoro non si raggiunge alcun risultato. Un importante dirigente della Confindustria, in un convegno tenuto a Venezia nell’ottobre 2004, ha citato i seguenti dati: Italia, costo del lavoro per ora 20 euro, Polonia 4 euro; prelievo fiscale sulle imprese: Italia 42%, Polonia 19%. E’ evidente che in questi termini non c’è gara possibile. Non resta che scommettere sul fatto che l’allargamento della Unione Europea determini reciprocità, favorendo l’innalzamento degli standard sociali nei paesi dell’Est. Non può essere infatti che la nuova Unione europea allargata si costituisca sul minimo comune denominatore più basso determinando una regressione così vistosa degli standard sociali.

Si tratta quindi di cambiare in primo luogo pedagogia[33]. A questo fine sarebbe utile approvare una legge, ad articolo unico, che grosso modo recitasse così, sulla falsariga del vecchio e infelicemente abrogato nel lontano 1962 art. 2097 c.c.: “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo che…”. Di seguito occorrerebbe procedere alla eliminazione degli strumenti più evidenti di una flessibilità ai limiti dell’arbitrio e peraltro scarsamente utilizzabili sul piano pratico. A questo fine è ragionevole usare il filtro della diffusa contrattazione collettiva già svolta, a partire da un rilevante insieme di contratti nazionali di categoria. Il lavoro a chiamata, detto altrimenti intermittente, il part time elasticizzato, il contratto a termine deregolato, la somministrazione di manodopera a tempo indeterminato, un contratto di lavoro a progetto mal costruito, la liberalizzazione indiscriminata e quindi disfunzionale del collocamento, le normative di sostegno ai processi più estremi di esternalizzazione produttiva (dal trasferimento di ramo di azienda all’appalto) vanno strutturalmente rivisitati. Poi occorre un intervento in positivo: il rafforzamento dei centri pubblici per l’impiego, gli incentivi alla emersione del lavoro sommerso e alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro, la promozione di veri contratti formativi di accesso al lavoro, la riforma del processo del lavoro con particolare riferimento alle controversie in materia di licenziamenti sono alcuni dei titoli più importanti di un nuovo intervento. Ma occorre soprattutto un nuovo disegno strategico.

Il primo tema è quello della ridefinizione del campo di applicazione del diritto del lavoro. In questo consiste la concretezza dell’annoso dibattito sulla subordinazione che a differenza di quanto talora si afferma merita di essere continuato fino a cercare, se possibile, un punto di conclusione. Leggendo e rileggendo le varie formulazioni e proposte elaborate da almeno un ventennio a questa parte[34], chi scrive si è fatto la seguente opinione. Non occorre discettare di nuovi e improbabili “statuti dei lavori”. Potrei dire, con Mario Napoli, che la formula a me “non piace”. Il fatto è che l’espressione “statuto dei lavori” è in sé fuorviante perché allude a una diversificazione del mercato del lavoro simmetrica, e al tempo stesso rovesciata, rispetto alle antiche corporazioni “delle arti e dei mestieri”, nel senso che queste ultime muovevano da una disciplina rigida della offerta di lavoro, regolando fino ai dettagli più minuti l’accesso alla professione, mentre le attuali politiche di flessibilità registrano, al contrario, le esigenze della domanda di lavoro e le ritrascrivono sui lavoratori. Anche D’Antona nell’aderire sia pure criticamente a tale impostazione avvertiva infatti che “ci sono dei rischi” nella “grande sfida” di “ripassare dal lavoratore ai lavori”[35]. E’ opinione di chi scrive che ora sugli improbabili vantaggi prevalgano i rischi. E’ quindi più corretta la formula “statuto dei lavoratori”. Questa espressione indica infatti che lo statuto del lavoro parte intanto da una dimensione soggettiva, e non di mercato[36]. Si tratta poi di vedere naturalmente come la dimensione soggettiva delle persone coinvolte nel processo lavorativo si deve coordinare con le esigenze del mercato. L’essenziale è che si parta da un punto fermo: si discute dello “statuto del lavoro”, dei problemi di chi lavora per altri, vale a dire del lavoro subordinato/dipendente.

Questo è un punto cruciale. In proposito non sono convincenti le varie “carte dei diritti dei lavoratori” prodotte negli ambienti della opposizione nel corso della presente legislatura[37]. Quei testi paiono tutti, in diverso modo, una sorta di libro dei sogni. Si tratta invece di ridefinire, più semplicemente, l’area del lavoro subordinato, sottraendo il concetto di subordinazione alla matrice fordista sancita dal vigente art. 2094 c. c., anche in ragione delle sue prevalenti interpretazioni, e di ridefinire il catalogo dei lavori subordinati c.d. atipici. A questo fine, come detto altrove, sarebbe utile una innovazione tanto semplice nella forma quanto efficace negli esiti: occorrerebbe eliminare dalla definizione del prestatore di lavoro subordinato di cui all’art.2094 c.c. l’inciso “sotto la direzione”. La norma risulterebbe riformulata così: “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze dell’imprenditore”. Tale riformulazione dell’art.2094 c.c. consentirebbe di realizzare un primo risultato: liberare i commentatori dalla inutile fatica di raccontare in infinite varianti quanto quella norma fosse disegnata su un archetipo di lavoro subordinato/industriale/fordista che non c’è più. Tesi evidentemente infondata, per la buona ragione che chi ha scritto quella norma con ogni probabilità non aveva letto i manuali di Taylor sulla divisione scientifica del lavoro né aveva visto il film di Chaplin sui “tempi moderni”. Essi avevano però capito una cosa: che il diritto del lavoro si fonda su un disequilibrio contrattuale che riguarda i modi della prestazione di lavoro nella società industriale. Quella intuizione è del tutto valida anche nella fase del c.d. post-industrialismo. Quanto all’area intermedia, sempre esistita, oggi identificata per lo più nelle collaborazioni coordinate e continuative, va svolta una operazione in realtà alquanto elementare: da quella categoria, cresciuta a dismisura essenzialmente in virtù di provvedimenti fiscali e previdenziali, a partire dalla istituzione di una gestione speciale presso l’Inps, occorre scorporare i rapporti di lavoro in effetti subordinati e classificati come autonomi solo in ragione di intenti fraudolenti (gli addetti ai call center, a imprese di pulizia, le commesse dei grandi magazzini, tanto per fare qualche esempio)[38] e introdurre tutele di welfare per quei rapporti di lavoro autonomo caratterizzati da particolare debolezza contrattuale[39]. Non serve, anzi è del tutto fuorviante, introdurre nuove fattispecie contrattuali, come il lavoro a progetto, o immaginare generici e illusori statuti del c.d. lavoro “senza aggettivi” i quali inseguono, inconsapevolmente, la vecchia ideologia del “diritto comune del lavoro”. Il diritto del lavoro esiste come disciplina autonoma in quanto esiste il lavoro subordinato. Quella che corre tra lavoro autonomo e subordinato ”è una differenza reale, necessaria…non è possibile infatti che chi lavora per altri non lavori in modo autonomo o subordinato”, diceva Barassi[40]. “La distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo è in rerum natura e concettualmente radicale; non può essere messa tra parentesi nemmeno per un tratto iniziale della riflessione sul «lavoro che cambia»”, ha scritto Luigi Mengoni in una delle sue ultime, lucidissime pagine[41]. Queste affermazioni apparentemente schematiche sintetizzano una comprensione profonda delle dinamiche del lavoro nelle società capitalistiche, che non può essere ridotta a ciò che è stata definita la “ossessione della unitarietà”[42] e meritano invece di essere ri-attualizzate, a dispetto dei nuovismi poco sorvegliati. Infatti è attraverso la valorizzazione del lavoro subordinato / dipendente che si sono definite le democrazie sociali di tipo europeo. Senza una identificabilità del lavoro subordinato/dipendente si smarrisce il senso stesso della fondazione sociale delle costituzioni. Ogni forma di lavoro diverrebbe uguale, in un mondo in cui, come diceva il filosofo, tutte le vacche sono grigie. Si determinerebbe una regressione, forse inconsapevole, al corporativismo secondo la formula dell’art. 2060 del codice civile: “il lavoro è tutelato in tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche e manuali”, diceva quella norma, non a caso seguita dalle disposizioni sulle ordinanze corporative, ed inserita nel libro V del codice del lavoro in cui appunto sono regolate tutte le forme di lavoro, da quello dell’imprenditore, definito come “il capo dell’impresa” da cui “dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori” (art. 2086 c. c.) al lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c. c., fino al lavoro autonomo e alla disciplina delle società di persone e di capitali. Questo era appunto il corporativismo: il lavoro “senza aggettivi” condito in salsa autoritaria.

Del tutto improprio appare quindi citare a sostegno di una definizione del campo di applicazione del diritto del lavoro a prescindere dalla subordinazione l’art. 35 della costituzione: quella norma non ha infatti alcun significato precettivo, ma solo descrittivo, come tutti i migliori commenti della Costituzione hanno evidenziato[43]. L’art. 35 cost. è il riflesso sul tit. III relativo ai “rapporti economici” della dichiarazione retorico-programmatica per eccellenza, quella dell’art. 1. Ci mancherebbe che una Repubblica “fondata sul lavoro” non tutelasse il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”. Ma che significa questo in concreto? Quale tutela si può disporre per l’avvocato che non ha clienti, per il bottegaio scacciato dal mercato dal grande centro commerciale, per l’artigiano travolto dalla crisi della impresa committente, per il consulente legale sopraffatto dal mega-studio professionale organizzato in termini neo-tayloristi? Al più si possono ipotizzare interventi di Welfare, ma non tutele nel rapporto di lavoro, perché nel lavoro autonomo, per quanto debole, non c’è una relazione intersoggettiva esclusiva o quanto meno prevalente su cui intervenire. Se invece  accade che il lavoro c.d. autonomo consista in realtà nella quasi esclusiva dipendenza da un committente, è evidente che si è di fronte a un lavoro pseudo-autonomo,, vale a dire a un lavoro dipendente nei termini sopra descritti. In ogni caso tertium non datur .Qui sta il confine del diritto del lavoro: su questo punto il diritto del lavoro si deve fermare, se non vuole diventare una materia pigliatutto a cui tocchi il destino della rana di Esopo. Non a caso gli interventi relativi all’area dei c. d. lavori parasubordinati[44] sono fin qui consistiti nell’accesso al rito speciale del lavoro (cfr. art. 409 c. p. c.) e in provvedimenti di Welfare (del genere della estensione dei trattamenti di maternità alle lavoratrici autonome e parasubordinate[45]), oltre che nelle modeste misure di tutela disposte dal d. lgs. n. 276 del 2003 per il c. d. lavoro a progetto. Così come, per altro verso, si sono introdotte misure di tutela del contraente più debole nei contratti di sub-fornitura di cui alla legge n. 192 del 1998 e interventi estensivi della cassa integrazione straordinaria alle imprese artigiane nelle ipotesi di c.d. influsso gestionale prevalente[46]: ma queste sono appunto disposizioni di diritto commerciale, certo rilevanti per il diritto del lavoro, ma non norme giuslavoristiche.

Sul punto la costituzione vigente dice due cose chiare: la prima è che, nel concreto, il carattere sociale della Repubblica consiste anzitutto nel “rimuovere gli ostacoli di ordine economico che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana, e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese” (art. 3, comma 2°, cost.), direttiva come è noto tutt’altro che genericamente programmatico - retorica, ed anzi all’origine di molti e concreti interventi della Corte costituzionale, e che tutta la migliore dottrina riferisce al lavoro subordinato - dipendente[47]. La seconda sta nella serie di precetti costituzionali univocamente destinati al lavoro subordinato-dipendente: dalle disposizioni relative alla retribuzione proporzionata e sufficiente, alla durata massima della giornata lavorativa, al riposo settimanale e alle ferie retribuite (art. 36), al divieto di discriminazioni retributive per le donne e i minori (art. 37), alla libertà sindacale e al diritto di sciopero (artt. 39 - 40).

Non si può quindi condividere la tesi di Ichino quando propone una relazione meccanicista tra tutele degli insiders e possibilità di accesso al mercato del lavoro degli outsiders[48] o quando suggerisce un rapporto in sostanza ancillare del diritto del lavoro verso l’economia[49], anche perché, come è noto, tra le stesse scienze economiche non esiste un pensiero unico, ma si confrontano varie tesi e linee di pensiero[50]. Non è mai accaduto infatti che la riduzione delle tutele nei settori forti favorisse le condizioni dei lavoratori deboli. Ciò è dimostrato nella evoluzione del diritto del lavoro italiano per così dire in atti: basti ricordare che la generazione delle leggi a tutela della fasce marginali del mercato del lavoro adottate a cavallo degli anni 1958-62 (lavoro a domicilio, appalti di manodopera, lavoro a termine) e la stessa legge Vigorelli del 1959 furono emanate a seguito dei risultati di una inchiesta parlamentare sulle condizioni dei lavoratori che aveva dimostrato l’esistenza di vaste fasce di lavoro sommerso, sottosalariato e sottotutelato all’epoca in cui si era ancora ben distanti dal primo intervento legislativo sui licenziamenti e quindi il lavoro era largamente flessibile nelle stesse aree forti del mercato. C’è solo un piano in cui gli argomenti sui dualismi inaccettabili del diritto del lavoro sono fondati, quello del rapporto tra impiego privato e pubblico impiego in cui al di là dei molteplici e persino ridondanti interventi legislativi[51] risulta evidente una verità: il crescere delle distanze sostanziali, a partire dal regime di stabilità, come Sabino Cassese continua solitariamente a denunciare evocando la “doppia forbice” tra improprie forme di spoil system esercitate dal potere politico per le fasce professionali medio-alte ai diversi livelli istituzionali (dai ministeri a regioni, province e comuni) e sindacalizzazione dei livelli medio-bassi[52], distanza peraltro accresciuta dalla esplicita sottrazione alla pubblica amministrazione dei dispositivi della legge n. 30 e del d. lgs. n. 276 del 2003[53]. Così come non è condivisibile la tesi sostenuta da Marco Biagi quando dichiarava che una generalizzata liberalizzazione del mercato del lavoro avrebbe favorito la buona occupazione[54], tesi che, con critica succinta, sono state ritenute tali da “mettere radicalmente in discussione, in diversi punti oltre misura, i pilastri del corrente diritto del lavoro”[55]. L’elaborazione più equilibrata da assumere a riferimento, sia pure segnata da qualche oscillazione opinabile, resta quella di Massimo D’Antona quando affermava che “una nozione indisponibile e al tempo stesso aperta della subordinazione va difesa con tutte le risorse teoriche in questa particolare fase storica”.

Un autentico paradigma riformista nel diritto del lavoro è invece in fondo abbastanza semplice: esso consiste intanto e anzitutto in una radicale semplificazione delle normative. Va rilanciato quindi il risalente tema della elaborazione di un Testo unico anzi di un vero e proprio Codice del lavoro, anche al fine di rendere comprensibili normative ormai illeggibili e persino inspiegabili, come sa chiunque prova davvero a insegnare il diritto del lavoro agli studenti[56]. L’asse centrale di quel nuovo testo va fissato attorno a un punto cardinale: la ridefinizione delle tutele dei lavoratori occupati e delle persone in cerca di occupazione. Si tratta in altri termini di rideterminare il rapporto tra tutele dei lavoratori già occupati e promozione dell’impiego attraverso politiche di Welfare attivo. Facile a dirsi, difficile a farsi, considerando la carenza di risorse pubbliche disponibili, come ha dimostrato l’incapacità anche nella presente legislatura di mettere mano a una organica riforma degli ammortizzatori sociali da tempo annunciata[57].

 

    4.  Regole della rappresentanza sindacale.  

Ragionando sul futuro si pone poi in prima evidenza il tema della regolazione della rappresentanza sindacale.

Per evitare il rischio di avvolgersi nei tornanti ripetitivi che da decenni su questo argomento ciclicamente si alternano e poi si risolvono in nulla, occorre seguire un percorso logico. Il primo passaggio consiste in una storicizzazione del tema, a partire dall’interrogarsi sulla sua attualità. Prima di rispondere a questa domanda occorre formularne un’altra, più di fondo, sulla modernità ovvero sulla utilità della stessa rappresentanza sindacale. La risposta non è scontata. Certo è che le rappresentanze di interessi non declinano, ma si moltiplicano. Di recente pare si siano costituite ben tre associazioni delle agenzie private di lavoro; fioriscono le improbabili associazioni dei consumatori; ogni micro-categoria dà vita a una propria rappresentanza. Una ricerca effettuata sulla base delle delibere della commissione di garanzia per gli scioperi nei servizi pubblici ha stimato in 335 le sigle sindacali lì nominate[58]. Tempo fa chi scrive fu colpito dalla targa apposta in un ufficio a Roma: associazione degli ex-dipendenti degli ex-enti pubblici disciolti. La fantasia associativa in Italia, che resta pur sempre il paese delle fazioni, non ha limiti. Infatti il ministro del lavoro in carica si vanta spesso che il c.d. “patto per l’Italia” sia stato sottoscritto da ben 39 associazioni, tranne una, la CGIL. Poco prima, del resto, nella stipulazione del c.d. “patto di Natale” furono coinvolte circa 40 associazioni. Il quesito vero non consiste dunque nel dilemma tra modernità o obsolescenza dei sindacati ma tra utilità democratica o declinazione corporativa dei sindacati. L’oggetto del discorso riguarda quindi non i sindacati in generale, ma una forma specifica di sindacato: il sindacato confederale. Solo guardando a questa forma di sindacato che, essendo appunto confederale, deve al suo interno cercare di produrre la sintesi tra i diversi interessi categoriali e professionali e la dimensione complessiva ha senso un discorso sulle regole sindacali e più in generale un ragionamento sulla attualità della forma-sindacato. Si tratta di immaginare qualcosa che abbia a che fare con l’antica formula del rapporto privilegiato tra big labour, big business e big governement.

In questa chiave è utile proporre ancora un ragionamento sulle regole sindacali: nella prospettiva appunto di un accordo tra il big labour, cioè tra i sindacati confederali, e nella sua proiezione nell’ intesa con il big business, cioè con le principali associazioni di impresa, e con il big governement, espresso dal potere politico al suo massimo livello di responsabilità, cioè dal governo. Chi scrive appartiene a una generazione di giuslavoristi che ha cominciato a occuparsi di diritto del lavoro nella fase della attuazione dello Statuto dei lavoratori e quindi è cresciuta pensando che la seconda parte dell’articolo 39 della Costituzione fosse un oggetto di archeologia giuridica, secondo la celebre lezione di Federico Mancini[59]. Abbiamo scoperto poi che non era così, a ridosso di quell’avvenimento che segnò la conclusione anche formale di un ciclo della vicenda unitaria dei sindacati confederali, il famoso disaccordo di San Valentino del 1984. È da lì che è ricominciato un diffuso dibattito sulle regole sindacali[60].

Il bilancio di quella discussione è noto: si sono introdotti sistemi di regole laddove si è determinata la coincidenza tra l’interesse pubblico alla gestione efficiente dei servizi e l’ interesse delle stesse maggiori organizzazioni sindacali a essere messe al riparo rispetto a meccanismi di frantumazione della rappresentanza, con le ovvie conseguenze in termini di conflittualità. Il riferimento va naturalmente alla legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e quindi alle regole sulla rappresentanza introdotte nel pubblico impiego[61]. Nel settore privato invece la questione è irrisolta, e ciò continua a determinare rilevanti problemi[62]. Basti fare riferimento al rinnovo non unitario, verificatosi nel 2003, della stessa parte normativa del contratto nazionale degli addetti all’industria metalmeccanica, che pur non essendo più il contratto - pilota dei tempi andati riguarda comunque un milione e mezzo di lavoratori e svariate migliaia di imprese[63]. Qui si pone una questione rilevante più che in ordine ai trattamenti economici rispetto alla gestione complessiva del contratto, perché le parti di quel testo contrattuale che contengono clausole di carattere obbligatorio rinviano tutte, non a caso, a ulteriori iniziative e confronti: così accade in tema di inquadramento professionale, di revisione dei regimi di orario, di funzioni degli enti bilaterali. Ne consegue che in tal modo il contratto collettivo nazionale di lavoro è entrato nella sua stessa figura in una crisi di funzionalità.

Si lasci da parte al momento il fatto che anche il contratto nazionale di lavoro merita di essere rivisitato. Il fenomeno si può riprodurre a catena in termini diversi. Si è svolta una pratica, specie ma non solo in Emilia-Romagna, di accordi separati per così dire alla rovescia. Sono stati stipulati svariate centinaia di accordi aziendali in cui è scritta una clausola di ultra-attività del contratto nazionale del 1999[64]. Qui si registra in un certo senso lo specchio della questione precedente. Ma c’è qualcosa di più. La legge n. 30/2003 e il successivo d. lgs. n. 276/2003 affollano una quantità impressionante di richiami alla contrattazione collettiva: rinvii meramente integrativi, derogatori, al contratto collettivo rispetto al quale la fonte suppletiva diventa il contratto individuale, alla contrattazione nazionale, ai contratti territoriali ecc.[65] È un processo che va sorvegliato, poichè è evidente il rischio di una attuazione disordinata in via contrattuale di quella legge, tale da incentivare il processo di destrutturazione del sistema delle relazioni di lavoro. Il problema è dunque attuale. Non consiste in un assillo formalistico dei giuristi. E’ invece un problema vero, che in Italia si pone in più rispetto agli altri paesi europei, dove vigono in genere regole chiare sulla efficacia dei contratti collettivi.

Se il problema è attuale e serio il metodo giusto con cui affrontarlo è quello di guardare anzitutto all’unità sindacale. Non si tratta di coltivare una visione mitica dell’unità sindacale né di pensare che quando i sindacati sono divisi tutto si debba fermare. Ma empiricamente occorre registrare che in questo paese si sono fatti significativi progressi sul piano sociale, ovvero si sono contenuti sviluppi pericolosi emersi in determinate fasi quando c’è stata l’unità sindacale. Basti ricordare alcuni di questi passaggi: lo Statuto dei lavoratori del 1970; la politica sindacale nella seconda metà degli anni ‘70, che fu emergenza economica e finanziaria ma anche politica (erano gli “anni di piombo”); gli accordi del 1993 mirati all’ingresso nell’Euro.

Empiricamente l’unità sindacale ha quindi un valore se non di principio quanto meno funzionale, tanto più che la divisione o la competizione tra i sindacati rischia di avere effetti autodistruttivi in un sistema politico di tipo bipolare. Oggi siamo arrivati a una unità “di resistenza” su vari temi, a fronte di un grave indebolimento del ruolo sindacale sulla scena politica. Per questo l’unità sindacale e la stessa competizione tra le organizzazioni hanno bisogno di un sistema di regole. Siamo così al secondo passaggio.

L’affermazione secondo cui c’è bisogno di un sistema di regole contiene già in sé l’indicazione che ha senso ragionare in questa direzione solo guardando all’obiettivo prima evocato. Occorre quindi pensare a un meccanismo che serva a processi di unità sindacale nelle varie forme possibili, a partire dalla unità d’azione su singoli obiettivi fino a percorsi di composizione delle differenze e delle contraddizioni tra i sindacati. Bisogna quindi guardare all’ unità sindacale come a una forma del pluralismo, e non in una prospettiva organicistica.

Da qui il terzo passaggio: se la questione delle regole sindacali è attuale e va affrontata con l’atteggiamento metodologico appena descritto, è evidente che lo strumento prioritario da auspicarsi è quello dell’accordo intersindacale. Da questa ipotesi si partì infatti, non a caso, dopo la rottura del 1984 nel discutere di nuove regole sindacali[66]. La scansione successiva è quindi la legge, esattamente come è accaduto per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali e per la contrattazione collettiva nel pubblico impiego. Naturalmente non si evoca una legge invasiva, ma lo stesso schema a suo tempo impiegato per l’intervento legislativo in materia appunto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. In quell’occasione vi fu un lavoro delle tre confederazioni, si costituì una commissione che istruì la materia, e quel lavoro consentì poi di approdare a un risultato. Si può pensare insomma a un accordo fra i sindacati, propedeutico a un intervento di legge, al di là della forma che esso può assumere: un accordo intersindacale vero e proprio o più semplicemente l’intesa su alcuni punti di sostanza.

Sul piano degli strumenti occorre quindi concepire un intervento legislativo leggero, mentre il dettaglio regolamentare può essere svolto dalla autoregolamentazione sindacale e dalla stessa contrattazione collettiva. Tale intervento deve affrontare il problema della misurazione della rappresentatività, non solo per le organizzazioni dei lavoratori ma anche per quelle dei datori di lavoro. La concertazione in Italia è andata in crisi per tanti motivi ma c’è anche una spiegazione, per così dire, antropologica. Non si può fare una seria concertazione con circa quaranta sigle associative. Sta qui, nella moltiplicazione dei soggetti che partecipano al tavolo della concertazione, come si è detto sopra, una radice della crisi funzionale di quel meccanismo che poi è sboccata in una vera e propria crisi strutturale. Il che riguarda sia i sindacati dei lavoratori che le associazioni di imprese. Si pone quindi un problema anche in ordine alla verifica della rappresentatività delle associazioni imprenditoriali. Basti ricordare che l’accordo interconfederale sui contratti di reinserimento dell’11 febbraio 2004 è stato sottoscritto da quattro confederazioni dei sindacati dei lavoratori (CGIL,CISL,UIL,UGL) e da ben 22 associazioni di rappresentanza delle imprese.

Occorre quindi, anzitutto, una misurazione della rappresentatività. Nel settore privato non è necessario esercitarsi in particolari invenzioni. Il criterio è scritto nell’articolo 39 della Costituzione: è il criterio associativo. E’ arrivato il momento di pensare a una legislazione di sostegno all’organizzazione sindacale anche nel senso di restituire valore al fenomeno associativo. Per fortuna ci si iscrive ancora a un sindacato non solo per sbrigare una pratica pensionistica, o fare la dichiarazione dei redditi, o beneficiare di altri servizi, ma anche per motivazioni ideali. Il processo associativo, nella sua forma autentica, va favorito.

Va poi affrontato il tema dell’efficacia del contratto collettivo. E’ stato certo un errore non avere colto l’occasione offerta dal protocollo del luglio 1993, dove esso diceva, sul punto relativo alle regole in materia di rappresentanze sindacali aziendali unitarie: “le parti auspicano un intervento legislativo finalizzato, tra l’altro, ad una generalizzazione dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi aziendali che siano espressione della maggioranza dei lavoratori, nonché alla eliminazione delle norme legislative in contrasto con tali principi. Il Governo si impegna ad emanare un apposito provvedimento legislativo inteso a garantire l’efficacia erga omnes nei settori produttivi dove essa appaia necessaria al fine di normalizzare le condizioni concorrenziali delle aziende” (lett. f dell’art.2 del protocollo). Si era allora a ridosso del referendum sull’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori. In quella occasione chi scrive ebbe a dire che i sindacati non avrebbero dovuto commettere un peccato di superbia, alla luce di quanto era accaduto tra gli anni ottanta e novanta. Ricordiamolo: dieci anni prima si proclamava l’estinzione della stessa forma sindacale. “Fine dei sindacati” dicevano innumerevoli titoli di autori prestigiosi. E invece negli anni ‘90 si è consumata la fine dei partiti della prima Repubblica, mentre le confederazioni sindacali erano lì con il governo a tenere in piedi il paese. Come i partiti, che sembravano così forti negli anni ‘80, si sono poi rivelati dei giganti con i piedi di argilla, allora bisognava stare attenti che questa cosa non succedesse poi ai sindacati, una volta che il sistema politico si fosse riorganizzato[67]. Rispetto all’efficacia generale del contratto collettivo occorre infine definire uno strumento risolutivo sul piano della certezza giuridica. Non si può eludere la questione del rapporto tra dimensione associativa della rappresentanza e dimensione generale degli interessi coinvolti. Sta qui tutto il dilemma della seconda parte dell’articolo 39 della Costituzione. Si deve applicare un principio democratico, di maggioranza, tenendo conto tuttavia che qui non è in gioco un’arena politica dove tutti sono uguali in quanto cittadini, cui si applica la regola di “una testa, un voto”, ma un’arena di interessi. E nel campo degli interessi non può valere allo stesso modo il criterio maggioritario, come insegnano i classici[68]. Si tratta di stabilire un rapporto tra dimensione degli interessi coinvolti nella rappresentanza e dimensione generale. Perciò non si può ignorare il problema del rapporto fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, e delle loro reciproche relazioni. Ciò andrebbe fatto non stabilendo la necessità di un mandato referendario dal basso come criterio di legittimazione costante dell’azione sindacale dal momento della costruzione delle piattaforme al momento della stipulazione dell’accordo. E’ più sensato prevedere che un ricorso sobrio a meccanismi di democrazia diretta sia utile proprio per fare funzionare meglio la democrazia rappresentativa. Con una formula si può dire così: ricorso al referendum come extrema ratio.

Naturalmente occorre poi distinguere tra contratto nazionale, contratto aziendale, contratto territoriale. Ma qui basti indicare il concetto di fondo. Si tratta di immaginare un referendum inteso come ultima istanza, di cui però si conoscono prima la procedura e gli effetti. Ad esempio: se si sa che una certa ipotesi di accordo non può ottenere la maggioranza dei consensi, non è che intanto si prende quello che c’è e poi si va avanti: non si prende niente, quell’accordo non c’è più, e bisogna farne un altro. In altre parole, non può funzionare il gioco del “più uno”. Non va dato spazio a quelle forme di opportunismo sindacale che circolano in alcuni paesi europei, dove esistono sindacati, come ad esempio in Francia, che non firmano quasi mai i contratti, perché comunque questi si applicano a tutti; così ci si permette di dirne male, dato che intanto essi vengono di fatto applicati.

Da questo punto di vista il ricorso eventuale alla democrazia diretta diventa un deterrente rispetto a forme di utilizzo dei meccanismi della democrazia rappresentativa poco efficaci o addirittura opportunistici. Anche perché l’esperienza dice che non è vero che i referendum debbano essere sempre una sorta di giudizio di Dio contro coloro che più si sono esposti nel negoziato. La casistica è assai varia. Naturalmente molto dipende da come si costruisce il referendum. Si può pensare a un meccanismo che attribuisca efficacia generale ai contratti stipulati dai sindacati rappresentativi secondo certe quote e misure, fatto salvo l’esercizio del dissenso da parte di uno o più sindacati rappresentativi, il quale determina la messa in mora di quell’accordo e la possibilità di un ricorso al referendum come strumento eccezionale.

Infine si pone il tema della rappresentanza sindacale in azienda. Qui non si dovrebbe mutuare il sistema in vigore nel pubblico impiego: sono mondi diversi. Sulla rappresentanza sindacale aziendale esiste un lascito negativo del referendum del 1995. Da quel momento in Italia vige un sistema secondo il quale è la stipula del contratto collettivo che dà diritto a istituire la rappresentanza. Da qui conseguono una serie di rilevanti problemi, il principale dei quali è costituito dal fatto che in tale modo si è messo nelle mani dei datori di lavoro l’esercizio dei diritti sindacali. Le pronuncie fin qui effettuate dalla Corte costituzionale non appaiono esaustive del problema[69]. Da ciò, a parte le questioni di principio, in sé significative, derivano una serie di rilevanti problemi pratici. Ad esempio, i sindacati che hanno stipulato il rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici del 2003, relativo a parte economica e normativa, non sottoscritto dalla Fiom-Cgil, si sono preoccupati di non trarre le drastiche conseguenze che l’applicazione letterale di quel disposto avrebbe determinato, vale a dire l’esclusione della Fiom-Cgil dai diritti sindacali in quanto non stipulante del contratto nazionale di categoria. Infatti nella dichiarazione in premessa all’accordo del 7 maggio 2003 è scritto che “le parti stipulanti il presente contratto collettivo …convengono che di tutti i diritti e istituti ….saranno destinatari altresì i sindacati stipulanti …l’accordo per la costituzione delle r.s.u.”. L a formula vale a dire che la Fiom-Cgil pur non avendo sottoscritto il rinnovo del contratto nazionale di lavoro nella sua stessa parte normativa resta tuttavia inclusa nella fruizione dei diritti sindacali, per volontà dei soggetti stipulanti[70].

Da ultimo non si possono ignorare i rischi di destrutturazione e atomizzazione della rappresentanza sindacale. Va quindi considerata necessaria una rivisitazione dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori nella prospettiva fin qui delineata, e non in quella di un utilizzo meccanico di quella sede come luogo in cui misurare la rappresentatività dei soggetti sindacali.

 

    5.  Concertazione e assetti istituzionali.

I giuslavoristi si sono accorti finalmente che la modifica degli assetti istituzionali ha a che fare con l’oggetto della loro disciplina[71]. Chi scrive fece a suo tempo un richiamo con “l’ambizione di suscitare un dibattito”, come ebbe la cortesia di ricordare D’Antona[72]. Poi si sono diffusi i commenti sulle competenze concorrenti tra regioni e Stato in materia di “tutela e sicurezza del lavoro” introdotti nell’art.117 della costituzione dalla riforma costituzionale n. 3 del 2001[73]. Oltre alla interpretazione dei testi vigenti va tuttavia elaborato un pensiero, il quale deve muovere da una riflessione critica di fondo sugli assetti istituzionali di questo paese. Solo in questa chiave ha senso ragionare sul significato e sulla praticabilità della concertazione nella prospettiva futura.

Per porre su basi attendibili il ragionamento bisogna anzitutto osservare che tra concertazione e unità sindacale corre un rapporto coessenziale. In tema vale più la verifica storica che le tante possibili teorizzazioni. I patti triangolari veri si sono stipulati solo con l’unità sindacale. La divisione sindacale ha invece fatto da detonatore alle crisi della concertazione, dal disaccordo di San Valentino del 1984 al patto per l’Italia del 2002[74]. L’unità sindacale, nei termini almeno di una convergenza delle maggiori confederazioni sulle scelte fondamentali, è dunque necessaria alla concertazione. Essa, come sopra ricordato, non è necessaria in sé, se esiste un sistema di regole. La divisione sindacale risulta devastante rispetto allo stesso sistema delle relazioni contrattuali se si svolge nella assenza di regole condivise.

Per altro verso si pone il tema dei rapporti tra sistema sindacale e sistema politico[75]. Qui il punto cruciale consiste in una razionalizzazione, ancora del tutto incompiuta, del rapporto tra sistemi politici maggioritari, fondati sulla logica dell’alternanza, e politiche della concertazione, ovvero tra sistema politico di tipo bipolare e sistema sindacale. E’ evidente che questo passaggio costituisce per il sindacato un radicale rovesciamento di scenario: una cosa infatti è svolgere politiche di concertazione in un quadro di regole condivise, e persino di pratiche consociative a livello politico, tutt’altra cosa è muoversi in una situazione di forte contrapposizione tra maggioranza di governo e opposizione, così acuta da investire lo stesso quadro istituzionale, vale a dire le regole del gioco, come le cronache della anomalia italiana ogni giorno raccontano. Il tema andrebbe analizzato a fondo.

Basti qui segnalare appena uno spunto. Uno dei risultati paradossali della conversione in senso maggioritario del sistema politico italiano, i cui esiti vanno ben oltre la classica eterogenesi dei fini dei propositi riformatori, consiste in una del tutto atipica affermazione della c.d. autonomia della politica. Ciò che veniva teorizzato quando esistevano veri partiti di massa a radicamento ideal-ideologico, appunto la “autonomia del politico”, a quel tempo non si è in realtà mai realizzato, perché in concreto prevalevano pratiche di concertazione sociale e persino di consociazione politica. L’autonomia della politica si afferma invece nell’epoca del maggioritario, quando il leader dello schieramento vincente afferma, giustamente dal suo punto di vista, di sentirsi legato al patto direttamente stipulato con gli elettori e non alla mediazione con i corpi intermedi ovvero con le associazioni di rappresentanza degli interessi. L’errore, nel caso, sta nel fatto di assumere che quel “patto con gli elettori” riguardi le stesse regole costituzionali, secondo una visione semplificata e persino brutale della democrazia, che in questa accezione si risolverebbe tout court nel principio di maggioranza. Tanto è vero che la stessa maggioranza di governo in carica promuove l’approvazione, appunto a maggioranza, di una nuova riforma costituzionale, rendendo così recidivo l’errore compiuto nella precedente legislatura dalla diversa maggioranza di governo, quella volta di centrosinistra, che improvvidamente approvò, con un risicato numero di voti, la legge cost. n. 3 del 2001 di riforma del tit. V della parte seconda della costituzione. Riforma appunto improvvida, sbagliata nel metodo e nel merito che ha alimentato la più acuta conflittualità tra diversi livelli istituzionali (Stato, regioni, province e comuni) che si sia mai conosciuta nella storia della Repubblica, per ragioni altrove descritte. La maggioranza di governo in carica insiste nell’errore, proponendo una ulteriore riforma della costituzione, relativa non solo alla ripartizione di competenze tra Stato, regioni e enti locali (forma di Stato), ma anche alle questioni relative alla forma di governo[76].

Qualcosa dunque nel meccanismo democratico si sta alterando nel profondo. Infatti la democrazia non consiste, come insegnano i classici, nella attuazione del puro e semplice principio di maggioranza. Il principio di maggioranza va anzitutto contemperato con i diritti della minoranza a partire da quello, essenziale, di riuscire a diventare un giorno maggioranza, e con l’insieme dei diritti sociali, e quindi con l’interlocuzione con quei soggetti che l’art.2 della costituzione chiama “formazioni intermedie”[77]. Tuttavia, dal punto di vista delle pure e semplici politiche di governo il ragionamento è coerente. E’ evidente che in questo nuovo contesto i vecchi ragionamenti sulla autonomia sindacale intesa come pura e semplice autonomia dai partiti sono del tutto spiazzati e che va quindi elaborata una nuova visione dei rapporti tra sistema politico e sistema sindacale. Al riguardo c’è stata una colpevole mancanza di riflessione dei sindacati. Proprio quando si consumava la crisi della prima Repubblica, con il crollo dei partiti, e si realizzava l’avvento dei sistemi maggioritari sul piano elettorale sotto la spinta dei referendum del 1991 e del 1993 i sindacati svolgevano una classica funzione di supplenza politica, con l’accordo del 23 luglio 1993. Si può dire che in quel momento le maggiori confederazioni hanno svolto una funzione politica sostanziale e di grande rilievo costituzionale. Il loro errore è stato poi quello di non riuscire a tradurre quell’esperienza in un sistema di regole consolidate, come sopra osservato.

Oggi siamo molto distanti dai vecchi dibattiti sul neo-corporativismo, relativi alla necessità o meno per la concertazione di governi c.d. amici, ovvero pro-labour[78]. Le cose ora sono più semplici, e persino alquanto rozze. E’ evidente che l’esistenza di un governo “amico” della concertazione aiuta, anche se esso non può qualificarsi tout court come pro-labour, ma purchè sia almeno predisposto alla concertazione come metodo. Mentre sicuramente non favorisce le pratiche di concertazione un governo che dichiari in partenza l’obsolescenza della stessa concertazione, come si è fatto nel “libro bianco del lavoro” dell’ottobre 2001, dove si afferma essere “del tutto evidente l’impossibilità del modello concertativo degli anni novanta di affrontare la nuova dimensione dei problemi economici e sociali”, si sancisce quindi la fine delle politiche di concertazione a favore delle politiche di c.d. competitività, e infine si dichiara la rinuncia del governo ad occuparsi della regolazione della rappresentatività sindacale e l’intenzione, in sostanza, di fare l’accordo con chi ci sta, come poi è avvenuto con il c.d. “patto per l’Italia”[79]. Non c’è quindi una relazione univoca ma complessa tra sistema politico bipolare e concertazione[80]. La concertazione si può fare anche in un assetto politico bipolare, se c’è accordo sulle regole di fondo, se si condivide una idea complessa della democrazia, se c’è chiara distinzione dei ruoli. Qui si sconta la mancata metabolizzazione del passaggio in Italia dal sistema proporzionale al sistema maggioritario, come la più generale sottovalutazione dei temi relativi alla c.d. forma di Stato, generalmente riassunti nella formula indifferenziata della “riforma federalista dello Stato”.

Essenziale alla concertazione è comunque una disponibilità di fondo e reciproca tra le parti sociali, al di là dei motivi di conflitto specifici e occasionali: se la parte imprenditoriale ritiene di privilegiare il rapporto diretto con un governo considerato “amico” (pro-capital invece che pro-labour) con metodi non a caso giudicati neo-collaterali (si pensi al noto Manifesto di Parma della Confindustria del 2001 che fu una premessa persino testuale del programma del governo di centrodestra) il gioco è finito in partenza[81]. Se non si attiva, al fondo, un rapporto autentico, se non una vera e propria alleanza, tra “produttori”, tra chi lavora nelle imprese e chi conduce le imprese la concertazione è morta in partenza, per così dire in apicibus

La concertazione funziona se c’è una selezione degli attori e se è motivata da precise priorità economico - sociali. Ha bisogno in sostanza di una missione, di un compito, non di una ideologia. Per lunghi anni tale missione fu costituita dalla necessità di superare il meccanismo della scala mobile e il sistema multiplo degli automatismi salariali, nell’ambito delle politiche anti-inflattive. Si può dire che la vecchia scala mobile ha finanziato generosamente la concertazione: basti ricordare la sequenza che dalla seconda metà degli anni ’70 (con la legislazione della emergenza e lo smantellamento degli automatismi c.d. composti) porta all’inizio degli anni ’90 con il superamento definitivo della scala mobile e l’accordo del luglio 1993, come sopra ricordato. Il protocollo del 23 luglio 1993 si spiega così: dopo il crollo del sistema dei partiti, dopo la legge finanziaria lacrime-sangue del governo presieduto da Giuliano Amato del 1992 si pone l’obiettivo di riportare sotto controllo il deficit, risanare i conti pubblici e riuscire a realizzare i parametri per l’ingresso nell’Euro. Se non si fosse raggiunto questo risultato l’Italia non sarebbe oggi il paese con i gravi problemi che conosciamo, ma qualcosa di peggio, una specie di Argentina nel cuore dell’Europa. E’ necessario ora un nuovo obiettivo. Il problema sta nel come definirlo.

Occorrerebbe in primo luogo individuare un sistema di valori condiviso anzitutto dalle parti sociali: una visione equilibrata della competizione, che non può essere fondata sulla flessibilità del lavoro come valore in sè, ma semmai sulla qualità del lavoro, su una nuova politica dei redditi, che esclude l’utilità del rivendicazionismo salariale[82] ma anche la pura e semplice subordinazione della condizione e dei redditi di lavoro alle esigenze immediate di impresa. In questo senso la legge n. 30 del 2003 e il successivo d. lgs. n. 276 del 2203 appaiono del tutto fuori fase, come sopra detto. I fatti hanno dimostrato che c’è invece bisogno dell’esatto contrario: rilanciare le politiche di concertazione e coesione sociale, rivalorizzare il senso e il significato del lavoro, anzitutto garantendo a chi si cimenta nel lavoro nel settore privato, e quindi soprattutto ai giovani, una prospettiva di vita e di sicurezza, e poi sviluppando efficaci politiche di integrazione della nuova forza lavoro extracomunitaria, di cui questo paese ha un bisogno vitale. Sono quindi in gioco oggi politiche di stabilizzazione e valorizzazione del lavoro, esattamente agli antipodi della filosofia che ha animato le leggi in commento. L’obiettivo, la missione di una “nuova concertazione” potrebbe essere quindi individuato nel rilancio della funzione produttiva, del valore produttivo del lavoro e dell’impresa.

La concertazione è utile se fatta bene, alle condizioni sopra descritte. Altrimenti è meglio lasciare campo libero alla competizione liberista. Che altro è infatti il superamento della concertazione se non l’affermazione della logica neo-liberista? Ogni attore sociale muove la sua azione, conflittuale e negoziale, e alla fine si vedrà l’esito. Se ciò accade c’è da dubitare che dal libero incrociarsi delle rivendicazioni e dei conflitti sociali possa scaturire nelle condizioni oggi date un esito, per così dire, progressivo. Appare più probabile lo scatenarsi di corporativismi incontrollati. Già le nuove forme di terziarizzazione del conflitto la dicono lunga. Non sono più solo gli addetti ai servizi pubblici che usano il loro potere di condizionamento verso gli utenti-cittadini (gli autoferrotranvieri, i controllori di volo, i macchinisti delle ferrovie ecc.). Sono gli operai che per farsi sentire terziarizzano il loro conflitto, colpendo gli utenti (così gli operai di Termini Imerese bloccano l’aeroporto di Palermo e l’autostrada, gli operai dell’Ilva di Terni la stazione, quelli di Melfi il flusso delle merci, i forestali della Calabria i trasporti nord-sud ecc.). Le intuizioni di Accornero degli anni ’80 sulla “terziarizzazione del conflitto” sono andate, per così dire, ultra vires[83]. Se non si trova un altro modo di governare il conflitto l’esito più probabile è quello di una atomizzazione del conflitto sociale come premessa, in parallelo alla crescente frantumazione istituzionale del paese, di un esito plebiscitario della lunga transizione italiana.

Una volta affermato che la concertazione è ancora utile si tratta di ragionare sulla sua concreta praticabilità. Ammesso che tutte le premesse sopra descritte siano soddisfatte, si possono indicare i temi su cui una “nuova concertazione”ovvero una “nuova politica dei redditi” dovrebbe cimentarsi. Occorrerebbe intanto definire alcuni argomenti di impegno per così dire unilaterale dei tre soggetti della concertazione. Per il governo: politica delle tariffe, dei prezzi, di sostegno a una politica economica e industriale fondata su ricerca/innovazione, sulla valorizzazione, qualificazione e stabilizzazione del lavoro. Per le imprese: rinuncia ad affrontare la competitività sul versante della riduzione dei diritti e del costo del lavoro e accettazione della sfida a misurarsi con la competitività sul piano della qualità dei prodotti e del lavoro. Per i sindacati: scelta decisa a favore di un impegno sulla competizione di qualità, rinuncia a divisioni entropiche e stipulazione di un nuovo “patto federativo” relativo a un sistema coerente di regole sindacali. Di questi enunciati andrebbero poi declinati i dettagli, in tema di nuovi schemi della concertazione possibile, anzitutto per quanto riguarda la selezione degli attori, le regole endo-sindacali in termini di procedimenti decisionali, le regole pattizie in materia di sistema contrattuale e di conflitto, e infine le essenziali regole legislative in ordine alla efficacia giuridica dei contratti collettivi di lavoro.

 

    6.  Conclusioni.  

In conclusione qualcosa va detto in ordine alla vitalità ovvero alla “crisi” del diritto del lavoro ciclicamente evocata. Sul punto chi scrive è vaccinato. Quando ero impegnato nella mia prima monografia mi imbattei in una serie imponente di definizioni del diritto del lavoro, alcune di segno catastrofista, del tipo appunto “crisi” o addirittura “morte” del diritto del lavoro. Per venirne a capo decisi di raccogliere quelle definizioni in una introduzione[84]. Da allora mi sono convinto che il diritto del lavoro è una strana materia che assomiglia all’Araba fenice, capace di rinascere quando se ne dichiara la fine e di declinare quando se ne celebra il trionfo, e ho deciso di non prendere mai più sul serio il tema della “crisi “ del diritto del lavoro.

I cambiamenti in corso sono tuttavia davvero molto consistenti. Qui più che la dottrina conta l’osservazione di ciò che accade nella realtà, che si fa descrivere meglio per aneddoti che per astratte formulazioni.

Mi ha molto colpito, di recente, una breve ma efficace analisi formulata da un ex operaio, ora in pensione, che si diletta di fotografia. Dice questa persona: “una volta in fabbrica si producevano meccanismi di solidarietà; si lavorava assieme, con lo stesso contratto, i più anziani insegnavano ai giovani, si formava un collettivo. Anche a quel tempo c’erano i più bravi e i meno capaci: c’erano operai che avevano dei numeri, non avevano potuto frequentare le scuole, ma potevano insegnare agli altri; molti di questi sono diventati capi-officina e poi a loro volta hanno messo su imprese artigiane; i meno capaci venivano protetti. Ora non è più così: nella stessa impresa convivono contratti e posizioni di lavoro diverse: l’impresa è esternalizzata, c’è gente che va e viene e non si forma più un collettivo. I più anziani non hanno niente da insegnare ai giovani, perché magari i giovani sanno usare il computer e gli anziani no”. Questo racconto, riferito alla condizione di lavoro di una media impresa emiliana dice molto, quasi tutto, delle trasformazioni del lavoro. Ciò che declina non è la subordinazione, il vecchio lavoro subordinato/dipendente, che invece fiorisce come non mai. Ciò che declina, e tende addirittura a dissolversi è invece l’identità collettiva del lavoro. Il lavoro subordinato non è minoritario. E’ disperso, frantumato, privo della possibilità di autoriconoscersi come soggetto collettivo[85].

In queste condizioni anche nella legge n. 30 e nel d. lgs.n. 276 del 2003 si possono riscontrare alcune normative utili, come l’idea della costituzione di una borsa nazionale del lavoro a cui ogni interessato può rivolgersi per cercare occasioni di lavoro, ammesso che sia possibile tutelare la privacy [86].In questi provvedimenti non tutto è da abrogare. Molto invece è da rivisitare.

In ogni caso avanzano vertiginosi processi di cambiamento economico-sociale. Sulle pagine dell’inserto “corriere del Veneto” del Corriere della Sera si legge che nel Veneto si svolgono forme diffuse di delocalizzazione e di intra-localizzazione: una importante impresa di elettrodomestici mette in cassa integrazione 700 dipendenti perché ha deciso di avviare uno stabilimento di produzione in Cina; nell’area tessile del trevigiano sono state chiuse una serie di aziende dell’indotto (stirerie, camicerie ecc.) sostituite da nuove società con nomi fantasiosi, che occupano nelle stesse mansioni lavoratrici cinesi, cosicché le operaie italiane licenziate hanno organizzato una protesta, dicendo “noi lavoravano a contratto otto ore al giorno, quelle lavorano anche la notte a sottosalario”. Sembra di rileggere le pagine delle lotte bracciantili di inizio ‘900 quando i braccianti in sciopero nelle campagne padane affrontavano i “crumiri” portati sui camion dalle zone depresse del polesine, ed erano ancora più poveri e disperati degli scioperanti. I dirigenti della Confindustria lanciano appelli allarmati affermando che l’Euro pesante comporta un aggravio di circa il 50% nella competizione persino per le produzioni di lusso del made in Italy. Commentatori economici autorevoli affermano che l’Italia è ferma, non si innova, non si fa ricerca, gli imprenditori si dedicano ad operazioni finanziarie e non ad investimenti produttivi. Per non dire di ciò che accade sul versante istituzionale: una politica rissosa, impegnata esclusivamente nella ricerca dei consensi elettorali nel breve periodo e non nella costruzione di progetti per il futuro, un assetto istituzionale disordinato, conflittuale, caotico.

L’impressione è infine che qualcosa di molto concreto sia avvenuto nel mondo nel lavoro, piuttosto lontano dalle eleganti dissertazioni dei giuristi sui lavori senza aggettivi, sui cerchi concentrici e così via. Qualcosa che assomiglia più alla dissolvenza che all’idea razionale di un altro assetto, che pure fin qui anche chi scrive si è sforzato di perseguire. Verrebbe da dire, con il Faust ghoetiano: “Ahimè, ho studiato a fondo e con ardente zelo, filosofia e giurisprudenza e medicina e, purtroppo, anche teologia. Eccomi qua, e ne so quanto prima”. Se si aggiungesse alla desolata affermazione di Faust l’inciso “e ahimè anche diritto del lavoro” il richiamo risulterebbe perfetto.

Tuttavia accade talora di accorgersi, spesso involontariamente, che il diritto del lavoro resta un modo utile di guardare al grande e anche al piccolo mondo reale, che esso è davvero una finestra sulla realtà. Così di recente mi è accaduto, passeggiando sulle Zattere a Venezia, di assistere al seguente episodio. Pure essendo poco dopo l’alba c’era un grande fervore di lavori, specialmente attorno ai rifornimenti di un grande magazzino. Poiché stavo preparando mentalmente una lezione sulla somministrazione di manodopera e sui processi di esternalizzazione ho guardato con gli occhi del diritto del lavoro ciò che mi circondava. La mia prima valutazione è stata: qui ci sono decine di persone che lavorano sul serio. C’è chi ha portato il camion sulla chiatta attraccata al molo, chi trasborda le merci dalla chiatta al magazzino, chi sistema le merci negli scaffali. Non sono neppure le sette della mattina, eppure il lavoro ferve. Dunque innanzi tutto il lavoro c’è. Avrà perso la sua identità, la sua forza sociale e politica, eppure ancora esiste. Dopo una breve digressione mentale sul tema delle eventuali maggiorazioni retributive per quelle ore di lavoro svolte in orario così mattutino, risolta negativamente dato il fatto che la notte era passata, e quindi non erano più in gioco indennità di lavoro notturno, tranne un dubbio per gli addetti ai trasporti che evidentemente avevano lavorato di notte, mi sono interrogato sulla quantità di unità produttive ovvero contrattuali entro cui si aggregavano i lavori che vedevo svolgersi. Ho dedotto che sicuramente c’era un contratto di trasporto, poi un contratto di facchinaggio e probabilmente di fornitura, quindi un contratto della grande distribuzione commerciale. Mentre mi accingevo a proseguire nella mia meditazione sulla lezione da svolgere, mi si è parato di fronte uno strano avvenimento. Si è verificato un alterco tra una addetta al grande magazzino e un operatore ecologico che stava svolgendo il suo lavoro di raccolta dei rifiuti. Quest’ultimo si rifiuta di raccogliere i sacchetti di spazzatura aperti e dal contenuto disperso, perché sostiene che le sue mansioni consistono nel raccogliere i sacchetti chiusi, mentre la raccolta della spazzatura disseminata spetta ad altri. La commessa afferma che non sta a lei raccogliere quella spazzatura, perché lei chiude la sera i sacchetti, li dispone all’esterno e non è colpa sua se di notte arrivano –sostiene- gli “zingari” che aprono i sacchetti e ne disperdono il contenuto. Perciò apostrofa duramente l’interlocutore, chiamandolo tuttavia operatore ecologico e non con il più popolare e obsoleto termine di “spazzino”. Il colloquio-alterco si svolge in stretto veneziano, ed è concluso dalla irata conclusione dell’operatore ecologico che, andandosene con il suo carretto, afferma “la ghe chiami i carabinèr”. Guarda caso stava da lì passando una pattuglia di poliziotti, anzi di operatori della sicurezza., a cui subito si rivolge la commessa, sempre in stretto veneziano. Gli operatori della sicurezza, essendo meridionali, per prima cosa dicono: “parli italiano”. Dopodichè, udita la questione, dichiarano che il problema non li riguarda, avendo chiesto tuttavia alla commessa se era sicura che i sacchetti della spazzatura venissero aperti dagli zingari, domanda alla quale la commessa ha risposto decisa, questa volta ancora in veneziano, “la ghe son sicura, sì”. Mentre mi allontanavo ho riflettuto sulla quantità di questioni di diritto del lavoro affollate nell’episodio a cui avevo appena assistito. Intanto, un problema di mansioni. A chi tocca la raccolta dei rifiuti dispersi? La commessa ha ragione: quel compito non sta certo nel contenuto della sua obbligazione di lavoro. Ha ragione però anche l’operatore ecologico, se è vero che a lui compete la raccolta dei sacchetti chiusi, mentre ad altri spetta quella dei rifiuti dispersi. E’ escluso inoltre un compito degli operatori della sicurezza, tranne la questione del controllo degli “zingari”, peraltro improbabile, dato che a Venezia di zingari non se ne vedono molti, mentre circolano non pochi drop-out, di età variabile. Ma questa è la vecchia job property, l’applicazione pignola del mansionario tipica dell’antico sindacalismo anglosassone, mi sono detto. Come andrà a finire la storia, dato il fatto che non può essere tollerato più di tanto, per l’immagine dell’esercizio, l’esistenza di rifiuti dispersi di fronte al grande magazzino. Riassumendo: gli operatori della sicurezza non c’entrano, se non per gli eventuali controlli notturni sugli “zingari”; l’operatore ecologico si attiene al suo mansionario, e difficilmente potrà essere indotto ad ampliarlo, né tanto meno sanzionato per il rifiuto di flessibilizzare i suoi compiti, dato che si tratta di un dipendente formalmente privato ma occupato in quel regime semi-pubblico degli addetti alle ex aziende municipalizzate, ora trasformate in genere in società per azioni con il pacchetto di maggioranza detenuto per lo più dai Comuni. Concludo che alla fine il problema andrà risolto dalla commessa, quando il direttore le chiederà di provvedere a rimuovere il disdoro costituito dalla spazzatura davanti all’esercizio, specie se la commessa è assunta con un contratto a termine, o altre forme di lavoro precario.

L’episodio appena descritto mi ha distratto dalla impostazione geometrica che intendevo dare alla mia lezione sulle esternalizzazioni di impresa. Mi ha richiamato alla realtà. Mi ha fatto intendere, una volta ancora, che il diritto del lavoro è una materia umile, che per lo più riguarda attività povere, tuttavia essenziali ai fini di una condizione decente di vita dei cittadini, che sta a ridosso dei rapporti concreti di lavoro e di vita, che poco si presta ad astrazioni, le quali per lo più risultano sproporzionate rispetto alla ridotta natura dell’oggetto. Ma al tempo stesso una materia straordinaria per la sua capacità di costituire un filtro di osservazione della realtà e anche uno strumento in qualche misura determinativo dei rapporti sociali concreti, se è vero, come ha ricordato Gerard Lyon-Caen in una delle sue ultime lezioni, che esso “organizza la vita delle persone nei suoi aspetti più quotidiani, e più remoti da qualunque speculazione intellettuale; da lui dipende il loro sostentamento; dalla sua portata esatta dipendono un congedo più o meno lungo, un’indennità più o meno elevata” di modo che “dal fatto che lo si applichi in un senso o in un altro dipenderà la sorte di milioni di persone”[87]. Anche per questo il diritto del lavoro, una volta che lo si è incontrato e compreso, è difficile abbandonarlo.

 

 


[1] D’Antona, Il protocollo sul costo del lavoro e l’autunno freddo dell’occupazione, RIDL, 1993, I,  411 ss.

[2] Cfr., anche per richiami, i saggi in Mercato del lavoro. Alcune risposte a molti interrogativi, LD, 2004, 7 ss.

[3] Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, 2001.

[4] Alleva, Un disegno autoritario nel metodo, eversivo nei contenuti, in Aa. Vv., Lavoro: ritorno al passato, Roma, 2002.

[5] Cfr. Dal Patto per Milano al Patto per l’Italia, Interventi, DRI, 2003, 3 ss.

[6] Cfr., tra gli altri, gli accordi Fiat del dicembre 2002 e Alitalia dell’ottobre 2004.

[7] Galbraith, L’economia della truffa, Milano, 2004.

[8] Basti visitare il sito del ministero del welfare. Cfr. anche Tiraboschi, La riforma Biagi. Commentario allo schema di decreto attuativo della legge delega sul mercato del lavoro, GL, supplemento al n. 4/2003, 2003.; Sacconi – Reboani - Tiraboschi, La società attiva, Venezia, 2004.

[9] giugni, I tecnici del diritto e la legge “malfatta”, PD, 1970, 479.

[10] G. F. Mancini, Terroristi e riformisti, Bologna, 1981, 149.

[11] Per essenziali rilievi critici a tale strategia si vedano Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Bari, 2000; Stigliz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino, 2002; Rifkin, Il sogno europeo, Milano, 2004.

[12] roccella, Una politica del lavoro a doppio fondo, LD, 2004, 43 ss.; Bano, Diritto del lavoro e nuove tecniche di regolazione: il soft law, LD, 2003, 49 ss..

[13] Lettieri, L’allargamento a Est e i destini incrociati dell’Europa, DML, 2004.

[14] Le migliori analisi della lunga fase preparatoria si ritrovano in Lo Faro, Funzioni e finzioni della contrattazione collettiva comunitaria, Milano, 1999;  M Barbera, Dopo Amsterdam, Italia, 2000.

[15] Amato, Presentazione, in G. F. Mancini, Democrazia e costituzionalismo nell’Unione europea, Bologna, 2004, 3.

[16] Caruso, Alla ricerca della “flessibilità mite”: il terzo pilastro delle politiche del lavoro, DRL, 2000, 141 ss.

[17] Ghezzi, Fatti e misfatti: il diritto del lavoro nella “Repubblica dei referendum”, RGL, 2003, I, 3.

[18] m. Barbera, L’eguaglianza come spada e l’eguaglianza come scudo, in Eguaglianza e libertà nel diritto del lavoro. Scritti in memoria di Luciano Ventura, a cura di Chieco, Bari, 2004; Chieco, Lavoratore comparabile e modello sociale nella legislazione sulla flessibilità del contratto e dell’impresa, in Eguaglianza e libertà nel diritto del lavoro, cit.

[19] Cfr. le risposte di Ghezzi, Pera, Persiani, Suppiej, Giubboni, Novella, Torelli, Trojsi, Voza, in Il diritto del lavoro oggi, LD, 2000, 5 ss.

[20] Alleva, Il tramonto degli automatismi salariali, PD, 1982, 423 ss.

[21] PERSIANI, Diritto della previdenza sociale, Padova, 2002, 289.

[22] gorrieri, Parti uguali fra diseguali, Bologna, 2002.

[23] Brollo, Il lavoro subordinato a tempo parziale, Napoli, 1991.

[24] M. T. Carinci, La fornitura di lavoro altrui, Commentario al Codice civile, diretto da Schlesinger, Milano, 2000.

[25] Alleva, Ricerca e analisi dei punti critici del decreto legislativo 276/2003 sul mercato del lavoro, RGL, 2003, I, 887 ss.

[26] S. Cassese, La crisi dello Stato, Bari, 2002.

[27] D’Antona,  Diritto del lavoro di fine secolo: una crisi di identità, RGL,  1998, I, 311.

[28] Pelling, A History of British Trade Unionism, London, 1976.

[29] Si vedano Wedderburn, Common law, labour law, global law, DLRI, 2002, 1.; Hepple, Diritto del lavoro, disuguaglianza e commercio globale, 2003, 27.; Perulli., Diritto del lavoro e globalizzazione, Padova, 1999; Scarponi (a cura di), Globalizzazione e diritto del lavoro, Milano, 2001.

[30] Si veda la suggestiva ricostruzione di Ruffolo, Quando l’Italia era una superpotenza, Torino, 2004.

[31] In argomento cfr. Viscomi, La legge italiana del 1998 sul lavoro immigrato extracomunitario, in Cappelletti - Gaeta L. (a cura di), Diritto del lavoro. Alterità, Napoli, 1998; Gragnoli, Area soggettiva di applicazione e regime delle fonti, in Dondi (a cura di), Il lavoro degli immigrati, Milano, 2003, 56; Dondi, La politica verso l’immigrazione: dalla legge Turco-Napolitano alla legge Bossi-Fini, in Dondi (a cura di), Il lavoro degli immigrati, cit.; Castelli, Politiche dell’immigrazione e accesso al lavoro nella legge Bossi-Fini, LD, 2003, 289.

[32] Per tutti si vedano De Luca Tamajo R., I processi di esternalizzazione, Napoli, 2002; Ferraro, Tipologie di lavoro flessibile, Torino, 2002; Perulli (a cura di), Impiego flessibile e mercato del lavoro, Torino, 2004.

[33] Romagnoli, La concertazione sociale in Europa: luci e ombre, LD, 2004; Id., L’uomo flessibile e la metamorfosi del lavoro, Bologna, 2004, 426 ss.; Id., Radiografia di una riforma, Bologna, 2004, 19.

[34] Pedrazzoli (a cura di), Lavoro subordinato e dintorni, Bologna, 1989; Ghezzi (a cura di), La disciplina del mercato del lavoro. Proposte per un Testo unico, Roma, 1996; Impresa e nuovi modi di organizzazione del lavoro, Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, Salerno, 22-23 maggio 1998, Milano, 1999; Pedrazzoli, Dai lavori autonomi ai lavori subordinati, in Scritti in onore di Gino Giugni, tomo I, Bari, 1999, 737 ss.

[35] D’Antona., La grande sfida delle trasformazioni del lavoro: ricentrare le tutele sulle esigenze del lavoratore come soggetto, in D’Antona, Il lavoro delle riforme , Roma, 2000,297.

[36] Grandi, “Il lavoro non è una merce”: una formula da ricordare, LD, 1997, 557.

[37] Per le proposte formulate dalla CGIL cfr. Aa. Vv., La riforma del mercato del lavoro, Roma, 2003, 125 ss.; per quelle dei partiti di opposizione cfr. Lavoro Welfare, Verso il programma dell’Ulivo per il lavoro, Milano, 2002, 127 ss.; per un commento cfr. Perulli, Lavoro autonomo e dipendenza economica oggi, RGL, 2003, I, 221 ss.

[38] Persiani - Proia, Contratto e rapporto di lavoro, Padova, 2003,9.

[39] Roccella, Manuale di diritto del lavoro, Torino, 2004, 29 ss.

[40] Barassi, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, vol. I, Milano, 1915.

[41] Mengoni, Il contratto di lavoro, a cura di M. Napoli, Milano, 2004, 115; Napoli, Ricordo di Luigi Mengoni, DLRI, 2002, 151.

[42] Mazzotta, Barassi, Goethe e la tipologia dei rapporti, in La nascita del diritto del lavoro, a cura di M. Napoli, Milano, 2003.

[43] Treu, in Commentario della costituzione a cura di Branca, Bologna-Roma, 1979.

[44] Santoro Passarelli, Il lavoro “parasubordinato”, Milano, 1979; Ballestrero, L’ambigua nozione di lavoro subordinato, LD, 1987, 41 ss.

[45] Calafà, Congedi e rapporto di lavoro, Padova, 2004.

[46] Cfr. art. 12 l. n. 223 del 1991.

[47] Si vedano, per tutti, Mortati, Il lavoro nella costituzione, DL, 1954, I, 154; Romagnoli, in Commentario della costituzione, a cura di Branca, Bologna - Roma, 1975, 194; Mazzotta, Diritto del lavoro, Milano, 2002,12.

[48] Ichino, Il lavoro e il mercato, Milano, 1996.

[49] Ichino, Lezioni di diritto del lavoro, Milano, 2004.

[50] Del Punta, L’economia e le ragioni del diritto del lavoro, DLRI, 2001, 3; De Simone, Dai principi alle regole, Torino, 2001, 20 ss.

[51] Zoppoli, Dieci anni di riforma del lavoro pubblico, 1993-2003, LPA, 2003, 751.

[52] S. Cassese, La tenaglia del pubblico impiego, in Corriere della sera del 23 novembre 2004.

[53] Borgogelli F., La nuova disciplina del mercato del lavoro e le pubbliche amministrazioni, LD, 2004, 69.

[54] Biagi, Competitività e risorse umane: modernizzare la regolazione dei rapporti di lavoro, RIDL, 2001, I, 257 ss.; Biagi, Istituzioni di diritto del lavoro, Milano, 2001.

[55] Pera, Noterelle. Diario di un ventennio, Milano, 2004.

[56] Pedrazzoli, Codice dei lavori, Milano, 1999; Pedrazzoli, Logistica delle norme e conoscenza del diritto del lavoro, LD, 2001, 599 ss.; E’ conoscibile il diritto del lavoro?, Interventi, LD, 2001, 541 ss.

[57] Cfr. Commissione per l’analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale, Relazione finale, Roma, 28 febbraio 1997; Treu, Riforma o destrutturazione del welfare, DLRI, 2002, 535; Balandi - Renga, Presentazione di La protezione sociale del lavoro non-standard, LD, 2003, 361 ss.

[58] Accornero - Della Ratta Rinaldi, La conflittualità nei servizi pubblici, LD, 2004, 305.

[59] G. F. Mancini, Libertà sindacale e contratto collettivo “erga omnes”, RTDPC, 1963, 520 ss.

[60] Cfr. Le nuove regole sindacali. Interventi, LD, 1987.

[61] Pascucci, Tecniche regolative dello sciopero nei servizi essenziali, Torino, 1999; Santoni, Lo sciopero, Napoli, 2001.

[62] Ghezzi, Modificare l’art. 39 della Costituzione, PD, 1985, 219 ss., ora in Ghezzi, Dinamiche sociali, riforma delle istituzioni e diritto sindacale, Torino, 1996, 129 ss.; Ghezzi, Dopo l’XI legislatura: la rappresentatività sindacale tra iniziativa legislativa e referendum, LD, 1994, 351 ss., ora in Ghezzi, Dinamiche sociali, riforma delle istituzioni e diritto sindacale, cit.; Rusciano M., Contratto collettivo e autonomia sindacale, Torino, 2003; Tursi, Autonomia contrattuale e contratto collettivo, Torino, 1996; Nogler, Saggio sull’efficacia regolativa del contratto collettivo, Padova, 1997; Bellocchi, Libertà e pluralismo sindacale, Padova, 1998; Campanella, Rappresentatività sindacale: fattispecie e effetti, Milano, 2000; Monaco, Modelli di rappresentanza e contratto collettivo, Milano, 2004; Zilio Grandi, Enti bilaterali e problemi di rappresentanza sindacale, LD, 2003, 185; Scarponi, Gli enti bilaterali nel disegno di riforma, LD, 2003, 223; Gli enti bilaterali: mercato del lavoro e rappresentanza sindacale, LD, 2003.

[63] Per un utile survey cfr. Damiano - Pessa, Metalmeccanici, Roma, 2000.

[64] Mariucci, Le c. d. pre-intese contrattuali, RGL, 2004, I, 115 ss.

[65] Si veda la classificazione di F. Carinci, Una svolta fra ideologia e tecnica: continuità e discontinuità nel diritto del lavoro di inizio secolo, Introduzione, in Commentario al d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Milano, 2004.

[66] Cfr. Le nuove regole sindacali. Interventi, cit.

[67] Mariucci, Poteri dell’imprenditore, rappresentanze sindacali unitarie e contratti collettivi, in Poteri dell’imprenditore, rappresentanze sindacali unitarie e contratti collettivi, Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, Pisa, 26-27 maggio 1995, Milano, 1996.

[68] Weber, Economia e società, Milano, 1981; Bobbio, Rappresentanza e interessi, in Rappresentanza e interessi, a cura di Pasquini, Bari, 1988.

[69] Ballestrero, Diritto sindacale, Torino, 2004, 122ss.

[70] Lassandari, Considerazioni a margine della “firma separata” del ccnl per i lavoratori metalmeccanici, RGL, 2003, I, 709 ss.

[71] Cfr. Federalismo e diritti del lavoro, Interventi, LD, 2001, 401 ss.

[72] D’Antona, La grande sfida delle trasformazioni del lavoro: ricentrare le tutele sulle esigenze del lavoratore come soggetto, cit.; Id., Diritto del lavoro di fine secolo: una crisi di identità, cit.

[73] Per tutti v. F. Carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, ADL, 2003, 1.

[74] Per una ricostruzione puntuale v. Bellardi, Concertazione e contrattazione, Bari, 1999; Veneziani, Concertazione e occupazione: un dialogo interrotto?, LD, 2004. Per altri interventi cfr. Concertazione e unità sindacale, LD, 2004, 267 ss.

[75] B. G. Mattarella, Sindacati e pubblici poteri, Milano, 2003.

[76] Cfr. Costituzione. Una riforma sbagliata, a cura di F. Bassanini, Firenze, 2004.

[77] Utili in argomento sono le osservazioni sui limiti della costituzione americana di Dahl, Quanto è democratica la costituzione americana?, Roma - Bari, 2001.

[78] Per questa risalente letteratura si veda per tutti, Maraffi (a cura di), La società neocorporativa, Bologna, 1981.

[79] Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, cit.

[80] Treu, Riforma o destrutturazione del Welfare, cit.

[81] Giugni, La lunga marcia della concertazione, Bologna, 2003; Mania - Sateriale, Relazioni pericolose, Bologna, 2002.

[82] Ales, Paradigmi giuridici dell’offerta di lavoro e moderazione rivendicativa nell’esperienza sindacale italiana, DLRI, 2002, 181.

[83] Accornero, Conflitto “terziario” e terzi, DLRI, 1985, 17 ss.

[84] Mariucci,  Il lavoro decentrato, Milano, 1979, Introduzione, 11ss..

[85] Si vedano le preveggenti osservazioni di Vardaro, Contratti collettivi e rapporto individuale di lavoro, Milano, 1985.

[86]  Cfr. Aimo, Privacy, libertà di espressione e rapporto di lavoro, Napoli, 2003, 154 ss.

[87] G. Lyon-Caen, Permanenza e rinnovamento del diritto del lavoro in una economia globalizzata, LD, 2004, 257 ss..

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