I periodi di malattia
concorrono alla maturazione delle ferie
Corte di Cassazione, sezioni unite civili, 12 novembre 2001, n. 14020 (ud. 8 giugno 2001) – Pres. Vela – Est. Roselli – Vigilanza Valbisagno Metronotte srl (avv. Petronio, Mazzotta, Menegazzi) c. Putignano Roberto (avv. Panici, Alleva).
Ferie –
Clausole contrattuali contemplanti la maturazione delle ferie annuali in
proporzione al solo periodo di servizio prestato – Nullità delle pattuizioni – Equiparazione del periodo di
malattia a quello di servizio, ai fini
di determinare il monte ferie individuale – Conseguente correlazione delle ferie all’anzianità di servizio ex
art. 2110, ultimo comma, c.c. - Necessità .
Nella determinazione della
durata delle ferie ex art. 2109, capoverso, cod. civ., l’autonomia privata
trova un limite nella necessità, imposta dall’art. 36 Cost., di parificare ai
periodi di servizio quelli di assenza del lavoratore per malattia.
Il diritto alle ferie,
infatti, non ha solo la funzione di corrispettivo della prestazione lavorativa,
ma soddisfa anche esigenze psicologiche fondamentali del lavoratore,
consentendo allo stesso di partecipare più incisivamente alla vita familiare e
sociale e tutelando il suo diritto alla salute, nell’interesse dello stesso
datore. In tale ottica le ferie sono da intendersi eminentemente come periodo
di “tempo libero” prefigurato dalla Costituzione per la realizzazione da parte del lavoratore delle esigenze
innanzi indicate, piuttosto che per esclusivo ristoro di energie usurate nella
prestazione di lavoro, da fruirsi necessariamente in stato di salute (cfr. Corte cost. n. 616/1987) o almeno in
condizioni fisiche compatibili con la funzione di riposo e ricreazione, sua
propria (Cass. sez. un. 23 febbraio 1998, n. 1947).
Svolgimento
del processo
Con ricorso del 4 agosto 1995 al Pretore di Genova, Roberto Putignano chiedeva dichiararsi il suo diritto a godere le ferie negli anni 1994 e 1995 per l’intero periodo previsto nel contratto collettivo di lavoro, proporzionale ai giorni di servizio prestato, nei quali dovevano essere inclusi anche quelli di assenza per malattia; egli chiedeva perciò che la datrice di lavoro s.r.l. Corpo di Vigilanza Valbisagno Metronotte fosse condannata a riconoscere e ricostruire l’intero monte ferie maturato.
Costituitasi la società convenuta, il Pretore accoglieva la domanda con sentenza 2 agosto 1996, condannando la datrice di lavoro a ricostruire il monte ferie annuali maturate dal ricorrente, includendovi quelle maturate in costanza di malattia relativamente agli anni 1994 e 1995, e la decisione veniva confermata con sentenza 10 giugno 1997 dal Tribunale, il quale, riconosciuto il valore assoluto e inderogabile dell’istituto delle ferie e richiamata la normativa concordata in materia in sede di Organizzazione internazionale del lavoro, equiparava i giorni di assenza per malattia a quelli di lavoro effettivamente prestato.
Contro questa sentenza ricorreva per cassazione la s.r.l Vigilanza Valbisagno.
Resisteva con controricorso il Putignano.
La ricorrente presentava memoria.
Nell’udienza del 4 luglio 2000 la Sezione lavoro di questa Corte, rilevando un contrasto di giurisprudenza sulla questione di diritto sottoposta dalla ricorrente ed accogliendo una istanza formulata dalla medesima nel ricorso, rimetteva la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374, 2° comma, cod. proc. civ.
Il Primo Presidente disponeva in tal senso.
Motivi della decisione
1) Con l'unico motivo la ricorrente lamenta la
violazione degli art. 36 e 39 Cost., 2109 e 2110 c.c. Essa osserva che l'art.
2109 cit., comma 2, seconda parte, delega la determinazione della durata del
periodo di ferie, spettante al lavoratore subordinato, alla legge, ai contratti
collettivi, agli usi o all'equità. In
questa delega è, ad avviso della ricorrente, compresa la condizione -
insuperabile dal soggetto delegato - del necessario e precedente periodo di
«ininterrotto servizio».
Tale condizione significa
che, dovendo essere la durata delle ferie annuali proporzionale ai giorni di
servizio prestato, in questi non possono essere compresi i giorni di assenza per malattia.
In tal senso dispone l'art. 41 del contratto collettivo per i dipendenti
dagli istituti di vigilanza privati, applicato nella fattispecie, il quale
commisura il periodo di ferie ad «ogni anno di servizio prestato», ossia di
effettiva presenza del lavoratore.
Tale esatto significato
sarebbe dimostrato a contrario da altri contratti collettivi, che
includono espressamente nel periodo di servizio anche i giorni di malattia, in
tutto (Ccnl del 1990 per le imprese metalmeccaniche e del 1993 per le industrie
della carta) o in parte (Ccnl del 1994 per le imprese bancarie). La contraria interpretazione della detta
clausola contrattuale, resa dal Tribunale, il quale ha equiparato la mera
durata del rapporto di lavoro, comprensiva dei giorni di assenza per malattia,
alla presenza effettiva del dipendente, confligge a parere della ricorrente con
il suddetto limite posto dall'art. 2109 c.c. nonché con un principio di
corrispettività, che dominerebbe il rapporto di lavoro subordinato e che
escluderebbe ogni obbligo a carico del datore, come quello di riconoscere le
ferie retribuite, in assenza della controprestazione lavorativa, salve le eccezioni di legge.
2) La questione che la ricorrente sottopone alla Corte s'inserisce, insieme
ad altre analoghe di cui tra breve si dirà (infra, par. 4), nella
più ampia e controversa questione del fondamento giustificativo del diritto
soggettivo alle ferie annuali retribuite, spettante al lavoratore subordinato.
Come esattamente, e sia pure
in forma sintetica, nota la ricorrente, alla tesi che vede nelle ferie soltanto
un tempo da destinare al riposo inteso come ricostruzione delle energie
consumate attraverso la effettiva prestazione lavorativa, e che perciò le pone in relazione di stretta corrispettività col lavoro svolto (ogni
periodo di ferie compensa un precedente e proporzionale periodo di attività) si
contrappone quella che assegna alle medesime la funzione più ampia di
assicurare al lavoratore un tempo libero, necessario alla tutela della salute
(art. 32 Cost.) ed all'esercizio dei diritti fondamentali di svolgimento della
personalità (art. 2 Cost.), e perciò le inserisce solo in parte nel sinallagma
del lavoro subordinato.
Questa seconda tesi riflette a
sua volta una concezione del contratto di lavoro nell'impresa come fonte di un
rapporto caratterizzato non solo dallo scambio di prestazioni ma anche
dall'implicazione dell'intera personalità del lavoratore nell'organizzazione
produttiva diretta dall'imprenditore e nella sua inserzione in una comunità
(una «formazione sociale», secondo l'espressione dell'art. 2 Cost.) in cui egli
realizza i detti diritti fondamentali: anzitutto quello ad un'esistenza libera
e dignitosa, sua e della famiglia (art. 36, comma 1, Cost.). Prima ancora delle
disposizioni della Costituzione, l'insufficienza della categoria dei contratti
di scambio ad adeguare la forma giuridica alla realtà sociale (gli artt. 2109 e
2110 del c.c. del 1942 imponevano l'obbligo retributivo anche quando il
contrapposto obbligo di lavoratore fosse sospeso, ed i precedenti artt. 2105 e
2106 sottoponevano il lavoratore ai
poteri organizzativo e disciplinare dell'imprenditore) indusse la dottrina a
riportare il contratto di lavoro subordinato - esclusa la natura associativa
ossia l'unità dello scopo perseguito da tutti i contraenti - al genere dei
contratti d'organizzazione, vale a dire alla complessa figura in cui, anche ma
non solo attraverso rapporti commutativi, l'imprenditore gestisce un complesso
di beni e coordina le attività di una comunità di collaboratori.
3) Lo scrutinio di fondatezza del ricorso richiede l'interpretazione delle seguenti norme di diritto.
L'art. 36, comma 3, della
Costituzione dice che «il lavoratore ha diritto ... a ferie annuali retribuite
e non può rinunziarvi». Rientra così
tra i diritti indisponibili di cui all'art. 2113 c.c. quello previsto dal
precedente art. 2109, che garantisce al prestatore di lavoro (comma 2) «un
periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che
l'imprenditore stabilisce, tenendo conto delle esigenze dell'impresa e degli
interessi del prestatore di lavoro». Il
successivo art. 2110, derogando, come s'è detto, o per lo meno attenuando il
principio di corrispettività, conserva il diritto alla retribuzione anche in
caso di infortunio, malattia, gravidanza e puerperio ed aggiunge nel comma 3
che «il periodo di assenza dal lavoro per una delle cause anzidette deve essere
computato nell'anzianità di servizio».
La convenzione dell'organizzazione internazionale del lavoro (Oil) 24
giugno 1970, n. 132, resa esecutiva in Italia con legge 10 aprile 1981, n. 157,
«sulle ferie annuali retribuite», dopo avere stabilito il diritto ad un congedo
annuale pagato di una durata minima e comunque non inferiore a tre settimane di
lavoro in un anno di servizio (art. 3, commi 1 e 3) aggiunge nell'art. 5, comma
4: «A condizioni da stabilirsi da parte dell'autorità competente o
dall'organismo appropriato in ciascun Paese, le assenze dal lavoro per motivi
indipendenti dalla volontà della persona impiegata interessata, come anche le
assenze per malattia, incidente o congedo per maternità, saranno calcolate nel
periodo di servizio».
Le ferie annuali minime di quattro settimane sono previste nell'art. 2, n. 3, della Carta speciale europea fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996 e ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 9 febbraio 1999, n. 30. Il computo nell'anzianità di servizio «a tutti gli effetti» dei periodi di astensione obbligatoria dal lavoro è stabilito, a favore delle madri, dall'art. 6 L. 30 dicembre 1971, n. 1204.
Questo complesso normativo consente già ora di affermare: a) che il prestatore di lavoro è titolare di un diritto soggettivo alle ferie, garantito a livello costituzionale; b) che il modo di esercizio del diritto non è rimesso alla libera volontà del titolare bensì alla discrezionalità dell'imprenditore, soggetto passivo del diritto, il quale deve bilanciare gli interessi del soggetto attivo con le esigenze dell'impresa. Conviene aggiungere che tale discrezionalità è compatibile con la tutela costituzionale, come ha detto espressamente Corte cost. 10 maggio 1963, n. 66, mentre la sent. 19 dicembre 1990, n. 543 afferma la sottoponibilità del suo esercizio al controllo giudiziale attraverso l'espressione dei motivi.
4) Le norme sopra riportate condizionano l'esercizio del diritto alle
ferie ad un periodo minimo di servizio.
In particolare l'art. 2109, comma.2, c.c., che attribuiva al lavoratore
il diritto «dopo un anno di ininterrotto servizio», è stato dichiarato
illegittimo con sentenza n 66 del 1963 cit. dalla Corte costituzionale
limitatamente al detto inciso, così risultando che le ferie debbono essere
godute entro, e non dopo, l'intero anno di lavoro.
La questione sollevata dalla
ricorrente se nel periodo minimo di servizio entro l'anno possano essere
calcolati i giorni di assenza per malattia, dev'essere tenuta distinta da
questioni diverse, ancorché caratterizzate da aspetti in parte comuni, e così
formulabili: A) se il cosiddetto periodo di comporto, ossia il periodo massimo
di assenza per malattia alla cui scadenza il datore di lavoro può recedere dal
contratto (art. 2110, comma 2, c.c.), possa essere sospeso dalle ferie. Qui il lavoratore non pretende propriamente
un periodo di riposo dopo un periodo di «comporto» (ossia di tolleranza
dell'assenza); B) se nel periodo minimo di servizio possano essere calcolati i
giorni trascorsi dal lavoratore in cassa integrazione guadagni, a zero ore (B
a) oppure con orario ridotto (B b); C) se nel detto periodo minimo possano
essere calcolati i giorni di sciopero; D) se, calcolati i giorni di assenza per
malattia nel detto periodo minimo e non esercitato il diritto alle ferie, il
lavoratore possa ottenere l'indennità sostitutiva (rectius: il
risarcimento del danno); E) se nel periodo minimo di lavoro retribuito, alla
cui maturazione l’art.8, comma 1, L. 5 novembre 1968, n. 1115 subordina il
trattamento speciale di disoccupazione, possano essere compresi i giorni di
assenza per malattia.
La necessità di mantenere
separate tali questioni corrisponde all'esigenza di tener presente che gli
argomenti utili a risolvere, in un senso o nell'altro, una questione non
necessariamente possono essere utilizzati per l'altra; la commistione, in altre
parole, aumenta il pericolo di soluzioni errate.
5) La questione ora sottoposta alla Corte è risolta in senso negativo
da una sentenza della stessa Corte nonché dalla prevalente dottrina in base ai
seguenti argomenti.
I) Benché il diritto alle ferie sia riconosciuto dall'art. 36 Cost., ciò non significa che esse spettino anche in relazione a periodi in cui è mancata una prestazione lavorativa, sia pure per causa non imputabile al debitore.
II) La Convenzione Oil (supra, par. 3) non pone un rigido
principio generale di commutabilità dei periodi di sospensione del lavoro ai
fini della determinazione del diritto alle ferie, poiché essa ha voluto solo
rinviare agli organi dei singoli Stati la specifica disciplina della materia
(Cass., 19 ottobre 1996, n. 9125).
III) La questione qui in esame non è stata risolta neppure indirettamente
dalla sentenza della Corte costituzionale 30 dicembre 1987, n. 616 (vedila più
ampiamente infra, sub par. 7), che si
è limitata a dichiarare l'illegittimità dell'art. 2109 c.c. nella parte in cui
non prevedeva che la malattia insorta durante il periodo feriale ne sospendesse
il decorso.
IV) La previsione espressa della maturazione delle ferie in costanza di astensione dal lavoro della lavoratrice madre, contenuta nell'art. 6 L. n. 1204 del 1971, risulterebbe superflua se fosse già contenuta con efficacia generale nell'art. 2110 c.c.
V) Se si considerasse il periodo di malattia come idoneo a produrre accumulazione di ferie, potrebbe verificarsi nel caso limite che un lavoratore malato per un intero anno conseguirebbe ugualmente il relativo diritto.
Alcuni di questi argomenti
vengono ripresi da Cass. 13 febbraio 1992, n. 1786, la quale esclude che il
lavoratore licenziato per superamento del periodo di comporto di un anno abbia
diritto ad una indennità per ferie non godute.
6) La questione qui in esame viene per contro risolta in senso positivo sulla base di questi argomenti:
Ia) Il diritto incondizionato alle ferie posto dall'art. 36 Cost. è da collegare non all'effettiva attività lavorativa ma al rapporto di lavoro, che permane anche durante la malattia del lavoratore (Cass. 23 gennaio 1997, n. 704).
IIa) A tale conclusione interpretativa induce la convenzione Oil (Cass. 5 aprile 1982, n. 2078) che, seppure non tradotta in specifici precetti, influisce sullo scioglimento di dubbi interpretativi.
IIIa) La non sovrapponibilità fra ferie e malattia è stata sancita in via generale da Corte cost. n. 616 del 1987 cit.
IVa) Pari validità generale ha l'inclusione dei periodi di malattia nell'anzianità di servizio ad opera dell'art. 2110 c.c.
Va) Tale art. 2110, insieme all'art. 2111 in materia di sospensione del rapporto di lavoro per servizio militare, indica la volontà del legislatore di trasferire determinati rischi del prestatore al datore di lavoro (Corte cost. n. 616 del 1987 cit.).
7) Ritengono
le Sezioni unite di doversi attenere a questo secondo orientamento.
Come s'è detto nel par. 2, i
contrapposti argomenti sub I
e Ia, concernenti la necessità di far corrispondere il diritto alle ferie
allo svolgimento effettivo del lavoro oppure alla semplice persistenza del
rapporto, riflettono le opposte concezioni del contratto di lavoro nella
impresa come semplice contratto di scambio oppure come contratto di
organizzazione. La prima delle due concezioni è oggi recessiva e comunque non
può essere qui portata alle conseguenze volute dalla ricorrente.
In passato si vide in essa
una garanzia contro eventuali interventi arbitrari dell'autorità giudiziaria
nell'equilibrio del rapporto di lavoro stabilito dalle parti collettive o individuali;
la rigida predeterminazione dei contrapposti diritti ed obblighi delle parti
nelle norme di diritto o nei titoli negoziali (contratto di tariffa o contratto
individuale) evitava che attraverso le clausole generali legali (ad es. quella
di buona fede contenuta nell'art. 1124 del c.c. italiano del 1865 o nel par.
242 del c.c. tedesco) il lavoratore potesse veder limitati i propri diritti o
aggravatigli obblighi attraverso il richiamo, mediato dalla clausola generale
di buona fede o comunque da disposizioni di legge elastiche, ad un trascendente
interesse della impresa-comunità, in realtà non considerato né dal legislatore
né dalle parti. Specialmente in Germania si denunciava il pericolo che la
visione del contratto di lavoro individuale come contratto non solo di scambio
ma anche di organizzazione, finalizzato all'interesse superiore dell'impresa o
della produzione nazionale, potesse portare ad un potere incontrollabile del
proprietario dei mezzi di produzione sul locatore di mera forza-lavoro. Queste preoccupazioni sono sopravvissute
alla caduta degli ordinamenti autoritari ed hanno lasciato consistente seguito
nella dottrina italiana, che nel puro sinallagma contrattuale ravvisa una
barriera contro una sottomissione del contraente-lavoratore alla gerarchia
dell'impresa (impermeabile a controlli esterni) ossia contro eventuali ritorni
a concezioni assolutistiche o almeno paternalistiche dell'impresa stessa. E ciò
anche se oggi il pericolo di abuso dei
poteri imprenditoriali sia frenato anzitutto dai principi economici
della Costituzione (parte prima, titolo III) e poi da una folta normazione di
dettaglio, specie extracodicistica. Per
quanto qui interessa, il sinallagma contrattuale comporta un nesso così stretto
fra le prestazioni contrapposte che le norme non solo del c.c., ed in primis
l'art. 2110 cit., postulanti la permanenza dell'obbligo economico datoriale
anche in caso di inesecuzione della prestazione lavorativa non imputabile al
debitore, andrebbero considerate come eccezioni al principio di corrispettività
e perciò di stretta interpretazione: ne deriverebbe l'impossibilità, in difetto
di espressa previsione legale, di parificare i giorni di assenza per malattia a
giorni di lavoro effettivo ai fini della maturazione del diritto alle ferie, intese
rigidamente come corrispettivo del lavoro svolto. Altra parte della dottrina
rileva però la insufficienza della concezione sinallagmatica a rappresentare l'
intera realtà del lavoro nella impresa, attraverso cui il prestatore di
lavoro non consegue soltanto il compenso per l'utilità economica resa al
datore, ma realizza i valori indicati negli artt. 2, 4, e 36 Cost. Anche la dottrina tedesca del secondo
dopoguerra, pur ostile alla concezione comunitaria dell'impresa a suo tempo
accolta dalla Corte del lavoro, e propugnatrice della contrapposizione degli
interessi dei datori e dei prestatori di lavoro, riconosce la rilevanza
dell'«interesse generale alla conservazione dell'azienda» e quindi
l'impossibilità di ridurre il rapporto di lavoro alla sola corrispettività.
La nostra giurisprudenza di
legittimità mantiene la concezione sinallagmatica ma non la irrigidisce: le
prestazioni lavorative non costituiscono così «un mero strumento per il
raggiungimento di un risultato economico, ma esprimono piuttosto la presenza di
un soggetto nell'organizzazione aziendale.
Un soggetto che quivi opera mediante il vincolo del rapporto
obbligatorio di scambio, nella cui struttura sono insite pause di varie durata
(giornaliera, settimanale, annuale), le quali non incidono sulla funzionalità
del sinallagma» (Cass. 13 novembre 1986, n. 6658). Una concezione ampliata del nesso di corrispettività,
dunque. La presenza del soggetto
nell'organizzazione aziendale impone all'imprenditore l'obbligo delle ferie non
quale compenso ma come «vincolo cogente inderogabile a tutela della salute e
della personalità del lavoratore» (così Cass. 28 maggio 1986, n. 3603).
La giurisprudenza
costituzionale si spinge oltre. Essa
configura il diritto soggettivo alla salute come posizione soggettiva autonoma
(art. 32 Cost.), realizzabile nell'ambito del rapporto di lavoro attraverso
l'imposizione al datore del rischio della malattia sofferta dal prestatore,
ossia dell'obbligo di retribuzione e del divieto di recesso (art. 2110 cit.),
e aggiunge: "l'assumere che il principio di corrispettività nel rapporto di
lavoro si risolve meccanicamente, salvo deroghe eccezionali, in una relazione
biunivoca tra prestazione lavorativa e retribuzione urta contro il concetto di
retribuzione assunto dall'art. 36 Cost., che non è "mero corrispettivo del
lavoro, ma compenso del lavoro proporzionale alla sua quantità e qualità, e,
insieme, mezzo normalmente esclusivo per sopperire alle necessità vitali del
lavoratore e dei suoi familiari. Per
realizzare tale funzione della retribuzione il legislatore può provvedere non
solo mediante strumenti previdenziali e di sicurezza sociale, ma anche
imponendo determinate prestazioni all'imprenditore: ciò per la ragione che nel
rapporto il lavoratore impegna non solo le proprie energie lavorative ma -
necessariamente e in modo durevole - la sua stessa persona, coinvolgendovi una
parte dei suoi rapporti personali e sociali" (Corte Cost. 18 dicembre 1987, n.
559). Con ciò la concezione puramente sinallagmatica del contratto di lavoro
può dirsi superata (in tal senso e più recentemente Cass. sez. un. 7 agosto
1998, n. 7755).
Che poi il diritto alle
ferie serva non solo di corrispettivo alle prestazioni lavorative ma soddisfi
anche esigenze psicologiche fondamentali del lavoratore, gli consenta di
partecipare più incisivamente alla vita familiare e sociale e tuteli il suo
diritto alla salute, nell'interesse dello stesso datore, è affermato dalla
Corte nelle sentenze 30 dicembre 1987, n. 616 e 22 maggio 2001 n. 158. Nella prima è esplicitamente negata la
sovrapponibilità dei periodi di malattia e di ferie, che debbono essere godute
in stato di salute. Nella seconda la
Corte ripete che il diritto alle ferie fa parte di quel «contenuto minimo di
tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro
subordinato» (compreso perciò quello carcerario).
La tutela costituzionale del diritto soggettivo in questione, così configurata dall'art. 36 cit. e dall'interpretazione fornitane dal Giudice delle leggi, costituisce un limite inderogabile dalla autonomia privata. Ciò che non si verifica in ordinamenti lavoristici pur simili al nostro, nei quali l'assenza di una garanzia di livello sovralegislativo così intensa lascia maggiore discrezionalità ai soggetti collettivi. Ad esempio nell'ordinamento francese, mentre in tempo meno recente, ed ai fini del congedo annuale, il periodo di sospensione del rapporto per malattia era assimilato a periodo di lavoro effettivo (art 54 g del codice del lavoro, come risultante dalla legge 20 luglio 1994), l'art. 223 - 2 del codice attuale (risultante dall'ordinanza 16 gennaio 1982, n. 82 - 41) stabilisce la riduzione del periodo di congedo annuale in proporzione della durata della malattia. Non esiste però in quell'ordinamento il divieto di sovrapposizione dei periodi malattia e di congedo (Cass. Chambre sociale, 4 dicembre 1996, V, n. 420).
Né all'autonomia collettiva
può essere affidata l’attenuazione del detto limite costituzionale. Non è utilizzabile in sede di applicazione delle norme vigenti
la risalente proposta dottrinale di parificare all'effettivo servizio solamente
le malattie di breve durata.
L'autonomia collettiva
rimane nondimeno libera di determinare la durata del periodo feriale, ai sensi
dell'art. 2109, comma 2, ultimo periodo, c.c.
Oltre al detto limite
costituzionale, l'interprete non può tenere in nessun conto una convenzione
internazionale, come quella Oil sopra più volte richiamata, ratificata, resa
esecutiva nel diritto interno ed altrettanto chiara nell'apprestare una tutela
privilegiata del lavoratore in caso di certi impedimenti personali, tra cui la
malattia. Né alcun argomento in contrario può trarsi dall'art. 6 L. n. 1204 del
197l, confermato nell'art. 22, comma 3, Dlgs 26 marzo 2001, n.151, che anzi specifica e rafforza la
previsione dell’art. 2110 c.c. sulla
base delle sopravvenute norme della Costituzione.
8)
Quanto
all'eventualità che ad un lungo periodo di assenza per malattia pur senza
superamento del periodo di comporto,
segua la richiesta di ferie da parte del lavoratore (vedi retro, par. 5,
V), essa è stata risolta nel senso dell'accoglibilità della richiesta da Cass.
5 aprile 1982, n. 2078, in base alla già ricordata necessità che il diritto
alle ferie, irrinunciabile, sia esercitato in condizioni di salute (cfr. anche
Corte cost. n. 616 del 1987 cit.), o almeno in
condizioni fisiche compatibili con la funzione di riposo e ricreazione, sua
propria (Cass. sez. un. 23 febbraio 1998, n. 1947). Per tal motivo l'art. 22, comma 6, Dlgs n. 151 del 2001
stabilisce oggi che le ferie non vanno godute nei periodi di congedo per
maternità.
9) La questione della possibilità di sospendere il periodo di
comporto per la fruizione di ferie già maturate
(vedi retro, par. 3, sub A),
eventualmente durante il periodo di malattia, presenta elementi comuni con
quella qui affrontata e vuole essere risolta nella giurisprudenza di questa
Corte nel senso dell'insussistenza di un principio di automatico prolungamento
del periodo di comporto (Cass. 4 giugno 1999, n. 5528), salva la facoltà, per
il lavoratore, di chiederne la sospensione prima della scadenza ed il potere di
scelta riservato al datore dall'art. 2109, comma 2, c.c. (Cass. 28 gennaio 1997, n. 873, 14 maggio 1997, n.
4217, 2 ottobre 1998, n. 9797, 19 novembre 1998, n. 11691, 11 maggio 2000, n.
6043, 8 novembre 2000, n. 14490).
Anche
questa giurisprudenza
è in armonia con la soluzione qui adottata e ne conferma l'esattezza.
10) Le altre questioni, concernenti la possibilità di comprendere nel
periodo di «servizio» di cui all'art. 2109, comma 2 c.c. i giorni trascorsi in
cassa integrazione guadagni, o in sciopero (retro, par. 3, sub B e C), non possono essere
equiparate a quella qui affrontata poiché l'assenza per malattia non è
assimilabile all' assenza per crisi economica dell'impresa o per
contenzioso sindacale, quanto alla possibilità di utilizzazione del tempo
resosi libero dall'impegno lavorativo.
Parimenti diversa da quella
affrontata qui è la questione di spettanza della cosiddetta indennità per ferie
non godute, e quella della comprensibilità dei giorni di assenza per malattia
nel periodo minimo di lavoro retribuito ai fini del trattamento speciale di
disoccupazione (Cass. 6 settembre 1993, n. 9339, 27 luglio 1996, n. 6762, 16
ottobre 1999, n. 11663)(retro, par. 3, sub D ed E).
La diversità delle caratteristiche e dei conseguenti criteri di soluzione escludono tali questioni dall’attuale tema di decisione.
11) In conclusione dev’essere confermato il principio di diritto a cui si è attenuta la sentenza qui impugnata e secondo cui, nella determinazione della durata delle ferie ex art. 2109, capoverso, c.c., l’autonomia privata trova un limite nella necessità, imposta dall’art. 36 Cost., di parificare ai periodi di servizio quelli di assenza del lavoratore per malattia.
Rigettato il ricorso, il
sopra illustrato contrasto di giurisprudenza giustifica la compensazione delle
spese processuali.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
*******
NOTA
La decisione delle sezioni unite merita la nostra adesione, senza necessità di spendere ulteriori parole al riguardo.
Si segnala che uno dei primi commentatori del versante datoriale (M. Papaleoni, Il diritto alle ferie matura anche in costanza di malattia, in Guida al lavoro, ed. “Il Sole –24 Ore”, n. 48, 2001, p. 16 e ss.) ha espresso, invece (e non sarà il solo in tempi di destrutturazione dei diritti del lavoratore subordinato!), un’ opinione critica (peraltro scontata in ragione della sponda di provenienza). Di questo autore si segnala la costanza (divenuta caratteristica) consistente nell’aggredire, sempre con intenti demolitivi, ogni statuizione giurisprudenziale che abbia deluso le aspettative aziendalistiche della negazione di diritti del lavoratore e/o del sindacato, coniugata allo sfoggio in nota di uno (spesso debordante) barocchismo di citazioni dottrinarie finalizzate a supportare argomentazioni della “sostanza” di quella da noi ora elaborata per lumeggiarne il pensiero manifestato nell’articolo sopra riferito per il caso di specie: “Le ferie spettano al lavoratore che presti servizio, al lavoratore in malattia basta la convalescenza!” (nostra rispettosa sintesi, n.d.r.). A questa sintesi incisiva ci portano le argomentazioni finali del citato autore, secondo cui:“tenuto conto che il periodo di sospensione dell’obbligo lavorativo include anche quello del ristabilimento del lavoratore, ne consegue che allorquando il periodo di malattia si è concluso, non sussiste l’esigenza di garantire un ulteriore periodo di riposo (come, appunto, quello derivante dall’ipotizzato prolungamento del monte ferie in corrispondenza della malattia), atteso che, attraverso la convalescenza il soggetto ha già recuperato il suo stato di salute ottimale. In questi termini, forse, la sentenza delle S.U. presenta un eccesso di garantismo e finisce con l’introdurre una sorta di duplicazione dei benefici conseguenti alla malattia…”(sic!). Evviva, la malattia non determina più debilitazione e decadimento ma addirittura “benefici”: così ragionando non si vede davvero che motivo ci sia per chi si è ben riposato e ritemprato in costanza di malattia, di pretendere (a carico dell’azienda) un periodo di evasione fisiologicamente e psicologicamente ricreativa (in tempi normalmente di buona stagione e non già in coda alla malattia, in convalescenza) che va sotto il nome di “ferie”, anzi addirittura scandalosamente di “diritto alle ferie”!
Roma, 7 dicembre 2001
Mario Meucci
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