Dimissioni ottenute sotto minaccia di licenziamento e di denuncia penale: reato di estorsione o di esercizio arbitrario delle proprie ragioni?

 

1. La decisione della Cassazione penale che si commenta (Cass. 15 ottobre 1996 n. 9121, in Lav prev. Oggi  1997, 6, p.1213)  consta di due massime. La prima è del tutto condivisibile nel momento in cui riconferma la violazione (riscontrata dalla Corte di Appello di Roma) dell’art. 4 Statuto dei lavoratori per aver il datore di lavoro installato un impianto di ripresa a circuito chiuso, senza ricercare l’accordo delle Rappresentanze sindacali (o, in mancanza, a  richiedere le prescrizioni dell’Ispettorato del lavoro), con la conseguenza di ricadere nel reato di cui all’art. 38 stat. lav. (ammenda da 100 mila lire ad un milione o arresto da 15 giorni ad un anno salvo applicazione congiunta delle  pene nei casi più gravi).

Gli interessati alla problematica di cui all’art. 4 possono utilmente rifarsi alla lettura dei commenti all’articolo in questione nei vari Commentari dello Statuto dei lavoratori (Scialoja Branca,  Assanti-Pera, Prosperetti e Giugni) oltre agli articoli specifici, fra i molti autori, di Chericoni, L’art. 4 statuto dei lavoratori: impianti audiovisivi, in questa Rivista 1987, 121 e di Meucci, Sui controlli a distanza dell’attività dei lavoratori, ibidem 1988, 2247.

 

2. La seconda massima - che si ricollega alla recentissima problematica da noi trattata nell’articolo, L’annullabilità delle dimissioni estorte, in questa Rivista 1996, 2081 e ss. -  lascia spazio per esprimere talune considerazioni problematiche o perplessità.

Essa così si esprime: “Nell’ipotesi in cui personalmente e direttamente imponga le dimissioni immediate ad un dipendente sorpreso nell’atto di sottrarre denaro di proprietà dell’azienda con minaccia altrimenti di denuncia penale, il datore di lavoro commette il reato di estorsione (di cui all’art. 629 c.p.) qualora agisca allo scopo di conseguire un profitto nella consapevolezza della non spettanza di esso e quindi in mala fede, mentre commette il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (di cui all’art. 393 c.p.) qualora agisca nella ragionevole convinzione dell’esistenza del proprio diritto al fine di attuarlo pur dovendo tale diritto essere necessariamente esercitato nei modi di legge, senza che la pretesa del datore di lavoro diventi di per sé illegittima per il solo fatto che egli, anziché rivolgersi al giudice, l’abbia personalmente e direttamente realizzata per evitare il licenziamento del dipendente per giusta causa con le relative implicazioni giudiziarie”.

Di fronte alle conclusioni della Corte di Appello di Roma che aveva riconosciuto, nell’ottobre del 1995, il datore di lavoro - che aveva costretto, dietro minaccia di licenziamento e di denuncia penale, la cassiera di un bar di una mensa, non solo alla sottoscrizione di una lettera di dimissioni immediate ma altresì, a titolo di quietanza liberatoria, della busta paga del mese e della liquidazione delle spettanze di fine rapporto senza tuttavia averle contestualmente corrisposto alcuna di tali competenze - colpevole del reato di “estorsione” (ex art. 629 c.p.) irrogandogli la pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione e 800 mila lire di multa, la Cassazione penale muove rilievi, enuncia differenziazioni tra la fattispecie del reato di “estorsione” e di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni” (o “ragion fattasi”, come si diceva un tempo) e rinvia ad altra sezione della stessa Corte di Appello per il riscontro, nel caso di specie, dell’uno e dell’altro reato, allo scopo invitandola ad una  più approfondita e scrupolosa indagine sull’elemento intenzionale del datore di lavoro.

A prescindere dalla ricorrenza dell’uno o dell’altro delitto (l’estorsione, contro il patrimonio in senso lato, la ragion fattasi, contro l’amministrazione della giustizia) - l’uno sanzionato con la reclusione da 3 a 10 anni più la multa, l’altro con la sola reclusione fino ad un anno -, quello che ci conforta e di cui ci piace far partecipi i lettori ed i lavoratori è che, nel caso di dimissioni estorte ex art. 1438 c.c. (dietro “minaccia di far valere un diritto...per conseguire vantaggi ingiusti”), c’è chi non si limita alla sola azione civile di annullamento delle dimissioni ma propone congiuntamente querela per il riscontro di reati penalmente rilevanti in capo a chi  ne ha coartato la volontà, spingendolo a simulare una rinuncia spontanea al bene primario dell’occupazione.

Quand’anche i rilievi  della Cassazione - sui quali ci intratterremo pur non essendo specialisti della materia penale - fossero pertinenti (e quindi si dovesse “derubricare” il reato di “estorsione” in quello di “ragion fattasi”), premettiamo che, in fattispecie così delicate in cui è in ballo il posto di lavoro-fonte di sostentamento, è necessario essere estremamente rigidi e fiscali, se non si vuole incentivare arbitri e comportamenti spregiudicati. Per questi motivi, dal lato della politica del diritto (vedremo poi dal versante giuridico in senso stretto) propendiamo per l’impostazione della Corte di Appello.

Dal lato giuridico  va innanzitutto ricordato ciò che ebbe ad osservare  Antolisei (nel suo Manuale di diritto penale, Milano 1982, 948 e ss.) in merito al reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni”: l’essere  questo delitto contro l’amministrazione della giustizia caratterizzato da una disciplina codicistica viziata da profonda contraddizione . Egli asserì:“siccome l’esercizio delle proprie ragioni, per cadere sotto le sanzioni della legge deve essere effettuato con violenza sulle cose (art. 392 c.p.) o con violenza o minaccia alle persone (art. 393 c.p.), ricorrono sempre, nel primo caso,  gli estremi del delitto di “danneggiamento”, nel secondo, gli estremi del delitto di “violenza privata”. Orbene se si confrontano le pene edittali, si scorge che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni è punito meno dei delitti che in esso sono necessariamente contenuti.

Ne risulta che l’offesa di un interesse dell’Amministrazione della Giustizia, la quale, secondo la concezione accolta dal codice, viene ad aggiungersi alla lesione del patrimonio o della libertà individuale, lungi dal portare - come sarebbe logico e naturale - ad un aumento della pena, ne determina una  diminuzione!

Ma ciò non basta. Il reato che, sempre nel pensiero del legislatore, lede un interesse pubblico, non è perseguibile d’ufficio, ma... a querela di parte. L’irrazionalità è anche maggiore  nell’esercizio arbitrario con violenza o minaccia alle persone, giacchè il reato di violenza privata, che vi è contenuto, è un delitto d’azione pubblica, di guisa che l’offesa di quella che si considera una prerogativa dell’Autorità giudiziaria, produce, oltre ad un’attenuazione della pena, l’effetto - più strano ancora - di rendere punibile a querela di parte un fatto che altrimenti sarebbe perseguibile d’ufficio.

Comunque sia di ciò, la regolamentazione del nostro codice autorizza, anzi impone, una conclusione radicale: le figure criminose previste negli art. 392 e 393 - malgrado la loro collocazione legislativa - non possono considerarsi come delitti contro l’Amministrazione della giustizia, essendo evidentemente assurdo ravvisare una tutela in norme che stabiliscono un trattamento di favore.

La verità è che il fatto di agire con il convincimento di esercitare un diritto è sentito dalla coscienza sociale come motivo di attenuazione della pena, e come tale è trattato dal legislatore. Se ne deve dedurre che nel nostro ordinamento positivo, in effetti, il delitto di cui all’art. 392 non è altro che una forma attenuata di danneggiamento e quello contemplato nell’art. 393 una forma attenuata di violenza privata”.

Se l’autorevole maestro qualifica il reato di “ragion fattasi” come reato “attenuato” rispetto alla violenza privata  e con “trattamento sanzionatorio (incomprensibilmente) di favore”- auspicando che nella riforma del codice si tenga contro di questa realtà contraddittoria - per noi basterebbe questo corretto e condivisibile rilievo per  discostarsi dall’orientamento permissivo verso il quale l’odierna decisione della Cassazione penale ha manifestato le proprie propensioni, con l’effetto obiettivo di tendere ad alleggerire incisivamente il trattamento sanzionatorio comminato al datore di lavoro, nel caso di specie.

Ma v’è di più, a nostro sommesso avviso.

L’art. 393 c.p. dispone che “Chiunque, al fine di esercitare un preteso diritto e potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sè medesimo usando violenza o minaccia alle persone è punito...”. Esso presuppone, secondo giurisprudenza, che la pretesa dell’agente (datore di lavoro, in fattispecie) sia non necessariamente fondata in senso obiettivo, ma  che alla ragion fattasi  l’agente o datore addivenga  “nella coscienza di esercitare un diritto nella ragionevole, anche se errata, opinione della sua sussistenza, pur sapendo che il diritto stesso è contestato o contestabile, ma comunque azionabile” (così fin da Cass. 29.3.1963, in Cass. pen. Mass. ann. 1963, 672, 1166). E sul punto concordiamo con la ricostruzione operata da Cass. pen. n. 9121/’96, in commento.

Ciò significa che bisogna effettivamente risalire ad un inequivoco riscontro della volontà datoriale nel determinarsi ad imporre alla lavoratrice le dimissioni - per ottenere l’obiettivo della risoluzione del rapporto - in luogo di licenziarla per giusta causa e denunciarla addizionalmente alla  magistratura. L’art. 393 c.p. presuppone che dalla “ragion fattasi” non consegua un “ingiusto vantaggio” per il soggetto agente e un “danno” per colui che è fatto oggetto di violenza o minaccia, ma che si realizzi in proprio  lo stesso risultato che il giudice - se adito - avrebbe disposto, a seguito di esame e di valutazione imparziale. Viene, infatti, dalla manualistica di diritto penale presentato come tipico caso di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni” quello in cui un creditore di un debito di ammontare determinato faccia violenza al debitore e, dietro violenza, ne ottenga l’esatto adempimento, quando allo stesso risultato - quantunque con maggiori lungaggini - vi sarebbe egualmente pervenuto ricorrendo all’autorità giudiziaria preposta. Si verserebbe  nella fattispecie dell’estorsione, quando invece il creditore usasse violenza al debitore per ottenere il rimborso di un credito di importo superiore al dovuto, con interessi usurari, e simili.

Infatti, diversamente dall’art. 393 c.p., l’art. 629 c.p. afferente all’estorsione  - con molte affinità con la norma civilistica  dell’art. 1438 cod. civ. - dispone :” Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sè o ad altri, un ingiusto profitto con altrui danno, è punito...”. Come si può notare  la fattispecie è caratterizzata - a differenza del delitto di “ragion fattasi” - dal conseguimento di un “ingiusto profitto con altrui danno”, il che implica , dal lato dell’elemento intenzionale, la coscienza  e la volontà di avvantaggiarsi personalmente  e di nuocere al soggetto passivo.

Anche ammesso che il datore di lavoro versasse - nel caso in esame -  nel convincimento che la cassiera si fosse appropriata indebitamente del pezzo da centomila lire (quando invece emerge che l’appropriazione nient’altro era -  a detta della dipendente - che il recupero dello stesso importo da lei anticipato pro quota per mancanza di spiccioli in cassa), non siamo d’accordo sull’affermazione della Cassazione secondo la quale “sarebbe, indiscutibilmente e pacificamente, legittimo per il datore di lavoro imporre al dipendente infedele le dimissioni immediate e che “tale pretesa obiettivamente  legittima, anche se illecito è il modo scelto dall’agente per realizzarla, non viene trasformata in illegittima per effetto della illiceità del fine eventualmente perseguito dall’agente di evitare l’azione giudiziaria”, conseguente al licenziamento per giusta causa e alla denunzia penale.

Invero mentre può considerarsi legittima la pretesa datoriale, in presenza di sospetto di furto, di addivenire alla risoluzione immediata e per giusta causa del rapporto intercorrente, non è affatto legittimo realizzare tale pretesa attraverso l’induzione alle dimissioni, cioè a dire attraverso un “marchingegno” che trasforma il titolo risolutorio da (legittima) iniziativa datoriale sanzionatoria in atto spontaneo, insindacabile e non soggetto alle garanzie ex art. 7 L. n. 300/’70, del soggetto passivo. Come è stato correttamente detto - e da noi riferito nell’articolo sull’annullabilità delle dimissioni estorte - “la minaccia di licenziamento(o anche di denuncia penale), usata per ottenere le dimissioni del lavoratore, è di per se antigiuridica in quanto intesa ad attribuire al datore di lavoro un titolo di risoluzione del rapporto di lavoro non ottenibile mediante il mero esercizio della facoltà di recesso e sottratto  a priori a tutti i limiti formali e sostanziali da cui tale facoltà è per legge vincolata” (così Pret. Pescara 19 aprile 1984, in Giust. civ. 1984, I, 2264).

La Cassazione nella sua foga di demolire le opinioni della Corte di appello, qualificandole con le aggettivazioni “sorprendenti, ingiustificate, illogiche, carenti” e simili, sembra non essersi resa conto - salvo che non abbia inteso solidarizzare con il datore di lavoro estorsore come hanno fatto recentemente alcuni industriali con il presidente della Fiat, per il presunto eccesso di pena, da falso in bilancio, comminatagli dalla magistratura torinese - che il datore di lavoro, con l’imposizione delle dimissioni, non ha realizzato (evitando l’azione giudiziaria) - se si versasse nell’ipotesi di “ragion fattasi” - il mero risultato della risoluzione del rapporto per giusta causa che anche il giudice gli avrebbe  eventualmente accordato dietro valutazione dei fatti, ma ha realizzato un “ingiusto profitto” (vantaggio, secondo l’omologa dizione ex art. 1438 cod.civ.): quello non già di evitare il ricorso al magistrato ma di evitare, attraverso le dimissioni, la sindacabilità del recesso, presentandolo come spontaneo da parte del soggetto passivo e non come frutto dell’iniziativa datoriale notoriamente procedimentalizzata dall’art. 7 L. n. 300/’70, al quale il sagace datore si premurato di sottrarsi. In sostanza  imponendo alla cassiera le dimissioni ha conseguito scientemente un vantaggio abnorme, addizionale alla risoluzione del rapporto: quello di porre in essere, attraverso l’escamotage delle dimissioni volontarie,  una serie di ostacoli per il magistrato nella ricostruzione della reale volontà afferente l’atto di risoluzione del rapporto. Ed è questo “l’ingiusto profitto” che il datore si è riproposto di conseguire con indubbia intenzionalità e consapevolezza di trarne vantaggio - cui corrisponde il correlativo danno per la lavoratrice -  e che porta a collocare l’iniziativa datoriale nell’alveo della fattispecie dell’estorsione. Per tacere poi sull’imposizione alla sottoscrizione, a mo’ di quietanza liberatoria, della busta paga del mese e delle competenze di fine rapporto, non corrisposte contestualmente. Anche questo comportamento, in aggiunta all’installazione illegittima della telecamera a circuito chiuso, è inequivocamente indiziario di un comportamento complessivo e di un’intenzionalità tutt’altro che riposante sulla buona fede.

 

Mario Meucci

(pubblicato in Lav. prev. Oggi, 1997, 6, 1263)

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