Esternalizzazione di segmenti dell’attività aziendale o di rami d’azienda

 

Si dà conto di due recenti decisioni della Cassazione (n. 13068 del 17 giugno 2005 e n. 20012 del 17 ottobre 2005) nonché di Trib. Milano 30 luglio 2005, tutte in tema di trasferimento di ramo d’azienda ed al tempo stesso si evidenziano i requisiti di preesistente autosufficienza che, secondo la Cassazione, debbono possedere i segmenti dell’azienda alienante per poter essere considerati rami d’azienda legittimamente cedibili, piuttosto che artificiosi assemblaggi di eterogeneo personale destinato all’espulsione dall’azienda originaria.

 

1. La posizione della Cassazione nelle sentenze del 2002

Sin dal luglio del 2002  la Cassazione – tramite le decisioni riferite in nota [1] - si è occupata del fenomeno dell’outsourcing o esternalizzazione di porzioni dell’attività aziendale, eminentemente (anche se non esclusivamente) con riferimento alla scelta della Società Ansaldo (Energia e Trasporti) la quale aveva deciso di liberarsi (per riduzione dei costi aziendali) di attività accessorie  non rientranti nel cd. “core business” o attività di base dell’azienda - dietro espressa decisione del management di “impegnare sempre più le capacità aziendali nelle attività dirette su prodotto, mercato e tecnologie, contenendo, nella misura possibile gli alti costi di funzionamento...al fine di far riacquisire competitività alla Società” -  allo scopo specifico cedendo in outsourcing  a “Manital Consorzio servizi integrati” un insieme eterogeneo di attività assemblate esclusivamente in funzione della cessione e inserite sotto la dizione “Servizi generali”.

Va premesso – per una corretta comprensione da parte del lettore della ritenuta non riconducibilità, da parte della Cassazione dell’epoca, alla nozione giuridica di “trasferimento di ramo d’azienda” - che  le attività oggetto di cessione quali “Servizi generali” confezionati ad hoc dal datore di lavoro  e prospettati come una presunta (ma in realtà fittizia) unità produttivo/organizzativa autosufficiente, consistevano nelle seguenti: conduzione e manutenzione di impianti termotecnici, di impianti elettrici, telefonici, Tvcc-Td, di impianti di sicurezza, controllo ed antincendio, di ascensori e montacarichi e di altri impianti speciali, manutenzione di immobili industriali e civili e relative pertinenze; manutenzione reti di viabilità; monitoraggio e riparazioni reti fognarie ed idriche; progettazione di nuovi impianti generali; gestione pratiche per autorizzazioni edilizie, permessi di costruzione, autorizzazioni USL, VVFF, etc.; gestione e manutenzione attrezzature mensa; gestione e manutenzione di fotocopiatrici ed altre attrezzature di ufficio; movimentazione arredi, materiali ed attrezzature; facchinaggio; gestione dei mezzi relativi alla trasmissione delle informazioni (telex, fax, etc.), distribuzione documentazione; ricevimento e smistamento posta; fattorinaggio interno ed esterno; riproduzione della documentazione (disegni, etc.), gestione degli archivi generali, di deposito e relativa conservazione e messa a disposizione della documentazione; pulizia dei fabbricati; giardinaggio; gestione e distribuzione cancelleria; gestione di pratiche relative alle trasferte dei dipendenti (prenotazioni, acquisto biglietti, rinnovo e visto passaporti, autonoleggio, "navette", etc.); traduzioni documenti; segreteria, reporting ed altri compiti di carattere gestionale e/o di supporto riferiti alle attività suddette. Ne sortì all’epoca la seguente conclusione della Cassazione, secondo cui: « il diritto positivo richiede..., per l'applicazione dell'art. 2112 c. c., che sia ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni o servizi. Altrimenti, sarebbe la volontà dell'imprenditore ad unificare un complesso di beni (di per se privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario), al solo fine di renderlo oggetto di un contratto di cessione di ramo di azienda, rendendo applicabile la relativa disciplina sulla sorte dei rapporti di lavoro». In buona sostanza,  concluse all’epoca convincentemente la Cassazione,: «resta, dunque, confermato il generale principio giurisprudenziale dell'assimilazione tra azienda e parte di azienda, differenziate solo, come é ovvio, sotto il profilo quantitativo, sicché resta escluso che un ramo di azienda possa essere disegnato e identificato solo al momento del trasferimento e in esclusiva funzione di esso, con un'operazione strumentale indirizzata all'espulsione, per questa via indiretta, di lavoratori eccedenti, consegnati ad un cessionario che, strettamente legato all'impresa cedente - ancorché vero imprenditore e non semplice interposto di mano d'opera - sarebbe posto in condizione di modificare liberamente le preesistenti condizioni di lavoro (contratti collettivi, condizioni di stabilità del posto di lavoro, ecc.). Tanto ciò e vero che il d. d. l. per la delega al Governo in materia di mercato di lavoro (collegato alla finanziaria 2002 e approvato dal consiglio dei Ministri il 15 novembre 2001), si propone proprio di incidere su questo punto, annoverando tra i criteri di delega per la modifica all'art. 2112 c.c. l'eliminazione del requisito "dell'autonomia funzionale  del ramo di azienda preesistente al trasferimento"»(così da parte di Cass. nn. 14961 e 15105/2002, est. Picone).

Dall’affermazione soprariferita ne scaturì la conseguenza che nel caso specifico non si riscontrava la fattispecie del trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda ma la riconducibilità dell’operazione alla “cessione di contatto” dei singoli dipendenti, comportante – secondo la disciplina ex art. 1406 c.c. -  il consenso dei lavoratori sottoposti al processo di espulsione dall’azienda cioè a dire all’esternalizzazione.

 

2. L’orientamento manifestato dalla S. corte nelle sentenze del 2005

Recentissimamente la S. corte si è di nuovo espressa con due decisioni [2], rispettivamente n. 13068 del 17 giugno 2005 (est. Picone) e n. 20012 del 17 ottobre 2005 (est. Vidiri), con entrambe le quali non ha conferito rilievo alcuno al fatto dell’eliminazione - dall’ordinamento italiano relativo al trasferimento del ramo d’azienda - della “preesistenza” al trasferimento dell’autonomia ed autosufficienza dell’unità produttiva oggetto di cessione. Entrambe hanno infatti asserito quanto risultante dalla seguente massima, ad esse sostanzialmente comune «L'art. 2112 c.c., anche prima delle modificazioni introdotte dall'art. 1 d.lgs. n. 18 del 2001, non precludendo il trasferimento di un ramo (o parte) di azienda, postulava comunque, per la sua applicazione a tale limitato trasferimento, che venisse ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presentasse quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni o servizi, con esclusione, quindi, della possibilità che l'unificazione di un complesso di beni (di per sé privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario) discendesse dalla volontà dell'imprenditore cedente al momento della cessione. Ne consegue che non è riconducibile alla nozione di cessione di azienda il contratto con il quale viene realizzata la c.d. «esternalizzazione» dei servizi, ove questi non integrino un ramo o parte di azienda nei sensi suindicati, e che in tali casi la vicenda traslativa, sul piano dei rapporti di lavoro, va qualificata come cessione dei relativi contratti, che richiede per il suo perfezionamento il consenso del lavoratore ceduto (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, con riferimento alla cessione di un ramo di azienda, identificato nei c.d. «Servizi generali», comprendente attività non riconducibili alla nozione di unità produttiva o di parte di azienda, per essere caratterizzato unicamente dalla non riferibilità all'attività di base dell'azienda cedente, aveva ravvisato un processo di esternalizzazione non integrante la cessione di ramo di azienda ed aveva ritenuto applicabili ai rapporti di lavoro ceduti le norme sulla cessione dei contratti).

C’era invero da aspettarsi  - dopo l’accenno fatto nelle precedenti decisioni di cui abbiamo riportato stralci, afferente alla modifica in itinere (inerente l’eliminazione del requisito della “preesistenza” dell’autonomia del ramo aziendale oggetto di cessione, cioè del suo riscontro in fase antecedente al trasferimento), modifica intervenuta con l’art. 32 d.lgs. n. 276/2003, in attuazione del cd. “scellerato” Patto per l’Italia del 5 luglio 2002, non sottoscritto dalla sola Cgil – una diversa conclusione in senso legittimista ed invece la Cassazione ha pedissequamente ribadito le precedenti considerazioni. Non è sufficiente per escludere la mancata menzione e, quindi l’implicita  irrilevanza della modifica ex art. 32 D. lgs. n. 276/2003, argomentare sul fatto che le fattispecie esaminate dalla S. corte attenevano ad epoca antecedente all’intervenuta modifica (cioé prima del 24 ottobre 2003, data dell’entrata in vigore delle nuova normativa pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 235 del 9 ottobre 2003 - Supplemento Ordinario n. 159). E’ evidente che le ragioni della mancata menzione (anche in forma di obiter dictum) non possono che risiedere in un convincimento dei giudici di legittimità afferente l’insignificanza della querelle “preesistenza”- “identificazione all’atto del trasferimento”, dell’articolazione funzionalmente autonoma oggetto di cessione, che in tanto la si legittima in quanto dotata di una autonomia o autosufficienza in se e per se (cioè, a se stante o immanente) a prescindere dal dato temporale di riscontro attinente al trasferimento (prima o all’atto del).

Va ricordato per il lettore che nell’arco temporale intercorrente tra le pregresse e le attuali decisioni del 2005 era, invero, intervenuta una modifica dell’art. 2112 c.c., nei seguenti termini: « Art. 32. Dlgs. n. 276/2003 - Modifica all'articolo 2112 comma quinto, del Codice civile:

1. Fermi restando i diritti dei prestatori di lavoro in caso di trasferimento d'azienda di cui alla normativa di recepimento delle direttive europee in materia, il comma quinto dell'articolo 2112 del codice civile é sostituito dal seguente: «Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento é attuato ivi compresi l'usufrutto o l'affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento».

L’invarianza di conclusioni, in presenza di tale modifica dell’art. 2112 c.c. per quanto concerne il ramo d’azienda, merita quindi di non essere sottovalutata né trascurata.

 

3. Le posizioni della dottrina sulla consistenza (o meno) delle modifiche dell’art. 2112 c.c. da parte del Patto per l’Italia e dell’art. 32 d.lgs. n. 276/2003

Era stato con giustificato allarme affermato, con riferimento all’allegato n. 3 del Patto per l’Italia – trasfuso nell’art. 32 del d.lgs. n. 276/2003 - dal Prof. Roccella [3] che: «Quanto all’allegato n. 3, ciò che si prospetta con riguardo alla disciplina del trasferimento d’impresa è non meno stupefacente. E’ noto, ed è stato ampiamente ricordato prima della firma del Patto, che la legislazione vigente, approvata nel 2001 dal governo di centrosinistra per dare attuazione alla seconda direttiva comunitaria in materia, richiede, perché possano applicarsi le regole relative al trasferimento d’impresa anche al trasferimento di un ramo aziendale, che quest’ultimo costituisca un’articolazione funzionalmente autonoma di un’impresa, “preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”. Il testo attuale dell’art. 2112 del codice civile, nel quale si rintraccia l’indicazione in parola, è frutto della riforma del 2001 e rispecchia puntualmente i contenuti della direttiva comunitaria e della giurisprudenza della Corte di giustizia. Con la consueta disinvoltura nei confronti delle regole europee, il governo vorrebbe adesso intervenire sulla disciplina vigente e modificarla nel senso che il requisito dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda dovrebbe sussistere solo “nel momento del suo trasferimento”: un banale escamotage linguistico, dietro il quale non è difficile scorgere l’intenzione di legittimare la costituzione di fittizi rami d’azienda, mai esistiti prima dell’operazione di trasferimento, al solo scopo di consentire l’espulsione dei lavoratori addetti al preteso ramo aggirando qualsiasi regola in materia di licenziamento» [4].

Nello stesso senso si era espresso l’avv. Fezzi [5] secondo cui: «…attualmente la legge prevede che la cessione dell'azienda, o di un suo ramo autonomo, possa avvenire (con conseguente cessione di tutti i relativi rapporti di lavoro) solo a condizione che la stessa azienda (o il ramo autonomo) preesista al trasferimento. La riforma concordata nel Patto prevede invece che l'autonomia funzionale del ramo d'azienda sussista anche solo nel momento in cui viene attuato il trasferimento. Ciò evidentemente vuol dire che il datore di lavoro può organizzare una pluralità di lavoratori, che nulla hanno a che fare tra di loro, in un unico ufficio o reparto, costituito solo in vista della cessione e al momento della stessa: questi lavoratori saranno quindi automaticamente ceduti all'esterno, anche se, prima della cessione, non facevano parte di un ramo autonomo dell'azienda».

Approvata la modifica dell’art. 2112 c.c. tramite il Patto per l’Italia prima e il d.lgs. n. 276/2003 poi, si registrarono in dottrina tre posizioni:

a)     la prima costituita da coloro che considerarono, per il ramo d’azienda, pressoché irrilevante l’eliminazione del requisito della “preesistenza”, sufficiente reputando ad evitare escamotages elusivi, il mantenimento del requisito dell’autonomia funzionale (anche se al momento del suo trasferimento) quale intesa dalla consolidata giurisprudenza [6];

b)      da altra opinione venne, invece, evidenziato “come tale intervento potrebbe consentire più facilmente quei processi elusivi di creazioni ad hoc di pretesi rami d’azienda che il d. lgs n. 18/2001 aveva inteso vietare[7]; da qui la sicura “rilevanza” del “ruolo che il giudice sarà chiamato a svolgere[8];

c)      infine una terza opinione ebbe a  riscontrare nell’attuale modifica un insanabile contrasto con l’ordinamento comunitario [9] in quanto la soppressione del requisito della “preesistenza” dell’autonomia funzionale al trasferimento sembra, in sostanza, porsi in contrasto con le affermazioni della Corte di giustizia Ce che richiedono che oggetto del trasferimento deve essere “un’entità economica organizzata in modo stabile (…) e che tale entità deve essere “sufficientemente strutturata ed autonoma[10].

Taluno [11], tuttavia,  concluse in senso rassicurante in quanto  sul «piano dell’interpretazione letterale l’eliminazione del requisito della “preesistenza” (nell’ipotesi di cessione di ramo d’azienda) troverebbe un bilanciamento nel mantenimento del requisito della “conservazione nel trasferimento della propria identità”. Requisito che, come già detto, non costituisce un requisito ulteriore ed autonomo rispetto a quello della preesistenza “bensì un suo necessario completamento per evitare che, in occasione del trasferimento, le parti (cedente e cessionario) alterino la consistenza di tale articolazione, con aggiunte e sottrazioni di beni o risorse umane, rispetto all’assetto organizzativo che la connotava nella sua pregressa attività [12]. In altri termini, l’autonomia funzionale dell’articolazione dovrebbe, comunque, preesistere al “momento del suo trasferimento” (ancorché in termini temporali minimi)».

Premesso che la direttiva 2001/23/CE  del 12 marzo 2001 così si esprimeva:« Articolo 1:

1. a) La presente direttiva si applica ai trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti ad un nuovo imprenditore in seguito a cessione contrattuale o a fusione. b) Fatta salva la lettera a) e le disposizioni seguenti del presente articolo, è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria», a modifica intervenuta nell’art. 2112 c.c. nel nostro Paese,  anche altra dottrina ha desunto la permanenza del requisito della preesistenza dell’autonomia funzionale  del ramo d’azienda (funzionalizzato alla produzione di beni e servizi) dalla previsione della direttiva comunitaria, la quale riferendosi ad una conservazione dell’identità del ramo di azienda nell’ambito del trasferimento «ne presuppone logicamente la preesistenza, dato che non si può conservare l’identità di ciò che non ha identità prima della cessione» [13].

 

4. L’orientamento interpretativo desumibile da Cass. n. 13068 e n. 20012 del 2005

Le decisioni n. 13068 e n. 20012 del 2005 vanno quindi inequivocamente lette nel senso che l’interprete giurisdizionale (la Corte di cassazione) - nell’ottica di evitare operazioni antielusive e di privilegiare l’interesse dei lavoratori a non essere oggetto di espulsione fraudolenta dall’azienda originaria tramite le tecniche o la moda dell’outsourcing – hanno, per facta concludentia,  convenuto sulla irrilevanza della modifica introdotta con l’art. 32 d.lgs. n. 276/2003 apportata al 5 comma dell’art. 2112 c.c., considerando che la preesistenza dell’autonomia organizzativa del segmento d’impresa era (nonostante l’abrogazione letterale da parte del legislatore italiano) da ritenersi presupposta come immanente, in ragione del fatto che l’unità economico/produttiva doveva (anche per legislazione comunitaria: direttiva 2001/23/Ce) “mantenere nel trasferimento la propria identità”, anche se suscettibile di perdere – con l’incorporazione - la propria autonomia originaria, integrandosi (con, e) nella struttura dell’acquirente.

In tal senso si esprime opportunamente Cass. n. 13608/2005, laddove asserisce che: « lo stesso art. 2112 c. c. ... consente, ... di ricondurre, ai fini da esso considerati, alla cessione di azienda anche il trasferimento di un ramo della stessa, purché si tratti di un insieme di elementi produttivi organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’attività, che si presentino prima del trasferimento come una entità dotata di autonoma ed unitaria organizzazione, idonea al perseguimento dei fini dell’impresa e che conservi nel trasferimento la propria identità. In presenza di tali condizioni, può configurarsi un trasferimento aziendale che abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare know how (o, comunque, dell’utilizzo di copyright, brevetti, marchi, ecc.), realizzandosi in tale ipotesi una successione legale di contratto non bisognevole del consenso del contraente ceduto, ex art. 1406 ss. c.c. Requisito indefettibile della fattispecie legale tipica delineata dal diritto comunitario e dall’art. 2112 c.c. resta comunque, anche in siffatte ipotesi, l’elemento della organizzazione, intesa come legame funzionale che rende le attività dei dipendenti appartenenti al gruppo interagenti tra di esse e capaci di tradursi in beni o servizi ben individuabili, configurandosi altrimenti la vicenda traslativa come cessione del contratto di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso del contraente ceduto».

In quest’ultima parte la decisione n. 16308 del 2005 – una volta ribadita la necessità dell’autosufficienza organizzativo/produttiva del ramo d’azienda antecedente al traferimento -  accede così ad una nozione più leggera e smaterializzata dell’azienda o del ramo d’azienda medesimo, escludendo in particolarissimi ed eccezionali casi - identificati in dottrina nelle attività di pulizia, di giardinaggio, di assistenza informatica, di manutenzione, di logistica [14] e similari – la necessità che il trasferimento del ramo d’azienda implichi di essere accompagnato da beni e strumenti che strutturano l’azienda commercialisticamente intesa ex art. 2555 c.c. Ed è davvero singolare questa notazione, in quanto ne é estensore il Cons. Picone – che nelle decisioni del 2002 aveva invece interpretato il ramo d’azienda in senso strettamente commercialistico, comprensivo necessariamente dei beni, strumenti e mezzi materiali – mentre stavolta chi fa propria la nozione di azienda ex art. 2555 c.c. (invero più aderente al testo normativo italiano e comunitario) è il Cons. Vidiri nella successiva n. 20012/2005, che per primo si era reso sostenitore di una nozione di azienda intesa anche come  “impresa” smaterializzata, riconducibile alla nozione ex art. 2082 c.c..

In effetti ed espressamente il Cons. Vidiri nell’attuale decisione n. 20012/2005 così si esprime «Questa Corte in una fattispecie analoga ha statuito che il trasferimento ad altra impresa dei lavoratori addetti ad una struttura aziendale priva di autonomia organizzativa e caratterizzata dall’estrema eterogeneità delle funzioni degli addetti, insuscettibile di assurgere ad unitaria entità economica, non può configurare una cessione del ramo d’azienda cui sia applicabile il disposto dell’articolo 2112 Cc ma costituisce mera cessione di contratti di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso dei lavoratori ceduti (cfr. in tali sensi Cassazione 17207/02). In altri termini la giurisprudenza della Corte ha recepito una nozione commercialistica di azienda, ai sensi dell’articolo 2555 Cc, attribuendo rilievo decisivo al requisito dell’autonomia organizzativa del ramo d’azienda ceduto che, deve presentarsi come idoneo al perseguimento dei fini dell’impresa. Alla stregua di questi principi non può condividersi la tesi della ricorrente società (e del Consorzio Manital) secondo cui l’autonomia funzionale del ramo trasferito può essere soltanto potenziale presso il cedente, essendo sufficiente, al fine dell’attribuzione della qualità del ramo d’azienda, l’astratta idoneità del nucleo di beni o rapporti ceduti ad essere organizzati per l’esercizio futuro di una attività. Al riguardo è stato precisato che il diritto positivo richiede per l’applicazione dell’articolo 2112 Cc che sia ceduto un complesso di beni, che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica, funzionalizzata allo svolgimento di una attività volta alla produzione di beni e servizi. Altrimenti sarebbe la volontà dell’imprenditore ad unificare un complesso di beni (di per sé privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario), al solo fine di renderlo oggetto di un contratto di cessione di ramo d’azienda, rendendo applicabile la relativa disciplina sulla sorte dei rapporti di lavoro».

Tra la prima e la seconda sentenza del 2005 della Suprema Corte di cassazione è bene riferire quanto ha avuto modo di esplicitare nella decisione del 30 luglio 2005 il Tribunale di Milano (est. Ravazzoni) a proposito di una similare “esternalizzazione” illegittima da parte dell’ENI SpA (anch’essa effettuata in epoca antecedente alla modifica di cui all’art. 32 D.lgs. n. 276/2003). Il giudice asserisce:«La Cassazione con la recente sentenza n. 206/2004 ha affermato che: “E’ opportuno sottolineare ancora una volta che il diritto positivo richiede per l’applicazione dell’art. 2112 cc, che oggetto del trasferimento sia una preesistente entità economica che oggettivamente si presenti dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica finalizzata allo svolgimento di un’attività volta alla produzione di beni o servizi. Solo in tal senso si può restare fedeli alla fattispecie comunitaria – così come configurata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, prima, ed esplicitata poi dalla direttiva del 1998 – la quale si caratterizza proprio per l’identità dell’entità economica che si conserva, ovvero permane, prima e durante la vicenda traslativa”.

In senso conforme è la pronuncia n. 19842 della Corte di cassazione che fa riferimento ad “una entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente e non anche una struttura creata ad hoc in occasione del trasferimento, o come tale identificata nel negozio traslativo”.

Già con la sentenza n. 15105/02 la corte aveva affermato che “l’art. 2112 cc, anche nel testo anteriore alle modifiche di cui al D.Lgs.18/2001, certamente non impedisce del tutto di ricondurre alla cessione di azienda i processi di esternalizzazione, consentendo che siano ceduti singole funzioni o servizi, ma solo a condizione che essi si presentino, prima del trasferimento, funzionalmente autonomi, ma certamente preclude l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate tra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, con identificazione dei lavoratori coinvolti sulla base delle mansioni svolte e non dell’inerenza del rapporto ad un ramo di azienda che sia oggettivamente tale prima del trasferimento”.

In conclusione la giurisprudenza di legittimità, preso atto del percorso di erosione del principio di inderogabilità delle tutele che ha indotto la dottrina a prospettare l’eterogenesi dei fini dell’art. 2112 cc, originariamente ispirata a finalità di tutela dei lavoratori e di poi indirizzata ad agevolare processi di esternalizzazione di segmenti aziendali, ha via via ristretto il concetto di ramo d’azienda attribuendo rilievo agli elementi caratterizzanti la definizione contenuta nella Direttiva 98/50, come utilizzati nella interpretazione della Corte di Giustizia, e cioè l’identità dell’entità economica ceduta, l’insieme di mezzi organizzati.

Questa lettura più rigorosa, che indubbiamente riduce il campo di applicazione del trasferimento di ramo d’azienda, pare al giudicante condivisibile, sul piano interpretativo essa infatti si presenta più aderente alla lettera della normativa e non ne costituisce una forzatura, in via di fatto evita di rimettere alla mera volontà dell’imprenditore l’unificazione di un complesso di beni al solo fine di renderlo oggetto di un contratto di trasferimento di azienda, rendendo applicabile la relativa disciplina e incidendo sulla sorte dei rapporti di lavoro». [15]

Abbiamo ritenuto opportuno portare a conoscenza questi precedenti e queste valutazioni giudiziali, per concludere che, secondo noi ed altra dottrina, resta il fatto sostanziale che – ai fini di legittimare una corretta esternalizzazione di ramo d’azienda – lo stesso, come dice la Cassazione, deve presentarsi in seno all’unità del cedente come unità produttiva ed organizzativa autosufficiente, capace di funzionare e di porsi sul mercato come una “piccola impresa”, in senso proprio, attuale ed effettivo e con un suo autonomo centro di costo, non già come unità organizzativa solo “potenzialmente” ed “astrattamente” idonea ad acquisire una sua autonomia ed effettività integrandosi nell’impresa dell’acquirente, dovendo all’opposto tale autosufficienza ed autonomia possederla antecedentemente o all’atto del trasferimento, cioè a dire prima della cessione ed all’interno dell’azienda del cedente.

Questo è il senso ed il significato vero ed irrinunciabile del “ramo d’azienda”, designato dall’art. 32  D. lgs n. 276/2003 quale “articolazione funzionalmente autonoma” che cedente e cessionario possono “identificare” anche all’atto del trasferimento ma non surrettiziamente “strutturare o costituire [16] al momento del trasferimento medesimo, il che  - se ancora ve ne fosse bisogno – mette in risalto che la sola ragione legittimante una esternalizzazione  che possa considerarsi legittima risiede nel riscontro nel segmento oggetto di cessione dei requisiti tipici di una “entità o struttura o articolazione funzionalmente autonoma”, tale da mantenere nel trasferimento la sua identità e attitudine produttivo-organizzativa, idonea a svolgere il suo ruolo di “mini impresa” sul libero mercato, a prescindere dal processo di integrazione nell’azienda acquirente, insuscettibile ad ogni buon conto di annullarne l’originaria identità ma di favorire sinergie ed interrelazioni tra essa e la preesistente struttura del cessionario in cui viene a collocarsi e di cui entra a far parte per effetto del mutamento di titolarità.

 

Roma, 18 novembre 2005  

Mario Meucci – Giuslavorista in Roma

 

(pubblicato su "Consulenza" - n.44/2005, ed. Buffetti)

 


[1] Cass. 22 luglio 2002, n. 10701 e Cass. 23 luglio 2002, n. 10761, entrambe in Riv. it. dir. lav. 2003, II, 148 ; Cass. 23 ottobre 2002, n. 14961, in Guida dir. 2002, 32, con nota di GRAMICCIA; Cass. 25 ottobre 2002, n. 15105 in Riv. it.dir. lav. 2003, II, 150 con nota di SCARPELLI, Nozione di trasferimento di ramo di azienda e rilevanza del consenso del lavoratore e in MGL 2003, 21, con nota di NUZZO, Questioni in tema di esternalizzazione: gli orientamenti della Suprema Corte; Cass. 4 dicembre 2002, n. 17207, in Foro it. 2003, I, 103, con nota di COSIO, La cessione di ramo di azienda: un cantiere aperto, 458; Cass. 14 dicembre 2002, n. 17919, in Foro it. - Rep. 2002, voce Lavoro (rapporto), 1131; Cass. 30 dicembre 2003, n. 19842, in Foro it. 2004, I, 1095, con nota di COSIO, Appalti e trasferimenti di impresa; Cass. 10 gennaio 2004, n. 206, in Riv. it. dir. lav. 2004, 653.

[3] In “Lavoro: le carte truccate del governo”, nel nostro sito http://dirittolavoro.altervista.org/link5.html , sezione Articoli, n.142 .

[4] Nello stesso senso, Bellavista, “Il Patto per l’Italia e la disciplina dei licenziamenti”, sempre in http://dirittolavoro.altervista.org/link5.html , sezione Articoli, n. 138.

[5] In “Patto per l’Italia: prime valutazioni”, in http://dirittolavoro.altervista.org/link5.html  sezione Articoli,  n. 136.

[6] Così Treu,  per cui  la modifica in esame avrebbe un impatto assolutamente marginale, atteso che “non pare attenuare il meccanismo di garanzia della norma”, nell’articolo Il Patto per l’Italia: un primo commento, in  Guida al lavoro 2002, n. 29, 10.

[7] Zambelli, L’outsourcing e il trasferimento d’azienda, in Dir.  prat. lav., 2002, 33, 2174.

[8] Maretti, L’oggetto del trasferimento d’azienda, in Dir.  prat. lav.,  2002, 31, 2049.

[9] Tale contrasto è stato posto a fondamento di una interrogazione scritta (E-3626/04 dell’On. Antonio Di Pietro di Italia dei Valori) alla Commissione Ue avente ad oggetto la violazione da parte dello Stato italiano della direttiva europea 2001/23/CE, così argomentando:« la L. 30/2003 e il conseguente D.Lgs. 276/2003, così come approvati, costituiscono, a detta dello scrivente, una violazione della direttiva 2001/23/CE, in quanto: 1. a differenza di quest’ultima, la quale sancisce l’obbligo di preesistenza e di articolazione funzionalmente autonoma di un’ attività economica organizzata ex ante la cessione del ramo d’azienda oggetto del trasferimento, stabiliscono che gli obblighi di preesistenza ed articolazione possano essere arbitrariamente dichiarati dalle parti datoriali del cedente e del cessionario, unicamente per i loro scopi ed interessi; 2. non solo confermano l’indipendenza degli effetti del trasferimento di ramo d’azienda dai lavoratori che li subiscono, ma fanno sì che questi ultimi siano assoggettati unicamente alla mera volontà dell’ imprenditore ovvero alla disponibilità delle parti datoriali.

Considerato quanto qui esposto, come intende procedere la Commissione riguardo all’obbligo degli Stati membri di uniformarsi alla direttiva in oggetto e riguardo all’ipotesi di violazione commessa dallo Stato italiano nel recepimento della direttiva stessa?». Ricevendo da Vladimir Spidla, a nome della Commissione, la seguente risposta:« La Commissione intende chiedere al governo italiano chiarimenti in merito alle questioni sollevate dall’onorevole parlamentare. La Commissione esaminerà con attenzione la risposta delle autorità italiane e, qualora la situazione lo giustifichi, avvierà una procedura d'infrazione. La Commissione comunicherà all’onorevole parlamentare l'esito del proprio intervento presso il governo italiano».

[10] Da ultimo si  veda il punto 23 della sentenza Temco del 24 gennaio 2002, in Foro it., 2002, IV, 142.

[11] Cosio, La cessione del ramo d’azienda nel Patto per l’Italia, Relazione al Convegno del 15 marzo 2002 al Centro Studi Domenico Napoletano, in http://www.csdn.it/csdn/ .

[12] Maresca, Le novità del legislatore nazionale in materia di trasferimento d’azienda, in La nuova disciplina del trasferimento d’impresa, (a cura di G. Santoro Passarelli e Foglia), Milano 2002, 26.

[13] In tal senso, Perulli, Tecniche di tutela nei fenomeni di esternalizzazione, in ADL 2003, 482; sostanzialmente nello stesso senso, Menghini, L’attuale nozione di ramo d’azienda, in Lav. giur. 2005, 431.

[14] Così Nuzzo, Cessione di ramo di azienda ed esternalizzazioni, in MGL 11/2005, 832 e ss; Bavaro, Sul trasferimento dell’articolazione funzionalmente autonoma, in http://dirittolavoro.altervista.org/trasferimento_ramo_azienda_bavaro.pdf.

[15] Trib. Milano 30 luglio 2005 – di cui abbiamo riportato la parte più significativa sul punto specifico – si può leggere integralmente in http://dirittolavoro.altervista.org/esternalizzazione_spezzoni_aziendali.html

[16] Così anche Bavaro, Sul trasferimento..., cit. supra,  pag. 14 ove dice: «Si badi bene, esse (cedente e cessionario, n.d.r) «identificano», non «costituiscono». Sarebbe stato possibile «costituire» se le parti avessero avuto il potere di creare l’articolazione funzionalmente autonoma. Esse, invece, non hanno questo potere ma solo quello di identificare, riconoscere solo qualcosa che esiste già, non già in rerum natura, bensì ipso iure». Tale limitazione è ammessa dallo stesso Governo italiano che richiesto di una precisazione dalla Commissione CE, ha affermato: «...le autorità italiane ricordano che questa disposizione (art. 32, 5 co. d.lgs. n. 276/2003, n.d.r.), non conferisce alle parti la facoltà di creare un’entità economica (articolazione funzionalmente autonoma), ma soltanto di identificarla sulla base del riconoscimento di ciò che esiste» (così dalla risposta del 15.12.2005 resa a nome della Commissione CE da Vladimir Spidla all'interrogazione E-4242/05 dell'On. Di Pietro di Italia dei Valori).

 

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CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE LAVORO - 17 giugno 2005, n. 13068 — Pres. Ravagnani — Est. Picone — Ansaldo Energia S.p.A. c. Fo., Ca., Tr., Manital  Consorzio.

Trasferimento d’azienda - Nozione - Servizi dati in outsourcing - Configurabilità - Esclusione - Applicabilità art. 2112 c.c. - Esclusione - Necessità del consenso dei lavoratori ceduti - Sussistenza.

L'art. 2112 c.c., anche prima delle modificazioni introdotte dall'art. 1 d.lgs. n. 18 del 2001, non precludendo il trasferimento di un ramo (o parte) di azienda, postulava comunque, per la sua applicazione a tale limitato trasferimento, che venisse ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presentasse quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni o servizi, con esclusione, quindi, della possibilità che l'unificazione di un complesso di beni (di per sé privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario) discendesse dalla volontà dell'imprenditore cedente al momento della cessione. Ne consegue che non è riconducibile alla nozione di cessione di azienda il contratto con il quale viene realizzata la c.d. «esternalizzazione» dei servizi, ove questi non integrino un ramo o parte di azienda nei sensi suindicati, e che in tali casi la vicenda traslativa, sul piano dei rapporti di lavoro, va qualificata come cessione dei relativi contratti, che richiede per il suo perfezionamento il consenso del lavoratore ceduto (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, con riferimento alla cessione di un ramo di azienda, identificato nei c.d. «Servizi generali», comprendente attività non riconducibili alla nozione di unità produttiva o di parte di azienda, per essere caratterizzato unicamente dalla non riferibilità all'attività di base dell'azienda cedente, aveva ravvisato un processo di esternalizzazione non integrante la cessione di ramo di azienda ed aveva ritenuto applicabili ai rapporti di lavoro ceduti le norme sulla cessione dei contratti).

Fatto. In data 4 luglio 1997 l’Ansaldo Energia S.p.A. inviava le comunicazioni ex art. 47, l. n. 428/1990 alle rsa in ordine all’intenzione di cedere il ramo d’azienda «Servizi Generali» al Consorzio Manital. La decisione di cessione veniva giustificata con la finalità di rispondere «all’esigenza di impegnare sempre più le capacità aziendali nelle attività dirette su prodotto, mercato e tecnologie, contenendo, nella misura possibile, gli altri alti costi di funzionamento»; in particolare, l’operazione aziendale veniva definita come rientrante nell’ambito di un più ampio programma di riorganizzazione aziendale tendente a far riacquisire «competitività» all’An. En. Il ramo d’azienda, identificato nei c.d. «Servizi generali» comprendeva le seguenti attività: conduzione e manutenzione di impianti termotecnici, di impianti elettrici, telefonici, Tvcc-Td, di impianti di sicurezza, controllo ed antincendio, di ascensori e montacarichi e di altri impianti speciali; manutenzione di immobili industriali e civili e relative pertinenze; manutenzione reti di viabilità; monitoraggio e riparazioni reti fognarie ed idriche; progettazione di nuovi impianti generali; gestione pratiche per autorizzazioni edilizie, permessi di costruzione, autorizzazioni Usl, Vvff, ecc.; gestione e manutenzione attrezzature mensa; gestione e manutenzione di fotocopiatrici ed altre attrezzature di ufficio; movimentazione arredi, materiali ed attrezzature; facchinaggio; gestione dei mezzi relativi alla trasmissione delle informazioni (telex, fax, ecc.), distribuzione documentazione; ricevimento e smistamento posta; fattorinaggio interno ed esterno; riproduzione della documentazione (disegni, ecc.); gestione degli archivi generali, di deposito e relativa conservazione e messa a disposizione della documentazione; pulizia dei fabbricati; giardinaggio; gestione e distribuzione cancelleria; gestione di pratiche relative alle trasferte dei dipendenti (prenotazioni, acquisto biglietti, rinnovo e visto passaporti, autonoleggio, «navette», ecc.); traduzioni documenti; segreteria, reporting ed altri compiti di carattere gestionale e/o di supporto riferiti alle attività suddette. In data 9 settembre 1997 è stato sottoscritto il contratto di cessione del ramo aziendale tra l’An. En. S.p.A. e Ma. - Consorzio per i servizi integrati, con indicazione dei beni e rapporti giuridici, tra cui i contratti di lavoro dei dipendenti addetti ai servizi trasferiti. L’operatività del trasferimento di azienda è stata fatta decorrere dal 15 settembre 1997. Intanto, in data 29 luglio 1997, l’An. En. aveva stipulato con Ma. - Consorzio per i servizi integrati un contratto di fornitura di servizi e manutenzioni generali, onde assicurare continuazione delle attività inerenti ai servizi generali. La qualificazione giuridica dell’operazione di ristrutturazione aziendale come cessione di ramo di azienda, con conseguente applicazione dell’art. 2112 c.c., è stata contestata da alcuni dei lavoratori interessati, secondo il cui assunto la fattispecie era, invece, di semplice cessione dei contratti di lavoro in corso con l’An. En., da considerare inefficace in quanto non era intervenuto il consenso del contraente ceduto, consenso che, comunque, sarebbe stato in ogni caso necessario anche in presenza di cessione di ramo di azienda. Nella controversia sottoposta al vaglio della Corte, con ricorsi al pretore di Genova Ga. Fo., Al. Ca. ed En. Tr. hanno domandato l’accertamento dell’invalidità della cessione del contratto di lavoro, con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento del danno. Hanno chiesto altresì la dichiarazione di invalidità dello stesso contratto di appalto dei servizi sopra menzionati, per violazione, da un lato, del divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro, dall’altro, dell’art. 24 del c.c.n.l., che vieta di affidare in appalto le attività direttamente connesse a quelle aziendali o relative alla manutenzione ordinaria. Il Tribunale, organo sostituito al pretore, ha rigettato la domanda, ma la sentenza è stata riformata, in accoglimento dell’appello dei lavoratori, dalla Corte di appello di Genova, che ha dichiarato la nullità della cessione del contratto di lavoro da An. En. S.p.A. a Ma. e condannato la prima «a reinserire i ricorrenti nella loro funzione lavorativa e nella retribuzione anteriore alla cessione». La Corte di Genova ha ritenuto che alla fattispecie di cessione di ramo di azienda, cui si applicano gli artt. 2112 c.c. e 47 l. n. 428/1990, risulta completamente estranea l’operazione di mera «esternalizzazione» di attività aziendali, non idonea come tale ad esplicare effetti diretti sui contratti di lavoro (ferma restando la possibilità di effetti indiretti, potendo, in ipotesi, la ristrutturazione tradursi in riduzione di personale mediante le procedure previste dalla legge). La ricorrenza dell’una o dell’altra delle fattispecie dipende, a giudizio della sentenza, da dati assolutamente oggettivi, non certo dalle determinazioni del datore di lavoro, dati da identificare, perché si possa dire di essere in presenza di un ramo di azienda — anche alla stregua della normativa comunitaria e della giurisprudenza della Corte di Giustizia Cee — nella preesistenza di un nucleo minimo dotato di autonomia operativa e finanziaria, idoneo a giustificare l’unificazione funzionale della parte di azienda ceduta, autonomia nella specie completamente insussistente. La cassazione della sentenza è domandata con ricorso per cinque motivi dalla S.p.A. An. En. Si è costituito con controricorso Ma. - Consorzio per i servizi integrati - proponendo altresì ricorso incidentale per un unico motivo nei confronti di En. Tr.; non hanno svolto attività difensive i lavoratori intimati. Le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c. e Ma. Consorzio ha anche replicato per iscritto alle conclusioni del Pubblico ministero.

Diritto.1. Preliminarmente, la Corte riunisce i ricorsi proposti contro la stessa sentenza (art. 335 c.p.c.).

2. Il ricorso incidentale, «tardivo» ai sensi dell’art. 334 c.p.c., in quanto proposto nel termine di cui all’art. 370 stesso codice e non in quello di cui all’art. 327 c.p.c., pone una questione pregiudiziale di rito relativamente alla statuizione emessa nei confronti di En. Tr. Si deduce che il giudizio di appello era stato proposto dal procuratore, avv. Co. Sa. Am., privo di procura alle liti. Si precisa che la procura rilasciata al detto difensore per il giudizio di primo grado era stata revocata con il rilascio di procura ad altro difensore (avv. Go.), il quale aveva presentato «atto di costituzione di nuovo difensore», come indicato anche nell’epigrafe della sentenza di primo grado.

2.1. Il ricorso incidentale va dichiarato inammissibile per la ragione, assorbente ogni altro rilievo, che è stato proposto, da soggetto interamente soccombente nel giudizio di merito e in posizione di «cointeressato» rispetto alla ricorrente principale, nei confronti di parte diversa dall’impugnante principale. In tale situazione, infatti, siccome l’interesse all’impugnazione era insorto incondizionatamente per effetto della statuizione di merito e non della proposizione del ricorso principale, non sussiste alcuna dipendenza da questo ultimo che legittimi la proposizione del ricorso una volta decorso il termine di cui all’art. 327 c.p.c. (v. Cass. 24 marzo 2004, n. 5920; 15 maggio 2003, n. 7519; 9 febbraio 1995, n. 1466).

3. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 177 del Trattato Cee, per avere la Corte di Genova rifiutato di accogliere la richiesta di rimessione degli atti alla Corte di Giustizia europea in merito all’interpretazione del senso e della portata delle direttive 14 febbraio 1977, n. 187, e 29 giugno 1998, n. 50, atteso che, in presenza del mutamento del titolare di un’entità organizzata in modo stabile, costituita dal complesso dei lavoratori stabilmente incaricati di svolgere attività omogenee, la legislazione comunitaria impone di considerare il lavoratore trasferito con l’impresa, da intendere quale organizzazione funzionale di beni e rapporti giuridici che ne consentano l’esercizio.

3.1. Il secondo motivo denuncia motivazione contraddittoria su di un punto decisivo per avere la sentenza impu-gnata dichiarato di volersi uniformare ai principi dell’ordinamento comunitario come precisati dalla Corte di Giustizia, mentre in realtà con essi si era posta in contrasto affermando che «le risorse [...] anche [...] modeste non debbono difettare di un centro direttivo ed organizzativo, capace di renderle idonee al fine produttivo perseguito». Al contrario, l’entità economica può consistere anche in una semplice attività, valutabile economicamente e che conservi la propria identità con il trasferimento, mediante una valutazione non astratta ma concreta.

3.2. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c. perché l’operazione di «esternalizzazione» di servizi può ben essere realizzata con lo strumento del trasferimento di un ramo di azienda e ciò proprio al fine di garantire l’occupazione, senza procedere all’estinzione dei rapporti di lavoro divenuti inutili, e, quindi, nella prospettiva di garanzia dei diritti dei lavoratori che è l’obiettivo del legislatore comunitario; l’art. 2112 c.c., infatti, richiede la cessione di un’insieme di beni coordinati per l’esercizio di un’attività di impresa, senza che sia necessario anche che tale esercizio sia attuale, bastando l’astratta idoneità allo scopo produttivo unitario.

3.3. In conclusione, a giudizio della società An., si era in presenza di un’entità economica che l’imprenditore poteva collocare sul mercato, ancorché il dato dell’organizzazione autonoma (che, del resto, non è mai configurabile come tale in relazione a qualsiasi ramo di azienda, specie se relativo ad attività accessorie) non fosse preesistente al trasferimento, ma solo con la cessione si fosse realizzata l’unificazione di determinati servizi e attività in capo ad un unico soggetto, il quale era stato così posto in condizione di rispondere a domande del mercato. Pertanto l’autonomia dell’entità economica (nel caso, i servizi generali) deve apprezzarsi in concreto, per il fatto che alcuni beni siano separabili dalla parte restante dell’azienda e, immediatamente (come accaduto nel caso concreto, senza alterazioni dell’organizzazione preesistente) siano in grado di consentire la realizzazione di servizi e prodotti richiesti dal mercato.

3.4. Né rappresentava un ostacolo l’eterogeneità delle attività cedute, essendo fondamentale per integrare un’attività economica, la comunanza dell’attività delle maestranze trasferite che sia idonea a conferire alla stessa una vera e propria autonomia produttiva, comunanza consistente nel fatto che si trattava dei servizi ausiliari a quelli propri dell’attività produttiva dell’azienda, la cui prestazione era continuata senza soluzioni presso Ma. acquistando altresì l’attitudine (prima solo potenziale) di prestare gli stessi servizi anche a terzi.

3.5. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. per avere la sentenza impugnata, tra l’altro, affermato che l’An. En. S.p.A. non aveva fornito la prova della sussistenza del ramo d’azienda, mentre, in realtà, tutti gli elementi della fattispecie erano dimostrati e comunque non contestati.

3.6. Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1406 c.c. per avere il giudice del merito omesso di considerare il comportamento del lavoratore, di accettazione dell’incremento retributivo riconosciuto all’atto del passaggio alle dipendenze di Ma., ai fini del significato negoziale di consenso alla cessione del contratto, con conseguente cessazione della materia del contendere.

4. Il ricorso principale va rigettato. Tutte le questioni poste con i suesposti motivi di ricorso sono già state esaminate e ritenute non fondate da decisioni della Corte rese in controversie concernenti la stessa vicenda (Cass. 10 gennaio 2004, n. 206; 14 dicembre 2002, n. 17919; 4 dicembre 2002, n. 17207; 25 ottobre 2002, n. 15105). Pertanto, in mancanza di ragioni nuove e diverse da quelle disattese nei giudizi analoghi, deve operare il principio di fedeltà ai precedenti, sul quale si fonda, per larga parte, l’assolvimento della funzione ordinamentale e, al contempo, di rilevanza costituzionale, di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge nonché l’unità del diritto oggettivo nazionale affidata alla Corte di Cassazione (vedi Cass. Sez. Un., 4 luglio 2003, n. 10615; 15 aprile 2003, n. 5994). Si rinvia, di conseguenza, alla motivazione dei precedenti richiamati, di cui si espongono in sintesi i punti essenziali.

4.1. In relazione ai temi contenuti nei primi quattro motivi di ricorso, concernenti una questione sostanzialmente unica, va ribadito che l’art. 2112 c.c., anche prima delle modificazioni introdotte dall’art. 1, d.lgs. n. 18/2001, non precludendo il trasferimento di un ramo (o parte) di azienda, postulava comunque, per la sua applicazione a tale limitato trasferimento, che venisse ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presentasse quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un’attività volta alla produzione di beni o servizi, con esclusione, quindi, della possibilità che l’unificazione di un complesso di beni (di per sé privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario) discendesse dalla volontà dell’imprenditore cedente al momento della cessione.

4.2. Più in particolare, lo stesso art. 2112 c.c., anche nel testo anteriore alle modifiche di cui al d.lgs. n. 18 del 2001, attuativo della direttiva comunitaria n. 50 del 1998, consente, letto in linea con la giurisprudenza comunitaria formatasi in merito all’interpretazione della direttiva n. 187 del 1977 e con le esplicite indicazioni fornite dalla direttiva n. 50 del 1998, di ricondurre, ai fini da esso considerati, alla cessione di azienda anche il trasferimento di un ramo della stessa, purché si tratti di un insieme di elementi produttivi organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’attività, che si presentino prima del trasferimento come una entità dotata di autonoma ed unitaria organizzazione, idonea al perseguimento dei fini dell’impresa e che conservi nel trasferimento la propria identità. In presenza di tali condizioni, può configurarsi un trasferimento aziendale che abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare know how (o, comunque, dell’utilizzo di copyright, brevetti, marchi, ecc.), realizzandosi in tale ipotesi una successione legale di contratto non bisognevole del consenso del contraente ceduto, ex art. 1406 ss. c.c. Requisito indefettibile della fattispecie legale tipica delineata dal diritto comunitario e dall’art. 2112 c.c. resta comunque, anche in siffatte ipotesi, l’elemento della organizzazione, intesa come legame funzionale che rende le attività dei dipendenti appartenenti al gruppo interagenti tra di esse e capaci di tradursi in beni o servizi ben individuabili, configurandosi altrimenti la vicenda traslativa come cessione del contratto di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso del contraente ceduto.

4.3. Ne consegue che non è riconducibile alla nozione di cessione d’azienda il contratto con il quale viene realizzata la c.d. esternalizzazione dei servizi, ove questi non integrino un ramo o parte di azienda nei sensi suindicati. Per queste ragioni deve escludersi la sussistenza dei requisiti per configurare la cessione di azienda nel trasferimento — ricondotto dalla società cedente e dalla cessionaria al fenomeno cosiddetto di outsourcing, comprendente tutte le possibili tecniche mediante le quali un’impresa dismette la gestione diretta di alcuni segmenti dell’attività produttiva e dei servizi estranei alle «competenze di base» — da una società ad altra del ramo d’azienda «servizi generali», considerato che di esso non sono state chiarite struttura e dimensione, le attività del preteso ramo non sono risultate del tutto corrispondenti a quelle trasferite, non è stata provata l’autonomia organizzativa, e che inoltre esso si caratterizza per la estrema eterogeneità delle attività dei lavoratori addetti, e per la mancanza di qualsiasi funzione unitaria, suscettibile di farlo assurgere in qualche modo ad unitaria «entità economica».

4.4. In relazione all’ordinamento comunitario, va inoltre confermato che la direttiva 2001/23 Ce, con cui sono state abrogate sia la direttiva del 1977 che quella del 1998, non ha contenuti innovativi, ma mere finalità di sistemazione della regolazione, in relazione alle sostanziali modifiche apportate dalla direttiva del 1998. In ogni caso, l’eventuale acclaramento del contrasto tra ordinamento comunitario (direttiva 77/187) e ordinamento interno, relativamente alla definizione di ramo d’azienda, è inidoneo a produrre immediatamente effetti sul rapporto giuridico controverso, stante il principio dell’inefficacia orizzontale delle direttive. Ne consegue l’irrilevanza del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia in merito all’interpretazione della direttiva 77/187.

4.5. Né possono trovare accoglimento, infine, le censure contenute nel quinto motivo del ricorso. I giudici del merito hanno accertato in fatto che, di fronte all’univoca contestazione degli effetti che la società An. En. intendeva collegare ai contratti di cessione e di appalto, non era consentito desumere una volontà negoziale contraria dalla circostanza della prosecuzione dell’attività lavorativa alle formali dipendenze del Consorzio Ma. e della riscossione del superminimo unilateralmente attribuito dallo stesso consorzio. Si tratta di valutazione neppure specificamente contestata e comunque insindacabile in questa sede perché sorretta da motivazione sufficiente e logicamente plausibile.

5. Le spese vanno interamente compensate tra la società An. En. e il Consorzio Ma.; nulla da provvedere sulle spese nei confronti delle parti intimate (Omissis).

 

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Cass. – Sez. lav. – 17 ottobre 2005, n. 20012- Pres. Ianniruberto – Rel. Vidiri - Pm. Matera (conf.) – Ricorrente Finmeccanica Spa (avv. Morrico) – controricorrente Manital (avv. Mittiga Zandri, Bosio)

 

Trasferimento di ramo d’azienda - Fattispecie antecedente all’art. 32 d. lgs. n. 276/2003 – Carenza di autonomia ed autosufficienza del supposto ramo dato in outsourcing – Illegittimità – Necessità del consenso dei lavoratori ex art. 1406 c.c., in quanto cessione di singoli contratti.

 

Questa Corte in una fattispecie analoga ha statuito che il trasferimento ad altra impresa dei lavoratori addetti ad una struttura aziendale priva di autonomia organizzativa e caratterizzata dall’estrema eterogeneità delle funzioni degli addetti, insuscettibile di assurgere ad unitaria entità economica, non può configurare una cessione del ramo d’azienda cui sia applicabile il disposto dell’articolo 2112 Cc ma costituisce mera cessione di contratti di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso dei lavoratori ceduti (cfr. in tali sensi Cassazione 17207/02).

Al riguardo è stato precisato che il diritto positivo richiede per l’applicazione dell’articolo 2112 Cc che sia ceduto un complesso di beni, che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica, funzionalizzata allo svolgimento di una attività volta alla produzione di beni e servizi. Altrimenti sarebbe la volontà dell’imprenditore ad unificare un complesso di beni (di per sé privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario), al solo fine di renderlo oggetto di un contratto di cessione di ramo d’azienda, rendendo applicabile la relativa disciplina sulla sorte dei rapporti di lavoro.

Svolgimento del processo

Con ricorso al Pretore di Genova Marisa Pili e gli altri litisconsorzi in epigrafe riferivano che erano dipendenti della Spa Ansaldo Trasporti e che in data 9 settembre 1997 era stato comunicato che con effetto dal 15 settembre 1997 doveva ritenersi il loro rapporto lavorativo ceduto al Consorzio Manital per i servizi integrati, per essere stato trasferito, alla stregua del disposto dell’articolo 2112 Cc, il ramo aziendale al quale essi erano addetti. In realtà però non era, nel caso di specie, configurabile la fattispecie regolata dal citato articolo 2112 Cc in quanto il ramo d’azienda postula l’esistenza di un complesso di beni, finalizzato all’esercizio di una specifica parte dell’attività economica esercitata dall’imprenditore e dotata dei caratteri dell’autonomia e della separabilità dalla restante parte del complesso aziendale, mentre in realtà i cosiddetti servizi generali ceduti rappresentavano solamente attività di puro costo, senza alcun legame tra loro (per essere inerenti a servizi accessori, dalla manutenzione delle fotocopiatrici alla gestione degli archivi ed a quella di pratiche amministrative o, in gergale, di segreteria) tanto che la stessa distinzione fra servizi da esternalizzare e servizi da mantenere all’interno della società era stata attuata nella totale assenza di criteri obiettivi.

Per di più dopo il trasferimento nella di fatto era cambiato per cui l’operazione costituiva anche una violazione del divieto di appalto di mere prestazioni di lavoro, perché il Consorzio Manital era obiettivamente e normativamente inidoneo ad assumere personale a tempo indeterminato per prestazioni di meri servizi e perché tutti i lavoratori trasferiti avevano continuato a svolgere le identiche attività spiegata in precedenza senza mutamento alcuno neanche nelle modalità di espletamento del lavoro.

Tutto ciò premesso, i ricorrenti chiedevano che il pretore, accertata e dichiarata l’illegittimità del trasferimento d’azienda attuato senza il loro consenso nonché della cessione del loro rapporto e del contratto di appalto, condannasse la Spa Ansaldo Trasporti a reintegrarli nel loro posto di lavoro e nelle precedenti mansioni, con tutte le eventuali differenze retributive nonché al risarcimento dei danni ex articolo 18 Statuto lavoratori previa occorrendo dichiarazione di illegittimità del licenziamento di fatto operato dalla Ansaldo.

Dopo la costituzione della società Ansaldo e del Consorzio Manital, il primo giudice respingeva il ricorso e, su gravame dei lavoratori, la Corte d’appello di Genova con sentenza del 26 luglio 2002 dichiarava la nullità della cessione del contratto di lavoro disposta dalla Ansaldo Trasporti Spa al Consorzio per i servizi integrati, e conseguentemente condannava la Spa Finmeccanica, quale società incorporante la Ansaldo, a reintegrare i ricorrenti nel posto di lavoro con mansioni e retribuzioni precedenti al 15 settembre 1997, respingendo ogni ulteriore domanda. Nel pervenire a tali conclusioni la Corte territoriale osservava che alla fattispecie di cessione di ramo d’azienda, cui si applicano gli articoli 2112 Cc e 47 legge 428/90, era completamente estranea l’operazione di “esternalizzazione” dei servizi, messa in atto dalla società Ansaldo, perché la cessione di un ramo aziendale non dipende di certo dalle mere determinazioni volitive del datore di lavoro ma da dati oggettivi consistenti – anche alla stregua della normativa comunitaria, della Corte di giustizia Cee e della Corte di cassazione – nella preesistenza di un minimo di beni dotato di autonomia operativa capace di giustificare l’unificazione funzionale della parte di azienda ceduta. Ne conseguiva che, negata la ricorrenza del trasferimento di ramo aziendale, la fattispecie doveva essere inquadrata nella cessione di contratti di lavoro senza consenso dei contraenti ceduti sicché la nullità di detta cessione comportava la continuazione del rapporto di lavoro in capo all’Ansaldo e successivamente alla Finmeccanica, con il riconoscimento ai lavoratori della posizione occupata prima della cessione e con la retribuzione ad essa collegata.

Avverso tale sentenza la Spa Finmeccanica propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.

Si è costituito con controricorso Manital Consorzio per i servizi integrati.

Resistono con controricorso i lavoratori proponendo con lo stesso atto ricorso incidentale condizionato, affidato a due motivi.

La Finmeccanica ha, infine, depositato controricorso al ricorso incidentale condizionato.

La Finmeccanica ed i lavoratori hanno depositato note difensive.

 

Motivi della decisione

 

Preliminarmente la Corte riunisce i ricorsi proposti contro la stessa sentenza (articolo 335 Cpc).

La società ricorrente con il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 177 del Trattato Cee, per avere il Tribunale rifiutato di accogliere la richiesta di rimessione degli atti alla Corte di giustizia europea in merito all’interpretazione del senso e della portata delle direttive 14 febbraio 1977 n. 187 e 29 giugno 1998 n. 50; con il secondo motivo denunzia contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia per avere il giudice d’appello dichiarato di volersi uniformare ai principi dell’ordinamento comunitario, come precisati dalla Corte di giustizia, mentre in realtà con essi si è posto in contrasto; con il terzo motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’articolo 2112 Cc perché l’operazione di “esternalizzazione” di servizi può ben essere realizzata con lo strumento del trasferimento di un ramo d’azienda, e ciò proprio al fine di garantire i posti di lavoro senza procedere all’estinzione dei rapporti di lavoro divenuti inutili, quindi, nella prospettiva di garanzia dei diritti dei lavoratori che è l’obiettivo del legislatore comunitario, richiedendo, infatti, il suddetto articolo 2112 Cc la cessione di un insieme di beni coordinati per l’esercizio di una attività di impresa, senza che sia necessario anche che tale esercizio sia attuale, bastando l’astratta idoneità allo scopo produttivo unitario; con il quarto e quinto motivo denunzia infine violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 Cc e dell’articolo 1406 Cc per avere la sentenza impugnata tra l’altro affermato che l’Ansaldo non aveva fornito la prova della sussistenza del ramo d’azienda mentre, in realtà, tutti gli elementi della fattispecie erano dimostrati e comunque non contestati (quarto motivo), e per avere ancora il giudice d’appello omesso di valorizzare il significato del comportamento del lavoratore sull’incremento retributivo riconosciuto all’atto del passaggio alle dipendenze di Manital, nel senso di accettazione tacita della cessione del contratto, con cessazione della materia del contendere.

Il ricorso è infondato e, pertanto, va rigettato.

Questa Corte in una fattispecie analoga ha statuito che il trasferimento ad altra impresa dei lavoratori addetti ad una struttura aziendale priva di autonomia organizzativa e caratterizzata dall’estrema eterogeneità delle funzioni degli addetti, insuscettibile di assurgere ad unitaria entità economica, non può configurare una cessione del ramo d’azienda cui sia applicabile il disposto dell’articolo 2112 Cc ma costituisce mera cessione di contratti di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso dei lavoratori ceduti (cfr. in tali sensi Cassazione 17207/02). In altri termini la giurisprudenza della Corte ha recepito una nozione commercialistica di azienda, ai sensi dell’articolo 2555 Cc, attribuendo rilievo decisivo al requisito dell’autonomia organizzativa del ramo d’azienda ceduto che, deve presentarsi come idoneo al perseguimento dei fini dell’impresa. Alla stregua di questi principi non può condividersi la tesi della ricorrente società (e del Consorzio Manital) secondo cui l’autonomia funzionale del ramo trasferito può essere soltanto potenziale presso il cedente, essendo sufficiente, al fine dell’attribuzione della qualità del ramo d’azienda, l’astratta idoneità del nucleo di beni o rapporti ceduti ad essere organizzati per l’esercizio futuro di una attività. Al riguardo è stato precisato che il diritto positivo richiede per l’applicazione dell’articolo 2112 Cc che sia ceduto un complesso di beni, che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica, funzionalizzata allo svolgimento di una attività volta alla produzione di beni e servizi. Altrimenti sarebbe la volontà dell’imprenditore ad unificare un complesso di beni (di per sé privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario), al solo fine di renderlo oggetto di un contratto di cessione di ramo d’azienda, rendendo applicabile la relativa disciplina sulla sorte dei rapporti di lavoro.

Né per andare in contrario avviso vale il richiamo alla normativa comunitaria atteso che – come ha questa Corte già affermato nella sentenza ricordata avente ad oggetto una controversia articolata negli stessi termini – né le decisioni della Corte di giustizia europea né le direttive europee si pongono in contrasto con gli enunciati principi, che risultano pienamente in linea con la direttiva 98/50 (secondo la quale l’entità economica è da intendere come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere una attività economica, sia essa essenziale o accessoria, che deve conservare, con il trasferimento “di parte di imprese o di stabilimenti”, la propria identità) e con la più recente direttiva 2001/23 Cee (che in buona parte presenta connotati particolarmente ricognitivi della precedente regolamentazione della complessa materia in esame) (cfr. in motivazione Cassazione 17207/02 cit.).

Dalle considerazioni che precedono discende l’insussistenza delle condizioni per operare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea in ordine alla interpretazione delle direttive europee. Anche ammettendo che le direttive suddette debbano interpretarsi nei sensi patrocinati dalla Finmeccanica la decisione in tali termini della Corte europea non sarebbe rilevante nella controversia in oggetto dal momento che l’acclaramento di eventuali contrasti tra ordinamento comunitario ed ordinamento interno risulterebbe, in ogni caso, inidoneo a produrre effetti sul rapporto giuridico controverso, stante il principio dell’inefficacia orizzontale (cioè nei rapporti interprivati) delle direttive, ancorché precise ed incondizionate.

Va, inoltre, rimarcato che nel caso di specie, sulla base delle emergenze processuali, è risultato poi che nei servizi esternalizzati, oggetto del trasferimento, non si configurava alcuna realtà organizzativa riconducibile alla nozione di unità produttiva, sicché appare pienamente condivisibile l’assunto del giudice d’appello, secondo cui l’elemento centrale anche del ramo d’azienda è costituito dalla “organizzazione” dei fattori della produzione, intesa come il legame oggettivo tra i fattori stessi, qualificato e determinato dal fattore produttivo perseguito.

Per concludere non merita alcuna censura la sentenza impugnata per avere ritenuto la mancanza dei requisiti richiesti per configurare il ramo d’azienda ed applicare imperativamente l’articolo 2112 Cc (e l’automatismo in esso sancito), e conseguentemente ha configurato la vicenda traslativa come cessione del contratto di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso del lavoratore escluso.

Infine non può trovare accoglimento neanche il quinto motivo del ricorso principale non potendosi evincere dai comportamenti delle parti e dagli atti di causa, una accettazione tacita – con una efficacia abdicativi di diritti acquisiti – da parte dei lavoratori della cessione del contratto per effetto dell’incremento del trattamento retributivo goduto per effetto del trasferimento, suscettibile di condurre ad una declaratoria della cessazione della materia del contendere.

La decisione del rigetto del ricorso principale porta all’assorbimento del ricorso condizionato di Pili Marisa e dei suoi litisconsorzi, con il quale, con duplice motivo, si censura la sentenza impugnata per non avere tenuto nel dovuto conto i profili riguardanti la violazione della legge 1369/60 ed il divieto contrattuale di appalti continuativi svolti in azienda (ex articolo 24, parte generale, Sezione terza, Ccnl - Metalmeccanici pubblici). Al riguardo è sufficiente osservare che il ricorso in oggetto è stato proposto, appunto, in via condizionata in ragione dell’assenza per la parte ricorrente di alcuna ulteriore utilità rispetto a quanto già ottenuto con la sentenza impugnata.

La Spa Finmeccanica e la Manital Consorzio, rimasti soccombenti, vanno condannati in solido al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidata unitamente agli onorari difensivi, come in dispositivo.

 

PQM

 

La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale, e condanna la Spa Finmeccanica e Manital Consorzio per i servizi integrati al pagamento in solido delle spese del presente giudiziosi cassazione, liquidata in euro 20, oltre euro 4000 per onorari difensivi.

 

Illegittimo trasferimento di ramo d’azienda e concorrente demansionamento

 

Tribunale di Milano, sez. lav., 30 luglio 2005 – Giud. Ravazzoni – Sig. A (avv. Lauri) c. ENI SpA (avv. Tosi) e Servizi ICT srl (avv. ti Tajana, Disertori, De Bartolo)

 

Trasferimento di ramo d’azienda non dotato di propria autonomia in seno all’azienda cedente antecedentemente alla cessione – Illegittimità, in quanto costituito solo in funzione dell’espulsione dei lavoratori – Reintegrazione del ricorrente nell’azienda di provenienza -  Demansionamento qualitativo e quantitativo per circa 2 anni – Sussistenza – Risarcimento del danno alla professionalità, in misura del 50% della retribuzione mensile percepita.

 

La giurisprudenza di legittimità, preso atto del percorso di erosione del principio di inderogabilità delle tutele che ha indotto la dottrina a prospettare l’eterogenesi dei fini dell’art. 2112 cc, originariamente ispirata a finalità di tutela dei lavoratori e di poi indirizzata ad agevolare processi di esternalizzazione di segmenti aziendali, ha via via ristretto il concetto di ramo d’azienda attribuendo rilievo agli elementi caratterizzanti la definizione contenuta nella Direttiva 98/50, come utilizzati nella interpretazione della Corte di Giustizia, e cioè l’identità dell’entità economica ceduta, l’insieme di mezzi organizzati.

Questa lettura più rigorosa, che indubbiamente riduce il campo di applicazione del trasferimento di ramo d’azienda, pare al giudicante condivisibile, sul piano interpretativo essa infatti si presenta più aderente alla lettera della normativa e non ne costituisce una forzatura, in via di fatto evita di rimettere alla mera volontà dell’imprenditore l’unificazione di un complesso di beni al solo fine di renderlo oggetto di un contratto di trasferimento di azienda, rendendo applicabile la relativa disciplina e incidendo sulla sorte dei rapporti di lavoro.

Alla luce delle risultanze istruttorie appare evidente che in ENI non esisteva un’entità economica autonoma e organizzata avente ad oggetto l’attività di supporto informatico, tale entità è stata creata ad hoc per trasferire a terzi del personale che risultava eccedente.

I lavoratori sono inoltre stati assegnati all’unità sulla base del tipo di mansioni svolte e non dell’inerenza del rapporto al ramo di azienda.

La modifica in pejus (ovvero la negazione o l’impedimento) delle mansioni dà luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore. Infatti il demansionamento non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 cc, ma ridonda in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa.

Il danno alla professionalità subito dal ricorrente è quindi desumibile dalla situazione di emarginazione e di mortificazione dallo stesso vissuta in tali periodi di inoperosità nonché dalla esclusione da ogni possibilità di aggiornamento, tanto più grave in un campo, quale quello informatico cui era addetto il sig. A, in continua costante evoluzione.

Tale danno può essere liquidato in via equitativa, utilizzando come parametro la retribuzione mensile, che costituisce “espressione anche del contenuto professionale della prestazione” (Cass. n. 10/2002), nella fattispecie non contestata dalla convenuta. La percentuale applicabile, determinata in via equitativa, tenendo conto della durata e dell’elevato grado di inoperosità nei  2 periodi sopra individuati, può indicarsi nel 50% della retribuzione.

Svolgimento del processo

 

Con ricorso depositato il giorno 8-7-2003 il ricorrente in epigrafe indicato ha chiesto al tribunale di Milano, in funzione di Giudice del lavoro, previo accertamento della illegittimità del trasferimento del ramo d’azienda denominato “Servizi di supporto all’utenza” (SECS) a Servizi ICT del 30-1-2002, di ordinare all’ENI di ripristinare il rapporto di lavoro con il ricorrente, assegnandogli mansioni equivalenti al livello accertato.

Ha inoltre richiesto l’accertamento del diritto di essere inquadrato dal gennaio 1997 nell’area V livello 2 nonché nel livello 3 a far tempo dal luglio 98 o, in subordine, nel livello 2 da aprile 98.

Infine il Sig. A ha chiesto di accertare la intervenuta dequalificazione dal marzo 99 in avanti con condanna di ENI spa al risarcimento dei danni nella misura di € 73.266,14, pari ad una mensilità di retribuzione per ogni mese di dequalificazione e con condanna di Servizi ICT in solido con ENI al risarcimento dei danni da dequalificazione professionale nella misura di € 29.200,98, corrispondenti ad una mensilità di retribuzione dal febbraio 2002 al deposito del ricorso, oltre il danno maturato nelle more del giudizio.

Il ricorrente, a fondamento della sua domanda, ha assunto:

- di essere stato assunto da AGIP spa in data 2-2-87 con qualifica di disegnatore, inquadramento “G” CCNL settore energia aziende a partecipazione statale e di aver svolto mansioni di disegnatore nell’ambito dell’attività Centrali di Disegno,

- di aver svolto corsi per utilizzare software grafici anche complessi come Wasatch, programmi che poco alla volta hanno sostituito le attività manuali;

- di essere divenuto, nel periodo dal 93 al 97 il punto di riferimento per fronteggiare le problematiche connesse alle nuove apparecchiature informatiche venendo riconosciuto come specialista del sistema Wasatch portfolio;

- di aver curato l’addestramento del personale di grafica computerizzata;

- di  essere stato dislocato dal gennaio 98 al cd ITES con qualifica di EUC, cioè di addetto informatico e non più di disegnatore, e di aver avuto da tale momento totale autonomia nella gestione, nel coordinamento e nella manutenzione di tutte le stazioni grafiche con piena responsabilità del servizio, svolgendo l’attività di gestione delle workstations in precedenza curata dall’ing. B;

- di aver subito a partire dal dicembre 98 una progressiva diminuzione sia quantitativa sia qualitativa delle mansioni, espletando compiti esecutivi e occupandosi della gestione di materiale informatico, e dalla fine del 1999 venendo impegnato non più di un’ora al giorno;

- di essere stato trasferito in data 18-1-2001 al servizio SITE, che si occupava di gestione operativa degli applicativi, occupandosi esclusivamente di mansioni tecniche, prive di carattere decisionale e propositivo consistenti nella mera installazione di software;

- di essere stato trasferito a settembre 2001 all’unità SECS con mansione di installatore di software di fascia C, e che  il 1-2-2002 tale unità veniva ceduta alla Servizi ICT srl;

- di essere stato occupato presso tale società per circa 20 minuti al giorno eseguendo al massimo tre installazioni al dì.

Tutto ciò premesso in fatto, il ricorrente ha chiesto il ripristino del suo rapporto di lavoro con ENI e il risarcimento del danno alla professionalità conseguente al lamentato demansionamento.

Si sono costituite le società convenute contestando le domande di cui al ricorso e chiedendone il rigetto, in quanto infondate in fatto e in diritto.

ENI in particolare ha sostenuto la legittimità del trasferimento del ramo di azienda denominato SECS a Servizi ICT srl, rilevando che detta unità costituiva un complesso di beni e persone organizzato, autonomo sia dal punto di vista funzionale sia da quello organizzativo, che Eni aveva trasferito anche le attrezzature informatiche e le postazioni di lavoro prima di pertinenza dell’attività ceduta, unitamente alle obbligazioni e contratti prima facenti capo al SECS, e che il trasferimento aveva riguardato tutti i lavoratori precedentemente occupati nel SECS.

Contestava inoltre il diritto del ricorrente al superiore inquadramento rilevando che le mansioni  concretamente espletate da A. erano corrispondenti all’inquadramento progressivamente rivestito dal ricorrente e non al rivendicato V livello e contestava altresì il dedotto demansionamento.

Servizi ICT srl ha sostenuto la legittimità del trasferimento d’azienda e, quanto al presunto demansionamento, lo ha contestato esponendo che il ricorrente, dal passaggio in Servizi ICT, venne adibito alle medesime mansioni svolte nel gruppo SECS di Eni.

Fallito il tentativo di conciliazione, la causa veniva istruita mediante l’escussione dei testi indicati dalle parti e, previo deposito di note autorizzate, la causa veniva indi discussa dai procuratori delle parti all’udienza del 14-4-2005 e il giudice, all’esito della discussione, decideva la controversia, dando lettura del dispositivo.

 

Motivi della decisione

 

Il ricorso è risultato fondato e va accolto entro i limiti che si vanno ad esporre in narrativa.

 

1. Sulla domanda di superiore inquadramento

Il ricorrente rivendica il diritto all’inquadramento a far data dal 1997 alla area V del CCNL di settore che comprende “lavoratori che, in possesso di conoscenze pratiche e teoriche di elevato livello, e per le conoscenze delle metodologie di funzionamento dei sistemi e dei processi gestionali aziendali, svolgono funzioni di pianificazione, coordinamento e controllo di importanti attività aziendali, nonché lavoratori che svolgono funzioni che si caratterizzano per il contenuto innovativo o di specializzazione in materia di specifico o strategico interesse aziendale”. All’interno dell’area V il ricorrente rivendica il livello 5.2 “lavoratore che in possesso di conoscenze tecniche e pratiche di elevato livello, provvede all’installazione/gestione di componenti rilevanti del software e fornisce agli utenti interni e esterni assistenza di elevato sistema specialistico, ai fini della corretta utilizzazione del software di sistema”.

Dal luglio 98 rivendica il livello 5.3.

Eni sostiene invece che le mansioni svolte da A. siano riconducibili all’area 3, posseduta dal ricorrente dal 1993, alla quale appartengono i lavoratori che “ in possesso di adeguate conoscenze pratiche e teoriche, svolgono attività polivalenti di natura tecnico/amministrativa nell’ambito di procedure e processi di lavoro definiti; nonché lavoratori che in possesso di approfondite conoscenze e consolidate esperienze tecnico specialistiche, guidano e controllano significativi gruppi di lavoratori adibiti anche ad attività operative specialistiche ovvero lavoratori che svolgono mansioni che richiedono capacità professionali specialistiche corrispondenti per ampiezza ed importanza” e all’area 4, acquisita dal 1997, che comprende “lavoratori che in possesso di approfondite conoscenze teoriche e pratiche e per la conoscenza degli specifici processi operativi svolgono funzioni di guida di ambiti organizzativi aziendali nel quadro di indirizzi definiti, ovvero lavoratori che, in possesso delle conoscenze sopra definite, svolgono funzioni specialistiche in materia...tecnica, tecnologica” e in particolare al livello 1 della quarta area “lavoratore che, nell’ambito di processi definiti e sulla base delle indicazioni di massima, sviluppa procedure relative a sistemi informatici, partecipa all’analisi per la definizione delle applicazioni, rileva flussi informativi, collabora all’individuazione delle soluzioni più idonee per la realizzazione e lo sviluppo delle procedure...fornisce assistenza specialistica agli utenti nelle fasi di avviamento e di applicazione delle procedure”.

Dalla espletata istruttoria è emerso che il ricorrente non aveva alcun titolo specialistico di studio ed era stato assunto come disegnatore. Il sig. A. aveva frequentato corsi durante il rapporto di lavoro ma si è trattato di un corso per l’utilizzo del sistema Wasatch, di 5 giorni (teste***).

Quanto alla assistenza fornita agli utenti il teste*** ha precisato che per i problemi  di maggior importanza si riferiva alla ditta fornitrice dei programmi, riconoscendo comunque che A. era il referente per la manutenzione, le modifiche e l’aggiornamento del programma.

E’ anche emerso che il ricorrente ha svolto attività di addestramento all’uso del software, le testimonianze hanno però precisato che si è trattato di fornire le prime nozioni a persone che nulla sapevano dell’uso di PC e che i corsi sono durati circa 10 giorni e sono stati svolti a favore di 2 o 3 persone.

nella direzione ITES gruppo EUC il sig. A. “doveva rispondere alle richieste di interventi operativi sui software usati dai 1200 utenti...era il referente per i disegnatori per problemi su Wasatch” (teste***) “era l’unico che seguiva Wasatch...era l’unico referente per tutti i disegnatori...aveva come superiore  B (teste***).

Il teste *** ha poi dichiarato che “inizialmente il Sig. A aveva il compito di supporto informatico per gli utenti del gruppo disegno e per gli interventi più complessi girava le richieste alla società Digivision ... in materia di acquisti l’unico che aveva il potere di firma era l’ing. B”.

Sulla base di tali emergenze  istruttorie ritiene il decidente che la domanda del ricorrente non possa essere accolta, il Sig. A non aveva infatti una elevata conoscenza teorica del sistema informatico, non essendo in possesso di titolo di studio specifico e avendo seguito corsi di primo livello sull’uso di Wasatch. Certamente aveva raggiunto buone capacità pratiche di utilizzo del software ma non ne conosceva l’aspetto teorico.

Quanto all’assistenza fornita dal Sig. A., è emerso che per i problemi più seri chiedeva l’intervento della ditta fornitrice del software.

La domanda deve pertanto essere respinta.

 

2. Sul trasferimento di ramo d’azienda Servizi di supporto operativo all’utenza da ENI a Servizi ITC dell’1-2-2002

ENI in data 3-12-2001 ha comunicato alle OO.SS. e alla RSU l’avvio della procedura di trasferimento di ramo d’azienda ex art. 47 L. 428/90 avente ad oggetto l’attività del c.d. “SECS”. Tale procedura si è conclusa con l’accordo 18-1-2002 nel quale ENI ribadiva la propria scelta di non svolgere più direttamente l’attività oggetto di cessione, 21 lavoratori venivano trasferiti a Servizi ICT srl con decorrenza dal 1-2-02, con applicazione del CCNL Settore Energia ENI e mantenimento dei trattamenti economici e normativi individuali e collettivi del rapporto di lavoro in essere con ENI.

La fattispecie è stata qualificata dalle parti come trasferimento di ramo d’azienda, e, in considerazione dell’ambito temporale in cui si è svolta, risulta disciplinata dall’art. 2112 cc. dall’art. 47 L. 428/90 nonchè dalla direttiva CEE 98/50, e dalle disposizioni del D. Lgs. 18/2001 e la Direttiva 2001/23.

Come noto, la norma del codice si riferisce al solo “trasferimento d’azienda” e non di parti di essa, mentre la direttiva precisa che si considera come trasferimento “quello di un’attività economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria”.

Gli orientamenti giurisprudenziali, sia della Corte di Cassazione, sia della Corte di Giustizia, hanno subito una progressiva evoluzione e sono spesso stati altalenanti.

In una prima fase, i giudici erano orientati ad applicare un concetto estensivo di trasferimento d’azienda, con il fine di garantire ai lavoratori la più ampia tutela sotto il profilo della continuità della prestazione e della conservazione dei diritti maturati.

Rientrano in tale filone interpretativo le sentenze n. 4140/94, n. 7795/93, n. 2205/92 nelle quali la Cassazione ha ritenuto che costituiscano fattispecie di trasferimento di azienda tutti quei casi in cui, restando inalterate le strutture e l’unicità organica dell’azienda ne sia mutato solo il titolare, indipendentemente dal mezzo giuridico attraverso il quale sia stato realizzato il trasferimento: Anche la Corte di Giustizia ha adottato una interpretazione elastica ed estensiva di trasferimento di ramo d’azienda affermando che “non è di ostacolo all’applicabilità della direttiva 187/77 il fatto che l’attività ceduta abbia carattere accessorio e non sia in rapporto di necessarietà con l’oggetto sociale dell’impresa originale” (sent.12-11-92 Watson Rask). La Corte Europea ha poi chiarito il concetto di entità economica come “complesso organizzato di persone e di elementi che consentono l’esercizio di un’attività economica finalizzata al perseguimento di un determinato obbiettivo”, dichiarando che tale entità può identificarsi in “un gruppo di lavoratori che assolva stabilmente ad una attività comune” (sentenza Suzen). Alcuni giudici di merito, tra i quali lo scrivente, aderendo a tale filone interpretativo, hanno quindi ritenuto che l’autonomia della parte ceduta può essere solo potenziale e non debba essere già attuale al momento del trasferimento, sicché è sufficiente che le risorse umane e materiali appartenenti al ramo ceduto siano idonee a continuare la propria attività, anche se tale attività non era compiutamente delimitata ed indipendente presso il cedente.

In un secondo momento la giurisprudenza, sia comunitaria, sia italiana, meglio considerati i fenomeni sempre più diffusi di esternalizzazione di servizi, con lo scopo evidente di espellere personale, ha adottato un’interpretazione più restrittiva di trasferimento d’azienda.

La Cassazione con la recente sentenza n. 206/2004 ha affermato che: “E’ opportuno sottolineare ancora una volta che il diritto positivo richiede per l’applicazione dell’art. 2112 cc, che oggetto del trasferimento sia una preesistente entità economica che oggettivamente si presenti dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica finalizzata allo svolgimento di un’attività volta alla produzione di beni o servizi. Solo in tal senso si può restare fedeli alla fattispecie comunitaria – così come configurata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, prima, ed esplicitata poi dalla direttiva del 1998 – la quale si caratterizza proprio per l’identità dell’entità economica che si conserva, ovvero permane, prima e durante la vicenda traslativa”.

In senso conforme è la pronuncia n. 19842 della Corte di cassazione che fa riferimento ad “una entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente e non anche una struttura creata ad hoc in occasione del trasferimento, o come tale identificata nel negozio traslativo”.

Già con la sentenza n. 15105/02 la corte aveva affermato che “l’art. 2112 cc, anche nel testo anteriore alle modifiche di cui al D.Lgs.18/2001, certamente non impedisce del tutto di ricondurre alla cessione di azienda i processi di esternalizzazione, consentendo che siano ceduti singole funzioni o servizi, ma solo a condizione che essi si presentino, prima del trasferimento, funzionalmente autonomi, ma certamente preclude l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate tra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, con identificazione dei lavoratori coinvolti sulla base delle mansioni svolte e non dell’inerenza del rapporto ad un ramo di azienda che sia oggettivamente tale prima del trasferimento”.

In conclusione la giurisprudenza di legittimità, preso atto del percorso di erosione del principio di inderogabilità delle tutele che ha indotto la dottrina a prospettare l’eterogenesi dei fini dell’art. 2112 cc, originariamente ispirata a finalità di tutela dei lavoratori e di poi indirizzata ad agevolare processi di esternalizzazione di segmenti aziendali, ha via via ristretto il concetto di ramo d’azienda attribuendo rilievo agli elementi caratterizzanti la definizione contenuta nella Direttiva 98/50, come utilizzati nella interpretazione della Corte di Giustizia, e cioè l’identità dell’entità economica ceduta, l’insieme di mezzi organizzati.

Questa lettura più rigorosa, che indubbiamente riduce il campo di applicazione del trasferimento di ramo d’azienda, pare al giudicante condivisibile, sul piano interpretativo essa infatti si presenta più aderente alla lettera della normativa e non ne costituisce una forzatura, in via di fatto evita di rimettere alla mera volontà dell’imprenditore l’unificazione di un complesso di beni al solo fine di renderlo oggetto di un contratto di trasferimento di azienda, rendendo applicabile la relativa disciplina e incidendo sulla sorte dei rapporti di lavoro.

L’istruttoria svolta nella presente controversia ha consentito di accertare che ENI ha costituito l’unità SECS con decorrenza dal 3-9-01 (doc. 29 ricorrente), e ha ceduto tale unità, definita ramo, a febbraio 2002, dopo soli 5 mesi dalla costituzione.

Dal doc. 31 di parte ricorrente(e-mail del 30-0-01) emerge poi che già prima della costituzione della detta unità era prevista la successiva cessione a Servizi ICT.

Il personale assegnato a tale unità non aveva una professionalità omogenea in campo informatico, il teste***  ha al riguardo riferito che il “personale assegnato al SECS avrebbe dovuto essere costituito da coloro che in precedenza era chiamato EUC cioè referenti informatici individuati dalle singole Divisioni: E’ però accaduto che alcune Direzioni hanno rispettato tale criterio altre no....” .

Quanto all’attività trasferita a servizi ICT non si è trattato di tutta l’attività di supporto e assistenza informatica, in quanto ENI ha continuato a svolgere l’attività relativamente ai programmi  di fascia A mentre ha lasciato ad ICT i programmi di fascia inferiore B e C (testi *** e ***).

Altro elemento indicativo è la mancanza di lavoro del ramo di azienda già prima del trasferimento. “Tutti i lavoratori del SECS non ebbero alcuna mansione concreta per tutto il periodo in cui il SECS rimase all’ENI (da settembre 2001 a febbraio 2002)”.

Alla luce di queste risultanze appare evidente che in ENI non esisteva un’entità economica autonoma e organizzata avente ad oggetto l’attività di supporto informatico, tale entità è stata creata ad hoc per trasferire a terzi del personale che risultava eccedente.

I lavoratori sono inoltre stati assegnati all’unità sulla base del tipo di mansioni svolte e non dell’inerenza del rapporto al ramo di azienda.

Si è quindi in presenza non di un trasferimento di un ramo di azienda bensì di una mera cessione di contratti di lavoro, illegittima in quanto attuata senza il consenso dei lavoratori ceduti.

ne consegue la reintegrazione del ricorrente presso ENI, nel posto di lavoro on precedenza occupato o in mansioni equivalenti.

 

3. Sul demansionamento

Il ricorrente ha chiesto l’accertamento dell’avvenuta dequalificazione a decorrere dal marzo 99 al ricorso, con conseguente condanna di ENI all’assegnazione di mansioni equivalenti a quelle spettanti in base all’inquadramento riconosciuto in giudizio e al risarcimento del danno per dequalificazione professionale.

Occorre quindi innanzitutto verificare se vi è stata la affermata dequalificazione e quale durata ha avuto.

Il ricorrente è stato inquadrato nell’area 4 dall’ottobre 1997. La categoria 4 comprende “i lavoratori che, in possesso di approfondite conoscenze tecnico pratiche dei processi specifici maturate con congrua esperienza, esplicano ruoli di concetto o di alta specializzazione nei vari settori tecnico, amministrativo o commerciale. Tali ruoli comportano lo svolgimento di ruoli specialistici o differenziati, con autonomia o responsabilità operativa di procedure e processi realizzativi nell’ambito di standard di riferimento di massima definiti in contesti variabili...”.

Il ricorrente in ENI, da gennaio 98 svolgeva mansioni di EUC nella direzione ITES, in qualità di addetto informatico e si occupava del software Wasatch e delle stazioni di grafica che utilizzavano detto programma: Dall’inizio del 99 tale software veniva abbandonato e sostituito da altro programma Adobe. Il sig. A. in conseguenza di tale cambiamento ebbe meno richieste di intervento ma continuò a svolgere mansioni di tipo informatico di assistenza agli utenti (teste***). In considerazione della diminuzione di lavoro il Sig. A. richiese di accedere al part time e ottenne la riduzione dell’orario di lavoro da marzo 99 a marzo 2001. Con riferimento a tale periodo non si configura quindi alcun demansionamento, in quanto la diminuzione del carico di lavoro assegnato al ricorrente è in primo luogo riconducibile alla riduzione dell’orario.

Il responsabile *** ha poi dichiarato che in tale periodo “eravamo in tre ad occuparci di informatica ed avevamo circa 1200 utenti per cui non c’erano periodi di mancanza di attività”.

Dall’istruttoria è emerso che dal settembre 01, cioè dalla costituzione del SECS, alla cessione a Servizi ICT il ricorrente è stato sottoccupato.

“Le mansioni svolte da A. presso il SECS erano quelle di installazione di software di fascia C... So che A. presso il SITE si era occupato del software anche di fascia A... Tutti i lavoratori del SECS non ebbero alcuna mansione concreta per tutto il periodo in cui il SECS rimase in ENI (settembre 2001- febbraio 2002”. “Preciso che presso il SECS il sig. A. non ha fatto mai nulla per l’intero periodo. Io andavo una volta al giorno a trovarlo e quindi l’ho visto direttamente” (teste***).

“Passando al SECS i software sono stati suddivisi in tre categorie A, B, C e ad A. è stata affidata la fascia C che comprendeva software molto semplici da installare e di valore economico molto basso. I prodotti Landmark sono stati inseriti in fascia A e  il sig. A. non se ne è più occupato”. “Da  settembre 2001 avevamo pochissimo lavoro. Anzi nei primi tre mesi sia io che A. non avevamo nulla da fare”. “Nel SECS io e A. svolgevamo esclusivamente attività di installazione “ (teste***).

“Il sig A. ha lavorato nella mia stessa unità da settembre 2001 fino alla cessione. Nei 4 mesi in cui abbiamo lavorato assieme il sig. A. si è occupato prevalentemente dell’attività di installazione e configurazione di software nelle postazioni PC. Un’attività connessa a  quella svolta da A. era quella di preparare delle relazioni relative alle modalità di installazione”.  “Nei 4 mesi in cui ho lavorato assieme ad A., questi si è lamentato per la riduzione di richieste di interventi di installazione del software. In effetti le richieste erano poche...” (teste***).

Con il trasferimento del ramo d’azienda a Servizi ICT srl, la situazione lavorativa degli addetti è peggiorata sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo.

Il teste *** ha confermato la situazione di sottoutilizzazione del ricorrente, “sia io che lui siamo rimasti pressoché senza alcun incarico ed eravamo impegnati un quarto d’ora al giorno” (teste***).

Dall’analitica descrizione delle mansioni del ricorrente desumibile dalle testimonianze sopra trascritte appare quindi evidente il progressivo demansionamento subito dallo stesso, in ENI unità SECS e quindi in servizi ITC, sia dal punto di vista quantitativo di sottoutilizzazione, sia qualitativo.

Il sig. A. infatti dal settembre 2001 ha visto una forte riduzione qualitativa dell’attività venendo addetto alla mera installazione di software e per di più di soli software di fascia C, i più semplici. In precedenza aveva invece svolto attività di assistenza agli utenti, aggiornamento, modifiche dei programmi e anche per i software più complessi di fascia A.

Dal punto di vista quantitativo si è accertato che l’impegno del ricorrente si è ridotto addirittura ad un quarto d’ora al giorno.

Accertata quindi la violazione dell’art. 2103 cc, il datore di lavoro ENI spa stante l’ordine di reintegrazione, deve essere condannato ad assegnare al ricorrente mansioni equivalenti a quelle proprie del suo livello.

Quanto alla richiesta di risarcimento del danno alla professionalità la domanda va accolta. la Corte di Cassazione, in varie pronunce ha infatti rilevato che “la modifica in pejus (ovvero la negazione o l’impedimento) delle mansioni dà luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore. Infatti il demansionamento non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 cc, ma ridonda in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa” (Cass 18-10-99 n. 1127, Cass. 6-11-00 n. 14443, Cass. n. 10 del 2002).

Anche la giurisprudenza di merito, seppure vada dato atto che ha manifestato orientamenti non costanti, ha più volte affermato che “il risarcimento del c.d. danno alla professionalità, che consegue al consapevole e volontario “svuotamento” delle mansioni del lavoratore, deve essere equitativamente commisurato, pur in mancanza della prova del preciso ammontare, a quella parte della capacità professionale effettivamente pregiudicata secondo criteri equitativi che tengano conto di tute le circostanze del caso concreto e, in particolare, della gravità e della durata della dequalificazione. Viceversa,a  fronte del suddetto “svuotamento” delle mansioni, non è risarcibile il lamentato danno biologico in mancanza della prova specifica, incombente sul lavoratore, della misura del danno e del nesso causale con la condotta datoriale” (Tribunale di Roma, 4 aprile 2000).

Applicando tali criteri interpretativi alla fattispecie occorre considerare che risulta provato che il ricorrente è rimasto sottoutilizzato dal settembre 01 al 30-1-2002, quando era alle dipendenze di ENI, è rimasto in tale situazione quantitativamente peggiorata in Servizi ICTsrl fino al deposito del ricorso in data 8-7-03.

Il danno alla professionalità subito dal ricorrente è quindi desumibile dalla situazione di emarginazione e di mortificazione dallo stesso vissuta in tali periodi di inoperosità nonché dalla esclusione da ogni possibilità di aggiornamento, tanto più grave in un campo, quale quello informatico cui era addetto il sig. A, in continua costante evoluzione.

Tale danno può essere liquidato in via equitativa, utilizzando come parametro la retribuzione mensile, che costituisce “espressione anche del contenuto professionale della prestazione” (Cass. n. 10/2002), nella fattispecie non contestata dalla convenuta.

La dequalificazione professionale, oltre agli innegabili riflessi negativi che può produrre nell’equilibrio psicofisico del lavoratore colpisce direttamente quel valore economico, del quale determina un decremento, che è tanto maggiore quanto più lungo è il periodo di concreta sua assegnazione a mansioni dequalificanti. pertanto in caso di un lungo periodo di dequalificazione il risarcimento del danno da dequalificazione può essere equitativamente determinato nella misura del 100% della retribuzione percepita dal lavoratore durante il periodo di dequalificazione” (Pretura di Milano 26-1-99).

La percentuale applicabile, determinata in via equitativa, tenendo conto della durata e dell’elevato grado di inoperosità nei  2 periodi sopra individuati, può indicarsi nel 50% della retribuzione.

ENI va quindi  condannata al risarcimento del danno alla professionalità nella misura della retribuzione del ricorrente sopraindicata, per il periodo da settembre 2001 al 30-1-2002 mentre per il periodo successivo al trasferimento del ramo d’azienda vanno condannate in via solidale le due convenute.

La condanna alle spese segue la soccombenza. Le spese si liquidano in favore del ricorrente come da dispositivo in complessivi € 3000,00, di cui € 200 per spese, € 1300 per diritti ed € 1500 per onorari oltre oneri accessori di legge.

Sentenza provvisoriamente esecutiva ai sensi di legge.

PQM

Il giudice, definitivamente pronunciando, così decide:

Accerta e dichiara la illegittimità del trasferimento del ramo d’azienda denominato Servizi di supporto operativo all’utenza del 30-1-2002.

Ordina ad ENI di ripristinare il rapporto di lavoro con il ricorrente assegnandogli mansioni corrispondenti o equivalenti al suo livello di inquadramento.

Accerta e dichiara che il ricorrente dal settembre 2001 al deposito del ricorso è stato assegnato a mansioni non equivalenti in violazione dell’art. 2103 cc.

Per l’effetto condanna ENI al risarcimento del danno alla professionalità che liquida  complessivamente nella misura del 50% della retribuzione percepita o spettante al ricorrente per il periodo dal settembre 2001 al 30-1-2002 e condanna in via solidale ENI e Servizi ICT srl al risarcimento del danno, come sopra determinato, per il periodo dal 30-1-2002 al luglio 2003 (deposito del ricorso).

Respinge la domanda di superiore inquadramento.

Condanna le convenute in via solidale alla rifusione delle spese di lite che liquida complessivamente in favore del ricorrente in € 3.000,00 oltre iva e 2% cpa.

Sentenza provvisoriamente esecutiva.

 

Milano lì, 14-4-2005 (depositata 30 luglio 2005)

Il Giudice del lavoro

Silvia Ravazzoni

 

 

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