Trasferimento di ramo d’azienda o esternalizzazione di  solo personale?
1. La non necessità del consenso del lavoratore nel trasferimento di ramo d’azienda (e relativa nozione accolta nelle decisioni nn. 10701 e 10761/2002)
 
1.1. Fra luglio e ottobre del corrente anno si sono succedute quattro decisioni, rispettivamente contrassegnate dai nn. 10701 del 22 luglio 2002 e 10761 del 23 luglio 2002 (1) – identiche e redatte dal Cons. Vidiri – e dai nn. 14961 del 23 ottobre 2002 (2) e 15105 del 25 ottobre 2002 – identiche e redatte dal Cons. Picone, entrambi della Suprema Corte di Cassazione.
In data 4 dicembre 2002  - sullo stesso tema dell’outsourcing – è stata depositata Cass. n. 17207, redatta dal Cons. Vidiri, che si presenta allineata nei principi di diritto alle ultime due del Cons. Picone, pur mantenendo alcune distinzioni (già asserite nelle sue precedenti del luglio), tramite cui ha escluso, nel caso, che  l’esternalizzazione aziendale strutturasse la legittima fattispecie giuridica del “trasferimento d’azienda” (e di cui diremo alla fine dell’articolo).
Tutte quante avevano attinenza specifica al tema (o “moda” sovente necessitata, più spesso abusata) dell’outsourcing, in italiano esternalizzazione – cioè alla dismissione di attività non rientranti nel cd. «core business» dell’azienda, ma ad esso ausiliarie o accessorie o strumentali – costituente metodologia di decentramento e di segmentazione strutturale e logistica, tramite la quale le aziende, un tempo ispirate al modello della centralizzazione dei servizi, ora lo abbandonano per asseriti intenti di riduzione di costi, procedendo a delocalizzazioni o cessioni di attività  e di beni a terzi (ad esse legati da contratti di appalto, subfornitura, leasing, committenza, ecc.), con l’effetto della conseguente cessione di dipendenti retributivamente onerosi e dimensionalmente consistenti, costretti ope legis automaticamente a trasmigrare alle dirette dipendenze ed in organico del cessionario, loro nuovo datore di lavoro.
I risultati cui pervengono le sentenze  sono divergenti, giacchè le prime due sono ispirate ad una visione  proiettata nel contesto liberistico e comunitario, le altre due stringentemente e saldamente ancorate all’attuale ordinamento positivo nazionale del lavoro (che l’attuale governo intende modificare, con i disegni di legge n. 848 e 848 bis della XIV legislatura) ma  dal quale - fintanto che tali modifiche (specificatamente attinenti alla nozione di trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c.) non verranno introdotte - non è possibile prescindere con la conseguenza, secondo l’opinione delle successive decisioni, che  non  risulterebbero consentite alle aziende  le operazioni di esternalizzazione portate all’esame della Cassazione.
Nelle prime due sentenze (più vecchie temporalmente) le operazioni sulle quali la S. corte é stata chiamata a decidere in ordine alle richieste dei lavoratori ricorrenti consistevano nell’esternalizzazione da parte della Soc. Alcatel alla Soc. Pllb elettronica del servizio di «manutenzione e calibrazione strumenti»  (costituito da vari reparti ed avente ad oggetto attività diverse). I  ricorrenti erano operai che non ritenevano che tale cessione poteva essere effettuata tramite lo strumento giuridico del “trasferimento di ramo d’azienda” ex art. 2112. c.c. - in quanto trattantesi di attività non autonome ma ausiliarie al nucleo dell’attività centrale dell’azienda -, strumento notoriamente indifferente al consenso dei lavoratori alla cessione del contratto, ma avrebbe dovuto  essere attuata attraverso lo strumento giuridico della cessione negoziale dei contratti di lavoro ex art. 1406 c.c., implicante, all’opposto, il consenso dei lavoratori ed in caso di licenziamento da parte del cedente, per diniego di passare alle dipendenze del cessionario (com’era in fatto avvenuto), il diritto al reintegro nell’azienda cedente.
Il consigliere estensore è giunto alla seguente affermazione di principio:«Il recente testo dell’art. 2112 c.c., come rivisitato dal D Lgs. 2 febbraio 2001 n. 18 (attuativo della direttiva 98/ 50 / CE relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti) risulta in larga parte ricognitivo dei precedenti approdi dottrinari e giurisprudenziali, e vale, attraverso la sua lettera e le espressioni usate («…si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione e dello scambio di beni servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità…»), a legittimare in maniera finalmente certa ed inequivocabile una nozione di trasferimento di impresa con più attenuati caratteri di materializzazione e che cioè, in linea con un assetto produttivo diretto a dare sempre maggiore rilevanza alla capacità professionale e alle conoscenze tecniche dei lavoratori, consideri «attività economica» suscettibile di figurare come oggetto di detto trasferimento anche i soli lavoratori, che per essere stati addetti ad un ramo dell’impresa e per avere acquisito un complesso di nozioni e di esperienze, siano capaci di svolgere autonomamente - e, quindi, pur senza il supporto di beni immobili, macchine attrezzi di lavoro o di altri beni - le proprie funzioni anche presso il nuovo datore di lavoro.
In un siffatto assetto ordinamentale il trasferimento d’azienda può configurarsi, con riferimento alla posizione del lavoratore, come successione legale di contratto che per non richiedere, quindi, il consenso del contraente ceduto (lavoratore trasferito) non può essere assimilato alla cessione negoziale per la quale il suddetto consenso opera da elemento costitutivo della fattispecie negoziale. La funzione socio economica cui deve assolvere il trasferimento d’azienda, osta, contrariamente a quanto sostengono i ricorrenti, a che a detto trasferimento possa applicarsi la disciplina degli artt. 1406 e ss. c.c., risultando di palmare evidenza come gli adempimenti richiesti da tale disciplina e la necessità del consenso del contraente ceduto concretizzano un complesso di disposizioni che, per la propria articolazione e la propria rigidità, si presentano come poco permeabili alle esigenze dei processi di ristrutturazione aziendale, di riconversione industriale e di delocalizzazione delle imprese».
Schermandosi dietro una progressista valorizzazione della capacità professionale dei lavoratori, coniugata tuttavia esplicitamente all’esigenza di consentire (o non ostacolare) i processi di ristrutturazione aziendale, di riconversione industriale e di delocalizzazione delle imprese – assunti come imperativo del mercato - il principio di diritto sopra riferito  giunge a ritenere  il “ramo d’azienda” ceduto esaustivamente strutturato dalle sole prestazioni o energie professionali dei lavoratori medesimi, accomunati da omogeneità di mansioni e di professionalità, svalutando totalmente  la concomitante cessione di beni aziendali (quali il capannone, il reparto, la strumentazione di lavoro e simili). Ciò sul presupposto secondo il quale la nuova nozione di “trasferimento d’azienda” si distaccherebbe sempre più  dal riferimento alla azienda (quale definita nell’art. 2555 c.c., come “complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa”) per valorizzare l’aspetto della capacità imprenditoriale, ex art. 2082 c.c. Così legittimando la mera cessione  a terzi  - come “trasferimento d’azienda” -  di collettività di lavoratori in se e per se, unificati tra loro dalla specifica ed omogenea professionalità (ad es. i manutentori, i calibristi, i contabili, gli informatici, e simili).
Per maggiore comprensione della problematica riferiamo il testo dell’ultimo comma dell’art. 1 del decreto legislativo 18/2001 che espressamente recita: “Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato, ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata ai sensi del presente comma, preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”.
 
1.2. Partendo da questa innovazione – cui taluno in dottrina attribuisce il valore di aver  «abbattuto quella discrepanza di ottica (tra disciplina interna e comunitaria) che la novella del 1990 non aveva eliminato...con il riferimento, testuale, al trasferimento di “un’attività economica organizzata (…) al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi” il legislatore si allontana dalla nozione di azienda (2555 c.c.) preferendo fare riferimento alla nozione di impresa (art. 2082 c.c.). L’uso ripetuto delle espressioni “cedente” e “cessionario” (al posto di alienante e acquirente), l’eliminazione del quarto comma del 2112 c.c., nonché la soppressione del riferimento, nella rubrica, alla definizione “trasferimento d’azienda” fanno ritenere che il legislatore abbia considerato come dato qualificante, al fine dell’identificazione della fattispecie, l’identità funzionale dell’impresa concepita come “entità economica” (per usare la definizione della direttiva Ce 98/50, n.d.r.) prescindendo dal dato (prima caratterizzante il diritto interno) dell'essenzialità del trasferimento di beni aziendali (art. 2555 c.c.)» (3).
Ma – a nostro sommesso avviso – non è e non può essere così (tant’è che le successive decisioni del secondo orientamento, cioè Cass. nn. 14961 e 10105/2002, hanno presupposto ed asserito come «il ramo d’azienda sia un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un’attività volta alla produzione di beni o servizi»).
Alla lata nozione di trasferimento d’azienda accolta dal primo consigliere estensore, si è, infatti, obiettato che “la norma interna deve essere interpretata alla luce della direttiva (4)”... che ha abbandonato, sulla scorta della giurisprudenza comunitaria più recente, una concezione dematerializzata dell’impresa. In secondo luogo il concetto di attività economica organizzata “implica necessariamente l’esistenza di un complesso di beni e/o persone (5)”. Su questo punto, quindi, le prime due decisioni incontrano il nostro dissenso.
La parte sulla quale invece esprimiamo condivisione è quella che non ritiene necessario il consenso del lavoratore per il suo trasferimento al cessionario,  sempre che si tratti di legittimo trasferimento di ramo d’azienda e non di esternalizzazione di servizi eterogenei e non coordinati tra loro (id est, non autonomi ai fini della immissione ed operatività sul mercato) o di gruppi di lavoratori in esubero assemblati discrezionalmente dal cedente - e strumentalmente ricondotti nell’ambito di un nucleo o reparto -  per trasferirli al cessionario di dubbia sopravvivenza sul mercato medesimo. Tale esigenza di consenso dei lavoratori ceduti era stata fondata dottrinalmente sulla sentenza Katsikas (sentenza 16 dicembre 1992, nei procedimenti riuniti, C-132/91, C- 138/91, C-139/91, in Raccolta, 1992, I, 6577),  ove la Corte di Giustizia Ce statuì che la direttiva n. 77/187 Ce “non può essere interpretata nel senso che essa obbliga il lavoratore a proseguire il rapporto di lavoro con il cessionario” e che “un obbligo del genere comprometterebbe i diritti fondamentali del lavoratore, il quale deve essere libero di scegliere il suo datore di lavoro e non può essere obbligato a lavorare per un datore di lavoro che non ha liberamente scelto”. Tuttavia, la Corte di Giustizia Ce – specie nella successiva sentenza Mercky del 4 marzo 1996 -  ebbe poi a precisare  che le conseguenze della decisione di non proseguire il rapporto di lavoro erano state lasciate, dalla direttiva Ce 77/187,  nelle mani degli Stati membri. In questa ottica non è senza rilievo che il legislatore italiano, nel d. lgs. 18/2001, abbia previsto solo una speciale facoltà di dimissioni legata ad una sostanziale modifica delle condizioni di lavoro senza avvalersi delle più ampie facoltà che la direttiva gli accordava (6).
In realtà, come afferma dottrina più recente (7), i principi di diritto comunitario “che possono essere desunti dalla giurisprudenza (della Corte di giustizia Ce, n.d.r.) sono i seguenti: le norme della direttiva non mirano a garantire la continuazione del rapporto di lavoro con il cedente; la tutela della direttiva è svuotata di contenuto ove il lavoratore liberamente rinunci alla continuazione del rapporto con il cessionario, che, perciò, non è per lui obbligatoria; resta nella sovranità degli Stati membri stabilire la disciplina del rapporto di lavoro nel caso di una simile rinuncia. Appare allora chiaro come non esista, nel diritto comunitario, un diritto di opporsi alla continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario (…). In realtà (…) il lavoratore ha una mera facoltà di opporsi: non è cioè obbligato a continuare il rapporto con il cessionario, che è cosa ben diversa dal diritto di continuare il rapporto con il cedente”. Ed in precedenza era stato parimenti asserito (8) che le direttive comunitarie sembravano riconoscere al lavoratore solo il diritto di dimissioni per giusta causa, quale strumento di autotutela di fronte alla violazione della stabilità delle condizioni di lavoro ma non sembravano toccare la validità dell’atto di successione dell’acquirente nella titolarità dei contratti di lavoro, la quale, costituendo effetto già prodottosi ope legis, non richiede il consenso del contraente ceduto. L’ordinamento italiano, si disse, non riconosce al lavoratore il diritto di rifiutarsi di seguire il trasferimento dell’unità produttiva a cui è adibito e di ottenere dall’imprenditore alienante la destinazione ad altra unità produttiva prima del trasferimento.
 
1.3. La Corte di giustizia delle Comunità europee quando effettuò la considerazione che il lavoratore non può essere obbligato a cambiare datore di lavoro per effetto di un trasferimento di impresa o di ramo d’impresa, affermò un principio in astratto del tutto condivisibile: non si vede perché il lavoratore che non è una merce (9) debba essere obbligato a instaurare per automatismo un rapporto di lavoro con un imprenditore diverso da quello originariamente scelto. Affermato il principio, lasciò agli stati membri di disciplinare le conseguenze del rifiuto del lavoratore a seguire il segmento aziendale scorporato e ceduto all’acquirente. Ed i legislatori degli stati membri avrebbero potuto, tramite la legislazione nazionale ordinaria, statuire il diritto a rimanere nell’impresa dell’alienante, in altra unità produttiva ed in altre equivalenti mansioni semprechè possibile dal punto di vista organizzativo, ovvero – come ha fatto lo Stato italiano con il d.lgs. n. 18/01- stabilire che il diniego è legittimo e può essere seguito da dimissioni – entro i tre 3 mesi successivi al trasferimento -  con il  trattamento indennitario (a carico del cessionario ed a trasferimento perfezionato) della risoluzione per giusta causa ex art. 2119 c.c. (corresponsione del preavviso) qualora “le condizioni di lavoro subiscano una sostanziale modifica” rispetto alle originarie, per effetto del trasferimento medesimo. Con tale scelta il legislatore si è rifatto ed ispirato – in un certo qual senso -  alla soluzione contrattuale delle dimissioni del dirigente d’azienda  per “trasferimento di proprietà dell’azienda” e/o “per sostanziale mutamento di posizione” conseguente a ridimensionamento professionale o di ruolo, come di norma succede in caso cessione d’azienda e subentro di altro imprenditore nella titolarità o  altri managers fiduciari di quest’ultimo  nella gestione e conduzione aziendale.
Quello che premeva alle direttive  della Ce come alla legislazione nazionale che ne è seguita in via di attuazione era impedire, nell’interesse alla continuità dell’occupazione dei lavoratori,  che il trasferimento d’azienda costituisse di per se giustificato motivo di licenziamento, cioé occasione per disfarsi di personale. Al di là di affermazioni di principio sul diritto alla non imposizione al lavoratore di un imprenditore diverso da quello originariamente scelto, non ha trovato né in quella comunitaria né nella legislazione nazionale italiana alcun diritto di cittadinanza la legittimazione al rifiuto accompagnata dal mantenimento in organico presso l’azienda alienante. Anzi il d.lgs. n. 18/01 nel modificare l’art. 2112 c.c., al 3° comma del medesimo, ha significativamente riconfermato “ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti...” il trasferimento non costituisce di per se motivo di licenziamento.
Cosicché al rifiuto – com’era intuitivo – del lavoratore a seguire l’unità produttiva trasferita non può che seguire il rischio certo del licenziamento per soppressione di posizione di lavoro, cioè a dire per giustificato motivo oggettivo ex lege n. 604/1966. Ed anche l’onere di “repêchage” gravante sul datore di lavoro per azionare legittimamente il recesso per g.m.o. ha poca o nulla possibilità di impedire il licenziamento del lavoratore indisponibile a mutare imprenditore a seguito del trasferimento di ramo d’azienda, giacché è agevole per l’alienante dimostrare di non avere spazi occupazionali alternativi in altre unità produttive per quella specifica professionalità anche nel caso in cui il lavoratore, per non passare sotto altro precario datore di lavoro dell’indotto, manifesti disponibilità e consenso al mutamento peggiorativo delle mansioni finalizzato a non troncare il cordone ombelicale con l’azienda originaria (10).
Poiché stemperare l’assolutezza dei principi con un po’ di sano realismo è operazione intelligente, si condivide l’affermazione di chi ha detto che legittimare – in caso di trasferimento di ramo d’azienda – il rifiuto (o diritto d’opposizione) per mancanza di consenso del lavoratore  non è soltanto operazione incongrua ma “neppure auspicabile” (11), giustappunto tenendo a mente le considerazioni sopra sviluppate in ordine alla certezza del rischio di licenziamento.
Cosicché pertinentemente, sul punto specifico, l’orientamento delle (prime) sentenze in commento afferma che «la funzione garantistica dell’art. 2112 c.c. è, a ben vedere, destinata ad esaltarsi proprio in un contesto di più accentuata flessibilità del mercato del lavoro, per fungere quale scelta alternativa di licenziamenti motivabili (alla stregua del diritto costituzionalmente garantito della libertà d’impresa ex art. 41 Cost.) per giustificato motivo oggettivo, e di procedure di mobilità ex  L. 12 agosto 1977 n. 765 e 23 luglio 1991 n. 223 ( nel corso delle quali il passaggio dei lavoratori da un’impresa all’altra riceve un tasso di tutela di certo non superiore a quello assicurato dalla norma codicistica)».
 
2. Nozione di ramo d’azienda e divieto di esternalizzazioni discrezionali (secondo le sentenze nn. 14961 e 15105/2002)
 
2.1. La vicenda che ha occasionato le due decisioni successive della Suprema corte – redatte dal Cons. Picone – è stata causata dalla decisione della Soc. Ansaldo Energia di cedere (nel luglio 1997) il ramo d’azienda “Servizi generali” a “Manital Consorzio per i servizi integrati”. Ramo comprendente un coacervo di servizi ausiliari e di attività, tutte quante caratterizzate dalla ritenuta estraneità, da parte del management aziendale, al cd. “core business” dell’azienda, giustificando la decisione della cessione al Consorzio Manital a seguito della determinazione di “impegnare sempre più le capacità aziendali nelle attività dirette su prodotto, mercato e tecnologie, contenendo, nella misura possibile gli alti costi di funzionamento...al fine di far riacquisire competitività alla Società”.
Le attività oggetto di cessione – ed assemblate dalla direzione aziendale nei “Servizi generali” – erano costituite dalle seguenti:  conduzione e manutenzione di impianti termotecnici, di impianti elettrici, telefonici, Tvcc-Td, di impianti di sicurezza, controllo ed antincendio, di ascensori e montacarichi e di altri impianti speciali, manutenzione di immobili industriali e civili e relative pertinenze; manutenzione reti di viabilità; monitoraggio e riparazioni reti fognarie ed idriche; progettazione di nuovi impianti generali; gestione pratiche per autorizzazioni edilizie, permessi di costruzione, autorizzazioni USL, VVFF, etc.; gestione e manutenzione attrezzature mensa; gestione e manutenzione di fotocopiatrici ed altre attrezzature di ufficio; movimentazione arredi, materiali ed attrezzature; facchinaggio; gestione dei mezzi relativi alla trasmissione delle informazioni (telex, fax, etc.), distribuzione documentazione; ricevimento e smistamento posta; fattorinaggio interno ed esterno; riproduzione della documentazione (disegni, etc.), gestione degli archivi generali, di deposito e relativa conservazione e messa a disposizione della documentazione; pulizia dei fabbricati; giardinaggio; gestione e distribuzione cancelleria; gestione di pratiche relative alle trasferte dei dipendenti (prenotazioni, acquisto biglietti, rinnovo e visto passaporti, autonoleggio, "navette", etc.); traduzioni documenti; segreteria, reporting ed altri compiti di carattere gestionale e/o di supporto riferiti alle attività suddette.
La Cassazione – ritenendo, con nostra adesione e con le argomentazioni convincenti che  in prosieguo evidenzieremo  dettagliatamente – che il “trasferimento di ramo di azienda”, quale codificato nel nostro diritto positivo nazionale ed accolto dalla prevalente giurisprudenza della S. corte (che si è sempre discostata dalle posizioni ondivaghe del diritto comunitario), sia riscontrabile quando «viene ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un’attività volta alla produzione di beni e servizi» - cioè in buona sostanza quando viene ceduta una “articolazione dell’azienda” (id est un’unità produttiva) che già antecedentemente possedeva una “vita sua” in seno all’azienda cedente, suscettibile di permanere inalterata una volta conferita a terzi ed anzi capace di accentuarsi sul mercato, operando non solo per l’azienda cedente (rimasta in posizione di committente) ma anche nei confronti dei terzi – è giunta correttamente a negare che i servizi ceduti sopraelencati costituissero “articolazione funzionalmente autonoma” della più complessa azienda, risiedendo il solo elemento unificatore delle attività cedute nella  dichiarata (dal management aziendale)  estraneità alle cd. “competenze di base” (o core business) dell’azienda e nella loro mera accessorietà rispetto a tali competenze di base.
Come si vede, la S. corte (o meglio l’estensore delle due decisioni in commento)  non ha accolto (come il primo estensore) una nozione espansa e di matrice comunitaria della nozione di “trasferimento d’azienda e di ramo della medesima” –  desumibile dalla direttiva n. 98/50 Ce  secondo la quale la nozione di trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda  implicava la cessione di “una entità economica...come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria”, tradotta in “attività economica” in qualche misura smaterializzata dai beni immobili e mobili -  ed ha invece affermato che se il nuovo art. 2112 c.c. parla anch’esso di “attività economica” organizzata, il trasferimento d’azienda non può prescindere  dal richiamo della nozione di azienda rinvenibile nell’art. 2555 c.c. (implicante il riferimento a beni organizzati e coordinati dall’imprenditore a fini di impresa).
Nel respingere (in piena consonanza con l’opinione delle precedenti decisioni  riferite al punto 1) come estranea al nostro diritto positivo nazionale la pretesa del consenso dei lavoratori come condizione di legittimazione per il passaggio automatico al nuovo imprenditore cessionario, sulla base del nuovo art. 2112 che legittima l’opposizione  - autorizzando le dimissioni  con il trattamento della risoluzione per giusta causa ex art. 2119 c.c.  per il solo caso in cui presso il cessionario il lavoratore si trovi ed operi in condizioni di lavoro sostanzialmente modificate (in senso deteriore) rispetto alle originarie – la Cassazione ha tuttavia rifiutato il precedente orientamento secondo il quale un complesso di lavoratori caratterizzati da omogeneità di professionalità e di mansioni poteva costituire (di per se stesso e per i servizi che svolge) “ramo d’azienda” e come tale “automaticamente” trasferibile dal cedente al cessionario.
 
2.2. Ha osservato che accedere a questa impostazione significherebbe legittimare il trasferimento di lavoratori in caso di eccedenze od esuberi (o per intenti di mera riduzione dei costi) da un’azienda ad altro imprenditore (meno solvibile, sottodimensionato o precario) capace poi anche di disfarsene agevolmente. Tale soluzione, dietro lo schermo del “trasferimento di ramo d’azienda”, si sarebbe prestata ad aggirare gli strumenti legislativi predisposti per i licenziamenti per riduzione di personale. In tal modo ha ritenuto pienamente fondate le considerazioni avanzate in dottrina da coloro che avevano additato come accedere ad una «nozione allargata di ramo di azienda potrebbe legittimare, attraverso il trasferimento, tutte le operazioni di "esternalizzazione" di servizi, anche se consistenti nella pura e semplice espulsione di quote di personale, evitando il "costo" sociale, ma anche economico, di un licenziamento collettivo. In altri termini, ne deriverebbe un ribaltamento della prospettiva tradizionale di lettura delle norme di tutela dei lavoratori in caso di trasferimento di azienda, con il possibile risultato di garantire all'impresa cedente il passaggio automatico, quale effetto ex lege, della cessione di azienda, dei lavoratori alle dipendenze del cessionario, lavoratori sui quali andrebbe  a cadere il rischio, nel medio periodo, dell'affidabilità del nuovo datore di lavoro, e ciò soprattutto in presenza della cessione di una parte soltanto del complesso aziendale rilevato da soggetto legato al cedente da contratto di committenza, per cosi dire "governato" da quest’ ultimo».
Questo rischio di elusione può e deve essere evitato – ha sostanzialmente detto la Cassazione –  e può esserlo pacificamente perché «ha il conforto del nostro diritto positivo  una nozione più restrittiva di ramo di azienda, che, per essere tale, deve avere una sua autonomia funzionale, nel senso che deve presentarsi come una sorta di piccola azienda in grado di funzionare in modo autonomo e non rappresenti, al contrario, il prodotto dello smembramento di frazioni non autosufficienti e non coordinate tra loro, né una mera espulsione di ciò che si riveli essere pura eccedenza di personale. Con queste caratteristiche, quindi, il ramo di azienda deve preesistere alla vicenda traslativa, nel senso che già prima esso deve essere identificabile ed idoneo a funzionare autonomamente, senza, peraltro che tale requisito venga a mancare sol perché il ramo di azienda venga integrato da altri elementi, una volta inserito nella complessiva azienda dell'acquirente».
Ed ha proseguito  - in netta antitesi con l’opinione espressa dalle decisioni menzionate al punto 1. del presente scritto - « E' stato il riferimento contenuto nell'art. 2112 c.c. all'azienda, invece che all'impresa, ad ancorare la giurisprudenza della Corte alla nozione commercialistica e restrittiva di azienda, ai sensi dell'art. 2555 c.c., così attribuendo rilievo decisivo all'organizzazione atta a conferire ai beni aziendali il carattere di strumentalità per il perseguimento dei fini dell'impresa. Di conseguenza, si ritiene indispensabile il trasferimento nella materialità dell'azienda come complesso organizzato di beni (Cass. 9 novembre 1992, n 12057; 17 dicembre 1994, n. 10828; 16 ottobre 1996, n. 9025; 17 giugno 1997, n. 5426; 30 dicembre 1999, n. 14755)».
Ha poi affermato che la diversità tra le due nozioni di trasferimento d’azienda (rinvenibili nel diritto comunitario ed in quello nazionale) impediscono qualsiasi operazione adeguatrice stante la chiarezza della nozione rinvenibile nell’ordinamento italiano e stante l’inidoneità dell’ordinamento comunitario a produrre immediatamente effetti sul caso controverso per il noto principio dell’inefficacia orizzontale (cioè nei rapporti interprivati) delle direttive comunitarie (cfr. Cass. 16 maggio 2002, n. 7120).
Ed ha concluso nel senso che «il diritto positivo richiede..., per l'applicazione dell'art. 2112 c. c., che sia ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni o servizi. Altrimenti, sarebbe la volontà dell'imprenditore ad unificare un complesso di beni (di per se privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario), al solo fine di renderlo oggetto di un contratto di cessione di ramo di azienda, rendendo applicabile la relativa disciplina sulla sorte dei rapporti di lavoro». In buona sostanza,  conclude convincentemente la Cassazione, : «resta, dunque, confermato il generale principio giurisprudenziale dell'assimilazione tra azienda e parte di azienda, differenziate solo, come é ovvio, sotto il profilo quantitativo, sicché resta escluso che un ramo di azienda possa essere disegnato e identificato solo al momento del trasferimento e in esclusiva funzione di esso, con un'operazione strumentale indirizzata all'espulsione, per questa via indiretta, di lavoratori eccedenti, consegnati ad un cessionario che, strettamente legato all'impresa cedente - ancorché vero imprenditore e non semplice interposto di mano d'opera - sarebbe posto in condizione di modificare liberamente le preesistenti condizioni di lavoro (contratti collettivi, condizioni di stabilità del posto di lavoro, ecc.). Tanto ciò e vero che il d. d. l. per la delega al Governo in materia di mercato di lavoro (collegato alla finanziaria 2002 e approvato dal consiglio dei Ministri il 15 novembre 2001), si propone proprio di incidere su questo punto, annoverando tra i criteri di delega per la modifica all'art. 2112 c.c. l'eliminazione del requisito "dell'autonomia funzionale  del ramo di azienda preesistente al trasferimento"».
 
2.3. Quest’ultima affermazione sconta un mancato aggiornamento – stante il fatto dell’essere stata l’ultima decisione n. 15105/02 emessa nella seduta del 19 giugno 2002 (come la n. 17207/02 del Cons. Vidiri, depositata il 4 dicembre successivo) – con le innovazioni apportate al d.d.l. 848 A (art. 1, comma 2, lett.l) dall’all. 3 del Patto per l’Italia del successivo 5 luglio 2002, tramite cui i sottoscrittori hanno convenuto sulla revisione del D.Lgs. n. 18/2001, finalizzata: 1) alla  completa conformazione ...con la disciplina comunitaria; 2) alla previsione dell’abbandono della prefigurata eliminazione del requisito dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda preesistente al trasferimento, mantenendo “la previsione del requisito dell’autonomia funzionale” non più, tuttavia,  come preesistente ma considerando sufficiente il suo accertamento e la sua sussistenza “nel momento del...trasferimento”.
La modifica che scaturirà nel nostro diritto positivo per effetto di novazione dell’art. 2112 c.c. – in conseguenza delle intese raggiunte nel Patto per l’Italia del 5 luglio 2002 - ha occasionato nei commentatori tre prese di posizione:
a)     la prima costituita da coloro che considerano pressochè irrilevante l’eliminazione del requisito della “preesistenza”, sufficiente reputando ad evitare escamotages elusivi, il mantenimento del requisito dell’autonomia funzionale (anche se al momento del suo trasferimento) quale intesa dalla consolidata giurisprudenza (12);
b)      da altra opinione è stato, invece, evidenziato “come tale intervento potrebbe consentire più facilmente quei processi elusivi di creazioni ad hoc di pretesi rami d’azienda che il d. lgs n. 18/2001 aveva inteso vietare”(13); da qui la sicura “rilevanza” del “ruolo che il giudice sarà chiamato a svolgere ”(14);
c)      infine una terza opinione ha riscontrato nell’attuale (e futura) modifica un insanabile contrasto con l’ordinamento comunitario, in quanto la soppressione del requisito della “preesistenza” dell’autonomia funzionale al trasferimento sembra, in sostanza, porsi in contrasto con le affermazioni della Corte di giustizia Ce che richiedono che oggetto del trasferimento deve essere “un’entità economica organizzata in modo stabile (…) e che tale entità deve essere “sufficientemente strutturata ed autonoma”(15).
Si è tuttavia da taluno (16) concluso in senso rassicurante in quanto  sul «piano dell’interpretazione letterale l’eliminazione del requisito della “preesistenza” (nell’ipotesi di cessione di ramo d’azienda) troverebbe un bilanciamento nel mantenimento del requisito della “conservazione nel trasferimento della propria identità”. Requisito che, come già detto, non costituisce un requisito ulteriore ed autonomo rispetto a quello della preesistenza “bensì un suo necessario completamento per evitare che, in occasione del trasferimento, le parti (cedente e cessionario) alterino la consistenza di tale articolazione, con aggiunte e sottrazioni di beni o risorse umane, rispetto all’assetto organizzativo che la connotava nella sua pregressa attività” (17). In altri termini, l’autonomia funzionale dell’articolazione dovrebbe, comunque, preesistere al “momento del suo trasferimento” (ancorché in termini temporali minimi)».
Come preannunciato al par. 1.1., in data 4 dicembre 2002 è stata emessa – per la stessa esternalizzazione operata dall’Ansaldo – la decisione n. 17207 (redatta dal cons. Vidiri), il quale pur mantenendo (come vedremo) i convincimenti in precedenza espressi in ordine alla possibilità che in particolari casi la “sola manodopera” possa strutturare entità giuridica oggetto di “trasferimento d’azienda”  ( concetto rinvenibile  nella giurisprudenza comunitaria)  ha asserito: “Al riguardo è opportuno precisare ancora una volta che il diritto positivo richiede per l’applicazione dell’articolo 2112 codice civile, che sia ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un’attività svolta alla produzione di beni o servizi. Altrimenti, sarebbe la volontà dell’imprenditore ad unificare un complesso di beni (di per sé privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario), al solo fine di renderlo oggetto di un contratto di cessione di ramo di azienda, rendendo applicabile la relativa disciplina sulla sorte dei rapporto di lavoro. Ciò non esclude, però, che in alcuni casi tale autonomia organizzativa ed economica possa - in alcuni settori o aree produttive in cui le strutture materiali assumono scarsa se non nessuna rilevanza - configurarsi, anche in presenza di trasferimento di sola manodopera e quindi di soli lavoratori, che, per essere addetti ad un ramo dell’impresa, e per avere acquisito un complesso di nozioni e di esperienze, siano capaci di svolgere le loro funzioni presso il nuovo datore di lavoro, potendosi, appunto, la suddetta autonomia concretizzare non solo attraverso la natura e le caratteristiche della concreta attività spiegata, ma anche in ragione di altri significativi elementi, quali, ad esempio, la direzione e l’organizzazione del personale, il suo specifico inquadramento, le peculiari modalità di articolazione del lavoro e i relativi metodi di gestione”.
Nel caso di specie – ha osservato Cass. n. 17207/2002 – “nel trasferimento dell’entità economica ceduta (Servizi Generali)- da Ansaldo al Consorzio Manital (n.d.r.) -  sono rimaste ignote sia la dimensione strutturale che quella dimensionale, e, per di più, non è risultata una corrispondenza tra attività trasferite ed attività già facenti capo ai Servizi Generali (sia nel senso che non tutte le attività rientranti nei detti Servizi sono state oggetto di trasferimento, sia nel senso che lavoratori già estranei all’unità economica in oggetto sono stati ceduti con l’asserito ramo di azienda). Il trasferimento, invece, ha riguardato tutti (o quasi) i lavoratori del "Centro di costo 991", che, per ammissione della stessa Ansaldo, era stato costituito per ricevere tutto il personale rientrato nell’aprile 1996 dalla Cassa integrazione guadagni, e già indicato dall’azienda come eccedente le esigenze strutturali. Tale centro, peraltro, di cui non è stata provata alcuna autonomia organizzativa, si caratterizzava per la estrema eterogeneità delle funzioni dei lavoratori ad esso addetti, ed - è bene ribadirlo - per la mancanza di qualsiasi funzione unitaria, suscettibile in qualche modo di farlo assurgere ad unitaria "entità economica". Né, di certo, la stipulazione del contratto di appalto era di per sé idonea a trasformare in una "unità" i vari e ben distinti elementi costituenti l’oggetto del trasferimento. Come ha puntualmente osservato la decisione impugnata, è mancata nel caso di specie la prova di un assetto organizzativo, che valesse ad attribuire ai Servizi Generali una portata unificante e, nello stesso tempo, un carattere di autonomia nell’ambito della globale struttura imprenditoriale dell’Ansaldo Energia, sicché l’operazione, sulla cui legittimità questa Corte è chiamata a pronunziarsi, è stata dai giudici di appello correttamente considerata come cessione di una pluralità di rapporti lavorativi non assoggettabili alla normativa di cui all’articolo 2112 codice civile”.
Resta il fatto - a nostro avviso – che siamo di fronte ad un processo in pieno divenire (anche a livello giudiziario), per cui tutte le opinioni lasciano il tempo che trovano. E’ importante tuttavia che le aziende – allo stato della nostra legislazione – non si lascino prendere la mano da decisioni (alla leggera) di rinfoltimento del già rigoglioso bosco del liberismo sfrenato e selvaggio, attraverso operazioni di esternalizzazione di servizi che altro non nascondono che il desiderio di sfrondarsi comodamente e senza oneri il personale inopinatamente divenuto “eccedente”. E’ altresì necessario che il Governo e le OO.SS. pongano mano alle modifiche legislative –  semprechè ne ravvisino ancora l’opportunità e per le quali comunque  si sono impegnate a formulare e redigere preventivamente un “avviso comune” - con buon senso e con il necessario rispetto verso le esigenze primarie ed esistenziali dell’occupazione e del non deterioramento, in omaggio al mercato, dei diritti dei lavoratori cui è immanente un  “valore uomo” a connotazione etica, di gran lunga superiore alle transeunti e mercificatrici regole dell’economia.
 
Roma, 9 dicembre 2002
Mario Meucci
 
NOTE
(1)        Allo stato tale sentenza è pubblicata in Mass. giur. lav. 2002, 770 ed è stata  annotata da Rondo, Nel trasferimento d’azienda la continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario non richiede il consenso del lavoratore interessato, ibidem, 775.
(2)        Allo stato pubblicata in  Guida al lavoro n.47/2002, 10, con nota di A. Stanchi, Trasferimento di ramo d’azienda tra disciplina previgente e novella, ibidem, 15 e ss.
(3)        Cosio, La nuova disciplina del trasferimento d’impresa: l’ambito di applicazione, in Foro it., 2001, I, 1262; Id.; La cessione del ramo d’azienda nel Patto per l’Italia, Relazione al Convegno del 15 marzo 2002 al Centro Studi Domenico Napoletano, in http://www.csdn.it/csdn/ . Nello stesso senso si esprime A. Stanchi, Trasferimento di ramo d’azienda tra disciplina previdente e novella (nota a Cass. n. 14961/02, cit.).
(4)        Santoro Passarelli, La nozione di azienda trasferita tra disciplina comunitaria e nuova disciplina nazionale, in La nuova disciplina del trasferimento d’impresa, (a cura di G. Santoro Passarelli e Foglia), 2002,  Milano, 7.
(5)        Marazza, Impresa e organizzazione nella nuova nozione di azienda trasferita, in  Arg. dir. lav., 2001, 603. Contra: Maresca, Le novità del legislatore nazionale in materia di trasferimento d’azienda, in La nuova disciplina del trasferimento d’impresa, cit., 24, secondo il quale: « il riferimento all’attività è finalizzato ad escludere proprio la rilevanza di ciò che, invece, caratterizza la nozione di entità, vale a dire la sussistenza di un insieme di mezzi».
(6)        Sul tema si veda, Cester, Trasferimento d’azienda e rapporti di lavoro: la nuova disciplina, in Lav. giur., 2001, 512.
(7)        Piccininno, Consenso del lavoratore e dimissioni per giusta causa, in La nuova disciplina del trasferimento d’impresa (a cura di Santoro Passarelli e Foglia),cit., 80.
(8)        Da Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento d’azienda, Milano 1993, p.104 e da Carabelli, Alcune riflessioni sulla tutela dei lavoratori nei trasferimenti d’azienda: la dimensione individuale, in Riv. it. dir. lav.  1995, II, 326, le cui rispettive posizioni sono state riassunte e da noi riprese da S. Cascioli, Il trasferimento d’azienda e la rilevanza del consenso del lavoratore alla cessione del contratto, in Riv. crit. dir. lav. 2001, 576.
(9)        Per questa affermazione  condivisibile che lo porta alla conclusione (purtroppo non supportata da dati normativi) di un diritto del lavoratore di opporsi al trasferimento, vedi Scarpelli, Esternalizzazione  e diritto del lavoro: il lavoratore non è una merce, in Dir. rel. ind. 1999, 351 e ss.
(10)    In questi stessi termini ragiona Rondo, Nel trasferimento d’azienda, ecc., cit. 781.
(11)    Magnani, Trasferimento d’azienda ed esternalizzazioni , in Giorn. dir. lav. rel. ind. 1999, 490.
(12)    Così Treu,  per cui  la modifica in esame avrebbe un impatto assolutamente marginale, atteso che “non pare attenuare il meccanismo di garanzia della norma”, nell’articolo Il Patto per l’italia: un primo commento, in  Guida al lavoro 2002, n. 29, p.10.
(13)    Zambelli, L’outsourcing e il trasferimento d’azienda, in Dir.  prat. lav., 2002, 33, 2174.
(14)    Maretti, L’oggetto del trasferimento d’azienda, in Dir.  prat. lav.,  2002, 31, 2049.
(15)    Da ultimo si  veda il punto 23 della sentenza Temco del 24 gennaio 2002, in Foro it., 2002, IV, 142.
(16)    Cosio, La cessione del ramo d’azienda nel Patto per l’Italia, cit.
(17)    Maresca, Le novità del legislatore nazionale..., cit. p.26.
Esternalizzazione di solo personale: cessione dei contratti ex art. 1406 c.c.  solo con il consenso

CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE LAVORO - 17 giugno 2005, n. 13068 — Pres. Ravagnani — Est. Picone — Ansaldo Energia S.p.A. c. Fo., Ca., Tr., Manital  Consorzio.

Trasferimento d’azienda - Nozione - Servizi dati in outsourcing - Configurabilità - Esclusione - Applicabilità art. 2112 c.c. - Esclusione - Necessità del consenso dei lavoratori ceduti - Sussistenza.

L'art. 2112 c.c., anche prima delle modificazioni introdotte dall'art. 1 d.lgs. n. 18 del 2001, non precludendo il trasferimento di un ramo (o parte) di azienda, postulava comunque, per la sua applicazione a tale limitato trasferimento, che venisse ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presentasse quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni o servizi, con esclusione, quindi, della possibilità che l'unificazione di un complesso di beni (di per sé privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario) discendesse dalla volontà dell'imprenditore cedente al momento della cessione. Ne consegue che non è riconducibile alla nozione di cessione di azienda il contratto con il quale viene realizzata la c.d. «esternalizzazione» dei servizi, ove questi non integrino un ramo o parte di azienda nei sensi suindicati, e che in tali casi la vicenda traslativa, sul piano dei rapporti di lavoro, va qualificata come cessione dei relativi contratti, che richiede per il suo perfezionamento il consenso del lavoratore ceduto (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, con riferimento alla cessione di un ramo di azienda, identificato nei c.d. «Servizi generali», comprendente attività non riconducibili alla nozione di unità produttiva o di parte di azienda, per essere caratterizzato unicamente dalla non riferibilità all'attività di base dell'azienda cedente, aveva ravvisato un processo di esternalizzazione non integrante la cessione di ramo di azienda ed aveva ritenuto applicabili ai rapporti di lavoro ceduti le norme sulla cessione dei contratti).

Fatto.In data 4 luglio 1997 l’Ansaldo Energia S.p.A. inviava le comunicazioni ex art. 47, l. n. 428/1990 alle rsa in ordine all’intenzione di cedere il ramo d’azienda «Servizi Generali» al Consorzio Manital. La decisione di cessione veniva giustificata con la finalità di rispondere «all’esigenza di impegnare sempre più le capacità aziendali nelle attività dirette su prodotto, mercato e tecnologie, contenendo, nella misura possibile, gli altri alti costi di funzionamento»; in particolare, l’operazione aziendale veniva definita come rientrante nell’ambito di un più ampio programma di riorganizzazione aziendale tendente a far riacquisire «competitività» all’An. En. Il ramo d’azienda, identificato nei c.d. «Servizi generali» comprendeva le seguenti attività: conduzione e manutenzione di impianti termotecnici, di impianti elettrici, telefonici, Tvcc-Td, di impianti di sicurezza, controllo ed antincendio, di ascensori e montacarichi e di altri impianti speciali; manutenzione di immobili industriali e civili e relative pertinenze; manutenzione reti di viabilità; monitoraggio e riparazioni reti fognarie ed idriche; progettazione di nuovi impianti generali; gestione pratiche per autorizzazioni edilizie, permessi di costruzione, autorizzazioni Usl, Vvff, ecc.; gestione e manutenzione attrezzature mensa; gestione e manutenzione di fotocopiatrici ed altre attrezzature di ufficio; movimentazione arredi, materiali ed attrezzature; facchinaggio; gestione dei mezzi relativi alla trasmissione delle informazioni (telex, fax, ecc.), distribuzione documentazione; ricevimento e smistamento posta; fattorinaggio interno ed esterno; riproduzione della documentazione (disegni, ecc.); gestione degli archivi generali, di deposito e relativa conservazione e messa a disposizione della documentazione; pulizia dei fabbricati; giardinaggio; gestione e distribuzione cancelleria; gestione di pratiche relative alle trasferte dei dipendenti (prenotazioni, acquisto biglietti, rinnovo e visto passaporti, autonoleggio, «navette», ecc.); traduzioni documenti; segreteria, reporting ed altri compiti di carattere gestionale e/o di supporto riferiti alle attività suddette. In data 9 settembre 1997 è stato sottoscritto il contratto di cessione del ramo aziendale tra l’An. En. S.p.A. e Ma. - Consorzio per i servizi integrati, con indicazione dei beni e rapporti giuridici, tra cui i contratti di lavoro dei dipendenti addetti ai servizi trasferiti. L’operatività del trasferimento di azienda è stata fatta decorrere dal 15 settembre 1997. Intanto, in data 29 luglio 1997, l’An. En. aveva stipulato con Ma. - Consorzio per i servizi integrati un contratto di fornitura di servizi e manutenzioni generali, onde assicurare continuazione delle attività inerenti ai servizi generali. La qualificazione giuridica dell’operazione di ristrutturazione aziendale come cessione di ramo di azienda, con conseguente applicazione dell’art. 2112 c.c., è stata contestata da alcuni dei lavoratori interessati, secondo il cui assunto la fattispecie era, invece, di semplice cessione dei contratti di lavoro in corso con l’An. En., da considerare inefficace in quanto non era intervenuto il consenso del contraente ceduto, consenso che, comunque, sarebbe stato in ogni caso necessario anche in presenza di cessione di ramo di azienda. Nella controversia sottoposta al vaglio della Corte, con ricorsi al pretore di Genova Ga. Fo., Al. Ca. ed En. Tr. hanno domandato l’accertamento dell’invalidità della cessione del contratto di lavoro, con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento del danno. Hanno chiesto altresì la dichiarazione di invalidità dello stesso contratto di appalto dei servizi sopra menzionati, per violazione, da un lato, del divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro, dall’altro, dell’art. 24 del c.c.n.l., che vieta di affidare in appalto le attività direttamente connesse a quelle aziendali o relative alla manutenzione ordinaria. Il Tribunale, organo sostituito al pretore, ha rigettato la domanda, ma la sentenza è stata riformata, in accoglimento dell’appello dei lavoratori, dalla Corte di appello di Genova, che ha dichiarato la nullità della cessione del contratto di lavoro da An. En. S.p.A. a Ma. e condannato la prima «a reinserire i ricorrenti nella loro funzione lavorativa e nella retribuzione anteriore alla cessione». La Corte di Genova ha ritenuto che alla fattispecie di cessione di ramo di azienda, cui si applicano gli artt. 2112 c.c. e 47 l. n. 428/1990, risulta completamente estranea l’operazione di mera «esternalizzazione» di attività aziendali, non idonea come tale ad esplicare effetti diretti sui contratti di lavoro (ferma restando la possibilità di effetti indiretti, potendo, in ipotesi, la ristrutturazione tradursi in riduzione di personale mediante le procedure previste dalla legge). La ricorrenza dell’una o dell’altra delle fattispecie dipende, a giudizio della sentenza, da dati assolutamente oggettivi, non certo dalle determinazioni del datore di lavoro, dati da identificare, perché si possa dire di essere in presenza di un ramo di azienda — anche alla stregua della normativa comunitaria e della giurisprudenza della Corte di Giustizia Cee — nella preesistenza di un nucleo minimo dotato di autonomia operativa e finanziaria, idoneo a giustificare l’unificazione funzionale della parte di azienda ceduta, autonomia nella specie completamente insussistente. La cassazione della sentenza è domandata con ricorso per cinque motivi dalla S.p.A. An. En. Si è costituito con controricorso Ma. - Consorzio per i servizi integrati - proponendo altresì ricorso incidentale per un unico motivo nei confronti di En. Tr.; non hanno svolto attività difensive i lavoratori intimati. Le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c. e Ma. Consorzio ha anche replicato per iscritto alle conclusioni del Pubblico ministero.

Diritto.1. Preliminarmente, la Corte riunisce i ricorsi proposti contro la stessa sentenza (art. 335 c.p.c.).

2. Il ricorso incidentale, «tardivo» ai sensi dell’art. 334 c.p.c., in quanto proposto nel termine di cui all’art. 370 stesso codice e non in quello di cui all’art. 327 c.p.c., pone una questione pregiudiziale di rito relativamente alla statuizione emessa nei confronti di En. Tr. Si deduce che il giudizio di appello era stato proposto dal procuratore, avv. Co. Sa. Am., privo di procura alle liti. Si precisa che la procura rilasciata al detto difensore per il giudizio di primo grado era stata revocata con il rilascio di procura ad altro difensore (avv. Go.), il quale aveva presentato «atto di costituzione di nuovo difensore», come indicato anche nell’epigrafe della sentenza di primo grado.

2.1. Il ricorso incidentale va dichiarato inammissibile per la ragione, assorbente ogni altro rilievo, che è stato proposto, da soggetto interamente soccombente nel giudizio di merito e in posizione di «cointeressato» rispetto alla ricorrente principale, nei confronti di parte diversa dall’impugnante principale. In tale situazione, infatti, siccome l’interesse all’impugnazione era insorto incondizionatamente per effetto della statuizione di merito e non della proposizione del ricorso principale, non sussiste alcuna dipendenza da questo ultimo che legittimi la proposizione del ricorso una volta decorso il termine di cui all’art. 327 c.p.c. (v. Cass. 24 marzo 2004, n. 5920; 15 maggio 2003, n. 7519; 9 febbraio 1995, n. 1466).

3. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 177 del Trattato Cee, per avere la Corte di Genova rifiutato di accogliere la richiesta di rimessione degli atti alla Corte di Giustizia europea in merito all’interpretazione del senso e della portata delle direttive 14 febbraio 1977, n. 187, e 29 giugno 1998, n. 50, atteso che, in presenza del mutamento del titolare di un’entità organizzata in modo stabile, costituita dal complesso dei lavoratori stabilmente incaricati di svolgere attività omogenee, la legislazione comunitaria impone di considerare il lavoratore trasferito con l’impresa, da intendere quale organizzazione funzionale di beni e rapporti giuridici che ne consentano l’esercizio.

3.1. Il secondo motivo denuncia motivazione contraddittoria su di un punto decisivo per avere la sentenza impu-gnata dichiarato di volersi uniformare ai principi dell’ordinamento comunitario come precisati dalla Corte di Giustizia, mentre in realtà con essi si era posta in contrasto affermando che «le risorse [...] anche [...] modeste non debbono difettare di un centro direttivo ed organizzativo, capace di renderle idonee al fine produttivo perseguito». Al contrario, l’entità economica può consistere anche in una semplice attività, valutabile economicamente e che conservi la propria identità con il trasferimento, mediante una valutazione non astratta ma concreta.

3.2. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c. perché l’operazione di «esternalizzazione» di servizi può ben essere realizzata con lo strumento del trasferimento di un ramo di azienda e ciò proprio al fine di garantire l’occupazione, senza procedere all’estinzione dei rapporti di lavoro divenuti inutili, e, quindi, nella prospettiva di garanzia dei diritti dei lavoratori che è l’obiettivo del legislatore comunitario; l’art. 2112 c.c., infatti, richiede la cessione di un’insieme di beni coordinati per l’esercizio di un’attività di impresa, senza che sia necessario anche che tale esercizio sia attuale, bastando l’astratta idoneità allo scopo produttivo unitario.

3.3. In conclusione, a giudizio della società An., si era in presenza di un’entità economica che l’imprenditore poteva collocare sul mercato, ancorché il dato dell’organizzazione autonoma (che, del resto, non è mai configurabile come tale in relazione a qualsiasi ramo di azienda, specie se relativo ad attività accessorie) non fosse preesistente al trasferimento, ma solo con la cessione si fosse realizzata l’unificazione di determinati servizi e attività in capo ad un unico soggetto, il quale era stato così posto in condizione di rispondere a domande del mercato. Pertanto l’autonomia dell’entità economica (nel caso, i servizi generali) deve apprezzarsi in concreto, per il fatto che alcuni beni siano separabili dalla parte restante dell’azienda e, immediatamente (come accaduto nel caso concreto, senza alterazioni dell’organizzazione preesistente) siano in grado di consentire la realizzazione di servizi e prodotti richiesti dal mercato.

3.4. Né rappresentava un ostacolo l’eterogeneità delle attività cedute, essendo fondamentale per integrare un’attività economica, la comunanza dell’attività delle maestranze trasferite che sia idonea a conferire alla stessa una vera e propria autonomia produttiva, comunanza consistente nel fatto che si trattava dei servizi ausiliari a quelli propri dell’attività produttiva dell’azienda, la cui prestazione era continuata senza soluzioni presso Ma. acquistando altresì l’attitudine (prima solo potenziale) di prestare gli stessi servizi anche a terzi.

3.5. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. per avere la sentenza impugnata, tra l’altro, affermato che l’An. En. S.p.A. non aveva fornito la prova della sussistenza del ramo d’azienda, mentre, in realtà, tutti gli elementi della fattispecie erano dimostrati e comunque non contestati.

3.6. Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1406 c.c. per avere il giudice del merito omesso di considerare il comportamento del lavoratore, di accettazione dell’incremento retributivo riconosciuto all’atto del passaggio alle dipendenze di Ma., ai fini del significato negoziale di consenso alla cessione del contratto, con conseguente cessazione della materia del contendere.

4. Il ricorso principale va rigettato. Tutte le questioni poste con i suesposti motivi di ricorso sono già state esaminate e ritenute non fondate da decisioni della Corte rese in controversie concernenti la stessa vicenda (Cass. 10 gennaio 2004, n. 206; 14 dicembre 2002, n. 17919; 4 dicembre 2002, n. 17207; 25 ottobre 2002, n. 15105). Pertanto, in mancanza di ragioni nuove e diverse da quelle disattese nei giudizi analoghi, deve operare il principio di fedeltà ai precedenti, sul quale si fonda, per larga parte, l’assolvimento della funzione ordinamentale e, al contempo, di rilevanza costituzionale, di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge nonché l’unità del diritto oggettivo nazionale affidata alla Corte di Cassazione (vedi Cass. Sez. Un., 4 luglio 2003, n. 10615; 15 aprile 2003, n. 5994). Si rinvia, di conseguenza, alla motivazione dei precedenti richiamati, di cui si espongono in sintesi i punti essenziali.

4.1. In relazione ai temi contenuti nei primi quattro motivi di ricorso, concernenti una questione sostanzialmente unica, va ribadito che l’art. 2112 c.c., anche prima delle modificazioni introdotte dall’art. 1, d.lgs. n. 18/2001, non precludendo il trasferimento di un ramo (o parte) di azienda, postulava comunque, per la sua applicazione a tale limitato trasferimento, che venisse ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presentasse quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un’attività volta alla produzione di beni o servizi, con esclusione, quindi, della possibilità che l’unificazione di un complesso di beni (di per sé privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario) discendesse dalla volontà dell’imprenditore cedente al momento della cessione.

4.2. Più in particolare, lo stesso art. 2112 c.c., anche nel testo anteriore alle modifiche di cui al d.lgs. n. 18 del 2001, attuativo della direttiva comunitaria n. 50 del 1998, consente, letto in linea con la giurisprudenza comunitaria formatasi in merito all’interpretazione della direttiva n. 187 del 1977 e con le esplicite indicazioni fornite dalla direttiva n. 50 del 1998, di ricondurre, ai fini da esso considerati, alla cessione di azienda anche il trasferimento di un ramo della stessa, purché si tratti di un insieme di elementi produttivi organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’attività, che si presentino prima del trasferimento come una entità dotata di autonoma ed unitaria organizzazione, idonea al perseguimento dei fini dell’impresa e che conservi nel trasferimento la propria identità. In presenza di tali condizioni, può configurarsi un trasferimento aziendale che abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare know how (o, comunque, dell’utilizzo di copyright, brevetti, marchi, ecc.), realizzandosi in tale ipotesi una successione legale di contratto non bisognevole del consenso del contraente ceduto, ex art. 1406 ss. c.c. Requisito indefettibile della fattispecie legale tipica delineata dal diritto comunitario e dall’art. 2112 c.c. resta comunque, anche in siffatte ipotesi, l’elemento della organizzazione, intesa come legame funzionale che rende le attività dei dipendenti appartenenti al gruppo interagenti tra di esse e capaci di tradursi in beni o servizi ben individuabili, configurandosi altrimenti la vicenda traslativa come cessione del contratto di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso del contraente ceduto.

4.3. Ne consegue che non è riconducibile alla nozione di cessione d’azienda il contratto con il quale viene realizzata la c.d. esternalizzazione dei servizi, ove questi non integrino un ramo o parte di azienda nei sensi suindicati. Per queste ragioni deve escludersi la sussistenza dei requisiti per configurare la cessione di azienda nel trasferimento — ricondotto dalla società cedente e dalla cessionaria al fenomeno cosiddetto di outsourcing, comprendente tutte le possibili tecniche mediante le quali un’impresa dismette la gestione diretta di alcuni segmenti dell’attività produttiva e dei servizi estranei alle «competenze di base» — da una società ad altra del ramo d’azienda «servizi generali», considerato che di esso non sono state chiarite struttura e dimensione, le attività del preteso ramo non sono risultate del tutto corrispondenti a quelle trasferite, non è stata provata l’autonomia organizzativa, e che inoltre esso si caratterizza per la estrema eterogeneità delle attività dei lavoratori addetti, e per la mancanza di qualsiasi funzione unitaria, suscettibile di farlo assurgere in qualche modo ad unitaria «entità economica».

4.4. In relazione all’ordinamento comunitario, va inoltre confermato che la direttiva 2001/23 Ce, con cui sono state abrogate sia la direttiva del 1977 che quella del 1998, non ha contenuti innovativi, ma mere finalità di sistemazione della regolazione, in relazione alle sostanziali modifiche apportate dalla direttiva del 1998. In ogni caso, l’eventuale acclaramento del contrasto tra ordinamento comunitario (direttiva 77/187) e ordinamento interno, relativamente alla definizione di ramo d’azienda, è inidoneo a produrre immediatamente effetti sul rapporto giuridico controverso, stante il principio dell’inefficacia orizzontale delle direttive. Ne consegue l’irrilevanza del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia in merito all’interpretazione della direttiva 77/187.

4.5. Né possono trovare accoglimento, infine, le censure contenute nel quinto motivo del ricorso. I giudici del merito hanno accertato in fatto che, di fronte all’univoca contestazione degli effetti che la società An. En. intendeva collegare ai contratti di cessione e di appalto, non era consentito desumere una volontà negoziale contraria dalla circostanza della prosecuzione dell’attività lavorativa alle formali dipendenze del Consorzio Ma. e della riscossione del superminimo unilateralmente attribuito dallo stesso consorzio. Si tratta di valutazione neppure specificamente contestata e comunque insindacabile in questa sede perché sorretta da motivazione sufficiente e logicamente plausibile.

5. Le spese vanno interamente compensate tra la società An. En. e il Consorzio Ma.; nulla da provvedere sulle spese nei confronti delle parti intimate (Omissis).

 

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Cass. – Sez. lav. – sentenza 28 settembre-17 ottobre 2005, n. 20012- Pres. Ianniruberto – Rel. Vidiri - Pm. Matera (conf.) – Ricorrente Finmeccanica Spa – controricorrente Manital

 

Svolgimento del processo

Con ricorso al Pretore di Genova Marisa Pili e gli altri litisconsorzi in epigrafe riferivano che erano dipendenti della Spa Ansaldo Trasporti e che in data 9 settembre 1997 era stato comunicato che con effetto dal 15 settembre 1997 doveva ritenersi il loro rapporto lavorativo ceduto al Consorzio Manital per i servizi integrati, per essere stato trasferito, alla stregua del disposto dell’articolo 2112 Cc, il ramo aziendale al quale essi erano addetti. In realtà però non era, nel caso di specie, configurabile la fattispecie regolata dal citato articolo 2112 Cc in quanto il ramo d’azienda postula l’esistenza di un complesso di beni, finalizzato all’esercizio di una specifica parte dell’attività economica esercitata dall’imprenditore e dotata dei caratteri dell’autonomia e della separabilità dalla restante parte del complesso aziendale, mentre in realtà i cosiddetti servizi generali ceduti rappresentavano solamente attività di puro costo, senza alcun legame tra loro (per essere inerenti a servizi accessori, dalla manutenzione delle fotocopiatrici alla gestione degli archivi ed a quella di pratiche amministrative o, in gergale, di segreteria) tanto che la stessa distinzione fra servizi da esternalizzare e servizi da mantenere all’interno della società era stata attuata nella totale assenza di criteri obiettivi.

Per di più dopo il trasferimento nella di fatto era cambiato per cui l’operazione costituiva anche una violazione del divieto di appalto di mere prestazioni di lavoro, perché il Consorzio Manital era obiettivamente e normativamente inidoneo ad assumere personale a tempo indeterminato per prestazioni di meri servizi e perché tutti i lavoratori trasferiti avevano continuato a svolgere le identiche attività spiegata in precedenza senza mutamento alcuno neanche nelle modalità di espletamento del lavoro.

Tutto ciò premesso, i ricorrenti chiedevano che il pretore, accertata e dichiarata l’illegittimità del trasferimento d’azienda attuato senza il loro consenso nonché della cessione del loro rapporto e del contratto di appalto, condannasse la Spa Ansaldo Trasporti a reintegrarli nel loro posto di lavoro e nelle precedenti mansioni, con tutte le eventuali differenze retributive nonché al risarcimento dei danni ex articolo 18 Statuto lavoratori previa occorrendo dichiarazione di illegittimità del licenziamento di fatto operato dalla Ansaldo.

Dopo la costituzione della società Ansaldo e del Consorzio Manital, il primo giudice respingeva il ricorso e, su gravame dei lavoratori, la Corte d’appello di Genova con sentenza del 26 luglio 2002 dichiarava la nullità della cessione del contratto di lavoro disposta dalla Ansaldo Trasporti Spa al Consorzio per i servizi integrati, e conseguentemente condannava la Spa Finmeccanica, quale società incorporante la Ansaldo, a reintegrare i ricorrenti nel posto di lavoro con mansioni e retribuzioni precedenti al 15 settembre 1997, respingendo ogni ulteriore domanda. Nel pervenire a tali conclusioni la Corte territoriale osservava che alla fattispecie di cessione di ramo d’azienda, cui si applicano gli articoli 2112 Cc e 47 legge 428/90, era completamente estranea l’operazione di “esternalizzazione” dei servizi, messa in atto dalla società Ansaldo, perché la cessione di un ramo aziendale non dipende di certo dalle mere determinazioni volitive del datore di lavoro ma da dati oggettivi consistenti – anche alla stregua della normativa comunitaria, della Corte di giustizia Cee e della Corte di cassazione – nella preesistenza di un minimo di beni dotato di autonomia operativa capace di giustificare l’unificazione funzionale della parte di azienda ceduta. Ne conseguiva che, negata la ricorrenza del trasferimento di ramo aziendale, la fattispecie doveva essere inquadrata nella cessione di contratti di lavoro senza consenso dei contraenti ceduti sicché la nullità di detta cessione comportava la continuazione del rapporto di lavoro in capo all’Ansaldo e successivamente alla Finmeccanica, con il riconoscimento ai lavoratori della posizione occupata prima della cessione e con la retribuzione ad essa collegata.

Avverso tale sentenza la Spa Finmeccanica propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.

Si è costituito con controricorso Manital Consorzio per i servizi integrati.

Resistono con controricorso i lavoratori proponendo con lo stesso atto ricorso incidentale condizionato, affidato a due motivi.

La Finmeccanica ha, infine, depositato controricorso al ricorso incidentale condizionato.

La Finmeccanica ed i lavoratori hanno depositato note difensive.

 

Motivi della decisione

 

Preliminarmente la Corte riunisce i ricorsi proposti contro la stessa sentenza (articolo 335 Cpc).

La società ricorrente con il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 177 del Trattato Cee, per avere il Tribunale rifiutato di accogliere la richiesta di rimessione degli atti alla Corte di giustizia europea in merito all’interpretazione del senso e della portata delle direttive 14 febbraio 1977 n. 187 e 29 giugno 1998 n. 50; con il secondo motivo denunzia contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia per avere il giudice d’appello dichiarato di volersi uniformare ai principi dell’ordinamento comunitario, come precisati dalla Corte di giustizia, mentre in realtà con essi si è posto in contrasto; con il terzo motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’articolo 2112 Cc perché l’operazione di “esternalizzazione” di servizi può ben essere realizzata con lo strumento del trasferimento di un ramo d’azienda, e ciò proprio al fine di garantire i posti di lavoro senza procedere all’estinzione dei rapporti di lavoro divenuti inutili, quindi, nella prospettiva di garanzia dei diritti dei lavoratori che è l’obiettivo del legislatore comunitario, richiedendo, infatti, il suddetto articolo 2112 Cc la cessione di un insieme di beni coordinati per l’esercizio di una attività di impresa, senza che sia necessario anche che tale esercizio sia attuale, bastando l’astratta idoneità allo scopo produttivo unitario; con il quarto e quinto motivo denunzia infine violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 Cc e dell’articolo 1406 Cc per avere la sentenza impugnata tra l’altro affermato che l’Ansaldo non aveva fornito la prova della sussistenza del ramo d’azienda mentre, in realtà, tutti gli elementi della fattispecie erano dimostrati e comunque non contestati (quarto motivo), e per avere ancora il giudice d’appello omesso di valorizzare il significato del comportamento del lavoratore sull’incremento retributivo riconosciuto all’atto del passaggio alle dipendenze di Manital, nel senso di accettazione tacita della cessione del contratto, con cessazione della materia del contendere.

Il ricorso è infondato e, pertanto, va rigettato.

Questa Corte in una fattispecie analoga ha statuito che il trasferimento ad altra impresa dei lavoratori addetti ad una struttura aziendale priva di autonomia organizzativa e caratterizzata dall’estrema eterogeneità delle funzioni degli addetti, insuscettibile di assurgere ad unitaria entità economica, non può configurare una cessione del ramo d’azienda cui sia applicabile il disposto dell’articolo 2112 Cc ma costituisce mera cessione di contratti di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso dei lavoratori ceduti (cfr. in tali sensi Cassazione 17207/02). In altri termini la giurisprudenza della Corte ha recepito una nozione commercialistica di azienda, ai sensi dell’articolo 2555 Cc, attribuendo rilievo decisivo al requisito dell’autonomia organizzativa del ramo d’azienda ceduto che, deve presentarsi come idoneo al perseguimento dei fini dell’impresa. Alla stregua di questi principi non può condividersi la tesi della ricorrente società (e del Consorzio Manital) secondo cui l’autonomia funzionale del ramo trasferito può essere soltanto potenziale presso il cedente, essendo sufficiente, al fine dell’attribuzione della qualità del ramo d’azienda, l’astratta idoneità del nucleo di beni o rapporti ceduti ad essere organizzati per l’esercizio futuro di una attività. Al riguardo è stato precisato che il diritto positivo richiede per l’applicazione dell’articolo 2112 Cc che sia ceduto un complesso di beni, che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica, funzionalizzata allo svolgimento di una attività volta alla produzione di beni e servizi. Altrimenti sarebbe la volontà dell’imprenditore ad unificare un complesso di beni (di per sé privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario), al solo fine di renderlo oggetto di un contratto di cessione di ramo d’azienda, rendendo applicabile la relativa disciplina sulla sorte dei rapporti di lavoro.

Né per andare in contrario avviso vale il richiamo alla normativa comunitaria atteso che – come ha questa Corte già affermato nella sentenza ricordata avente ad oggetto una controversia articolata negli stessi termini – né le decisioni della Corte di giustizia europea né le direttive europee si pongono in contrasto con gli enunciati principi, che risultano pienamente in linea con la direttiva 98/50 (secondo la quale l’entità economica è da intendere come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere una attività economica, sia essa essenziale o accessoria, che deve conservare, con il trasferimento “di parte di imprese o di stabilimenti”, la propria identità) e con la più recente direttiva 2001/23 Cee (che in buona parte presenta connotati particolarmente ricognitivi della precedente regolamentazione della complessa materia in esame) (cfr. in motivazione Cassazione 17207/02 cit.).

Dalle considerazioni che precedono discende l’insussistenza delle condizioni per operare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea in ordine alla interpretazione delle direttive europee. Anche ammettendo che le direttive suddette debbano interpretarsi nei sensi patrocinati dalla Finmeccanica la decisione in tali termini della Corte europea non sarebbe rilevante nella controversia in oggetto dal momento che l’acclaramento di eventuali contrasti tra ordinamento comunitario ed ordinamento interno risulterebbe, in ogni caso, inidoneo a produrre effetti sul rapporto giuridico controverso, stante il principio dell’inefficacia orizzontale (cioè nei rapporti interprivati) delle direttive, ancorché precise ed incondizionate.

Va, inoltre, rimarcato che nel caso di specie, sulla base delle emergenze processuali, è risultato poi che nei servizi esternalizzati, oggetto del trasferimento, non si configurava alcuna realtà organizzativa riconducibile alla nozione di unità produttiva, sicché appare pienamente condivisibile l’assunto del giudice d’appello, secondo cui l’elemento centrale anche del ramo d’azienda è costituito dalla “organizzazione” dei fattori della produzione, intesa come il legame oggettivo tra i fattori stessi, qualificato e determinato dal fattore produttivo perseguito.

Per concludere non merita alcuna censura la sentenza impugnata per avere ritenuto la mancanza dei requisiti richiesti per configurare il ramo d’azienda ed applicare imperativamente l’articolo 2112 Cc (e l’automatismo in esso sancito), e conseguentemente ha configurato la vicenda traslativa come cessione del contratto di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso del lavoratore escluso.

Infine non può trovare accoglimento neanche il quinto motivo del ricorso principale non potendosi evincere dai comportamenti delle parti e dagli atti di causa, una accettazione tacita – con una efficacia abdicativi di diritti acquisiti – da parte dei lavoratori della cessione del contratto per effetto dell’incremento del trattamento retributivo goduto per effetto del trasferimento, suscettibile di condurre ad una declaratoria della cessazione della materia del contendere.

La decisione del rigetto del ricorso principale porta all’assorbimento del ricorso condizionato di Pili Marisa e dei suoi litisconsorzi, con il quale, con duplice motivo, si censura la sentenza impugnata per non avere tenuto nel dovuto conto i profili riguardanti la violazione della legge 1369/60 ed il divieto contrattuale di appalti continuativi svolti in azienda (ex articolo 24, parte generale, Sezione terza, Ccnl - Metalmeccanici pubblici). Al riguardo è sufficiente osservare che il ricorso in oggetto è stato proposto, appunto, in via condizionata in ragione dell’assenza per la parte ricorrente di alcuna ulteriore utilità rispetto a quanto già ottenuto con la sentenza impugnata.

La Spa Finmeccanica e la Manital Consorzio, rimasti soccombenti, vanno condannati in solido al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidata unitamente agli onorari difensivi, come in dispositivo.

 

PQM

 

La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale, e condanna la Spa Finmeccanica e Manital Consorzio per i servizi integrati al pagamento in solido delle spese del presente giudiziosi cassazione, liquidata in euro 20, oltre euro 4000 per onorari difensivi.

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