Ricondotta a unitarietà la disciplina del licenziamento dei dirigenti

  

Sommario: 1. Il pensiero delle Su espresso in Cass. n. 7880/2007 – 2. Il precedente orientamento, ora ricusato,  che riservava ai soli dirigenti apicali il licenziamento ad nutum 3. Il nostro dissenso  in ordine alla limitazione del regime di libera recedibilità solo per il dirigente apicale, espresso nel 2000, ora risultante in armonia con le statuizioni delle Su – 4. La corretta diversificazione di tutele per il licenziamento tra  i nuovi “dirigenti convenzionali” (apicali, medi e minori) e gli “pseudodirigenti”.

 

1. Con la decisione n. 7880 del 30 marzo 2007[1], le Sezioni unite della Cassazione – risolvendo il contrasto in ordine  all’applicabilità o meno dell’art. 7, 2 e 3 comma, Stat. lav. alla categoria della dirigenza -  hanno riaffermato l’unitarietà dal punto di vista normativo della disciplina della risoluzione del rapporto dei dirigenti, sostenendo:

    a)   l’applicabilità anche ai dirigenti apicali  - cd. “alter ego” dell’imprenditore - del principio del contraddittorio (contestazione scritta e diritto di difesa tramite controdeduzioni) per il licenziamento ontologicamente diciplinare, rinvenibile nel 2 e 3 comma dell’art. 7 l. n. 300/70, cd. Statuto dei lavoratori, finora giurisprudenzialmente riservato ai soli medi e mini dirigenti;

    b)    in caso di inosservanza della regola del contraddittorio, la non valutabilità - ai fini del riscontro di “giustificatezza” del licenziamento – delle causali rescissorie addebitate e quindi, quale sola misura riparatoria, quella non diversa (nè superiore, se fosse stata riconosciuta come causa di nullità del recesso) dalle conseguenze indennitarie o risarcitorie, convenute nei ccnl pattuiti dagli agenti contrattuali, di norma costituite cumulativamente dall’indennità di mancato preavviso e dall’indennità supplementare (cfr. art. 19 vigente ccnl dirigenti industria e art. 26 vigente ccnl dirigenti aziende di credito, cui si aggiungono i corrispondenti del  ccnl del terziario, del ccnl assicurazioni, ecc.);

    c)   in via di normalità, l’identità - per l’unitaria categoria dei dirigenti (composta da dirigenti apicali, medi e minori) - del regime sanzionatorio per il licenziamento irrispettoso del principio del previo contraddittorio, cioè a dire delle conseguenze, rinvenibili nelle misure risarcitorie convenute nei ccnl, attraverso la condivisibile considerazione che «... mentre la diversità contenutistica tra posizioni dirigenziali non legittima alcuna differenza di disciplina in ordine alla doverosa e generale assoggettabilità dei fatti causativi del recesso alla procedura ex articolo 7 stat.lav., a livelli di disciplina contrattuale nulla osta, di contro, a che si introduca ‑ con il consenso delle organizzazioni sindacali ‑ in luogo dell’uniformità. di disciplina una divaricazione nelle tutele a secondo del diverso grado di rilevanza dei poteri a ciascun dirigente demandati». Il che significa che  viene fatta salva la libertà per gli agenti sindacali contrapposti di modulare diversamente, in ragione  della varietà dei dirigenti (apicali, medi e minori),  anche il regime della risoluzione del rapporto, per fasce di essi (per ipotesi, espressamente riservando, per via convenzionale o pattizia, la stabilità reale, id est la reintegrazione ex art. 18  l. n. 300/’70, a talune delle precitate fasce o ripartizioni interne all’unitaria categoria dei dirigenti). Per memoria storica si ricorda che, ad es., nel settore del credito i ccnl antecedenti a quello del 2000 per la cd. “dirigenza unica” – mentre riservavano il recesso ad nutum  ex art. 2118 c.c. «esclusivamente...nei confronti dei Dirigenti che compongono la Direzione dell’intera azienda (es. preposti alla direzione unica, componenti la Direzione generale e/o centrale) ovvero di pari grado...» - garantivano pattiziamente ai restanti dirigenti medi e minori (nonchè ai funzionari dell’epoca) la risoluzione al solo riscontro di “giusta causa” e “giustificato motivo” [(con evidente richiamo indiretto (delle) e rinvio alle garanzie ex lege n. 604/’66 e  artt. 7 e  e 18 Stat. lav.)]. La soluzione venne abbandonata nel ccnl dei dirigenti del 1.12.2000 – convenendo la vigente soluzione di indifferenziata risolubilità ex art. 2118 c.c., condizionata solo al riscontro della cd. “giustificatezza”, verificabile da un Collegio arbitrale e, in caso di carenza, indennizzabile con mancato preavviso e indennità supplementare graduata tra un minimo ed un massimo di mensilità. Sostanzialmente le Su legittimano virtualmente – su accordo sindacale – una modulazione convenzionale delle tutele, per la risoluzione del rapporto, similare a quella soprariferita ed abbandonata dagli agenti contrattuali del settore creditizio.

Infine tramite il criterio uniformatore  e riaffermatore dell’unitarietà della categoria dirigenziale, indicato al punto c), le Sezioni Unite hanno implicitamente  dimostrato di non condividere (rectius, di negare) l’automatica applicabilità dell’art. 18 Stat. lav. (con le connesse conseguenze reintegratorie) ai medi e mini dirigenti, mostrando piuttosto di convenire con quella giurisprudenza che ha sostenuto che: «...nel caso di licenziamento di un dipendente inquadrato come dirigente secondo la disciplina collettiva, è da escludere l’applicabilità delle norme della legge 604/66, in quanto l’articolo 10 della stessa legge limita l’operatività delle proprie disposizioni ai prestatori di lavoro che rivestano la qualifica di impiegato e di operaio ai sensi dell’articolo 2095 Cc, e quest’ultimo espressamente richiama la fonte tipica costituita dalla contrattazione collettiva (cfr: Cassazione 2637/81, nonché Cassazione 1836/92 e per riferimenti all’articolo 2095 Cc anche Cassazione 14738/99; Cassazione  3056/98)». Salva naturalmente la reintegra conseguente a nullità dell’atto di recesso per carenza di forma scritta (stante l’espressa applicabilità ai dirigenti dell’art. 2, comma 1, l. n. 604/’66) e a irrogazione di licenziamento cd. “pravo” o “discriminatorio” in violazione dell’art. 15  Stat. lav. e della normativa antidiscriminatoria, che affonda le radici nelle statuizioni dell’art. 4 l. n. 604/’66, esteso ai dirigenti ex art. 3 l. n. 108/1990 ed  i cui principi sono stati resi applicabili a tutti i lavoratori subordinati ad opera del successivo d. lgs. n. 216/2003.

Affermano poi -  per contro ed espressamente le Sezioni unite - che le integrali tutele dell’art.10 l. n. 604/’66 e 18 l. n. 300/70, competono invece ai cd. “pseudodirigenti” «... cioè (a) quei lavoratori che seppure hanno di fatto il nome ed il trattamento dei dirigenti, per non rivestire nell’organizzazione aziendale un ruolo di incisività e rilevanza analogo a quelli dei c.d. dirigenti convenzionali (dirigenti apicali, medi o minori), non sono classificabili come tali dalla contrattazione collettiva ‑ e tanto meno da un contratto individuale ‑ non essendo praticabile uno  scambio tra pattuizione di benefici economici (e di più favorevole trattamento) e la tutela garantistica ad essi assicurata, al momento del recesso datoriale, dalle leggi 604/66 e 300/70 ».

Occupandosi espressamente di riaffermare la “generalizzata” ed uniforme applicabilità del principio di civiltà giuridica del diritto al contraddittorio, ex art. 7 l. n. 300/’70, per la risoluzione del rapporto ad iniziativa aziendale, in buona sostanza  le Su con la decisione n. 7880/2007 rifiutano con convincenti argomentazioni le conclusioni  raggiunte dalla precedente giurisprudenza, consolidatasi sulla scia di Cass. Su n. 6041/1995, che aveva finito per rendere prevalente il principio di diritto, sintetizzato nella seguente massima-stereotipo, secondo cui: «Il licenziamento ‘ad nutum’ è applicabile solo al dirigente in posizione verticistica, che, nell’ambito dell’azienda, sia caratterizzato dall’ampiezza del potere gestorio, tanto da poter essere definito un vero e proprio ‘alter ego’ dell’imprenditore, in quanto preposto all’intera azienda o a un ramo o servizio di particolare rilevanza, in posizione di sostanziale autonomia, tale da influenzare l’andamento e le scelte dell’attività aziendale, sia al suo interno che nei rapporti con i terzi. Sussistono invece le garanzie di stabilità reale del rapporto – di cui alla l. n. 604/66 e alla l. n.300/70, artt.7 e 18 – per la risoluzione del rapporto dei c.d. pseudo dirigenti o dirigenti meramente convenzionali, cui sono riconducibili  (anche) gli appartenenti alla media e bassa dirigenza» (così - dopo Cass. Su n. 6041/’95 -  Cass. n. 12571/’99, Cass. n. 5526/2003, Cass.n. 8486/2003, Cass. n.15351/2004, Cass. n. 21673/2005[2]).

 

2. La massima in questione è la figlia naturale delle infelici affermazioni operate prima dalle sezioni unite della Cassazione nella  discussa decisione n. 6041 del 29 maggio 1995[3] e poi dalla decisione n. 1434 della Cassazione, sezione lavoro, dell’11 febbraio 1998 [4]. La maggiore responsabilità dello strutturarsi di tale orientamento va ascritta alla decisione n. 6041/’95 delle Sezioni unite della Suprema corte, che ebbe a non accogliere  la prospettata applicabilità della procedura di cui all’art. 7, comma 2° e 3°, Statuto dei lavoratori   contemplante l’obbligo di contestazione degli addebiti e l’audizione a difesa del lavoratore con l’eventuale assistenza sindacale. E ciò, nonostante che la  disposizione dell’art. 7 fosse stata considerata di generale cogenza, anche per i rapporti di lavoro rientranti nell’area della libera recedibilità, da parte di Corte cost. n. 427 del 25 luglio 1989 [5] per l’essere stato riconosciuto – sia da detta sentenza sia più incisivamente dall’anteriore Corte cost. n. 204/’82 [6] - il  principio del “contraddittorio” quale principio indefettibile di civiltà giuridica e valore essenziale dell’ordinamento positivo, degno di rispetto tanto più quando competente ad irrogare una sanzione sia non già un organo dello Stato a ciò funzionalmente preposto, ma una parte privata che agisce in condizioni di supremazia. Considerato pertanto il sistema delle garanzie procedurali di cui all’art.7, 2° e 3° comma, Stat. lav., come espressione di un principio fondamentale di civiltà giuridica, le già  citate sentenze della Corte costituzionale vennero accreditate  eminentemente in dottrina come dotate di forza espansiva, orientando la successiva giurisprudenza sia di legittimità [7] che di merito [8]– a prescindere dal fatto che la  decisione n. 427/’89 della Consulta inerisse ad una fattispecie di libera recedibilità per dimensionamento aziendale sotto il limite dei 16 dipendenti – a ritenere applicabili le garanzie procedimentali di cui all’art. 7, 2° e 3° comma, Stat. lav. al licenziamento dei dirigenti, parimenti rientranti nell’area della libera recedibilità per l’esclusione dal riscontro della “giusta causa” e del “giustificato motivo” operata dall’art. 10 della l. n. 604/1966[9]. Sennonché, anche sull’onda di talune sollecitazioni dottrinali, le sezioni unite della Cassazione, nella sentenza n. 6041/’95, affermarono - sul presupposto (inconsistente) dell’incompatibilità tra rapporto dirigenziale e rapporto di subordinazione e conseguentemente disciplinare (in ragione della prevalenza dell’elemento collaborativo e quindi fiduciario su quello di subordinazione funzionale all’imprenditore affermato in diritto positivo all’art. 2094  e 2095 c.c.) – l’inesistenza della “natura sanzionatoria o disciplinare” della risoluzione del rapporto del dirigente e quindi, a cascata, l’inapplicabilità delle procedure garantiste (di cui all’art. 7 Stat. lav.) per l’evenienza della risoluzione di un rapporto (quello del dirigente) rescindibile ad nutum e non già per mancanze o inadempienze sanzionabili. Ad evidenziare le  presumibili contraddizioni  - anzi le “conseguenze paradossali”, secondo la dizione usata dalle sezioni unite, cui avrebbe portato la tesi dell’applicabilità delle garanzie ex art. 7 - esse sottolinearono che «...mentre per un licenziamento irrogato (nel settore industria caratterizzato dall’obbligo contrattuale di ‘comunicazione’ dei motivi, n.d.r.) senza l’esternazione dei medesimi e pertanto risultante ‘ingiustificato’ in sede arbitrale, spetterebbe al dirigente il preavviso e l’indennità speciale, nel caso di licenziamento del tutto fondato, con gravi ragioni di inadempimento e annullamento della fiducia datoriale, il solo fatto di aver indicato tali motivi contestualmente al recesso (così come richiesto dalla norma contrattuale) senza aver fatto precedere una contestazione preventiva ed un termine a difesa, comporterebbe la nullità del recesso e la reintegrazione”. Situazione questa rivelatrice dell’infondatezza della pretesa applicabilità al licenziamento del dirigente delle c.d. “garanzie di civiltà giuridica” codificate nell’art. 7 Stat. lav.

Naturalmente per dotare di una certa solidità questa tesi di sottrazione del dirigente al licenziamento disciplinare (rectius, alle garanzie per le sanzioni disciplinari ex art. 7 Stat. lav.), fu giocoforza delineare una figura del dirigente identificatesi  nel dirigente di vertice o apicale – nella pratica aziendale risultante in  estremamente esigua percentuale sul totale dei dirigenti – cioè a dire in colui che riveste una posizione di “alter ego” dell’imprenditore, diverso e distinto da quella fascia (di ben più massiccia consistenza nel concreto)  che le stesse sezioni unite qualificarono costituita dallo ”pseudodirigente o dirigente per convenzione”, cui non corrispondono sostanzialmente, per ampiezza, autonomia e rappresentatività esterna, i poteri del dirigente ipotizzato dalla Cassazione (in maniera avulsa dalla realtà aziendale).

Tuttavia le sezioni unite – ben consapevoli che una cosa è lo “pseudo dirigente” (o, come alternativamente da esse qualificato “dirigente per convenzione”) ed un’altra è la “media e mini dirigenza” che popola e struttura le aziende del Paese – non si avventurarono nell’effettuazione di un’operazione (esplicita) di identificazione  delle tipologie comprese tra la prima e la seconda fattispecie, l’una del dirigente “apparente”, l’altra del vero e proprio dirigente,  seppure con ambiti di sovraintendenza e poteri più circoscritti ma contrattualmente codificato sia nell’art. 2095 c.c. (dirigente tecnico o c.d. specialista o professional o di staff) sia, ad esempio, nelle esemplificazioni del ccnl dei dirigenti d’industria e del terziario. Questa operazione di identificazione venne invece operata dalla decisione n. 1434 dell’11 febbraio 1998, con la conseguenza di dar vita ad un doppio regime di applicabilità delle garanzie ex art. 7 (escluse per il top manager o dirigente “alter ego”, applicabili per i middle e low managers, oltreché per lo pseudodirigente o dirigente convenzionale).

Queste elaborazioni concettuali e del tutto astratte, hanno espressamente influenzato e condizionato la motivazione di tutte le successive decisioni menzionate nel precedente paragrafo (Cass. n. 12571/’99, Cass. n. 5526/2003, Cass.n. 8486/2003, Cass. n.15351/2004, Cass. n. 21673/2005).

Quest’ultime sentenze:

a) preso atto che le sezioni unite nella sentenza n. 6041/’95 fecero discendere l’inapplicabilità delle garanzie per il licenziamento disciplinare (ex art. 7 Stat. lav.) dalla asserita inapplicabilità del medesimo al dirigente di vertice, “alter ego” dell’imprenditore, destinatario della disciplina codicistica di cui all’art. 2118 c.c., prevedente la facoltà di licenziamento discrezionale ad nutum (salve le limitazioni convenzionali introdotte dagli agenti contrattuali a livello di ccnl);

b) preso atto che la sentenza n. 1434 dell’11 febbraio 1998 riaffermò l’inapplicabilità dell’art. 7 l. n. 300/70 ai soli dirigenti di vertice (distinguendo quest’ultimi dagli “pseudo-dirigenti”, anche detti “dirigenti convenzionali”) considerando dirigenti di vertice quelli appartenenti all’ “alta dirigenza”, caratterizzata dall’ampiezza del potere gestorio e corrispondente alla nozione originaria dell’alter ego dell’imprenditore, da distinguersi dalla dirigenza media e bassa che doveva considerarsi assoggettata, insieme alla generalità degli altri lavoratori, al regime di tutela reale del posto di lavoro;

asserirono – traendo conclusioni coerenti da premesse sbagliate o quanto meno opinapili (e non condivisibili) – che i soli dirigenti destinatari del regime di recesso ad nutum erano quelli apicali (c.d. top managers) corrispondenti alla fattispecie dell’alter ego dell’imprenditore o datore di lavoro. Ne è sortita, all’epoca, addirittura la sorprendente negazione della possibilità che ai medi e mini dirigenti (c.d. middle e low managers) potesse essere esteso o previsto per via contrattuale il regime di libera recedibilità (tipico dei top managers) sul singolare quanto infondato assunto che «la distinzione fra le due categorie di dirigenti (quello apicale e quello convenzionale, comprensivo delle media e mini dirigenza, n.d.r. ) ha carattere inderogabile, perché tratta dall’interpretazione di norme imperative” (di cui non si fece alcuna menzione, presumibilmente per la loro assoluta inesistenza), distinzione  cui venne conferito  carattere cogente e non derogabile «non potendo una disposizione contrattuale contrastare una norma imperativa» (della quale non si fece nuovamente menzione).

 

3. A suo tempo in un nostro articolo [10] motivammo le ragioni del nostro dissenso da tutta quanta l’elaborazione che abbiamo soprariferito al secondo paragrafo del presente scritto, sintetizzate nelle argomentazioni che di seguito riproduciamo. Argomentazioni risultanti di specifica attualità, per porsi ora in piena armonia con le statuizioni di Cass. Su n. 7880/2007.

All’epoca avevamo riproposto innanzitutto (al fine di evidenziarne le deficienze ed incongruenze) le considerazioni di Cass. sez. un. n. 6041/1995 – cui, per dissociazione formalistica dalle pregnanti  e sostanziose affermazioni di Corte cost. n. 427/1989, andava ascritta l’oramai caducata e già allora incondivisibile sottrazione del dirigente (invero solo di quello apicale, in posizione di “alter ego” dell’imprenditore, costituente una ridottissima  fascia della ben più ampia e consistente categoria dirigenziale) dalle garanzie dell’art. 7 Stat. lav. – secondo la quale non ogni licenziamento per giusta causa  del dirigente è di per se disciplinare, poiché tale qualificazione deriverebbe solo dall’esistenza tra le parti di un rapporto di supremazia gerarchica, espressa da un codice che preveda e regolamenti l’esercizio del potere sanzionatorio ai sensi dell’art. 7 della legge n. 300/1970.  Secondo l’orientamento di Cass. Su n. 6041/’95, poiché tale regolamentazione era assente nella contrattazione collettiva dei dirigenti – per i quali non sarebbe, secondo la Corte, neppure configurabile, atteso il carattere fiduciario della funzione – il dirigente (sempre quello apicale) si sarebbe collocato al di fuori di un rapporto gerarchico, accanto all’imprenditore, in posizione di collaborazione (ex art. 2104, 2° comma, c.c.),  e non avrebbe potuto  divenire soggetto passivo di un procedimento disciplinare[11]. Mancando dunque il “rapporto disciplinare” – che costituisce il presupposto del potere sanzionatorio per il datore di lavoro – il recesso per giusta causa nei confronti del dirigente (sempre apicale) non avrebbe assunto, secondo Cass. sez. un. n. 6041/’95, mai carattere sanzionatorio, ma sarebbe disceso esclusivamente dal venir meno della fiducia, restando quindi escluso qualsiasi onere procedimentale ex art. 7 Stat. lav. [12].

A quanto sopra si dovette obiettare che l’asserita inesistenza di un rapporto gerarchico fra datore di lavoro e dirigente (apicale) non appariva sostenibile né sul piano della normativa di diritto positivo né sul piano dell’esperienza concreta.

Sotto il primo profilo si sottolineò come il dirigente sia posto dalla normativa codicistica (art. 2095 c.c.) tra i «prestatori di lavoro subordinato», assieme agli operai, impiegati e quadri (categoria introdotta dalla l. n. 190/’85), con la conseguenza che non essendo stata per esso disposta una disciplina tipica doveva ritenersi soggetto a quella generale applicabile al rapporto di lavoro subordinato, salve le esclusioni di volta in volta introdotte a livello contrattuale dai contrapposti agenti negoziali (c.d. disciplina convenzionale). Evidenziammo poi come al dirigente si applicava, pacificamente, la disposizione dell’art. 2094 c.c. – sovente richiamata nella declaratoria del dirigente d’industria, del terziario, del credito, ecc. – secondo cui  prestatore di lavoro subordinato è colui che si obbliga a collaborare nell’impresa, dietro retribuzione,  prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale «alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore», restando cioè soggetto al potere direttivo di quest’ultimo, all’obbligo di diligenza (ex art. 2104 c.c.), all’obbligo di fedeltà ed al divieto di concorrenza (ex art. 2105 c.c), le cui trasgressioni legittimano – per espressa previsione dell’art. 2106 c.c. – l’irrogazione di sanzioni disciplinari [13].

Inoltre poiché il potere direttivo dell’imprenditore si estrinseca nella  corretta pretesa di conformazione dei prestatori di lavoro  alle direttive dell’imprenditore, ciò implicava ex se che il dirigente era (ed è) destinatario di un potere di supremazia dell’imprenditore (più o meno affievolito nei fatti), atteso che senza potere di conformazione – alle cui devianze l’imprenditore reagisce con l’uso del potere disciplinare – non sussiste rapporto di lavoro subordinato. Affermare pertanto - come hanno fatto le Su nella decisione n. 6041/’95 - l’incompatibilità del potere di supremazia datoriale, del dovere di conformazione del dirigente alle direttive dell’imprenditore e del ricorso di quest’ultimo al potere disciplinare per reagire alle inosservanze o inadempimenti, significava considerare – in scontato contrasto con l’art. 2094 c.c., oltreché della disciplina convenzionale dei ccnl che di tale disposto fanno espresso richiamo – inapplicabile al dirigente il predetto articolo 2094, in congiunzione con l’art. 2095 c.c. Articolo, quest’ultimo, notoriamente afferente all’individuazione  delle categorie dei prestatori di lavoro, i cui requisiti di appartenenza alla essenzialissima tipologia legale sono dal legislatore espressamente demandati, in epoca postcorporativa quale la nostra,  dal 2° comma dello stesso articolo, alla contrattazione collettiva, che, con piena sovranità ha, così, la legittimazione per la loro specificazione in concreto «in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura dell’impresa».

Neppure era rispondente al vero l’affermazione che  i ccnl dei dirigenti erano privi di “codice disciplinare”, giacché ad esempio il ccnl dei dirigenti delle Casse di risparmio del 16 giugno 1995 (e precedenti) lo contemplava espressamente, conferendo al Consiglio di amministrazione di adottare nei confronti del dirigente “provvedimenti disciplinari” che spaziavano dal richiamo scritto, alla sospensione, alla dispensa dall’impiego, alla destituzione e contemplando altresì che «l’azione disciplinare si estingue con le dimissioni del dirigente, se accettate dall’Istituto di credito». Analogamente il codice disciplinare si applicava ai dirigenti delle aziende di credito ordinario del 22 giugno 1995 (aderenti all’Assicredito, ora Abi) – antecedente a quello del 1 dicembre 2000 ed a quello di cui al ccnl di rinnovo del 19 aprile 2005 -  per effetto della clausola di rinvio che richiamava, «in quanto giuridicamente applicabili e in quanto compatibili con la figura del dirigente»[14],  espressamente le norme e gli istituti contrattuali della normativa prevista per la qualifica degli estinti funzionari, norma di rinvio (o di chiusura) reperibile altresì nei ccnl dei dirigenti d’azienda industriale e del commercio (o terziario).

Ciò detto, conclusivamente  si fece osservare che poiché l’art. 7 dello Stat. lav. non ha posto espressamente alcun limite di operatività alla relativa procedura, tale norma doveva ritenersi di generale applicazione ad ogni rapporto di lavoro subordinato, compreso quello dirigenziale, cui non può essere sottratto tramite procedimenti di interpretazione giurisprudenziale manipolativi e/o  creativi nei cui confronti la  maggioranza della stessa dottrina ha manifestato larga opinabilità se non una  vera e propria non condivisibilità [15]. In ciò confortati anche dalla giurisprudenza di merito, secondo la quale non sussistevano «sufficienti ragioni per disapplicare principi di civiltà giuridica al licenziamento disciplinare di una categoria di lavoratori e ciò esclusivamente in ragione della peculiarità del rapporto di lavoro dirigenziale e dell'intensità del vincolo fiduciario tra le parti» [16].

Venendo poi all’asserzione rinvenibile esplicitamente nell’orientamento (inaugurato da Cassazione n. 12571/1999 e proseguito nelle successive già citate), per cui i soli dirigenti di vertice sarebbero destinatari della risoluzione ad nutum (ex art. 2118 c.c.) mentre i medi e mini dirigenti (ricondotti illegittimamente nella fattispecie patologica dello pseudodirigente o dirigente convenzionale) fruirebbero delle garanzie di stabilità reale del rapporto, alla pari degli altri lavoratori, si fece  osservare che il nostro diritto positivo conosce una sola categoria: quella del dirigente amministrativo o tecnico (ex art. 2095 c.c.). Pertanto  la ricognizione di una pluralità di dirigenti nella realtà delle nostre imprese – di cui si era fatta, tra le altre, condivisibilmente assertrice Cass. n. 12860 del 28 dicembre 1998[17] - era riconducibile ad una osservazione sociologica come aveva fondatamente rilevato una (seppur datata) decisione della Cassazione [18], secondo la quale la proposta distinzione tra i modelli di dirigente in relazione alla pluralità dei componenti la “categoria unitaria” costituisce «null’altro che una interessante esercitazione sociologica sul fenomeno notorio…della espansione della categoria dei dirigenti: esercitazione che potrà offrire magari suggerimenti alla politica legislativa e a quella sindacale, ma che non ha il minimo aggancio di diritto positivo», ed era (ed è) pertanto insuscettibile di originare o giustificare differenziazioni di regime procedurale e legale del relativo, unitario, rapporto, in relazione alla tipologia dell’alta, media e mini dirigenza. Come è stato condivisibilmente notato[19] «in effetti, da nessuna disposizione normativa è ricavabile un qualsiasi elemento che possa coonestare questa ipotetica divaricazione interna ad una categoria professionale che conosce esclusivamente una differenziazione, meramente di carattere descrittivo e non qualificatorio, tra la figura del dirigente tecnico e quella del dirigente amministrativo (art. 2095.c.c)».

Peraltro facemmo osservare come “alta, media e mini dirigenza” – strutturanti la “unitaria categoria” giuridica del dirigente – non erano che articolazioni interne alla medesima categoria, desunte in relazione alla maggiore o minore ampiezza del potere gestorio, organizzativo e di collaborazione alla realizzazione dei fini dell’intera impresa o di un ramo o servizio autonomo di essa. Le tre tipologie facevano parte della figura del “dirigente reale” e non potevano essere – sulla base di una costruzione  giurisprudenziale a tavolino – destinatarie di differenti regimi di trattamento normativo (come erroneamente asserirono Cass. n. 12571/1999 e successive conformi).

Del resto in materia di definizione dei requisiti di appartenenza all’unitaria categoria dei dirigenti è sovrana (per espresso rinvio da parte dell’art. 2095 c.c.) la contrattazione collettiva:  pertanto, quando le declaratorie e le esemplificazioni [20]  dei ccnl abbiano riconosciuto i requisiti del “dirigente reale” a posizioni di lavoro di mini e medi dirigenti (funzionali o di staff che siano) unitamente all’alto dirigente (o top manager), la disciplina di risoluzione del rapporto – salvo differenziazioni espressamente previste dagli stessi ccnl, in via convenzionale o pattizia – è identica ed uniforme per le varie tipologie sociologiche. A titolo di cronaca e per venire al concreto, nel settore del credito è stata  a suo tempo pattuita  -  prima con l’ accordo quadro del 4 giugno 1997 e poi con l’accordo quadro del 28 febbraio 1998 – la dilatazione della categoria dei “dirigenti” (c.d. “dirigenza allargata” che fu indicativamente ricompresa fra l’1,5% e il 2,5% del totale del personale  dell’azienda singola) con l’inserimento in essa  dei funzionari di grado più elevato (quelli con maggiorazione di grado pari o superiore alla 10°). Venne  altresì espressamente previsto che – ferma per essi l’attuale declaratoria dei dirigenti – «la cessazione del rapporto ad iniziativa dell’azienda, in analogia a quanto praticato al riguardo per la dirigenza di altri settori, sarà regolata esclusivamente dalle norme del codice civile (leggasi, artt. 2118 e 2119 c.c., n.d.r.) prevedendo l’introduzione di un collegio arbitrale per le controversie in materia», codificato nel successivo ccnl 1 dicembre 2000 e riconfermato nel rinnovo del 19 aprile 2005.

Argomentammo che sarebbe stato da considerare davvero arbitrario – oltreché inconcepibile – che l’autonomia contrattuale nella individuazione dei nuovi componenti la c.d. “dirigenza allargata” del credito (strutturata da ex funzionari in posizione di neo mini dirigenti, da dirigenti medi e da alti dirigenti) potesse venire vulnerata da una artificiosa costruzione giurisprudenziale  - che riservava ai soli top manager la risoluzione ad nutum -  con l’effetto di precludere alle aziende del settore la pattuita, uniforme disciplina di libera recedibilità, per l’estinzione del rapporto dei mini e medi dirigenti del credito. Ciò sarebbe risultato tanto più inaccettabile in quanto le parti sociali avevano ed hanno riconosciuto (ed  attribuito in concreto) a tutte e tre le tipologie sociologiche di dirigenti i requisiti e le caratteristiche proprie della categoria. Si sarebbe incorsi in un evento ancor più inaccettabile quando si pensi che - mentre destinatari del trattamento economico contrattuale uniforme sono state tutte e tre le categorie sociologiche della c.d. “dirigenza allargata” (naturalmente con le necessarie graduazioni parametrali interne) -  seguendo l’orientamento giurisprudenziale inaugurato da Cass. n. 12571/’99 (e proseguito nelle successive conformi) avrebbe dovuto invece risultare diverso il trattamento normativo attinente al regime di risoluzione del rapporto di lavoro (libera recedibilità per l’alto dirigente, stabilità reale per il medio e mini dirigente), con evidenti effetti di disarmonia interna. Alle nostre stesse conclusioni era pervenuto un autore[21]  che osservò come «non sembra ammissibile sostenere un’applicabilità a corrente alternata, totalizzante sul versante economico, ed invece differenziata (addirittura ex parte) su quello attinente alla tutela del posto di lavoro, concorrendo ambedue gli aspetti a qualificare complessivamente l’unitario assetto normativo. La categoria dei dirigenti è strutturata in termini indifferenziati dal legislatore, che anche dalla scomposizione tra amministrativi e tecnici non ha tratto alcuna implicazione o suggestione diversificatrice».

Nel frattempo la sezione lavoro, si dissociava – con la sentenza n. 5213[22] del 3 aprile 2003 (est. Toffoli) seguita da Cass. n. 2 marzo 2006 n. 4614 (est. Di Cerbo) – dall’orientamento facente capo a Cass. Su n. 6041/’95 e successive conformi, affermando la “generalizzata” applicabilità dell’art. 7, 2 e 3 comma, Stat.lav., al licenziamento ontologicamente disciplinare di qualsiasi tipologia sociologica di dirigente, cioè a dire a quello discendente da comportamento negligente o colpevole come a quello conseguente a comportamenti idonei ad infrangere il rapporto fiduciario. Nella motivazione della sua decisione la sezione lavoro  sottopose a revisione critica la sentenza delle Sezioni unite n. 6041 del 29 maggio 1995 che aveva escluso l’applicabilità dell’art. 7 Stat. lav. nei confronti dei dirigenti apicali ossia a coloro che svolgono il ruolo di “alter ego” del datore di lavoro. Conseguentemente giunse ad enunciare il seguente principio di diritto: «Le garanzie procedimentali dettate dall’art. 7, 2° e 3° comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300 ai fini dell’irrogazione di sanzioni disciplinari sono applicabili anche in caso di licenziamento di un dirigente d’azienda, a prescindere dalla specifica posizione dello stesso nell’ambito dell’organizzazione aziendale, se il datore di lavoro addebita al dirigente un comportamento negligente o, in senso lato, colpevole, al fine di escludere il diritto del medesimo al preavviso, oppure all’indennità c.d. supplementare eventualmente prevista dalla contrattazione collettiva in ipotesi di licenziamento ingiustificato; la violazione di dette garanzie comporta la non valutabilità dei comportamenti irritualmente posti a base del licenziamento ai fini dell’esclusione del diritto al preavviso e all’indennità supplementare». Con ciò negò espressamente – in armonia con quanto statuito, relativamente al punto specifico, dall’orientamento criticato -  che  la violazione, per inosservanza,  delle prescrizioni procedimentali previste da questa norma comportasse la nullità del licenziamento, implicando invece soltanto il riconoscimento del diritto del dirigente al preavviso e all’indennità supplementare, giacché non si poteva sanzionare la violazione di una norma procedimentale in maniera più incisiva di quella tramite cui gli agenti contrattuali sanzionano l’insussistezza dei motivi di “giustificatezza” del licenziamento, notoriamente indennizzati tramite l’erogazione cumulativa del mancato preavviso e dell’indennità supplementare.

Dopo queste due decisioni emergeva platealmente la difformità di orientamenti in seno alla sezione lavoro della S. corte. Esaminando il contrasto sussistente tra l’orientamento maggioritario negatore al dirigente apicale dell’applicabilità del principio del contraddittorio (audiatur et altera pars), riservandolo – unitamente alle altre garanzie ex art. 18 Stat. lav. -  ai cd. dirigenti medi e minori,  e quello assertore di una applicabilità indifferenziata a qualsiasi dirigente operante ai vari livelli nell’impresa, le Su con la decisione n. 7880/2007, hanno effettuato una esplicita opzione per l’orientamento giurisprudenzialmente minoritario[23], e, condividendolo, hanno dilatato l’ambito delle proprie considerazioni nella direzione di affermare, con efficacia vincolante:

    a)   l’unitarietà della categoria dirigenziale, a prescindere dai livelli sociologico-organizzativi in cui si distingue (top, middle, low managers), irrilevanti ai fini della fruizione di una garanzia afferente la risoluzione del rapporto, non riservabile ai soli medi e mini dirigenti, ma estensibile anche ai dirigenti apicali, senza interne differenziazioni a livello della normativa legale. Allo scopo osservando che: «...se il tratto caratterizzante dell’articolo 7 stat. lav. va individuato, come emerge, dunque, dai ricordati interventi della Corte Costituzionale, nell’esigenza di garantire ad ogni lavoratore ‑ nel momento in cui gli si addebitano condotte  con finalità sanzionatorie ‑ il diritto di difesa, e se non è, come si è visto, di certo estranea alla ratio della norma in esame l’intento di tutelare la “persona” del lavoratore nella professionalità, nel decoro e nella sua stessa immagine, tutto ciò attesta che non risponde a consequenzialità logica una lettura restrittiva del dato normativo che finisca per penalizzare i dirigenti, i quali ‑ specialmente se con posizioni di vertice e se dotati di più incisiva autonomia funzionale ‑ possono subire danni, con conseguenze irreversibili per la loro futura collocazione nel mercato del lavoro, da un licenziamento, che non consentendo loro una efficace e tempestiva difesa, può lasciare ingiuste aree di dubbio sulla trasparenza del comportamento tenuto e sulla capacità di assolvere a quei compiti di responsabilità correlati alla natura collaborativa e fiduciaria caratterizzante il rapporto lavorativo»;

    b)   la conseguente uniformità – a livello normativo (convenzionalmente derogabile dagli agenti contrattuali firmatari dei ccnl, come da noi riscontrato esemplificativamente in passato nel settore bancario) del regime di risoluzione del rapporto, ove il riscontro della cd. “non giustificatezza” conferisce a “tutti” loro (non già le tutele ex art. 18 l. n. 300/’70) ma esclusivamente le tutele convenzionali previste pattiziamente nei ccnl. Ribadendo che la cd. “giustificatezza” che legittima e condiziona la risoluzione ex art. 2118 e 2119  c.c. per la categoria della dirigenza, è concetto diverso dal “giustificato motivo”  ex l. n. 604/’66 e dalla “giusta causa”– come ha a più riprese asserito la S. corte – secondo la quale: «... la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo del licenziamento della L. n. 604 del 1966, ex art. 1; conseguentemente, fatti o condotte non integranti una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato ben possono giustificare il licenziamento, per cui, ai fini della giustificatezza del medesimo, può rilevare qualsiasi motivo, purchè apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore, nel cui ambito rientra l'ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente. La valutazione dell'idoneità del fatto materiale ad integrare la giustificatezza è rimessa al giudice di merito ed in sede di legittimità resta sindacabile solo per vizi di motivazione»(così Cass. 2.3.2006 n. 4614 e Cass. 19.8. 2005 n. 17039).

 

4. Le sezioni unite, infine, una volta effettuata l’operazione di uniformità per l’intera categoria dirigenziale, del regime di risoluzione del rapporto, effettuano – a nostro avviso -  una conseguente operazione di uniformità definitorio-terminologica, non priva di effetti sostanziali.

Assodato che nell’attuale periodo post-corporativo, non è dato riscontrare una definizione ontologica del dirigente nella nostra normativa di diritto positivo, la definizione dello stesso (per effetto di declaratorie ed esemplificazioni, in atti negoziali) consegue esclusivamente da assetti contrattuali, cioè dai ccnl, quindi da “convenzioni” raggiunte  tra gli agenti negoziali. Ne consegue che tutti i dirigenti, siano essi apicali, medi o mini, vanno qualificati – in difformità dal precedente orientamento – “dirigenti convenzionali”, distinguendosi soltanto dallo “pseudodirigente”, al quale soltanto pregressi orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, confermati dalle Su nella decisione n. 7880/2007, riconoscono le tutele per il licenziamento rinvenibili nella necessità di riscontro del “giustificato motivo” e “giusta causa” ex art. 3 l. n. 604/’66 e  nell’art. 18 Stat. lav.

La categoria dello "pseudo dirigente" – da altri qualificato emblematicamente come dirigente "apparente"[24] – è costituita da coloro che del dirigente possiedono solo il nomen senza che ad esso corrisponda un sostrato mansionistico e di responsabilità decisorie tipiche della qualifica dirigenziale. Situazione che si verifica – nelle realtà aziendali (ed eminentemente nelle aziende del credito) – da un lato e meno frequentemente,  per effetto di demansionamento verificatosi nel tempo a danno e con acquiescenza del dirigente originario (che non ha reagito  all'inadempienza contrattuale e legale, per violazione dell'art. 2103 c.c., mediante azione giudiziaria) ovvero, dall'altro e più massicciamente,  per effetto di attribuzione della qualifica dirigenziale per premiazione del merito o accondiscendenza (inclusa la motivazione clientelare), senza corrispondenza delle mansioni pertinenti alla categoria.  Spesso l’iniziativa dell'azienda risulta in ciò  favorita dalla facoltà contrattuale, riscontrabile -  ancora esemplificativamente nel settore del credito - di designare il dirigente con atto di investitura formale[25] per effetto di quelle  singolari pattuizioni contrattuali (modificate da poco tempo solo nella “forma”) per cui «sono dirigenti coloro i quali, in relazione al grado gerarchico, alla natura ed importanza delle funzioni effettivamente svolte, siano dalle rispettive aziende cui appartengono, come tali qualificati» (così emblematicamente tutti gli articoli afferenti alla qualifica del dirigente del credito contemplati nei ccnl precedenti quello del 22.11.1990 e sostanzialmente rimasti invariati, salvo modifiche formali, nei successivi fino al rinnovo del 19 aprile 2005).

Alla nostra stessa interpretazione giunge un altro giuslavorista, secondo il quale «la dizione di dirigente convenzionale (rectius, di “pseudoririgente” ora, n.d.r.) concerne il soggetto investito di un 'nomen' (quello di dirigente) cui non corrispondono le specifiche mansioni attribuite, e che pertanto si fregia di tale qualifica per ragioni di condiscendenza, favor o altro»[26] ; dizione che è ben nota in dottrina ed in giurisprudenza ove sin dagli anni '80 ci si è dovuti occupare [27] della problematica del mantenimento, in capo allo "pseudo dirigente ", delle garanzie avverso il regime di libera recedibilità (c.d licenziamento ad nutum ex art. 2118 c.c.), giungendo, in maniera prevalente alla conclusione dell’applicabilità al licenziamento dello “pseudodirigente delle garanzie previste per i lavoratori rivestenti qualifica impiegatizia.  Garanzie notoriamente introdotte dalla legge n. 604/'66 sui licenziamenti individuali (sostanziantisi nella ricorrenza della "giusta causa e giustificato motivo") e, successivamente, dall'art. 18 dello Stat. lav., introduttivo del regime di stabilità reale (tramite la  sanzione per il datore di lavoro della "reintegrazione" nel posto  del lavoratore ingiustificatamente licenziato).

La fattispecie dello pseudodirigente – patologicamente connotata – fruirà, anche ad avviso delle Su, della tutela e sottrazione al regime del licenziamento discrezionale aziendale, costituito dal recesso con preavviso ex art. 2118 c.c. Sulla qualificazione convenzionale o "nomen", prevarrebbe – ai fini  dell'individuazione del regime regolante la risoluzione del rapporto - l'effettività delle mansioni disimpegnate ai fini dell'adozione aziendale dell'atto rescissorio. Se così non fosse – è stato detto a suo tempo - il datore di lavoro possederebbe una formidabile arma per privare i lavoratori (meno graditi o di cui intende disfarsi) delle garanzie avverso il  licenziamento discrezionale costituite dal  riscontro della "giusta causa" o del "giustificato motivo" ex lege n. 604/'66: quella del conferimento della qualifica di dirigente (non accompagnata dalle mansioni di pertinenza) onde portarli sotto un regime di minor tutela normativa in ordine alla risoluzione del rapporto (anche se, aderendo alla concezione  panconsensualistica della promozione, l’impiegato che voglia sottrarsi al regime deteriore del licenziamento dirigenziale può, a nostro avviso, rifiutare la promozione). Al riguardo chi scrive aderisce, infatti, alla tesi panconsensualistica della “promozione” – nel senso che tale provvedimento necessita del consenso del lavoratore – tesi che, sebbene contrastata, sembra potersi considerare prevalente in dottrina e nella scarsissima giurisprudenza che, intuitivamente, si è dovuta occupare di una soluzione che, di solito, soddisfa le umane aspettative del lavoratore e non determina contenzioso .

Trattando della situazione dell’acquisizione della categoria superiore – ex art. 2103 c.c. -  per esercizio di mansioni superiori o come tali inquadrate nei ccnl, Giugni[28] afferma: «Si noti che la stessa promozione, anche nei casi in cui è prevista come automatica per il decorso del tempo di assegnazione a mansioni superiori, non può non intendersi come consensuale; il lavoratore non sempre può avere interesse ad accettare nuove mansioni, vuoi perché non se ne sente capace, vuoi perché possono comportare orari o condizioni di lavoro più gravose». Similmente Pera [29], secondo il quale  la necessità del consenso del lavoratore alla promozione – ex art. 2103 c.c. –  è imprescindibile, poiché «egli può non avere interesse al posto superiore, ad es. perché rifugge dalle maggiori responsabilità, perché non gradisce la mancanza di un orario preciso (tipico, n.d.r.) del personale direttivo, o teme i trasferimenti conseguenziali. Ritengo che queste private valutazioni del lavoratore siano del tutto libere e che questi non possa essere costretto alla promozione. L’art. 13 (Stat. lav., n.d.r.) non dice che il lavoratore può essere spostato ad libitum dal datore. …E si può ritenere che per  la promozione, cioè per l’acquisizione definitiva (delle nuove mansioni, n.d.r.) occorra il consenso del lavoratore. Di recente la Cassazione ha ammesso che il datore di lavoro possa unilateralmente disporre solo per mutamenti temporanei dettati da esigenze aziendali imperiose, così distinguendo dalla destinazione definitiva, cioè la promozione». E lo stesso Scognamiglio [30] ammette la legittimità di un rifiuto del lavoratore alla promozione, purché sostenuto da una “ragionevole giustificazione”: tale non può non essere riscontrata nell’esigenza di mantenimento del regime di stabilità reale del posto di lavoro, accompagnato dalla rinuncia a benefici di trattamento economico.

In giurisprudenza si registra – a favore della tesi della consensualità della promozione -  la posizione di Cass. n. 3372/1985[31] secondo la quale «l’art. 13, l. n. 300 del 1970 non contiene un assoluto divieto, per il datore di lavoro, di assegnare il lavoratore a mansioni migliori senza il suo consenso (che è invece in ogni caso necessario ai fini della promozione)».

Va subito precisato tuttavia che la conclusione attinente al mantenimento delle tutele proprie della categoria impiegatizia (o dei quadri) di cui, in realtà si disimpegnano in concreto le mansioni, se appare eticamente condivisibile nei confronti dei dirigenti dequalificati (ma vedremo come vi sia giurisprudenza contraria al riguardo) –  in quanto sottoposti ad un processo di erosione mansionistica, grazie anche a ben conosciute pratiche di mobbing aziendale[32] – è del tutto  priva di tale carattere etico nella misura in cui il "beneficio" della sottrazione dal "recesso ad nutum" viene garantito allo “pseudorigente” titolare dell'avanzamento alla qualifica per motivi tutt'altro che riposanti sul merito quanto, invece,  sulla condiscendenza, sul mero favoritismo o sul  vero e proprio clientelismo.

Come anticipato, va sottolineato che, in giurisprudenza, si registrano – allo stato – due decisioni di Cassazione[33] che inducono a seria riflessione, secondo le quali il regime di risoluzione del  rapporto di “pseudodirigenti” per demansionamento dovrebbe seguire l'inquadramento formale iniziale  nella qualifica di dirigente, con la conseguenza che colui che per demansionamento è stato costretto a divenire successivamente “pseudodirigente” sarebbe assoggettabile al recesso ad nutum, giacchè una pattuizione iniziale per la qualifica di dirigente non può essere vanificata da un atto nullo ex art. 2103 c.c., ai fini della disciplina applicabile per la risoluzione del rapporto,  cioè a dire da un inadempimento datoriale, cui si può reagire con le dimissioni per giusta causa ex art. 2119 c.c., congiunte a richiesta risarcitoria di danni (professionali, da perdita di chance, esistenziali e morali). Il ragionamento risulta  giuridicamente piuttosto fondato e condivisibile, ma sarebbe apparso più apprezzabile se riferito non allo “psedodirigente” per vessazione ma allo “pseudodirigente” per favor, giacché in quest’ultima fattispecie la risoluzione ad nutum  avrebbe trovato etica legittimazione eminentemente in ragione del brocardo per cui «ubi commoda, ibi eius et incommoda», espressivo di un principio giustizialista finalizzato a non consentire, da un lato, di fruire dei vantaggi (economici e di status ricollegabili alla qualifica dirigenziale) e, dall'altro, di sottrarsi agli svantaggi della posizione (quali il recesso discrezionale aziendale, seppur condizionato a “giustificatezza”).

Riteniamo, comunque, che – alla condizione imprescindibile che sia accreditata giurisprudenzialmente (o contrattualmente) la tesi della consensualità della promozione (e della legittima rifiutabilità) – sia oramai maturo il tempo per sganciare  la tutela delle garanzie impiegatizie (l. n. 604/’66 e art. 18 l. n. 300/’70) a colui che detiene, per qualsivoglia motivo o titolo, la qualifica di dirigente ed il relativo trattamento che gli si accompagna (a prescindere dal carattere deteriore delle mansioni, che lo legittimano, semmai, a rivendicazioni risarcitorie), stante la condivisibilità del sopradelineato principio giustizialista. Il non rifiuto di una promozione alla dirigenza –  se legittimo e quindi non sanzionabile dall’azienda – costituisce riconoscimento ed accettazione consapevole del rischio connesso al diverso regime di risoluzione del rapporto, deteriore rispetto alla cd. stabilità reale dell’impiegato e del quadro.

Ci sembra che la soluzione sia più rispondente ad eticità di quella prettamente ispirata a formalismo giuridico, ribadita dalla stessa Cassazione Su nella decisione  n. 7880/07, la quale mantiene ferma la pregressa concezione di aggancio delle tutele impiegatizie  per lo “pseudodirigente” in ragione della non attribuzione e del non disimpegno di fatto delle mansioni contrattuali tipiche del dirigente, evidentemente basandosi sulla irrinunziabilità ed intransigibilità dei diritti del lavoratore attinenti alla fase risolutiva del rapporto. Considerando tali diritti come indisponibili ovvero – in quanto riposanti, più correttamente, su “norme inderogabili di legge” - oggetto di possibili rinunzie e transazioni, quantunque invalidabili dietro impugnativa entro sei mesi dalla cessazione del rapporto, ex art. 2113 c.c.  Questa impostazione giuridicamente corretta, incontra tuttavia il limite sostanziale di mantenere in penombra (e quindi legittimare, contro l’etica comune) – a tutto vantaggio del promosso a dirigente non meritocraticamente ma per solo favor, al quale per non esserne all’altezza o per validissimi motivi organizzativi non si può attribuire un ruolo effettivamente dirigenziale – l’intuitivo “doppio premio” che per tal via indebitamente gli si conferisce, confezionandogli una vera e propria tutela da “botte di ferro”, complessivamente superiore a quella del “dirigente reale” responsabilizzato (cioè, status e trattamento economico da dirigente e tutela reale dell’impiegato).

Del tutto diversa  dalla fattispecie dello “pseudodirigente” è – come correttamente evidenziano le Su -  la figura del  “medio”  (middle manager)  e "mini dirigente" (low manager), che sono  “dirigenti reali”, seppure con poteri più circoscritti, e con la cui nozione - come è stato notato - si «intende descrivere la posizione di un soggetto che, pur investito di specifiche funzioni dirigenziali, non rivestirebbe gli attributi propri di un dirigente a tutto tondo...»[34].

Concludiamo osservando che l’intervento delle Su ci si presenta come nient’affatto regressivo (come potrebbe apparire per la superficiale constatazione della sottrazione ai medi e mini dirigenti delle tutele, normativamente per il dirigente (reale) non rinvenibili nel nostro diritto positivo, ex l. n. 604/’66 e art. 18 Stat. lav., oramai sostituite da tempo da misure indennitarie contrattuali che Cass. Su n. 7880/2007 correttamente recepisce e legittima). Anzi oltre alla progressista  introduzione generalizzata del principio del contraddittorio per il licenziamento ontologicamente disciplinare - riscontrabile nella pratica, secondo le Su,  «sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o in senso lato colpevole) sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia» - la decisione possiede caratteristiche  razionalizzatrici e del tutto apprezzabili, in ragione della pregressa condivisibilità da parte nostra delle conclusioni ora raggiunte e da noi a suo tempo pubblicamente auspicate[35].

 

Mario Meucci

Roma 9.4.2007

 

(pubblicato in D&L, Riv. crit. dir. lav. 1/2007, p. 33 e ss.) 


 

[1]  Leggibile integralmente in http://dirittolavoro.altervista.org/cass_sezun_7880_art7_dirigenti.html e ora in Riv. crit. dir. lav. 2007, 212.

[2] Cass. n. 12571/99, in Not. giurisp. lav. 2000,  88; Cass. n. 5526/2003,  ivi 2003, 470; Cass. n. 8486/2003, ivi 2003,  594; Cass. n.15351/2004, ivi 2005, 223; Cass. n. 21673/2005, ivi 2006, 34 (nonché in Dir. lav. 2005,II, 415, con nota di De Cristofaro M., Pseudodirigente e dirigente declassato).

[3] Pubblicata in Giust. civ. 1995, I, 1749 con nota di Pera dal titolo, Non esiste il licenziamento c.d. disciplinare del dirigente?; in Riv. it. dir. lav. 1995, II, 898, con nota di dissenso di Bartalotta, Il licenziamento disciplinare del dirigente, ivi 1995, 913. In senso parimenti critico D’Avossa, Licenziamento disciplinare del dirigente: la soluzione accolta dalle sezioni unite, in Lav. giur. 1996, 5.

[4] Pubblicata in Lav. giur. 1998, 673 con  commento dissenziente di Sarro; in Mass. giur. lav. 1998, 256, con annotazione – anch’essa critica – di Papaleoni,  La frontiera mobile del licenziamento disciplinare e la persistente incertezza del versante sanzionatorio.

[5] In Riv. it. dir. lav. 1989, II, 641, con annotazione di Mariani e 646, con nota di Pera, Le garanzie procedurali del licenziamento nelle piccole imprese; in Foro it. 1989, I, 2658, con nota di De Luca, Licenziamenti disciplinari nelle piccole imprese: la Corte costituzionale estende le garanzie del contraddittorio, ma restano alcuni problemi; in Dir. lav. 1989, II, 360, con nota di Amoroso, Il licenziamento disciplinare nelle imprese minori dopo la sentenza n. 427/1989 della Corte costituzionale; in Mass. giur. lav. 1989, 319 con nota di Scognamiglio, Licenziamento per giusta causa e garanzie procedimentali ai sensi dell'art. 7 L. n. 300/1970 (a proposito della sentenza della Corte cost. del 25 luglio 1989 n. 427); in Giur. it. 1989, I,1, 426, con nota di Chiaccheroni, Il nuovo intervento della Corte costituzionale in materia di licenziamento disciplinare: verso il superamento del recesso ad nutum. Sull'attribuzione alla sentenza citata di un carattere anticipatore della L. n. 108/1990, vedi, in particolare, gli interventi di Alleva e Ballestrero Gentili, in Alleva, Ballestrero, Vallebona, La Corte costituzionale e i licenziamenti disciplinari, in Dir. lav. rel. ind. 1990, spec. 140 e 147.

[6] Corte cost. 30 novembre 1982 n. 204, in Foro it. 1982, I, 2981, con nota di Silvestri; in Riv. it. dir. lav. 1983, II, 214 con nota di Suppiej, La Corte costituzionale legifera sui licenziamenti individuali?; in Giust. civ. 1983, I, 19, con nota di Pera, Il licenziamento come sanzione disciplinare; in Lav. prev. oggi 1983, 108, con nota di Meucci, Principi sostanziali a proposito del licenziamento disciplinare giunto in Corte costituzionale; in Dir. lav. 1982, II, 401, con nota di Foglia; in Giur. it. 1983, I,1, 1345, con nota di Lambertucci.

[7] Richiedono l’applicabilità dell’art. 7, 2° e 3° co., Stat. lav. per il licenziamento disciplinare (o per mancanze) del dirigente -  dopo le affermazioni di Corte cost. n. 427/89 -  Cass. 28 novembre 1991, n. 12758, in Foro it. 1992, I,381 con nota di Amoroso; Cass. 13 novembre 1992, n. 12223, in Mass. giur. lav. 1993, 102; Cass.6 luglio 1992, n. 8205, ibidem 1992, 374; Cass.17 marzo 1993, n. 3146, in Foro it. 1993, I, 1845, con nota; Cass. 15 febbraio 1995, n. 141, in Mass. giur. lav. 1995, Mass. Cass. n. 54, 18. Un autorevole riconoscimento – quantunque effettuato di sfuggita – dell’applicabilità delle garanzie procedimentali ex art. 7, proviene anche da Corte cost. 1 luglio 1992, n. 309 (in Mass. giur. lav. 1992, 327), laddove nel confermare la legittimità  costituzionale dell’esclusione del dirigente dalle garanzie di stabilità del posto di lavoro per rientrare il suo rapporto di lavoro nell’area della libera recedibilità, asserisce che tuttavia anche ad esso si applica «la tutela che si deve riconoscere ex lege contro fatti che ledono la sua dignità di uomo e di lavoratore (per esempio, licenziamento intimato senza l’atto scritto; licenziamenti discriminatori; licenziamenti disciplinari senza osservanza di norme che richiedano il riconoscimento di garanzie procedimentali)», ove quest’ultima dizione è pacificamente riferibile a quelle codificate nel citato art. 7 Stat. lav. In questo senso interpreta anche Trifirò – Collia, Il licenziamento del dirigente, in Mass. giur. lav. 1999, 1158 ed ivi 1168.

[8] Richiedono l’applicabilità delle procedure dell’art. 7 Stat. lav. – dopo Corte cost. n. 427/’89 - al licenziamento disciplinare del dirigente, nella giurisprudenza di merito: Pret. Torino 27 ottobre 1992, in Giur. piem. 1993, 75; Trib. Foggia 16 maggio 1990 in Giust. civ. 1990, I, 2660, con nota di Poso, Brevi osservazioni sul licenziamento disciplinare nullo alla luce della recente legge n. 108 del 1990; Trib.Milano 14 luglio 1990, in Lav. 80, 1990, 739; Trib. Milano 10 marzo 1990, in Lav. prev. oggi 1990, 2405;Pret. Milano 29 gennaio 1990, in Lav. 80, 1990, 532. Contra: Pret. Milano 4 giugno 1990, in Orient. giur. lav. 1990, 129; Pret. Roma 3 aprile 1990, ibidem 1990, 196; Trib. Milano 6 ottobre 1989, in Lav. 80 1990, 171.

[9] Argomenti  confermativi a favore della sottrazione dei dirigenti dalle garanzie della disciplina della L. n. 604/66 e della riconducibilità del regime risolutorio esclusivamente all’art. 2118  e 2119 c.c., si possono trarre dall’ord. n. 935 dell’8 luglio 1988 della Corte costituzionale (in Not. giurisp. lav. 1988,729), che ha rigettato,  tuttavia prima di Corte cost. n. 427/’89 -  l’addebito di incostituzionalità della inapplicabilità delle procedure dell’art. 7 Stat. lav. al licenziamento del dirigente.

[10]  Meucci M., Ancora equivoci sul regime di risoluzione del raporto dei dirigenti, in Lav. prev. Oggi, 2/2000, 365 e con aggiornamenti (fino al 2005), in http://dirittolavoro.altervista.org/dirigenti.html .

[11] Si sono fatti sostenitori di tale posizione in dottrina, Papaleoni, Dirigenti e licenziamento disciplinare, in Mass. giur. lav. 1987, 640, e Mancuso, Licenziamento disciplinare del dirigente, in Giust. civ. 1985, I, 1794. In senso contrario – ed a nostro avviso condivisibilmente e fondatamente – Tosi, Il dirigente d’azienda, Milano (Angeli ed.) 1974, 195 e Boaretto, Il licenziamento disciplinare del dirigente, in Lav. prev. oggi 1988, 1466.

[12] Così riepiloga, condivisibilmente, le argomentazioni delle sezioni unite, Bartalotta nella nota critica titolata Il licenziamento disciplinare del dirigente, in Riv. it. dir. lav. 1995, II, 915.

[13] Conformemente a noi Sarro, in Lav. giur. 1998, 678, secondo cui: «Gli artt. 2104, 2105 e 2106 c.c. …sono riferiti senza distinzione a tutti i prestatori di lavoro, per cui parlare di lavoratori subordinati per i quali non sia ipotizzabile una ‘dipendenza gerarchica’ ed una ‘sottoposizione al potere disciplinare’ costituisce una contraddizione insanabile, atteso che il dirigente, per quanto alter ego dell’imprenditore, resta comunque un lavoratore subordinato. Del resto è sufficiente ricordare l’orientamento consolidato che ritiene compatibile la funzione di amministratore  con la qualità di lavoratore subordinato (purché sia ravvisabile un organo al quale l’amministratore risponde) per rendersi conto di come la subordinazione  possa essere fortemente attenuata, ma giammai eliminata, dalla posizione verticistica del lavoratore».

[14] Ammette in dottrina che tale rinvio possa riguardare la materia disciplinare, Tosi, Il dirigente d’azienda, cit. 195.

[15] Ancora, al riguardo, Bartalotta, Il licenziamento disciplinare del dirigente, cit., 916 e ss.; Sarro, in Lav. giur. 1998, 679, secondo cui: «il dirigente come da previsione normativa, è soggetto alla libera risoluzione del rapporto, ma detta risoluzione, ove attenga a ragioni disciplinari, deve essere operata nel rispetto delle garanzie stabilite dall’art. 7 Stat. lav., derivandone, in caso contrario, la “ingiustificatezza” del recesso».

[16] Così Pret. Monza 11 marzo 1996, in Dir. lav. 1996, II, 792. Conf. Pret. Milano 23 febbraio 1999 (est. Curcio, Migliore c. Milano ass.ni Spa, inedita) secondo cui: «i primi tre commi dell’art. 7, l. n. 300 del 1970 sono applicabili ai dirigenti posto che, per quanto peculiare possa essere la subordinazione nel rapporto dirigenziale, essa è pur sempre ravvisabile, per cui il riferimento al dirigente non soggetto a dipendenza gerarchica è, nel concreto, privo di precisi criteri di determinazione della categoria».

Circoscrivono l’esclusione delle garanzie procedimentali previste dall’art. 7 Stat. lav. al  licenziamento disciplinare del solo dirigente apicale – aderendo così alla tesi di Cass. sez. un. n. 6041/’95 – nella giurisprudenza di merito: Pret. Torino 14 maggio 1999 (est. Fierro, Baravalle c. Agip Petroli SpA ed altri, inedita), Pret. Milano 14 luglio 1999 (est. Muntoni, Cioncolini c. Milano Ass.ni SpA, inedita) e Trib. Roma 26 gennaio 1999 (est. Tatarelli, Intecs finanziaria SpA c. Corpino, inedita) secondo cui: «L’inapplicabilità dei primi tre commi dell’art. 7 l. n. 300 del 1970 ai dirigenti, riguarda il dirigente in senso proprio, cioè l’alter ego dell’imprenditore, collocato al vertice dell’organizzazione aziendale, ma non concerne quei dirigenti le cui mansioni non abbiano le caratteristiche proprie del rapporto dirigenziale in quanto si trovino in posizione di stretta subordinazione ad altro dirigente».

[17] Pubblicata in Lav. prev. oggi, 1999, 558 ed ivi con nostra nota, L’alto, il medio, il mini dirigente nelle moderne organizzazioni complesse, a pag. 581.

[18] Cfr. Cass. 21 marzo 1980, n. 1922, in Mass. giur. lav. 1980, 423 e in Dir. lav. 1981, II, 172, con nota di Guido; Trib. Roma, 20 settembre 1977, in Riv. giur. lav. 1977, II, 1097.

[19] Da Papaleoni, La frontiera mobile, ecc., in Mass. giur. lav. 1998, 264-265.

[20] Che allo stato, quasi invariatamente nella maggior parte dei settori merceologici, stabiliscono che «sono  dirigenti i prestatori di lavoro per i quali sussistono le condizioni di subordinazione di cui all’art. 2094 c.c. e che ricoprono nell’azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale ed esplicano le loro funzioni al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell’impresa. Rientrano sotto tale definizione, ad esempio, i diriettori, i condirettori, coloro che sono posti con ampi poteri direttivi a capo di importanti servizi o uffici, gli institori ed i procuratori ai quali la procura conferisca in modo continuativo poteri di rappresentanza e di decisione per tutta o una notevole parte dell’azienda» (così dal ccnl dirigenti di aziende industriali).

[21] Papaleoni, La frontiera mobile, ecc, cit. 267.

[22]  Vedila in Not. giurisp. lav. 2003, 372.

[23] Indirettamente qualificato  “isolato” nella nota redazionale (a Cass. 8.11.2005 n. 21673), in Not. giurisp. lav. 2006,34.

[24] Così  Liso, in Il licenziamento del dirigente "apparente", in Riv. giur. lav. 1981, II, 775.

[25] Per una analisi critica (anche) della  formulazione dell'art. 83 del ccnl 22.6.1995 per il personale direttivo del credito, riprodotta sostanzialmente nel vigente art. 2 ccnl 1.12.2000, riconfermata nel ccnl  19.4.2005 – che mantiene ibridamente i caratteri dell'investitura formale  conferendogli valenza prevalente sui requisiti obiettivi della categoria dirigenziale – vedi Meucci M., Rimane ancorato al "riconoscimento formale" aziendale il conferimento della qualifica di direttivo del credito, in Lav. prev. oggi, 1997,1102.

La disposizione aggiornata formalmente (ma non sostanzialmente, per mantenimento del requisito imprescindibile e decisivo dell’investitura formale, risponente al detto popolare “non si entra in paradiso contro la volontà dei santi”), rinvenibile nell’art. 2 ccnl del 2000, così dispone: «Ai fini del presente contratto sono dirigenti coloro i quali – sussistendo le condizioni di subordinazione di cui all’art. 2094 del codice civile ed in quanto ricoprano nell’azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, di autonomia e di potere decisionale ed esplichino le loro funzioni di promozione, coordinamento e gestione generale al fine di realizzare gli obiettivi dell’azienda – siano dalle rispettive aziende cui appartengono come tali qualificati».

[26] Papaleoni, nella nota a Cass. n. 1434/1998, dal titolo "La frontiera mobile del licenziamento disciplinare del dirigente, ecc.", cit., 266. Per la legittimità dell'attribuzione convenzionale, quale trattamento di favore, della qualifica di dirigente a soggetto svolgente mansioni inferiori, vedi Cass. 5.2.1997, n. 1068, in Mass. giur. lav., "Mass. Cass." 1997, n.70, p. 23. Conf. Pera, Manuale di diritto del lavoro, Padova 1996, 411, secondo cui: «Niente impedisce invero che un superiore inquadramento sia attribuito, anche se non propriamente corrispondente alle mansioni, solo per valutazioni soggettive, in considerazione altamente positiva della collaborazione del dipendenti, per particolare condiscendenza, ecc.».

[27] Vedi Vallebona, La distinzione tra il dirigente e lo pseudo-dirigente per l'applicabilità della tutela legale contro il licenziamento ingiustificato, in Foro. it. 1981, I, 832, che si è espresso a favore delle garanzie contro il licenziamento ad nutum  per lo pseudodirigente. Conf. in giurisprudenza: Cass. 15 febbraio 1992, n. 1836, in Riv. giur. lav. 1992, II, 457; Cass. 5 gennaio 1983, n. 47, in Foro it. 1983, I, 31; Cass. 21 marzo 1980, n. 1922 (leading case), in Foro it. 1981, I, 832, con nota di Vallebona; Pret. Roma 20 gennaio 1981, in Riv. giur. lav. 1981, II, 761; Pret. Genova 15 giugno 1974, in Foro it. 1974, II, 2855. Contra: Liso, Il licenziamento del dirigente "apparente", cit., ma diversamente lo stesso autore in Categorie e qualifiche del lavoratore, voce Enciclopedia Giuridica Treccani, s.d., (ma 1990), 17; Mannacio, Ha una qualifica di dirigente, ma se arriva il benservito può trasformarsi in impiegato, in Espansione, febbraio 1977; Scognamiglio R., Mansioni e qualifiche dei lavoratori,  in Nss. D.I., Appendice, IV, Torino 1983, 1114, secondo il quale – come noi – il lavoratore che abbia ottenuto una qualifica di dirigente convenzionale non può poi pretendere di sottrarsi agli eventuali elementi sfavorevoli di quel trattamento (opinione criticata da Liso, in Categorie, ecc., cit. sulla base dell’inderogabilità delle tutele risolutorie del rapporto).

[28] In  Freni – Giugni, Lo statuto dei lavoratori, Milano 1971, 53.

[29] In Diritto del lavoro, Padova 1994, 404. A favore della tesi della consensualità della promozione (e dell’assegnazione di mansioni superiori) si citano, ancora: Suppiej,  Mansioni del lavoratore, in Commentario dello statuto dei lavoratori (diretto da Prosperetti),  Milano 1975, 355; Dell’Olio, L’oggetto e la sede della prestazione di lavoro. Le mansioni, la qualifica, il trasferimento, in Tratt.dir. priv. (diretto da Rescigno) Torino 1986, vol. 15, t.1, p.506; Loy, La capacità fisica nel rapporto di lavoro, Milano 1993, 223; Maresca, La promozione automatica del prestatore di lavoro secondo l’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, in Riv. giur. lav. 1978, I, 426-427; Grandi, La mobilità interna, in AA.VV., Strumenti e limiti della flessibilità, Milano 1986, 269.

[30] In Diritto del lavoro, Napoli 1990, 209.

[31] Cass. 6 giugno 1985, n. 3372, in Giust. civ. 1985, I, 3081, con nota di Ghinoy; contra, per la non consensualità: Cass. 27.8.1987 n. 7842, in Rep. Giur. it. 1987, v. Lavoro (rapporto), n. 499, la quale afferma che «l’art. 13 non contiene un assoluto divieto, per il datore di lavoro, di assegnare il lavoratore a mansioni superiori senza il suo consenso»; conf. Cass. 4 ottobre 1999, n. 10998, in Mass. giur. lav. 1999, 1369, n. 144 (sola massima).

[32]  Sul tema ci sia consentito rinviare al nostro volume,  Danni da mobbing e loro risarcibilità, Roma (Ediesse ed.) 2006.

[33] Trattasi di Cass. 18.10.1997 n. 10627, in Not. giurisp. lav. 1997, 783, concernente il licenziamento di un dirigente apicale-direttore generale di banca dequalificato, a suo dire, in dirigente minore o al limite in funzionario, nonchè di Cass.8.11.2005, n. 21673, ivi 2006, 34, parimenti attinente a demansionamento di dirigente apicale. Ad esse si aggiunge ora Cass. 5.10.2007 n. 20895.

[34] Così,  condivisibilmente (solo sul punto specifico), Papaleoni, op. cit., 266.

[35] Laddove nella chiusa dell'articolo Ancora equivoci sul regime di risoluzione del rapporto dei dirigenti, cit., asserivamo:«Concludiamo auspicando una approfondita ed autorevole rimeditazione dell’intera problematica  - in ordine al regime giuridico procedurale e legale per la risoluzione del rapporto del dirigente - che tenga conto dei numerosi rilievi dottrinali già indirizzati all’orientamento della Cassazione e che augurabilmente si intensificheranno verso un incondivisibile orientamento in corso di consolidamento più per pigrizia giudiziaria che per motivata riflessione».

(Torna all'elenco Articoli nel sito)