CORTE DI CASSAZIONE, Sezione lavoro, 15 gennaio 2004 n. 515 – Pres. Mercurio - Rel. Amoroso - Pm. D’Angelo (difforme) – Ric. Rapposelli Renata - Controricorrente: Poste Italiane Spa.
Dimissioni - Da parte di soggetto demansionato e mobbizzato, cui viene negata la riassegnazione delle mansioni originarie - Rese in stato di perturbamento psichico temporaneo - Annullabilità.
Perché sia ravvisabile una situazione di incapacità di intendere e di volere, quale prevista dall'art. 428 c.c., non è necessaria la totale esclusione della capacità psichica e volitiva del soggetto agente, essendo sufficiente invece che questi, al compimento dell'atto, si trovi in uno stato di turbamento psichico tale da impedirgli di apprezzare l'importanza dell'atto medesimo e di liberamente determinarsi al suo compimento.Anche in epoca maggiormente risalente questa Corte (Cassazione 4955/1985) ha parimenti affermato che l'incapacità naturale consiste in ogni stato psichico abnorme, pur se improvviso e transitorio e non dovuto a una tipica infermità mentale o a un vero e proprio processo patologico, che abolisca o scemi notevolmente le facoltà intellettive o volitive, in modo da impedire od ostacolare una seria valutazione degli atti stessi o la formazione di una volontà cosciente.Quanto poi alla prova della situazione di incapacità naturale, parimenti ricorrente è l'affermazione che essa può anche essere (e di norma è) indiziaria (con presunzioni semplici).Quindi lo stato di incapacità di intendere e di volere può essere provato in modo indiretto in base ad indizi e presunzioni, che anche da soli possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità (Cassazione 4344/2000).
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
1.
Con ricorso del 29 giugno 1998 al Pretore di Ancona, in funzione di giudice del
lavoro, Renata Rapposelli, premesso che aveva lavorato alle dipendenze dell'ente
Poste Italiane del 19 gennaio 1987 al 15 settembre 1997, data in cui aveva
presentato le dimissioni; che a seguito di varie vicende, caratterizzate da
atteggiamenti asseritamente discriminatori e irriguardosi dei suoi diritti da
parte dell'ente datore di lavoro, era venuta a trovarsi in una situazione di
estremo disagio, che l'aveva indotta a presentare la dichiarazione di
dimissioni; che quando ciò era avvenuto si trovava in una situazione di grave
perturbamento psichico e scoramento morale, tale da impedirle di adottare
decisioni coerenti con la sua effettiva volontà; che l'atto compiuto era per
lei gravemente pregiudizievole, in quanto era venuta a trovarsi senza lavoro e
senza aver maturato il diritto ad alcun trattamento pensionistico, pregiudizio
aggravato dallo stato di disoccupazione del coniuge. Tutto ciò premesso,
conveniva in giudizio la società Poste Italiane spa (succeduta all'ente Poste
Italiane) per sentir dichiarare l'annullamento e l'inefficacia dell'atto di
dimissioni, con conseguente reintegra nel posto di lavoro e condanna della
società al pagamento in suo favore di tutte le somme dovute per retribuzioni
non corrisposte dal 16 settembre 1997 fino alla data di riammissione al lavoro,
oltre alla regolarizzazione contributiva.
La
società convenuta si costituiva chiedendo il rigetto del ricorso.
Con
sentenza del 17 novembre 1999-29 febbraio 2000 il giudice adito respingeva il
ricorso con compensazione delle spese di lite; pronuncia questa che veniva poi
confermata, con sentenza del 6 luglio-20 agosto 2001, dalla Corte d'appello di
ancona, adita dalla Rapposelli con atto d'impugnazione, cui resisteva la società.
Avverso
questa pronuncia ricorre per cassazione la lavoratrice con un unico motivo di
impugnazione.
Resiste
con controricorso la società intimata.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
1.
Con l'unico motivo di ricorso la Rapposelli ha denunciato la violazione e falsa
applicazione dell'art. 428 c.c. nonché il vizio di motivazione contraddittoria
ed insufficiente.
In
particolare la ricorrente si duole del fatto che i giudici di merito non abbiano
motivato in modo adeguato nel ritenere non raggiunta la prova dell'allegata
situazione di incapacità naturale in ragione delle sue compromesse condizioni
psichiche al momento della dichiarazione di recesso dal rapporto.
2.
Il ricorso è fondato.
3.
Deve innanzi tutto considerarsi in linea di principio che (ex art. 428 c.c.) la
situazione, anche transitoria, di incapacità di intendere e volere del
dichiarante, da qualsiasi causa dipendente, comporta l'annullamento del negozio
giuridico unilaterale, ancorché ricettizio, pur in mancanza della sua
riconoscibilità da parte del soggetto destinatario dell'atto, sempre che
sussista il grave pregiudizio del suo autore, cui poi è riservata - unitamente
a successori ed aventi causa - la legittimazione all'azione di annullamento
(art. 1441 c.c.).
L'incapacità
naturale, al pari dei vizi della volontà, quale la violenza, l'errore ed il
dolo, inficia la facoltà di autodeterminazione del dichiarante. Tuttavia, a
differenza di questi ultimi che hanno incidenza ab externo sul processo volitivo
(per essere questo alterato da un'azione compulsiva di altri o dall'esistenza di
circostanze di fatto idonee a determinare una falsa rappresentazione nell'autore
dell'atto), l'incapacità naturale impedisce ab intrinseco la cosciente e libera
autodeterminazione del soggetto, sicché diversi ne sono i presupposti e diversi
sono gli accertamenti in fatto che ne conseguono.
4.
La fattispecie prevista dal cit. art. 428 c.c. è stata più volte presa in
considerazione da questa Corte che ha elaborato alcuni principi utilmente
richiamabili come quadro di riferimento dello stato della giurisprudenza in
materia.
4.1.
Ricorrente è innanzi tutto l'affermazione secondo cui perché sia ravvisabile
una situazione di incapacità di intendere e di volere, quale prevista dalla
citata disposizione, non è necessaria la totale esclusione della capacità
psichica e volitiva del soggetto agente, essendo sufficiente invece che questi,
al compimento dell'atto, si trovi in uno stato di turbamento psichico tale da
impedirgli di apprezzare l'importanza dell'atto medesimo e di liberamente
determinarsi al suo compimento (Cassazione 4539/2002). Analogamente Cassazione
7344/1997 ha affermato che ai fini dell'invalidità di un negozio per incapacità
naturale non è necessaria una malattia che annulli in modo totale ed assoluto
le facoltà psichiche del soggetto essendo sufficiente un perturbamento psichico
tale da menomare gravemente, pur senza escluderle, le capacità intellettive e
volitive, anche se transitorio e non dipendente da una precisa forma patologica,
impedendo o ostacolando una seria valutazione dei propri atti e la formazione di
una cosciente volontà; tale accertamento deve essere compiuto dal giudice di
merito con riferimento al momento della stipulazione del negozio e, pertanto,
nel caso di incapacità dovuta a malattia non può prescindere da una
valutazione delle possibilità di regresso della malattia manifestatasi
anteriormente o posteriormente, per stabilirne la sua sussistenza nel momento
indicato (cfr. Cassazione 6756/1995).
Anche
secondo Cassazione 7784/1991 è sufficiente che le facoltà intellettive o
volitive risultino diminuite in modo da impedire od ostacolare una seria
valutazione dell'atto e la formazione di una volontà cosciente (cfr. Cassazione
3569/1991 e, da ultimo, Cassazione 7485/2003). Anche in epoca maggiormente
risalente questa Corte (Cassazione 4955/1985) ha parimenti affermato che
l'incapacità naturale consiste in ogni stato psichico abnorme, pur se
improvviso e transitorio e non dovuto a una tipica infermità mentale o a un
vero e proprio processo patologico, che abolisca o scemi notevolmente le facoltà
intellettive o volitive, in modo da impedire od ostacolare una seria valutazione
degli atti stessi o la formazione di una volontà cosciente. Secondo Cassazione
1797/1969 è sufficiente la dimostrazione di un perturbamento psichico, anche
transitorio, tale da menomare gravemente, pur senza escluderle, le facoltà
intellettive del soggetto medesimo, in modo da impedirgli o da ostacolargli una
seria valutazione dei propri atti e la formazione di una cosciente volontà.
4.2.
Quanto poi alla prova della situazione di incapacità naturale, parimenti
ricorrente è l'affermazione che essa può anche essere (e di norma è)
indiziaria (con presunzioni semplici).
Si
è, infatti, affermato (Cassazione 4539/2002, cit.) che la prova dell'incapacità
naturale può essere data con ogni mezzo o in base a indizi e presunzioni, che
anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua
configurabilità, e il giudice è libero di utilizzare, ai fini del proprio
convincimento, anche le prove raccolte in un giudizio intercorso tra le stesse
parti o tra altre. Quindi lo stato di incapacità di intendere e di volere può
essere provato in modo indiretto in base ad indizi e presunzioni, che anche da
soli possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità (Cassazione
4344/2000).
Si
è altresì precisato (Cassazione 4539/2002, cit.) che, accertata la totale
incapacità di un soggetto in due determinati periodi, prossimi nel tempo, per
il periodo intermedio la sussistenza dell'incapacità è assistita da
presunzione iuris tantum, sicché, in concreto, si verifica l'inversione
dell'onere della prova nel senso che, in siffatta ipotesi, deve essere
dimostrato, da chi vi abbia interesse, che il soggetto abbia agito in una fase
di lucido intervallo. Ad una sorta di presunzione fa riferimento anche
Cassazione 11833/1997 che ha affermato che quando sussista una situazione di
malattia mentale di carattere permanente, ricade su chi pretende la validità
dell'atto l'onere di dimostrare l'esistenza di un eventuale lucido intervallo,
tale da ridare al soggetto l'attitudine a rendersi conto della natura e
dell'importanza dell'atto.
Si
è anche precisato (Cassazione 7914/1990) che la prova dell'incapacità naturale
non deve essere necessariamente riferita alla situazione esistente al momento in
cui l'atto impugnato venne posto in essere, essendo possibile cogliere tale
situazione da un quadro generale anteriore e posteriore al momento della
redazione dell'atto, traendo da circostanze note, mediante prova logica,
elementi probatori conseguenti. Quindi l'incapacità naturale, ove si tratti di
situazione non transitoria, ma sia pure relativamente perdurante quale una
malattia, può essere provata anche attraverso il dato induttivo costituito
dalle condizioni del soggetto antecedenti o successive al compimento dell'atto
pregiudizievole (Cassazione 2212/1990).
Anche
la giurisprudenza più risalente (Cassazione 6506/1983) ha affermato che, se è
vero che la prova della sussistenza della incapacità naturale al momento della
conclusione del contratto incombe a chi ne chieda l'annullamento, però a tal
fine può essere utilizzato qualsiasi mezzo probatorio ed il rigoroso criterio
della dimostrazione circa la rispondenza temporale dell'incapacità al
compimento dell'atto trova opportuno temperamento nella possibilità di trarre
utili elementi di giudizio anche dalle condizioni del soggetto anteriori e
posteriori all'atto; pertanto, specialmente nei casi di anormalità psichiche
dipendenti da malattia, l'accertamento di questa, in un determinato periodo,
della sua durata e della sua suscettibilità di regresso o di stabilità o di
peggioramento, può offrire chiare indicazioni sull'alterazione della sfera
intellettiva e volitiva al momento dell'atto.
In
conclusione, la prova dei fatti posti a base della domanda di annullamento di un
atto per incapacità naturale può essere fornita con ogni mezzo ed anche con
elementi raccolti in un giudizio diverso tra le stesse parti o fra altri
(Cassazione 2085/1995); il convincimento del giudice di merito circa
l'esistenza, o meno, dell'incapacità di intendere e di volere del soggetto nel
momento in cui ha posto in essere l'atto del quale è chiesto l'annullamento a
norma dell'art. 428 c.c. è suscettibile di controllo in sede di legittimità
sotto il profilo del vizio di motivazione (Cassazione 10505/1997).
4.3.
Questi stessi principi trovano poi applicazione anche in caso di domanda di
annullamento dell'atto di dimissione del lavoratore dal rapporto di lavoro (cfr.
da ultimo Cassazione 7485/2003, cit.), con alcune puntualizzazioni quanto alle
conseguenze del possibile annullamento dell'atto.
Questa
Corte (Cassazione 14438/0000) ha infatti precisato che, nell'ipotesi di
annullamento delle dimissioni presentate dal lavoratore per incapacità
naturale, il principio secondo il quale l'annullamento di un negozio giuridico
ha efficacia retroattiva non comporta il diritto del lavoratore alle
retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione al
lavoro, atteso che la retribuzione presuppone la prestazione dell'attività
lavorativa, onde il pagamento della prima in mancanza della seconda rappresenta
un'eccezione che, come nelle ipotesi di malattia o licenziamento non sorretto da
giusta causa o giustificato motivo, deve essere espressamente prevista dalla
legge, a nulla rilevando che le dimissioni siano state immediatamente revocate,
giacché le dimissioni producono istantaneamente lo scioglimento del rapporto di
lavoro. Analogamente Cassazione 6166/1996 ha ritenuto che nell'ipotesi di
annullamento delle dimissioni per incapacità naturale del dimissionario, il
principio secondo cui la pronuncia di annullamento di un negozio giuridico ha
efficacia retroattiva, nel senso che essa comporta il ripristino, tra le parti,
della situazione giuridica anteriore al negozio annullato, che si considera come
insussistente fin dall'inizio, non comporta il riconoscimento del diritto del
lavoratore al trattamento retributivo e previdenziale maturato nel periodo di
tempo compreso tra la data delle dimissioni e la decisione di annullamento del
giudice di primo grado, atteso che, in tale ipotesi, l'effetto risolutorio delle
dimissioni permane fino alla data della sentenza, non essendo configurabile
alcun obbligo del datore di lavoro di accettare il lavoratore in azienda prima
di tale momento e non potendo quindi profilarsi un'ipotesi di mora del datore di
lavoro rispetto ad un rapporto che, prima della sentenza di annullamento, deve
considerarsi inesistente.
5.
Ciò posto in generale, come quadro di riferimento della giurisprudenza
rilevante in materia, venendo ora al caso di specie deve rimarcarsi che la Corte
d'appello ha da una parte considerato che da una relazione del c.t.u., disposta
in un diverso procedimento pochi giorni prima della presentazione delle
dimissioni, la Rapposelli era risultata "affetta da sindrome
ansioso-depressiva con marcati tratti pitiatici in soggetto con immaturità
psico-affettiva e tendenza ad interpretare i dati della realtà in maniera
soggettiva, parziale, superficiale, e talora erronea"; la stessa relazione
evidenziava inoltre che la lavoratrice presentava "impulsività
clinicamente manifesta con tendenza ad acting out". D'altra parte la stessa
Corte d'appello ha dichiarato di aderire al menzionato orientamento
giurisprudenziale secondo cui l'incapacità naturale può consistere anche in un
"turbamento psichico temporaneo" purché idoneo ad inficiare il
processo formativo della volontà del dichiarante.
Però,
a fronte del dato conoscitivo costituito dalla menzionata relazione tecnica, che
offriva già elementi di valutazione dell'alterazione psichica della lavoratrice
e della possibilità di eccessi comportamentali impulsivi (acting out), non
ulteriormente esplorati dal c.t.u. in quanto incaricato in un diverso giudizio
avente altro thema decidendum, la Corte d'appello, pur riconoscendo gli
"aspetti patologici" della psiche della lavoratrice, non solo non ha
ritenuto necessaria una consulenza tecnica ad hoc, ma ha sostanzialmente
precorso la sua indagine ulteriore predicando subito la ritenuta inidoneità di
"tale quadro psichico", benché "connotato da aspetti
patologici", a qualificarsi come possibile situazione di incapacità
naturale della Rapposelli di procedere alla consapevole autodeterminazione dei
propri atti e di rendersi conto delle conseguenze degli stessi.
Viceversa
questo quadro psichico, idoneo, secondo la menzionata relazione, a determinare
"talora" (ossia - in ipotesi - per intervalla insaniae)
un'erronea interpretazione della realtà e quindi ad alterare proprio il
processo volitivo, andava calato nella fattispecie concreta dell'atto
unilaterale posto in essere dalla lavoratrice esaminando la coerenza intrinseca
delle sue motivazioni interiori e la possibile significatività di ogni
ulteriore circostanza al contorno. Indagine che i giudici di merito hanno in
realtà mancato di fare perché nella già orientata prospettiva dell'enunciato
convincimento dell'insussistenza di una seppur temporanea situazione di
incapacità naturale, si sono limitati a registrare la sequenza dei fatti. Hanno
potuto constatare come la lavoratrice, assunta come dattilografa ed adibita in
prosieguo di tempo ad altre mansioni per effetto di una determinazione datoriale
a suo dire illegittima, tanto da essere contestata in sede giudiziaria, non
aveva altra mira, insistentemente (se non proprio ossessivamente) perseguita,
che quella di riprendere a svolgere le sue mansioni originarie.
Pertanto
- hanno accertato sempre i giudici di merito - la Rapposelli si consultava (non
già con il suo legale, bensì) con un sindacalista in ordine al possibile esito
della sua causa di lavoro pendente. Inoltre aveva un colloquio con un
funzionario della datrice di lavoro in ordine alla possibilità di essere
ripristinata nelle sue originarie mansioni, evenienza questa che le veniva
rappresentata come altamente improbabile. Ed è in questo contesto che le cose
precipitavano nel senso che la Rapposelli "subito dopo tale colloquio"
sottoscriveva la lettera di dimissioni, predisposta dall'ufficio del personale
della società, presentandola poi tre giorni dopo; dimissioni queste che -
sempre secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata - la Ramposelli
dichiarava, in sede di interrogatorio, essere stata "costretta" a
rassegnare "perché non era stata reintegrata in mansioni confacenti con il
suo stato di salute".
Orbene
- non senza pretermettere di rilevare che è tutt'altra questione quella
riguardante gli strumenti di tutela del diritto del lavoratore subordinato ad
essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o ad altre
equivalenti compatibili comunque con il suo stato di salute - i giudici di
merito non potevano esimersi dallo scrutinare la pressione psicologica che aveva
orientato i comportamenti della lavoratrice, la coerenza intrinseca dell'atto
posto in essere dalla stessa, all'epoca priva dei requisiti per godere di alcun
trattamento pensionistico, e la idoneità, pur soggettivamente intesa, dell'atto
a raggiungere la finalità dichiaratamente perseguita dalla lavoratrice, per poi
coniugare il risultato di questo apprezzamento con il "quadro
psichico" di fondo, quale evidenziato dalla relazione del c.t.u., al fine
di operare una valutazione complessiva della sussistenza, o meno, della prova
indiziaria della allegata situazione di transitoria incapacità naturale, intesa
quale "turbamento psichico temporaneo", della lavoratrice al momento
delle dimissioni.
Invece
nella sentenza impugnata c'è uno iato, che ridonda in vizio di motivazione
insufficiente, tra l'affermazione da una parte che c'era nella lavoratrice un
"quadro psichico ... connotato da aspetti patologici" e, d'altra
parte, l'accertamento vuoi delle ragioni soggettive che avevano spinto la
lavoratrice a rassegnare le sue dimissioni, vuoi delle circostanze di fatto in
cui queste erano maturate.
Per
tale ragione - ed in questi limiti - deve essere cassata la pronuncia impugnata
con conseguente rinvio della causa alla Corte d'appello di Bologna perché
proceda ad una nuova valutazione degli elementi indiziari per colmare
l'insufficienza motivazionale sopra evidenziata.
P.Q.M.
La
Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le
spese, alla Corte d'appello di Bologna.
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