LA DESTRUTTURAZIONE DEL LAVORO E DEI DIRITTI
All’insegna dell’obbiettivo della “flessibilità” nei rapporti di lavoro la maggioranza governativa prosegue – con la forza dei voti nelle sedi parlamentari - nella sua corsa verso la frammentazione del nostro diritto del lavoro. E’ una corsa folle di segno controriformista (contrabbandata come riformista) nella direzione e con l’intento di esasperare - al limite dell’inaccettabile dal lato sindacale ed etico - quelle iniziali ma già sufficienti forme di elasticità nel mercato del lavoro, introdotte dal cd. “pacchetto Treu” (con la legge n. 196/1997), tramite cui alle due pressoché uniche tipologie del rapporto a tempo indeterminato (o stabile, a full time o a part-time) e a tempo determinato, vennero affiancati il contratto di formazione e lavoro, il contratto di stage, il rinnovato contratto di apprendistato, i tirocini formativi e di orientamento, le borse di lavoro oltre al contratto di lavoro temporaneo da parte di personale fornito alle aziende dalle agenzie interinali (introducente la tipologia del lavoro in affitto).
Già
quella normativa venne da noi considerata un cedimento alle pressioni, non
tanto del mercato, quanto delle lobbies imprenditoriali oltrechè frutto delle (eccessive) propensioni
accademico-comparativistiche del ministro promotore, in un assetto di governi di
centro-sinistra di quegli anni (e successivi) indeboliti dall’intima preoccupazione per gli addebiti dell’opposizione di insensibilità al modernismo della new
economy (senso di colpa sul quale ebbe buon gioco la destra economica) e
che fece gridare emblematicamente nei confronti di quegli esponenti, da chi viene oggi accusato
di radicalismo o massimalismo: “D’Alema dicci qualcosa
di sinistra!”
Con
l’attuale governo di centro-destra è stata elaborata – tramite il c.d. “libro
bianco” del ministro Maroni – una strategia a più ampio raggio, con intenti d’
importazione nel nostro contesto sociale e culturale, di strumenti ulteriori di
flessibilità, tratti dal modello statunitense e dall’esperienza di taluni Paesi
europei (in cui sono, tuttavia, ben presenti adeguate forme di sostegno al
reddito quali gli ammortizzatori sociali), unificati dalla caratteristica
dell’occasionalità, saltuarietà, intermittenza, in buona sostanza
dall’intrinseca precarietà.
Il 5 febbraio 2003, questi strumenti di nuova precarietà per i futuri lavoratori sono entrati a far parte dell’ordinamento e del bagaglio lavoristico, a seguito dell’approvazione in legge del ddl n. 848B. Subito da parte dei controriformisti si è dato sfogo alle rivendicazioni di paternità e a manifestazioni di esaltazione (a nostro avviso di vera e propria incoscienza). Un allievo del defunto Prof. Biagi – nell’articolo su “Il Sole-24 Ore” del 6.2.03 dal titolo “le idee vivono” – ne ha rivendicata la qualificazione come “legge Biagi” (allo stesso modo del direttore generale della Confindustria, Parisi, in una intervista al “Messaggero” dello stesso giorno), credendo così di fare un omaggio al maestro, quando invece sarebbe stato molto più di buon gusto lasciare in pace i morti, evitando (anche col silenzio) che le nuove generazioni sappiano una volta adulti a chi addebitare la loro contingente “precarietà” lavorativa e quella pensionistica futura (che probabilmente il consulente governativo, da socialista-cattolico, non avrebbe voluto, ma che coloro che lo strumentalizzano invero realizzeranno).
Invece no!
Ci si è sbracciati nel ricordare (e rinverdire le contrastanti valutazioni) che la nuova legge sul mercato del lavoro “è l’attuazione del Libro Bianco del professor Biagi e dunque molto importante dal punto di vista simbolico perché dimostra che il lavoro di Marco non è stato inutile” (così Parisi); che :”Approvata la legge Biagi, il Governo dovrà ora dimostrare di sapere dare rapida e concreta attuazione ai principi ed alle linee riformatrici in essa contenuti…A chiedere di muoverci in questa direzione sono ora anche le nostre coscienze che ci suggeriscono di mettere a frutto il percorso riformatore nitidamente tracciato da Marco Biagi anche a dimostrazione del fatto che le idee – le buone idee – camminano da sole e non possono essere ammazzate” (così Tiraboschi).
Concludeva poi, soddisfatto, la sua intervista il direttore generale della Confindustria affermando che: “La riforma è completata, non parleremo più di scarsa flessibilità” (che è una frase che dobbiamo tenere bene a mente!), mentre non poteva fare a meno di rilasciare una enfatica intervista al Corriere della sera, da Mosca, anche il presidente della stessa organizzazione imprenditoriale D’Amato, secondo il quale: “Non esagero se dico che si tratta della riforma più importante degli ultimi trent’anni nel campo del mercato del lavoro. Diventerà più flessibile, più dinamico, assicurerà una crescita occupazionale. Si va incontro ai problemi dei giovani disoccupati”… e “ …porta giustamente il nome del professor Marco Biagi”. Da parte sua il sottosegretario Sacconi (sempre sul quotidiano confindustriale e anch’esso in un’intervista dal titolo “Tolto un tappo”) affermava: “…entro luglio la riforma sarà pienamente in vigore e l’effetto sul mercato sarà quello di togliere un tappo alle possibilità economiche e sociali del Paese”.
Di
segno opposto le opinioni della Cgil - espresse da uno dei suoi segretari
confederali – secondo cui: “E’ una legge che contiene decine di deleghe in
bianco al governo, il cui scopo é rendere il lavoratore sempre più solo e
debole. Da oggi i lavoratori, grazie al governo, non sono nulla di più di
merce: si possono vendere, scambiare, trattare come l'azienda meglio crede''… .
La legge delega ''inserisce maggiori elementi di precarieta' nei
rapporti di lavoro'' e ''una frammentazione delle tipologie al solo
scopo di pagare meno i lavoratori, che si ritrovano meno tutelati”. Inoltre
"fa tornare il caporalato con agenzie private che potranno fare intermediazione
di manodopera senza garanzie e senza qualità; rende possibile trasferire rami
d'azienda senza vincoli; riduce le tutele per i lavoratori part-time e i
diritti minimi anche contro i soci-lavoratori, per i quali conterà sempre più
il vincolo associativo che non il rapporto di lavoro”. ''Siamo insomma alla
prese con un vero e proprio azzeramento dei diritti che colpisce la dignità di
milioni di lavoratori italiani; quel che si annuncia é un nuovo scontro
sociale, la cui responsabilità cadrà tutta sul governo Berlusconi”.
Giudizio positivo, o per lo meno cauto, sulla legge da Cisl e Uil, che col governo hanno scelto di negoziare le politiche sociali sin dal luglio del 2002 (firma del Patto per l'Italia). Per un segretario confederale della Cisl, della delega "va bene la parte sul collocamento, perché finalmente si supera una situazione imbarazzante di stallo durata dieci anni e che faceva dell'Italia la pecora nera in Europa. Va bene anche l'introduzione di nuove flessibilità, ma qui il provvedimento va corretto, perché deve essere chiarito il rinvio alla contrattazione settore per settore''.
Per un segretario della Uil, invece, l'approvazione della delega sul lavoro '' è solo un primo passo. Ora bisogna vedere come verrà attuata''. ''Per questo credo sia necessario un confronto con le parti sociali, per verificare se nei decreti delegati verrà trasferito lo spirito positivo che anima la delega''. ''Servirà una grande attenzione, perché bisognerà approfondire alcuni temi, soprattutto quelli legati alla flessibilità in entrata. Sono stati infatti introdotti nuovi contratti che però devono essere meglio definiti, regolamentati e contrattualizzati''.
Anche i media televisivi di Stato, in una delle trasmissioni serali successive all’approvazione della nuova legge – gestita come sempre servizievolmente e, per l’occasione, presidiata ed affollata da esponenti del controriformismo – ne effettuavano una presentazione enfatica e non obiettiva al pubblico degli ascoltatori.
Cosa
sta alla base di tali valutazioni? Per rendersene conto bisogna succintamente
riassumere al lettore il contenuto delle novità introdotte.
Andando
per ordine tra i 10 articoli di cui è composta questa legge ( approvata ma non
ancora pubblicata), va detto che essa afferisce a blocchi di tematiche che di
seguito prospettiamo riassuntivamente:
a) collocamento, somministrazione di personale e manodopera,
intermediazione illecita, trasferimento di azienda e di ramo d’azienda (tutti
quanti oggetto di delega governativa per la predisposizione della
relativa disciplina, nell’art. 1). In questo blocco tematico si
evidenzia che:
- alla concezione
precedente secondo cui il collocamento era stato concepito come pubblica
funzione (sebbene del tutto caratterizzata da inefficienze non più sostenibili)
giacché si riteneva eticamente riprovevole che potesse essere oggetto di
attività lucrativa di impresa la somministrazione di manodopera e di personale
(cioè il commercio del fattore lavoro), la nuova legge sostituisce una impostazione
legittimante la “somministrazione” di personale quale attività d’impresa,
conferendola pacificamente alle private agenzie di lavoro (già interinale),
agli enti bilaterali (costituiti da associazioni datoriali e sindacali), ai
consulenti del lavoro, alle università e agli istituti di istruzione secondaria
di secondo grado. Tale fornitura o somministrazione di personale da parte delle
agenzie interinali può essere, per effetto della nuova legge, non solo a tempo
determinato (come in precedenza) ma anche a tempo indeterminato. In tal modo si
accoglie nell’ordinamento italiano il c.d. “staff leasing”,
istituto con il quale si prevede che un’azienda si costituisca per la
somministrazione ad altre di personale che resta stabilmente ed a tempo
indefinito in organico alla azienda fornitrice, con conseguente insussistenza
di alcuna violazione della legge n. 1369/1960 in tema di interposizione per la
somministrazione di personale, legge che viene esplicitamente abrogata. I
lavoratori ed i sindacati dovranno non più rivolgersi all’azienda committente –
per tutte le questioni negoziali attinenti al rapporto di lavoro – ma
all’azienda cui sono in organico e che svolge funzione di somministrazione di
personale;
- si prefigura la
ridisciplina dei casi di interposizione illecita (individuando la
fattispecie vietata sulla base del criterio della mancanza di una ragione
tecnica, organizzativa o produttiva o possa verificarsi la lesione di diritti
inderogabili di legge o di ccnl applicato al prestatore di lavoro) nonché della
nozione di distacco e comando; si attribuisce all’azienda
Capogruppo di imprese la facoltà di svolgere, per delega delle consociate e
controllate, tutti gli adempimenti di cui all’art. 1 d. lgs. n. 12/’79;
- ai fini poi di
precludere o difficoltizzare il contenzioso da parte dei lavoratori
rivendicanti la dipendenza diretta dalla reale utilizzatrice delle prestazioni
per presunta interposizione illecita, si prevede che la genuinità dell’appalto
derivi da una certificazione (da parte di enti bilaterali intersindacali
o di strutture pubbliche o università) attestanti nell’appaltatore o
somministratore di personale requisiti di organizzazione di mezzi e di
assunzione di rischio di impresa;
- si prevede la revisione
del d. lgs. n. 18/2001 in tema di trasferimento d’azienda, adeguandolo
alla normativa comunitaria e prevedendo che il requisito dell’autonomia
funzionale del ramo d’azienda (per effetto del Patto per l’Italia del luglio
2002) sia riscontrato all’atto del trasferimento in luogo di essere (come fino
adesso) preesistente ad esso: questa innovazione è di estrema
pericolosità giacché può legittimare fraudolenti e studiati accorpamenti di
personale all’ultimo momento in una determinata unità produttiva in vista della
loro espulsione dall’azienda originaria (ed inserimento in azienda ove si
applicano contratti collettivi nazionali o aziendali deteriori e talora non
ricorre la stabilità reale ex art. 18 per essere al di sotto dei 16
dipendenti). L’intento legislativo – come è stato acutamente notato – si rinviene
nella volontà di “garantire e non ostacolare le frodi” (1). Che poi il
timore che la soluzione escogitata (e parzialmente ridimensionata nella sua
rischiosità per i prestatori di lavoro giacché nel libro bianco era addirittura
prevista l’eliminazione del requisito dell’autonomia funzionale, ipotizzandosi
la cessione di meri uffici o reparti non funzionalmente autonomi!) venga
utilizzata nel senso di dar luogo al diffuso fenomeno delle cd.
esternalizzazioni (o outsourcing) di comodo, non sia una ipotesi di scuola
ma una realtà attualissima e concreta, lo dimostrano le recenti decisioni della
Cassazione sulle esternalizzazioni. La Cassazione nelle
recentissime sentenze nn. 14691, 15105 e 17207 del 2002 ha, infatti, bloccato –
dichiarandolo nullo per carente consenso alla cessione a terzi del contratto
individuale – l’affidamento in outsorcing da parte della Soc. Ansaldo
Energia al Consorzio Manital di una serie di cessioni di “centri di costo”
raggruppanti personale eterogeneo unificato nell’unità produttiva “servizi
generali” (dichiaratamente considerata estranea al cd. core business dell’azienda),
sulla base dell’inesistente riscontro nella unità ceduta (e confezionata ad
hoc all’atto dell’esternalizzazione) di una preesistente autonomia
funzionale nell’azienda cedente.
C’è
ora il rischio che tali cessioni possano avere ampio e libero corso.
b) riforma della disciplina del lavoro a tempo parziale (con delega
al governo da parte dell’art. 3):
- il rapporto di lavoro
a tempo parziale - che è stato recentemente ridisciplinato dal d. lgs. n.
61/2000, tramite cui si sono introdotte cautele in ordine al ricorso al lavoro
supplementare ed alle “clausole di elasticità”, al fine di evitare che si
trasformasse in una sorta di lavoro “a chiamata” a discrezione datoriale,
sottratto a distribuzione preconcordata – viene liberalizzato dalle limitazioni
attuali. Nel senso che - nell’ottica di una “invasività nel tempo di vita
del lavoratore” (così Alleva, op. cit. in nt.1) e di una sostanziale
indifferenza alle esigenze connaturali alla tipologia contrattuale implicante
il necessario tempo libero per il prestatore al fine di eventualmente
instaurare un altro rapporto onde raggiungere un livello economico di
autosufficienza reddituale – le aziende potranno richiedere sia lavoro
supplementare senza consenso e senza limiti (se non quelli pattuendi a
livello di ccnl, superabili in carenza dal consenso individuale di un
lavoratore in condizioni di estrema ricattabilità) sia introdurre elasticità
nella gestione e distribuzione temporale del part-time, esteso anche ai
rapporti di lavoro a tempo determinato. Diviene regola quella secondo cui ai
fini di tutti gli istituti legali e contrattuali (facenti rinvio ai requisiti
dimensionali desumibili dal numero dei dipendenti) il lavoratore a tempo
parziale viene computato pro rata temporis, in relazione proporzionale
alla durata della prestazione resa.
c) implementazione delle tipologie di lavoro (con delega al governo ex art. 4 ):
- la fantasia controriformista finalizzata
all’infoltimento delle tipologie di lavoro precario ha modo, in questa sede, di
fare sfoggio di se. Vengono addizionate – non paghi del fatto che il d.lgs. n.
368/2001 abbia liberalizzato dai vincoli il rapporto a tempo determinato
inserendolo tra le tipologie ordinarie e non sussidiarie di lavoro - alle
preesistenti tipologie elastiche risalenti al cd. “pacchetto Treu” (codificato
nella citata legge n. 196/’97), una serie di nuovi contratti: atipici: il “lavoro
a chiamata” (job on call), il “lavoro a prestazioni ripartite”
(job sharing, o divisione di un'unica occupazione e di un unico
stipendio tra due o più lavoratori), il lavoro a progetto, il lavoro
occasionale, il lavoro occasionale e accessorio. Infine vengono
ridisciplinate le prestazioni da collaborazione coordinata e continuativa
(in un’ottica di delimitazione, riservandole a progetti a tempo determinato,
degli eccessi e degli abusi mascheranti vere e proprie forme di lavoro
subordinato a tempo indeterminato).
Il
job on call è il contratto di chiamata o di lavoro
intermittente: il lavoratore fornisce la sua disponibilità di lavoro in un arco
di tempo predefinito, ma viene chiamato a lavorare solo per pochi giorni e con
un breve preavviso (ne tentò per prima l’introduzione la Zanussi, ma l’ipotesi
d’accordo per la tipologia del cd. ”operaio squillo” venne sonoramente bocciata
dai lavoratori con referendum: ora il direttore risorse umane se ne ripropone
la praticabilità). La tipologia contrattuale del lavoro intermittente prevede
la saltuarietà della prestazione, compensandone lo stato di disponibilità alle
chiamate aziendali con una specifica indennità di disponibilità: non si tiene
tuttavia in alcun conto che il lavoro nel nostro ordinamento (ex artt. 2, 3 e 4
Cost.) deve essere non solo virtuale ma effettivo in quanto mezzo di
autorealizzazione individuale e sociale. Abbiamo a suo tempo ascoltato le giuste
lamentele degli autisti (discontinui) di personaggi fruitori di auto blu (di
banche, assicurazioni o della P.A.), costretti a lunghe soste inattive nei
piazzali o nelle receptions delle aziende in attesa del loro utilizzo a fine riunione del C.d.A. o a fine
impegni del direttore generale o del Presidente di questa o quella banca. Erano
ipotesi marginali di utilizzo intermittente all’interno, peraltro, di un
rapporto di lavoro stabile; ora se ne contempla la diffusività e la
generalizzabilità nel contesto deteriore di un lavoro del tutto precario.
Il
job sharing è un contratto a risultato tramite cui due (o
più) lavoratori (per un solo stipendio) si obbligano in solido a fornire una
prestazione, ripartendosene tra di loro i tempi e le modalità attuative,
nell’indifferenza del datore di lavoro cui preme soltanto che la prestazione
sia resa e che l’arco temporale sia coperto da presenza. I lavoratori
concorderanno tra loro le modalità esecutive, ivi incluso l’obbligo del
subentro di uno all’altro in caso di malattia o infortunio o altre sopravvenute
impossibilità di resa della prestazione (anche se tali aspetti saranno da
definire per via contrattuale).
- Si prevede
poi nella nuova legge che le quote obbligatorie di assunzione dei
disabili previste dalla legge n. 68/89 siano soddisfatte anche tramite
assunzioni a tempo determinato, così esponendo questi lavoratori (già solo
tollerati dalle aziende) ad un futuro di instabilità e di ghettizzazione,
giacchè non è lontano dal vero immaginare che questi portatori di handicap
saranno utilizzati secondo lo schema più precario del tempo determinato, in
luogo dell’onerosità del contratto a tempo indeterminato.
- La nuova
tipologia delle prestazioni di lavoro occasionale e accessorio
regolarizzabile e remunerabile con rilascio di coupons o tickest
(non si conosce ancora l’identità dei fornitori e le modalità di acquisto), se
va considerata piuttosto bizzarra e singolare in linea astratta e qualora
ipotizzata con intenti di generalizzazione, può invece risultare utile per le
ipotesi di lavoro occasionale reso con finalità di assistenza e cura
domiciliare (o presso enti senza fini di lucro) a persone malate o debilitate,
le cui esigenze non potrebbero altrimenti (e molto onerosamente) essere
sostenute da essi e dai loro familiari che con un contratto di collaborazione
domestica, riservabile invece per l’ipotesi più drammatica del colpito in
maniera invalidante, necessitante assistenza continuativa del c.d. “badante”.
- Venendo
alla riforma delle cd. co.co.co (collaborazioni coordinate e
continuative), si prevede che esse non possano essere più attivate per
prestazioni a tempo indeterminato ma solo per prestazioni a tempo determinato,
la cui durata scaturisce dal “progetto” per il quale si impegnano le proprie
energie lavorative. questa soluzione è stata correttamente giudicata
un’operazione di igiene e di freno all’utilizzo abusivo che sinora si è fatto
di tale tipologia di lavoro, mascherante una vera e propria prestazione di
lavoro subordinato, ed in questo senso gli va riconosciuta una valenza
positiva. Accanto ad essa si pone la “collaborazione occasionale”,
individuata dai parametri della durata del progetto presso lo stesso
committente inferiore ai 30 giorni nell’anno solare e della esiguità del
corrispettivo, non eccedente i 5000 €.
d) certificazione dei rapporti di lavoro e arbitrato
(con delega al governo rinvenibile negli artt. 5 e 8):
- la tematica è una di
quelle che hanno dato luogo alle maggiori opposizioni da parte della minoranza
parlamentare, dei giuslavoristi progressisti, del sindacato e della
magistratura.
Viene
affidato a enti bilaterali (intersindacali), a strutture pubbliche competenti
ed anche a università, il compito – per dichiarati fini di prevenzione del
contenzioso del lavoro – di certificare la tipologia e la genuinità dei
rapporti di lavoro da porre in essere. In maniera farisaica la legge dispone
che la procedura di certificazione è “volontaria”, ma nei fatti nessun
lavoratore verrà assunto se non si è sottoposto a tale procedura di “manleva”
datoriale. E si risolverà in una procedura tutt’altro che genuina e spontanea,
giacché l’intrinseco ricatto costituito dall’offerta (o prospettiva) di un
lavoro per un disoccupato lo porterà a dichiarare, sottoscrivere ed a dare atto
anche di una realtà del tutto difforme da quella effettiva. Invero la legge
consente la possibilità di impugnativa giudiziale da parte del lavoratore,
ma vi affianca l’obbligo che il tentativo obbligatorio di
conciliazione si svolga innanzi alla Commissione certificatrice e che il
magistrato investito dell’accertamento tenga conto anche delle dichiarazioni e
del comportamento tenuto dalle parti in sede di commissione certificatrice.
Viene
concludentemente, con tale configurazione e con tali accorgimenti, “blindato” o
“scoraggiato” il diritto giudiziale di ricorso da parte del lavoratore e
tentativamente “orientato” o “condizionato” il libero accertamento giudiziale.
Le
commissioni di certificazione degli enti bilaterali avranno altresì il compito
di attestare la definitività e genuinità delle rinunzie e transazioni (ai
diritti nascenti dall’art. 2113 c.c.) ai fini di precluderne in maniera
definitiva e tombale l’impugnativa.
Si
prevede che, in caso di accertamento giudiziale di una erronea qualificazione
del rapporto di lavoro, l’accertamento giudiziale non abbia effetti retroattivi
ma solamente ex nunc, facendo salvi per il periodo antecedente al
riscontro giudiziario gli effetti dell’accertamento svolto dalle autorità di
certificazione. Una forma di condono inaccettabile e tale da non stare
giuridicamente in piedi.
- Infine dopo
aver abbandonato alla Camera l’introduzione dell’arbitrato d’equità –
sostitutivo dell’accesso alla giurisdizione ordinaria – la legge sembrerebbe
quasi reintrodurlo surrettiziamente all’art. 8 (nel contesto della ridisciplina delle
funzioni ispettive di tipo amministrativo) con la formula contemplante la
delega “per la definizione di un quadro regolatorio finalizzato alla
prevenzione delle controversie di lavoro in sede conciliativa, ispirato a
criteri di equità ed efficienza”. In verità la formula, per quanto
equivoca, non reintroduce tale istituto la cui regolamentazione il governo
si ripropone di effettuare in altra sede e momento, tramite altro ddl (in
una con le modifiche all'art. 18 per effetto del Patto per l'Italia).
Tale
menzione dell'istituto o dell'intento non ci esime tuttavia dal riproporre le
critiche che merita l’arbitrato di equità, indirizzategli giustamente da chi ha
– a suo tempo - osservato
che una forma di giustizia alternativa a quella privata è finalizzata a
risolversi in un pregiudizio per i diritti del lavoratore, rifluendo in una
soluzione transattiva caratterizzata da uno “sconto” immanente a danno del
prestatore (secondo la logica di un colpo al cerchio ed uno alla botte ovverosia dell’aliquid
datum, aliquid retentum), per effetto del ricorso a criteri di equità (di
tipo commerciale) e non di stretto diritto.
Infine
conviene sottolineare come i contenuti
delle attuali deleghe siano configurati in chiave sottilmente “ricattatoria” per le
OO.SS. investite di ruolo attuativo e concertativo, prospettando loro che, in
assenza di pattuizioni negoziali nei contratti o accordi collettivi, la
perseguibilità e realizzabilità degli obbiettivi e delle nuove tipologie di
lavoro precario avverrà anche con il solo “consenso del lavoratore”, d’ora in
poi sempre più solo e indifeso.
Concludendo, mentre si resta in attesa dei decreti attuativi, sostanzialmente realizzabili con la consultazione sindacale (la cui disponibilità pone alle OO.SS. non pochi problemi di essere fraintesa quale condivisione in linea di principio dell’intera infrastruttura), si può sin d’ora affermare che – salvo i pochissimi punti ove abbiamo espresso un nostro consenso condizionato – la legge testé approvata prospetta ai nostri giovani un futuro di incertezza, di intermittenza lavorativa, di assoluto precariato, coniugato ad un corrispondente futuro di carente autosufficienza (o di vera e propria invivibilità) per l’epoca della quiescenza. Giacché con queste nuove tipologie di lavoro i versamenti contributivi faranno maturare in capo ai futuri pensionati una percentuale stimata nell’ordine del 30% del reddito percepito in costanza di attività lavorativa, per cui giustamente si è lanciato l’allarme (inascoltato) di costruire ed innescare, ora per allora, “una vera e propria bomba sociale” a scoppio tanto certo quanto ritardato (con una logica da “ápres moi le deluge”).
Note
(1) Così Alleva, nell’ottimo articolo “Il D.d.l delega al Governo sul mercato del lavoro”, in www.cgil.it/giuridico/ (Attualità in evidenza – Politiche del diritto).
La
certificazione dei rapporti di lavoro
Il
5 febbraio il Senato ha definitivamente approvato la legge mercato del lavoro (ora in attesa
di pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale); il provvedimento è stato sinora oggetto di attenzione
soprattutto per la parte in cui si introducono nuove forme contrattuali, come il lavoro a progetto, il
lavoro a chiamata e lo staff leasing, o si rimodella la disciplina di figure
già esistenti, come nel caso del part-time o del job sharing.
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