Dequalificazione costituisce (quantomeno) giusta causa di dimissioni
Corte
di cassazione, sez. lav. 5 maggio
2004, n. 8589 – Pres. Mileo – Rel. Lamorgese – SanpaoloImi s.p.a. (avv.
Tosi, Fiorillo) c. Lovatti Francesco (avv. Sbisà, Bianchi, Magrini)
Dequalificazione - Presupposti - Mancata piena utilizzazione del lavoratore e impedimento all'ulteriore arricchimento della professionalità - Dirigenti - Considerazione della rilevanza del ruolo - Giusta causa di dimissioni - Sussistenza ed accertamento ad opera del giudice di merito.
Se non ogni modificazione quantitativa delle mansioni affidate
al lavoratore è sufficiente ad integrare la fattispecie della dequalificazione, dovendo invece farsi riferimento
all'incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto
dal dipendente, sulla sua collocazione nell'ambito aziendale (Cass. 19 maggio
2001 n. 6856, Cass. 4 agosto 2000 n. 10284), per il dirigente occorre
considerare anche la rilevanza del ruolo, tenendo conto che determinate mansioni
per la loro elevatezza non sono suscettibili di essere svolte da più lavoratori
senza scadimento del proprio livello qualitativo (Cass. 11 gennaio 1995 n. 276,
che ha ritenuto sussistente la dequalificazione per un dirigente, che preposto
alla direzione tecnica della produzione con responsabilità diretta, aveva, per
successiva disposizione aziendale, dovuto dividere l'incarico con altro
dipendente affiancatogli con posizione egualitaria).
Conforme
a tali principi è la sentenza impugnata, la quale ha affermato la
dequalificazione del Lovatti, in base alla riduzione dei suoi poteri e al
mutamento sostanziale in peius del ruolo di dirigente, derivanti
dal passaggio da una posizione di vertice, nella direzione a lui attribuita in
via esclusiva dell'area di Milano e della sede della medesima città del San
Paolo, all'incarico di vicario della nuova area di Milano, con il
mantenimento dell'altro incarico di direttore di sede, sebbene con facoltà
ridotte nella concessione dei fidi alla clientela.
La
Corte di appello di Milano, con sentenza depositata il 16 novembre 2000,
rigettava l'impugnazione proposta dall'Istituto bancario S. Paolo di Torino
avverso la sentenza non definitiva del 1° aprile 1999, con la quale il Pretore
di quella città aveva ritenuto determinate da giusta causa
le dimissioni rese da Francesco Lovatti dal predetto istituto bancario il 12
gennaio 1998, e condannato la banca a restituire al Lovatti la somma di lire
78.716.870 trattenute a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, a pagare
l'ulteriore somma di lire 14.050.437, e a corrispondere al dipendente l'indennità
sostitutiva del preavviso nella misura da stabilirsi nel prosieguo del giudizio.
Ad
avviso del giudice del merito non potevano essere considerate di pari
importanza, come invece aveva dedotto l'appellante, le funzioni in precedenza
ricoperte dal Lovatti quale direttore centrale capo area di Milano e direttore
della sede della medesima città, con quelle a lui da ultimo attribuite di
vicario di altro direttore di area, pur restando direttore di sede, poiché,
secondo quanto risultava per tabulas, i compiti erano diversi per
importanza e i poteri decisionali erano ridotti per ampiezza. La Corte
territoriale determinava poi il preavviso, in base alle clausole contrattuali,
nella misura di dodici mensilità, in quanto l'appellato non aveva diritto con
effetto immediato al trattamento di previdenza di cui all'art. 96 ccnl del
settore dirigenti Assicredito.
Avverso
questa sentenza la San Paolo IMI s.p.a., cosi ora denominata la società
soccombente, ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi.
il
lavoratore ha resistito con controricorso.
Entrambe
le parti hanno depositato memoria.
Il
primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 cod.
civ. e vizio di motivazione, critica la sentenza impugnata per non avere fatto
alcun riferimento alla nozione di giusta causa che in base alla previsione
legale legittimi il recesso della parte dal rapporto di lavoro, essendosi
limitata a soffermarsi sulla asserita dequalificazione della posizione
lavorativa del dipendente, senza però fornire alcuna motivazione in ordine alla
applicazione della giusta causa alla specifica situazione dedotta in giudizio.
Il
secondo motivo denuncia, in uno con vizi di motivazione, violazione e falsa
applicazione degli artt. 2103 e 2697 cod. civ., ed assume che il giudice del
merito è pervenuto ad affermare la dequalificazione del dipendente soltanto
sulla base della
maggiore latitudine del territorio attribuita all'area milanese nell'ottobre
1997, senza considerare l'incremento del volume degli affari e la diversa
organizzazione del lavoro, elementi che avevano inciso sul ruolo dei dirigenti,
modificandone le mansioni, anche queste pretermesse in sentenza. Addebita alla
sentenza impugnata di non avere rilevato che era rimasto privo di dimostrazione
l'assunto del Lovatti circa la drastica riduzione dei propri poteri deliberativi
in ordine all'ammontare dei fidi da concedere, e di non avere considerato come
la sola funzione di responsabile della sede di Milano fosse di per sé coerente
con il profilo di dirigente centrale in base alla contrattazione collettiva.
I
suddetti motivi che per la loro evidente connessione logica, entrambi
investendo, sotto profili diversi, la medesima statuizione della giusta causa
delle dimissioni, vanno congiuntamente esaminati, sono infondati.
Innanzitutto,
osserva il Collegio, il giudice del merito ha esplicitamente affermato la
sussistenza di una giusta causa delle dimissioni
presentate dal
Lovatti, e ciò, oggetto del dibattito processuale, è un punto della pronuncia
impugnata, per cui non ha rilievo, ai fini del dedotto errore in iudicando, la
denunciata mancanza di motivazione, poiché in ordine alla soluzione della
questione di diritto il sindacato giurisdizionale in sede di legittimità è
limitato al controllo dell'esattezza giuridica della statuizione, e nella
ipotesi positiva di tale verifica, l'eventuale erronea o deficienza di
motivazione è integrata dalla Corte di Cassazione ai sensi dell'art. 384,
secondo comma, cod. proc. civ.
La
questione di diritto che la ricorrente pone è se la disposizione di cui
all'art. 2119 cod. civ. possa essere applicata in qualsiasi ipotesi di
dequalificazione del lavoratore operata dal datore di lavoro, a seguito di
ristrutturazione aziendale.
A
tale riguardo, la giurisprudenza di questa Corte ha avuto occasione di
evidenziare che se non ogni modificazione quantitativa delle mansioni affidate
al lavoratore è sufficiente ad integrarla, dovendo invece farsi riferimento
all'incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto
dal dipendente, sulla sua collocazione nell'ambito aziendale (Cass. 19 maggio
2001 n. 6856, Cass. 4 agosto 2000 n. 10284), per il dirigente occorre
considerare anche la rilevanza del ruolo, tenendo conto che determinate mansioni
per la loro elevatezza non sono suscettibili di essere svolte da più lavoratori
senza scadimento del proprio livello qualitativo (Cass. 11 gennaio 1995 n. 276,
che ha ritenuto sussistente la dequalificazione per un dirigente, che preposto
alla direzione tecnica della produzione con responsabilità diretta, aveva, per
successiva disposizione aziendale, dovuto dividere l'incarico con altro
dipendente affiancatogli con posizione egualitaria).
Conforme
a tali principi è la sentenza impugnata, la quale ha affermato la
dequalificazione del Lovatti, in base alla riduzione dei suoi poteri e al
mutamento sostanziale in peius del ruolo di dirigente, derivanti
dal passaggio da una posizione di vertice, nella direzione a lui attribuita in
via esclusiva dell'area di Milano e della sede della medesima città del San
Paolo, all'incarico di vicario della nuova area di Milano, con il
mantenimento dell'altro incarico di direttore di sede, sebbene con facoltà
ridotte nella concessione dei fidi alla clientela.
E
la valutazione dell'equivalenza (o meno) delle mansioni del lavoratore ai sensi
dell'art. 2103 cod. civ. con il giudizio sulla idoneità della condotta del
datore di lavoro a costituire giusta causa delle dimissioni del lavoratore si
risolve in un accertamento di fatto (Cass. 18 ottobre 2002 n. 14829, Cass. 17
dicembre 1997 n. 12768), che, rimesso al giudice del merito, è sindacabile in
sede di legittimità soltanto per vizi di motivazione.
Nella
specie, l'accertamento è stato compiuto dalla Corte territoriale in modo
esauriente, avendo essa effettuato il raffronto fra le mansioni in precedenza
svolte dal Lovatti e fra la posizione del suo ruolo nell'azienda quale a lui
attribuita prima dell'ottobre 1997 e la successiva; e gli accertamenti della cui
omissione la ricorrente si duole (incremento del volume degli affari, diversa
organizzazione del lavoro, corrispondenza della posizione lavorativa del
direttore di sede al profilo di dirigente centrale in base alla contrattazione
collettiva) non hanno rilevanza sulla modificazione sostanziale del ruolo del
Lovatti nella direzione dell'area e sulla riduzione dei poteri nella direzione
della sede, entrambi
constatati dal
giudice del inerito, e che di per sé comportano la dequalificazione lamentata
dal lavoratore.
Il
terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss., e
dell'art. 1, comma 29, legge n. 335 del 1995, nonché vizio di motivazione.
Sostiene che in base alle c.d. finestre di uscita dal lavoro, previste dalla
riforma Dini sulle pensioni, il Lovatti, il quale alla data del 31 dicembre 1997
aveva già maturato i requisiti di legge per la pensione di anzianità, avrebbe
potuto iniziare a fruire del trattamento dell'assicurazione generale
obbligatoria dal 1° aprile 1998 e immediatamente del trattamento integrativo
aziendale, la cui disciplina era stata modificata proprio tra il 1997 e il 1998:
l'art. 93 ccnl, cosi come il successivo art. 96 al quale la prima norma
contrattuale rimanda, si riferisce proprio alla pensione complementare, ed a
nulla rileva la data di erogazione di questo trattamento "a giugno
piuttosto che a settembre del 1998", essendo comunque la sua entità
computata a partire dal primo giorno successivo alle dimissioni. Del resto la
disposizione contrattuale, che assume quale punto di riferimento l'effetto
immediato del diritto,
non impone l'erogazione immediata del trattamento e la sentenza impugnata
contraddittoriamente dapprima distingue il "diritto al trattamento"
dal "possesso dei requisiti" e quindi "l'effetto del
diritto" dalla "materiale erogazione del trattamento".
Il
motivo è inammissibile, poiché le clausole contrattuali della cui erronea
interpretazione la ricorrente si duole, non sono trascritte in ricorso, cosi
come invece richiede la costante giurisprudenza di questa Corte (v. fra le
numerose sentenze 26 luglio 2002 n. 11117, 4 luglio 2002 n.
Il
ricorso va dunque rigettato e la banca ricorrente, per il principio della
soccombenza, è tenuta alla rifusione nei confronti del resistente delle spese
del presente giudizio, liquidate nella misura riportata in dispositivo.
P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento in
favore del resistente delle spese del presente giudizio, liquidate in euro
31,30, oltre
ad euro 5.000,00=
(cinquemila) per onorari.
Cosi
deciso in Roma, il 17 dicembre 2003 (depositata il 5 maggio 2004)
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