Demansionamento e onere della prova del danno: la parola alle sezioni unite

 

Cassazione, sez. lav. – ordinanza del 4 agosto 2004 (ud. 23 giugno 2004) – Pres. Ciciretti – Rel. Curcuruto – Ric. Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. – Res. C.F.

 

Lavoro subordinato – Categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro – Mansioni – Illegittimo demansionamento del lavoratore - Violazione del diritto del lavoratore alla piena esplicazione della sua personalità anche sul luogo di lavoro – Questione della configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa.

 

La Corte

- visto il ricorso proposto dalla rete Ferroviaria Italiana s.p.a., già Ferrovie dello Stato s.p.a., per la cassazione della sentenza resa fra la ricorrente e F.C.;

- visto il controricorso dell’intimato, contenente anche ricorso incidentale;

ha emesso la seguente

Ordinanza

- considerato che con il quarto motivo del ricorso principale la Rete Ferroviaria Italiana, denunziando violazione degli artt. 115, 116, 414 e 420 c.p.c. in relazione all’art. 2697 c.c., e in relazione all’art. 432 c.p.c. e 1226 c.c., unitamente ad omessa insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto determinante della controversia, addebita alla sentenza impugnata per un primo profilo di aver liquidato in favore del C. un danno da presunta dequalificazione, nella misura di lire 183.696.000, ritenendo indiscutibile che l’inattività del C. gli avesse prodotto una serie di risultati negativi che, senza attingere direttamente alla sfera economica, si sarebbero presentati come conseguenze patrimoniali di un danno di diversa natura e sarebbero quindi legittimamente suscettibili di valutazione; di avere violato così il principio secondo cui, nel caso di lesione del diritto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, il danno subito dal lavoratore, anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico, deve essere provato e solo una volta provato può essere oggetto di valutazione equitativa, non costituendo conseguenza automatica dell’anzidetto comportamento illegittimo del datore di lavoro;

- considerato che in ordine alla soluzione del problema posto dal quarto motivo di ricorso si sono manifestati nella giurisprudenza di questa Corte indirizzi divergenti: secondo un primo indirizzo giurisprudenziale, infatti: «Nel caso di illegittimo mutamento di mansioni che comporti pregiudizio alla vita professionale e di relazione dell’interessato, é possibile il risarcimento del danno derivante da tale pregiudizio, di natura non patrimoniale, da liquidarsi in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c., sempre che il lavoratore, sul quale ricade il relativo onere, fornisca la prova dell’effettiva sussistenza di tale danno, il quale costituisce il presupposto indispensabile anche per una liquidazione equitativa» (Cass. 4 febbraio 1997, n. 1026). Nello stesso senso si é quindi ritenuto che «Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare una dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell’esistenza  di tale danno, la quale costituisce presupposto indispensabile per una sua valutazione equitativa.Tale danno non si pone infatti quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella sopraindicata categoria, onde non é sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, facendo carico al lavoratore che denunzi il danno subito fornire la prova in base alla regola generale dell’art. 2697 c.c.»(Cass. 11 agosto 1998, n. 7905, e in senso sostanzialmente conforme, Cass. 14 maggio 2002, n. 6692; Cass. 4 giugno 2003, n. 8904; Cass. 8 novembre 2003, n. 16792). Tale orientamento, ha ricevuto conferma anche recentemente con la sentenza  26 maggio 2004, n. 10157, che ha fatto esplicito riferimento alle sentenze n. 8904/2003 e n. 6692/2002, menzionate in precedenza.

Un diverso indirizzo ritiene invece che «Il demansionamento professionale di un lavoratore dà luogo ad una pluralità do pregiudizi solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore;esso infatti, non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 c.c., ma costituisce lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che  al pregiudizio correlato a tale lesione – che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato – va riconosciuta una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, pure nell’ipotesi in cui sia mancata la dimostrazione di un effettivo pregiudizio patrimoniale» (Cass. 6 novembre 2000, n.14443). Appartiene, in sostanza, allo stesso ordine di concetti il considerare che «Il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 c.c. ma ridonda in lesione del diritto fondamentale, da riconoscere al lavoratore anche in quanto cittadino, alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio correlato a siffatta lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell’interessato ha una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, secondo quanto previsto dall’art. 1226 c.c.» (Cass. 18 ottobre 1999, n. 11727, la quale – con decisione qui di specifico rilievo – sulla base di tale principio ha cassato la sentenza impugnata che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore demansionato sull’assunto del mancato assolvimento, da parte dello stesso, dell’onere probatorio relativo alla sussistenza di un danno patrimoniale in qualche modo risarcibile).

Anche questo indirizzo ha ricevuto conferme recenti.

Infatti Cass. 26 maggio 2004, n. 10157, sull’esplicito presupposto che i principi affermati da questa Corte in tema di responsabilità extracontrattuale  possano essere applicati anche in tema di inadempimento contrattuale produttivo di un danno non patrimoniale, categoria alla quale ha ritenuto riconducibili taluni aspetti del danno da dequalificazione, ha esplicitamente affermato, in motivazione, che «la valutazione di un siffatto pregiudizio per sua natura privo delle caratteristiche di patrimonialità non può che essere effettuata dal giudice alla stregua di un parametro equitativo, essendo difficilmente utilizzabili parametri economici o reddituali» ed ha cassato la sentenza impugnata per la violazione di tali principi, avendo il giudice del merito negato il ricorso al criterio equitativo e preteso dal danneggiato la prova specifica della diminuzione patrimoniale sofferta.

Vale anche segnalare come, in un ordine di idee non dissimile, una sentenza , anch’essa recente, della III sezione di questa Corte abbia puntualizzato che «la negazione o l’impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale, integrano una lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato,con una indubbia dimensione sia  patrimoniale sia – a prescindere dalla configurabilità di un reato – non patrimoniale, che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento» (Cass. 27 aprile 2004, n. 7980, la quale in applicazione del suindicato principio, ha cassato l’impugnata sentenza che, in presenza di provvedimenti, successivamente annullati, di sospensione, decadenza e destituzione dall’impiego di un primario incaricato di un  reparto di Ospedale pubblico, nella ravvisata inconfigurabilità di ipotesi di reato a carico degli amministratori pubblici che detti provvedimenti avevano adottato e nella, sia pure implicitamente, ritenuta sussistenza del danno lamentato dal relativo destinatario, aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, sul rilievo che non «era stata provata e neppure prospettata l’insorgenza di fatti configurabili come reato».

Di meno agevole classificazione, ma probabilmente da ascrivere ad una posizione sostanzialmente intermedia, fra i due già segnalati è infine l’orientamento secondo cui «in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell’art. 21003 c. c., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza  del relativo danno in base agli elementi di fatto relativi alla durata della dequalificazione e ad altre circostanze del caso concreto, potendo procedere ad una autonoma valutazione equitativa del danno, rispetto alla quale non ostano né l’eventuale  insuccesso di una ctu disposta al fine di quantificarlo in concreto alla luce di criteri lato sensu oggettivi, né l’eventuale inidoneità e/o erroneità dei parametri risarcitori indicati dal danneggiato, dovendosi, per converso, ritenere contraria a diritto un’eventuale decisione di non liquet, fondata, appunto, sull’asserita inadeguatezza dei criteri indicati dall’attore o sulla pretesa impossibilità di individuarne alcuno, risolvendosi tale pronuncia nella negazione di quanto, invece, già definitivamente acclarato in termini di esistenza di una condotta generatrice di danno ingiusto e di conseguente legittimità di una richiesta risarcitoria relativa ad una certa vis lesiva» (Cass. 29 aprile 2004, n. 8271 che, nel caso di specie, ha ritenuto che la corte di merito, con la sentenza impugnata, non si fosse attenuta ai principi di diritto sopra indicati, avendo rigettato la domanda di risarcimento del danno in via equitativa a fronte della considerazione del mantenimento della retribuzione su livelli invariati, e dell’assenza della allegazione di un danno ulteriore e di indicazioni sulla sua consistenza, laddove il lavoratore, demansionato da progettista addetto alla componentistica a semplice addetto al magazzino, aveva indicato indici del danno quali la perdita del bagaglio professionale, la compromissione di una sua possibile riconversione, il pregiudizio morale psicologico incidente anche sulla vita di relazione).

- considerato quindi necessario rimettere gli atti al Primo Presidente di questa Corte per le valutazioni di sua competenza a norma dell’art. 374 c.p.c.

P.Q.M.

- dispone rimettersi gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione dei ricorsi alle sezioni unite e rinvia la causa a nuovo ruolo.

 

IL COMMENTO

di Fabio Massimo Gallo

Presidente di sezione lavoro del Tribunale di Roma

 

I termini della questione

1. Con ordinanza in data 23 giugno 2004, la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l'eventuale «assegnazione alle Sezioni Unite, in relazione al ricorso della Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. avverso la sentenza di secondo grado che ha liquidato un danno da dequalificazione professionale in favore di un dipendente della stessa R. F. I. “ritenendo indiscutibile” si legge nell'ordinanza in oggetto - che l'inattività del C. gli avesse prodotta una serie di risultati negativi che, senza attingere  direttamente alla sfera economica, si sarebbero presentati  come conseguenze  patrimoniale di un danno di diversa natura».

La società ricorrente, si evince ancora dall'ordinanza, sostiene che la sentenza di merito ha violato il principio secondo il quale, nel caso di lesione del diritto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, il danno subito dal lavoratore stesso, anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico, deve essere provato, e solo una volta provato può essere oggetto di valutazione equitativa, non costituendo conseguenza automatica dell'anzidetto comportamento illegittimo del datore di lavoro.

Il Collegio investito del ricorso ha rilevato che, in ordine alla necessità o non di fornire la prova del danno non patrimoniale in presenza di dequalificazione o di privazione della stessa possibilità di svolgere la prestazione lavorativa, la giurisprudenza della Suprema Corte ha espresso indirizzi differenti, che vengono puntualmente ricordati nel provvedimento di rimessione.

L'ordinanza infatti rileva che, in materia di risarcimento del donno non patrimoniale si  possono riscontrare tre diversi orientamenti, ciascuno dei quali è stato ribadito anche in sentenze recentissime della Suprema Corte.

In effetti, sussiste una rilevante diversità di orientamenti da parte del giudice di legittimità, ed inoltre tale coesistenza di decisioni di segno difforme è tuttora ravvisabile, il che esclude anche la possibilità di individuate un orientamento più recente che possa essere ritenuto, come tale, ormai prevalente o quanto meno in via di rafforzamento.

L'ordinanza di rimessione individua dunque un primo orientamento, secondo il quale, in ossequio ai principi generali in materia di risarcimento del danno e di onere della prova, ai sensi dell'alt. 2697 c.c. grava sul lavoratore l'onere di provare l'effettiva sussistenza del danno non patrimoniale, da liquidarsi in via equitativa ai sensi dell'att. 1226 c.c.

Sul punto, l'ordinanza segnala Cass. 4 febbraio 1997, n. 1026 e  tra le più recenti, Cass. 14 maggio 2002, n. 6992, Cass. 4 giugno 2003, n. 8904 e Cass. 8 novembre 2003, n. 16792.

Peraltro, proprio in concomitanza con l'ordinanza in esame, la Suprema Corte, con sentenza n. 10361 del 28 maggio 2004 (1) ha riaffermato con chiarezza cristallina che “il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione a di cosiddetto danno biologico) , subito a causa detta lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione  lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire fa prava dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa". Tale danno non si pone infatti quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunci il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all'ari. 2697 c.c.: "In forza di tale principio, detta sentenza ha cassato con rinvio la decisione del Tribunale di Roma che aveva ritenuto l’esistenza di un danno in sé in capo al dipendente , in conseguenza dell’acclarato demansionamento (2). L’ordinanza in oggetto include però in questo novero anche la sentenza  n. 10157 del 26 maggio 2004 (3), che – si legge nell’ordinanza stessa – “ha fatto esplicito riferimento alle sentenze n. 8904/2003 e 6992/2002, menzionate in precedenza”. In realtà la sentenza n. 10157/2004 (che opportunamente, poi, la medesima ordinanza richiama nell’ambito del contrario orientamento) non é riconducibile alla posizione tradizionale: infatti, con tale decisione la Cassazione, dopo aver indicato  come danni non patrimoniali il danno biologico, il  danno morale e la lesione di interessi costituzionalmente protetti (nei quali espressamente inserisce il diritto del lavoratore avente ad oggetto la libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dall’art. 2 Cost.) ribadisce la necessità della prova in ordine al danno biologico, ma per le altre voci afferma che la valutazione del danno da dequalificazione professionale non può che essere effettuata dal giudice alla stregua di un parametro equitativo, essendo difficilmente utilizzabili parametri economici o reddituali, e cita al riguardo Cass. n. 8827/2003.

Subito dopo, la Corte chiarisce ulteriormente la propria posizione allorquando afferma: «A questi principi non si é attenuto il Tribunale di Milano, avendo quel giudice negato il ricorso al criterio equitativo e preteso dal danneggiato la prova specifica della diminuzione patrimoniale sofferta»; di conseguenza, la corte ha accolto il relativo motivo di ricorso ed ha cassato con rinvio ad altra Corte di appello.

La medesima sentenza n. 10157/2004 si inserisce dunque a pieno titolo nell’orientamento che ravvisa un danno in re ipsa in ogni episodio di demansionamento, principio recentemente ribadito con sentenza n. 7980 depositata il 27 aprile 2004 dalla terza sezione civile, la quale, investita di un ricorso relativo ad una domanda di risarcimento ex art. 2043 c.c., ha sostenuto che «la negazione o l’impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato» ed ha affermato che la lesione di ogni valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, comporta il risarcimento del relativo danno, indipendentemente dai riflessi patrimoniali della stessa lesione, che costituiscono una voce di danno eventuale, autonoma ed aggiuntiva.

Il suddetto principio é stato peraltro ritenuto valevole sia in sede di responsabilità extracontrattuale che contrattuale, come inadempimento degli obblighi derivanti al datore di lavoro in virtù dell’art. 2103 c.c.

Anche la sentenza n. 8271 del 29 aprile 2004, che l’ordinanza indica come espressione di una posizione intermedia tra i due orientamenti sopra delineati, appare piuttosto riconducibile all’ordine di idee del danno in re ipsa, in quanto afferma che, in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore, il giudice del merito può desumere l’esistenza del danno «in base agli elementi di fatto relativi alla durata della dequalificazione e ad altre circostanze del caso concreto, potendo procedere ad una autonoma valutazione del danno, rispetto alla quale – si legge nella decisione – non ostano né l’eventuale insuccesso di una ctu disposta al fine di quantificarlo in concreto alla luce dei criteri lato sensu oggettivi, né l’eventuale inidoneità e7o erroneità dei parametri risarcitori indicati dal danneggiato». tale ultima affermazione, anzi, si discosta completamente non soltanto dai principi generali in ordine all’onere della prova ma financo dallo specifico dettato dell’art. 414 c.p.c. consentendo, o meglio imponendo, al giudice di individuare egli stesso i criteri in base ai quali commisurare la liquidazione equitativa del danno, essendo risultati errati gli indici di danno indicati dal lavoratore, quali la perdita del bagaglio professionale, la compromissione della sua possibile riconversione, il pregiudizio morale e psicologico incidente anche sulla vita di relazione.

 

Il punto sul dibattito

Come si vede, nella materia in esame coesistono due diverse opinioni, una di impostazione prettamente civilistica, che pone rigorosamente l’accento sul principio generale secondo cui l’onere della prova del danno ricade sul soggetto che agisce per il risarcimento; l’altra,  caratterizzata da una impronta più giuslavoristica, esalta la peculiarità del rapporto di lavoro subordinato (con l’ulteriore problema della eventuale estensione  degli stessi principi al lavoro autonomo) e considera risarcibile ex se la lesione del diritto costituzionale all’esplicazione della personalità nel posto di lavoro.

in realtà questa impostazione, per certi aspetti indubbiamente più moderna e più attenta alla nuova realtà sociale, economica e giuridica derivante dalla sovrapposizione dei principi della nostra Costituzione al sistema giuridico preesistente, pone qualche problema di natura tecnico-sistematica.

Infatti, nella nozione di danno non patrimoniale derivante dal demansionamento confluiscono molteplici elementi, quali il danno biologico, la perdita di chance, il danno all’immagine, il danno alla vita di relazione ed il danno per la mera lesione del diritto allo svolgimento della prestazione.

La giurisprudenza  é costante nell’affermare la necessità della prova del danno biologico, ancorché inteso nell’ampia e, pur se recente, consolidata accezione di lesione del diritto all’integrità psicofisica della persona, indipendentemente dalle conseguenze patrimoniali della lesione stessa. (Com’é noto, il concetto di danno biologico in se considerato, rappresentato dalla stessa menomazione psico-fisica, a prescindere dalle conseguenze che da essa possano derivare, é stato introdotto con una serie di decisioni della corte Costituzionale, a partire dalla sentenza n. 88/1979, poi la n. 184/1986 e la n. 356/1991, la quale ha affermato che il danno alla integrità fisica deve essere oggetto di piena tutela assicurativa, gettando le basi per la risarcibilità dello scosso da parte dell'Inail, introdotta con l'art. 13, Dlgs. 23 febbraio 2000, n. 38).

Anche la più volte menzionata Cass. n. 10157/2004 ha rigettato il motivo di ricorso relativo alla mancata liquidazione del danno biologico, affermando che correttamente il giudice di merito aveva escluso, all'esito della consulenza tecnica di ufficio, l'esistenza di lesioni derivanti dal lamentato demansionamento; tale posizione appare pienamente condivisibile, in quanto il danno alla salute, possibile ma non automatica conseguenza di un demansionamento, può essere verificato su basi scientifiche sia in relazione all’an  che all’entità, oltreché in relazione alla riconducibilità (o almeno alla compatibilità) alla situazione lavorativa.

Solo per la lesione del diritto a svolgere la propria prestazione lavorativa, dunque, si potrebbe ipotizzare un danno in re ipsa, mentre tutti gli altri aspetti devono comunque essere dedotti e provati, almeno nell'an. Tuttavia anche la lesione del diritto a svolgere la propria prestazione deve essere valutata caso per caso, per verificare l'effettiva configurabilità di un danno risarcibile, considerando ad esempio la gravità della dequalificazione, la durata della stessa, il livello professionale del lavoratore, la pubblicità o non del demansionamento, l'atteggiamento psicologico del datore di lavoro.

Una possibile via per risolvere il problema appare quella della reductio ad unum delle varie voci, riconducendo il danno da dequalifìcazione alla più ampia categoria, individuata dalla dottrina ed ormai recepita dalla giurisprudenza anche se non sempre in modo univoco, del danno esistenziale che rappresenta in qualche modo l'equivalente dei danni morati in presenza di illecito civile (4). Si tratta, come è noto, di un tertium genus all'interno della responsabilità civile, distinto sia dal danno patrimoniale sia dal danno morale, incentrato sul “fare non reddituale” delle persone, governato dall'alt. 2043 c.c. e dalle altre norme ordinarie sull'illecito, incluse quelle sulla responsabilità contrattuale; in definitiva, secondo Paolo Cendon (5), una figura da prospettarsi come entità ricomprensiva di due alvei, quello del danno esistenziale biologico (cui ricondurre le ipotesi effettive di aggressione alla salute) e quella del danno esistenziale non biologico, quale sede per le menomazioni inerenti a beni diversi dall'integrità psicofisica.

Rispetto al danno morale, risarcibile solo in presenza di un fatto reato, il danno esistenziale - secondo lo stesso Autore - si distingue anche perché  il primo rappresenta essenzialmente un sentire, riguarda cioè l'interno delta sfera della emotività, mentre il secondo concerne il fuori, il tempo e lo spazio della vittima.

Nel danno esistenziale confluiscano e scompaiono quello alla vita di relazione, il danno estetico, il danno sessuale, il danno alla serenità familiare, il danno edonistico, i danni riflessi o indiretti.

Patrizia Ziviz (6), pone invece l'accento sul peggioramento delle condizioni di vita del soggetto: attività che svolgeva e non può più compiere, quotidianità compromessa, e così via.

Così, mentre il Cendon riconduce al danno esistenziale lo stesso danno biologico, che ne costituirebbe un sottotipo, la Ziviz, la cui posizione appare preferibile per chiarezza, precisa che si parlerà di danno biologico quando sia in gioco una lesione della salute suscettibile di accertamento medico-legale, mentre per ogni altro tipo di torto, lesivo della sfera personale della vittima, entrerà in campo il danno esistenziale.

Anche la dottrina dunque non è del tutto unanime nel definire il danno esistenziale, mentre lo è sulla necessità di colmare in sede civile la lacuna rappresentata dai limiti pressoché invalicabili dell'art. 2059 C.C.

È di tutta evidenza, poi, che te problematiche relative al danno da demansionamento si ricollegano all'ampio dibattito in atto in tema di mobbing, figura non definita dal legislatore ma ben individuata dalla scienza medica e dalla dottrina, e variamente già esaminata dalla giurisprudenza (7).

Orbene, il problema del risarcimento del danno  da mobbing, nel cui ambito ricade a pieno titolo il danno da demansionamento o da privazione delle mansioni, risulta di particolare attualità in presenza dello Schema di testo unificato per i disegni di legge n. 122 e connessi in materia di tutela dei lavoratori dal fenomeno del mobbing, depositato in Senato in data 2 febbraio 2005.

Anche in vista di ulteriori forme di contenzioso, dunque, l'intervento della Suprema Corte a Sezioni Unite appare quanto mai opportuno.

 

Note

(1) In Lav. giur. 2004, 12, 1265 ss. con nota di Girardi, Demansionamento:conseguenze ed onere della prova dei danni subiti.

(2) Anche nella giurisprudenza di merito l’orientamento in parola é ampiamente condiviso, v. tra tante Trib. Milano 16 novembre 2000, in Orient. giur. lav. 2000,962 e la recentissima Trib. Roma 17 marzo 2004, in Lav. giur. 2004, 12, 1307.

(3) In Lav. giur. 2004, 12, 1265, con nota Girardi, cit.

(4)  Tra i primi studi sul punto, v. Ziviz, Alla scoperta del danno esistenziale, in Contratto e impresa, 1994, 845; Ziviz, L’evoluzione del sistema risarcitorio del danno: modelli interpretativi a confronto, in Riv. crit. dir. priv., 1999,61 ss.

(5) Si veda anche Cendon, Il danno esistenziale, Padova 2000; si veda anche Cendon P. Il danno psichico, il danno esistenziale, il danno permanente e la permanente validità del limite di cui all’art. 2059 c.c., relazione tenuta all’incontro organizzato dal CSM a Roma il 17/19 gennaio 2002 sul Danno risarcibile civile.

(6) P.Ziviz, Il danno psichico, Relazione tenuta all’incontro organizzato dal CSM a roma in data 17/19 gennaio 2002 sul Danno civile risarcibile.

(7) Sull’evoluzione giurisprudenziale del fenomeno, v. Miscione, Mobbing, norma giurisprudenziale (la responsabilità da persecuzione nei luoghi di lavoro), in Lav. giur. 2003, 4,305 e ss. e F. Carinci, Il mobbing: un fantasma si aggira per le aule giudiziarie, ivi, 2003, 12, 1097.

 

(fonte Lav. Giur. n. 4/2005 p. 335 e ss).

 

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