Vecchie certezze e nuove
riconferme sulla immanenza del danno da demansionamento (aggiornamento
dell'articolo n. 34 in sito)
1.
L’ultimo orientamento giudiziario (Trib. Treviso 13 ottobre 2000,
Cass. sez. lav. 6 novembre 2000, n. 14443, Cass. 7 luglio 2001, n.
9228,Cass. 23 ottobre 2001, n. 13033, Cass. 2 novembre 2001, n. 13580,
Cass. 14 novembre 2001, n. 14189 e n. 14199, Cass. 2 gennaio 2002, n.
10)
2.
Le certezze raggiunte in
dottrina ed in giurisprudenza sul danno da demansionamento
3.
Considerazioni sull’affermazione
(operata da Cass. n. 14443 del 2000) di un presunto onere probatorio della lesione alla c.d. professionalità oggettiva
4.
Le condizioni di risarcibilità del danno biologico e del danno morale
********
1. L’ultimo orientamento giudiziario (Trib. Treviso 13 ottobre 2000, Cass. sez. lav. 6 novembre 2000, n. 14443, Cass. 7 luglio 2001, n. 9228, Cass. 23 ottobre 2001, n. 13033, Cass. 2 novembre 2001, n. 13580, Cass. 14 novembre 2001, n. 14189 e n. 14199, Cass. 2 gennaio 2002, n. 10)
In
un nostro precedente articolo sul tema della reintegrazione (sia nel posto di
lavoro che nelle pregresse mansioni o in altre equivalenti) osservavamo come l’impresa
tenda, di norma, a sottrarsi all’ordine
giudiziale rivoltole – anche a costo di incorrere nel reato ex art. 388
c.p., di inottemperanza ad un ordine della magistratura – e ponga in atto
tutti quei meccanismi ostruzionistici, palesi o mimetici, finalizzati a
vanificare l’obbligo impostole (e a non consentire al lavoratore la
realizzazione del diritto sancito a livello giudiziale).
Le nostre considerazioni trovano ora una riconferma tanto occasionale quanto significativa in recentissime decisioni in tema di “dequalificazione”, cioè a dire, rispettivamente, nella sentenza del Tribunale di Treviso (sez. lav., 1 grado) del 13 ottobre 2000 (1), nella sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, del 6 novembre 2000 n. 14443 (2), in Cass. 7 luglio 2001, n. 9228 (3), in Cass. 23 ottobre 2001, n. 13033 (in questa sezione Articoli del sito, n. 83), in Cass. 2 novembre 2001, n. 13580 (ibidem, n. 90) in Cass. 14 novembre 2001, nn. 14189 e 14199, in Cass. 2 gennaio 2002, n. 10 (ibidem, n.94), cui si aggiunge Cass. 1 giugno 2002 n. 7967 (ibidem, n. 135).
Nella
prima risulta sanzionata - con il
riconoscimento del diritto al risarcimento del danno alla professionalità e
alla personalità morale del lavoratore (e con l’imposizione al soccombente
di una somma per spese legali pari a £. 15 milioni!) – la mancata
esecuzione di sentenze cautelari impositive di riassegnazione ad un dirigente
tecnico del Comune di Ponzano
Veneto di mansioni equivalenti
a quelle dalle quali era stato illegittimamente rimosso, cioè in buona
sostanza di un ruolo e posizione
professionale di pari dignità interno/esterna.
La
massima della decisione, che si riproduce per comodità di comprensione da
parte del lettore, è la seguente: “La
revoca dall’incarico dirigenziale con assegnazione, dietro ordine
giudiziale, a mansioni di posizione professionale non equivalente, occasiona
per il lavoratore rimosso sia il diritto al risarcimento del danno – per
violazione degli artt. 2 e 41 Cost e 2087 c.c. – alla libera esplicazione
della personalità nel luogo di lavoro, la cui lesione si verifica per il
riflesso che la dequalificazione professionale ha, sia nell’ambiente di
lavoro sia all’esterno, sulla dignità dell’uomo e del lavoratore, sulla
aspettativa di carriera, sull’immagine e sulla vita di relazione con
riferimento anche allo status sociale (c.d. danno alla personalità morale), sia il diritto al risarcimento del danno alla
professionalità (tutelata dall’art. 2103 c.c.) che consiste nel mancato
incremento delle conoscenze professionali e nel mancato utilizzo delle
conoscenze e capacità acquisite, nonché – quando sussistente – del danno
biologico (per lesione anatomo-funzionale del soggetto cioè a dire dell’integrità
dello stato di salute) e del danno morale (ove la condotta lesiva costituisca
anche reato).
Entrambe
le prime due voci di danno (alla personalità morale e alla professionalità)
sono intrinseche e conseguenziali al demansionamento secondo “l’id quod
plerumque accidit” ed hanno una dimensione patrimoniale che le rende
suscettibili di risarcimento e di valutazione anche equitativa (cfr. Cass. n.
11727/99).”.
Nella sentenza n. 14443 del 6 novembre 2000 della sezione lavoro
della Cassazione, risulta sanzionato invece il confinamento in “forzata
inattività” di un lavoratore con qualifica di quadro, deliberatamente non
utilizzato dall’azienda dopo l’ordine di reintegra giudiziale dichiarativo
dell’illegittimità del precedente licenziamento. In buona sostanza, l’azienda,
dopo aver riammesso formalmente in organico il lavoratore, lo aveva lasciato
nella più completa inattività, dimostrando una indisponibilità sostanziale
verso la decisione del magistrato e l’intendimento
di sanzionare ritorsivamente questa reintroduzione
coatta del lavoratore in azienda. Il lavoratore aveva adito
il Pretore di Firenze (che aveva disposto una liquidazione equitativa
del danno arrecato alla dignità
e personalità morale del lavoratore, tramite la mancata utilizzazione
professionale in concreto, evidentemente a seguito di risoluzione del rapporto
di lavoro cui il dipendete sgradito si era determinato non certo
volontariamente!), poi la questione era passata al vaglio del Tribunale (che
ne aveva riconfermato le statuizioni) ed infine giunta in Cassazione.
Qui i giudici della S. corte riconfermano la correttezza delle
conclusioni raggiunte nei precedenti gradi del giudizio ed affermano principi
– sui quali ci intratterremo in prosieguo – di indubbia rilevanza, in
linea con quanto già da noi sostenuto in due note (“Il
carattere immanente del danno da dequalificazione”, nota a Cass.,
sez. lav., 18 ottobre 1999, n. 11727, in Lavoro e previdenza Oggi
12/1999, p. 2347 e in “Demansionamento per esproprio di competenze,
aziendalmente legittimato”, nota a Pret. Roma 1 aprile 1999, ibidem
, 6/2000, p. 1246). Ancora per comprensione del lettore
riferiamo la massima (non
ufficiale ma da noi elaborata) di Cass. n. 14443/000 che così si esprime: “Il
demansionamento professionale dà luogo ad
una pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità
economica del lavoratore. Non solo viola lo specifico divieto di cui all’art.
2103 c.c., ma costituisce offesa
alla dignità professionale del
prestatore intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità nel
contesto lavorativo (in cui si sostanzia il danno alla dignità del
lavoratore, bene immateriale per eccellenza) e quindi
lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della
personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il
pregiudizio conseguente incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato,
con indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento
e di valutazione anche equitativa (Cass. 18.10.99, n. 11727). L’affermazione
di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un
diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a
carattere immateriale, in qualche modo supera ed integra la precedente
affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore
potesse dar luogo a risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell’effettiva
sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. le sentenze 11.8.98, n 7905;
4.2.97, n. 1026 e 13.8.91, n. 8835).
Va
invece dimostrato il concreto pregiudizio qualora si adduca addizionalmente
una lesione della professionalità in senso obiettivo, sciolta da ogni
riferimento alla dignità del lavoratore ed intesa nel senso di perdita di
occasioni concrete di progressione lavorativa (migliori occasioni di
collocazione lavorativa all’esterno e di avanzamento in carriera all’interno).
Ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale (art. 2059
c.c.), l’inesistenza di una pronuncia del giudice penale, nei termini in cui
ha efficacia di giudicato nel processo civile a norma degli artt. 651 e 652
c.p.p., comporta che il giudice civile possa accertare
‘incidenter tantum’ l’esistenza del reato – nel
caso di ingiuria, riscontrato insussistente in sede di merito (n.d.r.)-
nei suoi elementi obiettivi e soggettivi, individuando l’autore,
procedendo al relativo accertamento nel rispetto dei canoni della legge penale
(cfr. ex multis Cass. 14.2.2000, n. 1643)”.
Ad identiche conclusioni, in ordine all’immanenza del danno da
dequalificazione, sono pervenute
successivamente Cass. 7 luglio 2001, n. 9228 (cfr. nt.3) e Cass. 23 ottobre
2001, n. 13033, la prima attinente al confinamento in “inattività
decennale” di un giornalista della Rai; la seconda relativa alla ritorsione
aziendale della soc. Fiorucci che aveva reagito all’ordine di reintegra di
un lavoratore (ingiustamente licenziato) svolgente in precedenza mansioni di
“progettazione ed allestimento degli stands promozionali” dell’azienda
in Italia ed all’estero, destinandolo al rientro forzato in azienda a
mansioni di semplice manovalanza (carico e scarico merci e confezionamento
salsicce).
Nella decisione n. 9228/2001, la massima dispone: “Non è
né arbitraria né illogica, in quanto basata su dati di comune
esperienza, l’opinione del Tribunale che ha ritenuto sussistente il danno da
demansionamento di un giornalista (lasciato pressoché inattivo per 10 anni)
sulla base della considerazione che la professionalità si autoalimenta nell’esercizio
costante della professione e nell’aggiornamento insito nella
stessa, così implicitamente affermando che, nel caso di mancato
esercizio, le capacità professionali ineluttabilmente si immiseriscono, con
un danno certo anche se determinabile in via equitativa. Neppure appare privo
di concretezza il ricorso in via parametrica alla (metà della) retribuzione
per la determinazione in termini quantitativi del danno, posto che,
indubbiamente, non può negarsi che elemento di massimo rilievo nella
determinazione della retribuzione è il contenuto professionale delle mansioni
sicché essa costituisce, in linea di massima, espressione (per qualità e
quantità, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione) anche del contenuto
professionale della prestazione, nel caso in esame, concretamente non
accettata dall’azienda (e tuttavia egualmente retribuita come se fosse stata
eseguita). Se, dunque, il demansionamento
non cagionò danno sul piano retributivo, l’entità della retribuzione ben
poteva essere assunta, nell’ambito di una valutazione necessariamente
equitativa, a parametro del danno da impoverimento professionale derivato dall’annientamento
delle prestazioni proprie della qualifica”.
Nella
successiva e recentissima Cass. n. 13033 del 2001, la suprema Corte, in
consonanza con i propri precedenti, dopo aver dichiarato spettante al
lavoratore (declassato al confezionamento salsicce) 70 milioni di lire (per
danno alla professionalità), afferma espressamente che: “…il
demansionamento del lavoratore produce un danno in sé in quanto non solo
viola il divieto posto dall’art. 2103 c.c., ma dà luogo ad una pluralità
di pregiudizi solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del
dipendente e costituisce anche una lesione del diritto fondamentale alla
libera esplicazione della propria personalità nel luogo di lavoro. Al
pregiudizio determinato da tale lesione, che incide sulla vita professionale e
di relazione dell’interessato, va riconosciuta un’indubbia dimensione
patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione
equitativa anche nell’ipotesi in cui venga a mancare la dimostrazione di
effettive conseguenze negative sul piano economico”.
Conforme
la decisione di Cass. 2 novembre 2001, n. 13589 (est. De Matteis, in
causa tra un dirigente lasciato inattivo per 18 mesi dalla Breda Progetti e
Costruzioni Spa) in cui al confinato in inoperosità sono stati riconosciuti
98 milioni per risarcimento di danno alla professionalità,
respingendo la pretesa aziendale della prova del pregiudizio
patrimoniale dal parte del dirigente, sulla base della (oramai consolidata) motivazione secondo cui
“…il danno da demansionamento professionale ha una indubbia dimensione
patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche
equitativa, in quanto la dequalificazione professionale di un lavoratore non
solo viola lo specifico divieto posto dall’art. 2103 cod. civ., ma ridonda
in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro”. Nello stesso
senso, successivamente, Cass. 14
novembre 2001, n. 14189 che –
sulla base dello stesso principio di diritto – ha risarcito in via
equitativa con 5 milioni e 600 mila il danno da dequalificazione per effetto
di spostamento da mansioni operaie di 3° livello (consistenti nella “determinazione
del consumo dei tessuti per il confezionamento di capi mediante segnatura su
carta dei modelli”) a quelle inferiori di “stiratrice”.
Più
articolata – tramite una approfondita disamina delle varie tipologie di
danno da dequalificazione ed inattività, consistenti in impoverimento
professionale, perdita di “chance” di reimpiego e/o di carriera, lesione
dell’integrità psicofisica o più in generale del diritto alla salute (a
seguito di sindrome da esaurimento), danno del diritto all’immagine o del
diritto alla vita di relazione – la decisione n. 14199 resa nello stesso
giorno 14 novembre 2001 (est. Celentano), che è giunta,
correttamente, ad affermare l’esistenza nell’ordinamento di un diritto del
lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione di lavoro, la
cui lesione costituisce inadempimento contrattuale da parte del datore di
lavoro e determina l’obbligo del risarcimento del danno professionale,
suscettibile di assumere uno o più di quegli aspetti (o tipologie) diverse
innanzi elencate.
Questo danno può assumere aspetti diversi. Innanzitutto può consistere nel danno patrimoniale derivante, in via diretta ed automatica, dalla dequalificazione, dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità (un danno molto evidente e grave nell'esercizio di alcune particolari professioni, soggette a una continua evoluzione e quindi bisognose di continui aggiornamenti), così come può consistere nella perdita addizionale, a seguito della minor qualificazione (conseguente a dequalificazione), di un maggior guadagno per privazione della possibilità per il lavoratore di sfruttare particolari occasioni di lavoro o, come preferiscono esprimersi alcune decisioni, nella perdita di chance.
Peraltro
il danno professionale potrebbe assumere anche aspetti non patrimoniali.
Potrebbe, ad esempio, costituire una lesione del diritto del lavoratore
all'integrità fisica (art. 2087 del c.c.) o, più in generale, alla salute
(art. 32 della Costituzione), quando la forzosa inattività, o l'esercizio di
mansioni inferiori, ha determinato nel lavoratore non soltanto un dispiacere,
una afflizione dello spirito rientrante tra i danni morali, ma una vera e
propria patologia psichica, come uno stato ansioso o una sindrome da
esaurimento (Cass. 16 dicembre 1992 n. 13299) e, secondo alcune decisioni,
potrebbe anche costituire una lesione del diritto all'immagine o del diritto
alla vita di relazione (Cass. 10 aprile 1996 n. 3341).
L'accertamento
della sussistenza e dell'ammontare del danno professionale o, meglio, delle
varie specie di danni, patrimoniali o personali, compresi in questa ampia
denominazione, è compito del giudice di merito e si risolve in una
valutazione di fatto incensurabile in sede di legittimità se correttamente
motivata".
Consolida
l’orientamento in tema di automaticità del danno alla professionalità –
giacché demansionamento e inattività forzata implicano un immanente
immiserimento della professionalità e lesione del diritto all’autorealizzazione
nel lavoro – Cass. 2 gennaio 2002, n. 10, secondo cui:
“Il comportamento del datore di lavoro che lascia un lavoratore in
condizioni di inattività per lunghissimo tempo non solo viola la norma di cui
all’art. 2103 c.c., ma lede il fondamentale diritto al lavoro, inteso
soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun
cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente,
ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche
della qualifica di appartenenza.
La
dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di
manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto
lavorativo, è un bene immateriale per eccellenza e la sua lesione produce
automaticamente un danno (non economico ma comunque) rilevante sul piano
patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore),
determinabile necessariamente solo in via equitativa.
Tale statuizione è conforme alla ricostruzione del danno da
demansionamento professionale data dalla giurisprudenza di legittimità nella
sua più recente evoluzione. In diverse, significative, pronunce questo
giudice ha, infatti, rilevato che la modifica "in peius" (ovvero la
negazione o l’impedimento) delle mansioni dà luogo ad una pluralità di
pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del
lavoratore. Infatti il demansionamento non solo viola lo specifico divieto di
cui all’articolo 2103 c.c., ma ridonda in lesione del diritto fondamentale
alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di
lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di
relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che lo
rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa
(Cass. 11727/99, 14443/00). L’affermazione di un valore superiore della
professionalità, direttamente collegato a un diritto fondamentale del
lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in
qualche modo supera e integra la precedente affermazione che la mortificazione
della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo
ove venisse fornita la prova dell’effettiva sussistenza di un danno
patrimoniale (cfr. le sentenze 7905/98, 1026/97,3686/96 e 8835/91). Prova,
viceversa, che, secondo le ricordate pronunce, rimane necessaria per quanto
riguarda l’eventuale danno materiale, il pregiudizio economico cioè subito
dal lavoratore anche in termini di guadagno non conseguito per effetto della
perdita di concreti vantaggi necessariamente legati allo svolgimento delle
mansioni negate”.
2.
Le certezze raggiunte in dottrina ed in giurisprudenza sul danno da
demansionamento
Nella
tematica della dequalificazione, soggetta ad oscillazioni (sia pure su aspetti
secondari quali quelli dei parametri per la liquidazione equitativa del danno)
conviene fissare le certezze raggiunte.
Partendo
da Cass. n. 13299 del 16 dicembre 1992 (4), ricollegandoci a Cass. n. 11727
del 18 ottobre 1999 (5) fino alle più recenti decisioni n. 14443 del 6
novembre 2000 (cfr. nt.2), n. 9228 del 7 luglio 2001 (cfr. nt.3), n. 13033 del 23 ottobre 2001 (6), n. 13580 del 2 novembre
2001 (7), nn. 14189 e 14199 del 14 novembre 2001 (8), n. 10 del 2 gennaio
2002 (8 bis) – e tenendo a mente i numerosi giudicati di merito
(da ultimo Trib Treviso 13 ottobre 2000 (cfr.nt.1)
- si può dire che si sono
raggiunte le seguenti certezze:
a)
la dequalificazione (sia
essa per lottizzazione, id est
per far posto ad altri appartenenti ad aree politiche diverse o si
realizzi per i più diversi motivi)che occasioni da parte datoriale il mancato
rispetto delle obbligazioni assunte (da eseguire secondo correttezza e
buona fede ex artt. 1175 e 1375
c.c.) e quindi la violazione del
principio giuridico codificato nell’art. 2103 c.c. di assegnazione del
lavoratore alle mansioni pattuite o ad altre professionalmente equivalenti,
determina un vulnus
alla dignità del lavoratore ed alla sua personalità morale, al suo diritto
alla realizzazione delle proprie aspettative nell’ambito dell’attività
lavorativa in funzione delle quali ha instaurato un rapporto di lavoro.
Tale vulnus
- immanente al danno da
demansionamento, cioè a dire “ in re ipsa”
e, come tale, non necessitante di prova di pregiudizio economico - occasiona
responsabilità da inadempimento del debitore ex art. 1218 c.c., liquidabile
dal giudice adito anche in via equitativa ex art. 1226 c.c. Il comportamento contra
legem è
lesivo dell’art. 2 Cost (che fissa il diritto al rispetto della personalità
dell’uomo nella complessità ed unitarietà delle sue componenti e nelle
varie sedi o formazioni sociali di
svolgimento, concretante di
per sé una posizione di diritto
soggettivo, così Cass. 1° sez. civ., n. 3769/1985) nonché dell’art. 41,
comma 2°, Cost (che vieta alla
libertà di impresa di “recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”). Quando
la dequalificazione è posta in essere per motivi “pravi” (lottizzazione,
motivi antisindacali, discriminazioni di vario tipo) essa è anche lesiva dell’art.
1 Cost. – oltrechè dell’art. 15 Stat. lav. -
che pone a base della convivenza civile nello Stato i
“principi democratici e
lavoristici”, in tal modo precludendo in linea di principio che la
valutazione e l’apprezzamento professionale del lavoratore si dispieghi
secondo criteri diversi da quelli costituiti
dalle “qualità professionali e personali e
dai meriti di lavoro”
(così, Cass. n. 13299/1992, cit).
In
tal senso, inequivocabilmente, Cass.
n. 13299/1992 secondo cui: “ …il vulnus
alla personalità ed alla
libertà del lavoratore… contiene necessariamente, oltre che la
potenzialità del danno, una inseparabile carica di effettività (senza che
ciò significhi ricorso a presunzioni) per la diminuzione del patrimonio
professionale, anche ai fini dell’ulteriore sviluppo di carriera, del
lavoratore ingiustamente rimosso dalle mansioni corrispondenti alla sua
qualifica”. Parimenti Cass. n. 11727/1999 che – nell’accogliere
la tesi della difesa del lavoratore secondo cui il giudice di merito aveva
generalizzato il principio dell’onere della prova a carico del lavoratore
anche alle violazioni della professionalità
mentre l’onere probatorio era da ritenersi ristretto alla fattispecie
del danno biologico – ha asserito: “E’
illegittimo il disconoscimento del risarcimento del danno patrimoniale da
accertata dequalificazione professionale, per non aver il lavoratore fornito
la prova di un contenuto economicamente apprezzabile del danno medesimo o di
elementi implicanti un vulnus
alla sua personalità, alla sua
vita di relazione, alla sua immagine professionale e sociale, alle sue
aspettative di promozione e di carriera. Infatti il danno da demansionamento
professionale si risolve (e si sostanzia di per sé)
in un effettivo, concreto e inevitabile ridimensionamento dei vari
aspetti della vita professionale del lavoratore, ridimensionamento che
costituisce, a sua volta, un bagaglio peggiorativo diretto ad interferire
negativamente nelle infinite espressioni future dell’attività lavorativa.
La dequalificazione contiene necessariamente, oltre che la potenzialità del
danno, una inseparabile carica di effettività (senza che ciò significhi
ricorso a presunzioni) per la diminuzione del patrimonio professionale, anche
ai fini dell’ulteriore sviluppo di carriera, del lavoratore ingiustamente
rimosso dalle mansioni corrispondenti alla sua qualifica, danno che
deve essere risarcito dietro valutazione del giudice che - ricorrendone
le condizioni – potrà procedere anche con il criterio equitativo ex art.
1226 c.c.” Nello stesso
senso Trib. Roma (sez. lav., 1° grado) del 4 aprile 2000 (est. Buonassisi,
Bellumori c. Telecom SpA (9), secondo cui: “Il
demansionamento, inteso quale privazione delle mansioni o svuotamento del loro
contenuto, costituisce un danno in sé,… Gli stessi principi non possono
essere estesi al danno biologico, o alla salute, rispetto ai quali è il
lavoratore a dover provare in modo specifico il danno subito e il nesso
causale con la condotta datoriale” (10).
Nel senso dell’immanenza del danno da dequalificazione ancora Trib Treviso
13 ottobre 2000, cit., secondo cui: “Entrambe
le prime due voci di danno (alla personalità morale e alla professionalità
da demansionamento) sono intrinseche e conseguenziali al demansionamento
secondo “l’id quod plerumque accidit” ed hanno una dimensione
patrimoniale che le rende suscettibili di risarcimento e di valutazione anche
equitativa (cfr. Cass. n. 11727/99)”.
Ed
ancora Cass. n. 14443/2000 anch’essa espressasi
per l’immanenza del danno da demansionamento, sulla base dell’argomentazione
per cui: “L’affermazione di un valore superiore della professionalità,
direttamente collegato ad un diritto fondamentale del lavoratore e costituente
sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera ed
integra la precedente affermazione che la mortificazione della
professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove
venisse fornita la prova dell’effettiva sussistenza di un danno patrimoniale
(cfr. le sentenze 11.8.98, n 7905; 4.2.97, n. 1026 e 13.8.91, n. 8835); ad
essa si conformano poi, nell’anno in corso,
Cass. n. 9228/2001 secondo cui:” ...le capacità professionali
– in caso di inattività – ineluttabilmente si immiseriscono, con un danno
certo anche se determinabile in via equitativa” nonché Cass.
n.13033/2001 (nonché Cass. n. 13580 e Cass. nn. 14189 e 14199/2001)
laddove asserisce espressamente che “…il demansionamento…produce
un danno in sé…che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione
equitativa anche nell’ipotesi in cui venga a mancare la dimostrazione di
effettive conseguenze negative sul piano economico”; ad esse si aggiunge
Cass. n. 10 del 2 gennaio 2002, laddove afferma che “…La dignità
professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la
propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, è un bene
immateriale per eccellenza e la sua lesione produce automaticamente un
danno (non economico ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua
attinenza agli interessi personali del lavoratore), determinabile
necessariamente solo in via equitativa”;
b)
tuttavia il danno da demansionamento non si indirizza solo su di un bene
immateriale quale “la dignità e le personalità morale del lavoratore”,
ma lede il bene concreto della professionalità, nella forma del mancato
utilizzo delle conoscenze pregresse acquisite e del loro ulteriore
perfezionamento conseguente alla loro estrinsecazione nella prestazione
lavorativa. E’ comune acquisizione che alla “sottoutilizzazione” o ancor
peggio alla “forzata inattività” si accompagna – automaticamente e
senza necessità di prova - degrado
di professionalità e non certo utilizzazione ed accrescimento della stessa,
quale postulato dall’art. 2103 c.c., nella consolidata interpretazione
giurisprudenziale elaborativa della nozione di “equivalenza”.
Questo
intuitivo concetto (oramai acquisito al patrimonio dell’orientamento
consolidato della stessa
Cassazione: cfr. per tutte, Cass. n. 9228/2001) viene per la prima volta
significativamente espresso da Pret. Milano 21 gennaio 1992 (11), secondo il
quale: “l'impossibilità di svolgere
il lavoro per il quale si è idonei, comporta un decremento o, quanto meno, un
mancato incremento della professionalità, intesa come l'insieme delle
conoscenze teoriche e delle capacità pratiche che si acquisiscono da parte
del lavoratore con il concreto esercizio della sua attività lavorativa. La
tesi (della convenuta società, n.d.r.)
circa l'inesistenza di un danno, nel caso specifico, poiché il ricorrente
avrebbe potuto aggiornarsi nelle materie legali anche in mancanza di attività
lavorativa, leggendo e studiando le pubblicazioni del settore...non può
essere condivisa. E infatti la professionalità di un lavoratore intellettuale
dipende ed è costituita non solo dalle
nozioni teoriche ma dalle capacità applicative delle stesse nella prassi
lavorativa; essa si forma nel rapporto con le esigenze tecniche poste dalla
pratica quotidiana e non certo ipotizzabili in termini astratti e teorici e
viene stimolata ed incrementata dall'attività di soluzione delle evenienze
che di volta in volta si pongono. Consegue a ciò che l'assenza del lavoro
priva il lavoratore della possibilità di utilizzare e valorizzare la sua
professionalità, determinandone l'impoverimento; ed, al tempo stesso, ne
impedisce la crescita. In tale prospettazione è evidente che la forzata
inattività dal lavoro determina per il lavoratore un pregiudizio al suo
bagaglio professionale, che si traduce in un danno patrimonialmente
valutabile"(12). E che la professionalità
in concreto sia danneggiata dal demansionamento e, pertanto, necessiti anch’essa
di risarcimento lo si desume da Trib. Treviso 13 ottobre 2000, laddove il
magistrato liquida tale danno
secondo il parametro della retribuzione mensile (assunta nel 50% dell’importo)
in congiunzione con il risarcimento del vulnus alla personalità morale
(equitativamente fissato in £.500 mila al mese per ogni mese di
demansionamento);
c)
è anche pacifico orientamento giurisprudenziale quello
secondo il quale “per la determinazione equitativa del danno alla
professionalità si deve tener conto della
retribuzione mensile e del protrarsi nel tempo della dequalificazione, poiché
il danno cresce secondo una linea di sviluppo progressiva, correlata
sostanzialmente al decorso del tempo…”(ex plurimis,
Pret. Milano 9 aprile 1998 (13). Con
ciò si vuol dire che più a lungo si è protratta la dequalificazione,
maggiore è il danno, così come
maggiore è il danno da “non utilizzazione o forzata inattività” rispetto
a quello da “sottoutilizzazione”, derivante
dalla sottrazione solo di taluni compiti qualificanti
ma senza confinamento nella totale, più avvilente e più
professionalmente pregiudizievole inedia lavorativa.
3.
Considerazioni sull’affermazione (operata da Cass. n. 14443 del 2000) di
un presunto onere probatorio della lesione alla c.d. professionalità
oggettiva (costituita da perdita di chances endoaziendali ed extraziendali)
Attenzione – anche se non condivisione, per cui si attende una addizionale riflessione della S. corte sul punto – merita il “distinguo” operato da Cass. n. 14443 del 2000, in qualche modo riaffermato (non con altrettanta chiarezza) da Cass. n. 10/2002, laddove la prima decisione sostiene che il danno alla professionalità intesa in senso obiettivo (slegata cioè dal vulnus alla dignità umana e strutturata dagli addotti pregiudizi alle occasioni o chances di migliore collocazione esterna o di progressione di carriera all’interno) deve essere, invece, provato nel suo pregiudizio patrimoniale dal lavoratore. Questo danno, secondo tale decisione, non sarebbe immanente ma soggetto all’onere probatorio ex art. 2697 c.c. Ora è intuitivo – e le precedenti decisioni n. 13299/1992 e n. 11727/1999 l’avevano detto espressamente – che il danno alla professionalità, sotto forma di decremento od obsolescenza del patrimonio professionale di nozioni ed esperienza acquista si riflette “automaticamente” in negativo sulle opportunità di reperimento di nuova occupazione all’esterno e di avanzamento di carriera all’interno. Ed anche questi pregiudizi sono immanenti secondo l’id quod plerumque accidit (per usare la dizione di Trib. Treviso 13 ottobre 2000, cit). Ma evidentemente la S. corte, dopo aver compiuto il primo tragitto sul sentiero della “immanenza” al demansionamento del danno equitativamente risarcibile, non se l’è sentita di compierlo fino in fondo, estendendo il riconoscimento del danno “in re ipsa” anche agli addotti pregiudizi di carriera o di occasioni di lavoro all’esterno e ne ha, con un atteggiamento frenante e restrittivo, preteso la dimostrazione. Dal lato “politico” o metagiuridico – in un percorso di graduale progressione verso lo sganciamento dei danni risarcibili da oneri probatori diabolici a carico del lavoratore - può essere anche in un certo qual modo comprensibile che, di fronte all’affermazione del lavoratore che il danno alla professionalità per colpa datoriale abbia anche comportato una mancata progressione di carriera, la S. corte abbia ritenuto che sia onere del lavoratore (quando non concludentemente risaltante da fatti di indubbia significatività quali l’obiettiva ed incontestata evidenziazione o riscontro, per allegazione nel ricorso, che i colleghi del pretermesso erano avanzati in carriera con ben altra accelerazione rispetto alla staticità o ibernazione o ai superiori tempi di avanzamento del demansionato, specie quando la progressione di carriera non sia lasciata alla incondizionata discrezionalità dell’azienda ma sia la risultante di valutazioni per merito comparativo o secondo procedimentalizzazione contrattuale) dimostrare, integrando la realistica presunzione, che se non fosse stato oggetto del comportamento emarginante sarebbe progredito in carriera come gli altri (o più degli altri) colleghi. Così, nello stesso modo e sempre dal versante metagiuridico, si può anche comprendere che non si possa automaticamente accedere alla richiesta risarcitoria di mancate opportunità di nuove occasioni di lavoro esterno se non si è data in qualche modo la prova di averle sperimentate tentativamente: certo è che non bisogna giungere alla trasformazione di quest’onere in “probatio diabolica” per il lavoratore, quale potrebbe risultare quella di pretendere che un demansionato, per dimostrare la sua non ricollocabilità all’esterno, si debba far rilasciare da un’azienda (o da una società di selezione) cui si è presentato per una nuova occupazione l’attestazione dell’essere stato scartato o ricusato per “obsolescenza” da demansionamento posto in essere dal pregresso datore di lavoro. Chi mai, quando mai, e perché mai un terzo estraneo dovrebbe rilasciare un’attestazione o testimonianza similare?
Ciò
detto, proprio per questo, l’atteggiamento “frenante” (auspicabilmente
temporaneo perchè “in progress”o in via di superamento graduale) della S. corte,
merita le nostre censure dal lato strettamente giuridico, giacchè non
si può ragionare con il metro transattivo dell'«aliquid datum, aliquid
retentum».
La “chance”,
poi, è intrinsecamente una probabilità
ed il suo risarcimento non è notoriamente corrispondente al 100% del
danno da mancata promozione ma alla (solitamente minore) percentuale (30%, 60% e simili del differenziale
retributivo fra la categoria rivestita e quella superiore cui non si è stati promossi) di probabilità che il dipendente non
promosso avrebbe avuto se non fosse stato oggetto di deliberata o oggettiva
trascuratezza. La Cassazione
nella decisione n. 12706 del 16 dicembre 1997 ha stabilito che : «nel caso
di illegittima esclusione di un lavoratore da una valutazione comparativa ai
fini di una promozione, per ottenere il risarcimento del danno egli deve
provare che gli altri candidati, ammessi alla valutazione, avevano possibilità
di vittoria non distanti dalle
sue. Ove il lavoratore escluso non sia in grado di provare che
dall’inadempimento del datore di lavoro sia derivata la sua mancata
promozione, egli non potrà ottenere un risarcimento del danno commisurato
all’intera perdita della maggiore retribuzione connessa alla qualifica non
conseguita, ma soltanto il risarcimento per perdita di “chances”
commisurabile alla probabilità di conseguire il risultato utile e
determinabile in base al parametro delle retribuzioni percipiende, con un
coefficiente di riduzione, oppure con giudizio di equità».
Si
vuole dire, in sostanza che la S. corte avrebbe dovuto (o dovrebbe, nel
prossimo futuro) tener conto dell’esatta affermazione di principio operata
da Cass 13299/92 (reiterata dalle successive, tra cui Cass. n. 11727/99),
secondo cui la dequalificazione possiede una «inseparabile carica di
effettività …per la diminuzione del patrimonio professionale, anche ai fini
dell’ulteriore sviluppo di carriera, del lavoratore ingiustamente rimosso
dalle mansioni corrispondenti alla sua qualifica. Quindi il danno va
risarcito…». In carenza di prova, sul punto e nell’ambito specifico
della perdita di “chances” promotive o di opportunità di ricollocazione
esterna sul mercato per effetto di subita obsolescenza (sottoposte a “probatio
diabolica”), siccome la legge non preclude il ricorso agli “indizi”
o “presunzioni” (cfr. Cass.
n. 5045/90; Cass. sez. lav. 16 maggio 2000, n. 6366, Cass.
sez. un. 30 giugno 1999, n. 379, Cass. sez. lav. 2 ottobre 1999, n.
10962) - quando possiedono le
caratteristiche dell’essere
gravi, precise e concordanti –
la S. corte avrebbe dovuto
pacificamente legittimarle, come in
altre molteplici occasioni (di cui sono espressioni le precitate sentenze) e
come avviene più spesso nella giurisprudenza di merito che si richiama al
brocardo dell’ «id quod plerumque accidit». Le presunzioni
costituiscono uno dei mezzi di prova affidati alla “prudenza” del giudice,
legittimate dal codice nel processo del lavoro e nel processo civile –
tant’è che sono state utilizzate nel ben più delicatissimo campo della paternità
naturale (cfr. Cass. 1° sez. civ. n. 5333/1998 e
Cass. 2008/2001 che ha
dato rilevanza ai suddetti fini ad elementi concludentemente indiziari) -
in specie su eventi o danni a connotazione intrinsecamente
probabilistica (quali, nel caso nostro la perdita di “chance” promotiva e
di ricollocazione esterna impedita da obsolescenza per demansionamento
massiccio).
Come asserisce Cass. 16 maggio 2000, n. 6366 –
in tema di licenziamento discriminatorio desunto per concordanti
presunzioni - vi sono prove ardue
o diaboliche da superare dal lavoratore e «proprio per
temperare tali effetti, da tempo la giurisprudenza ammette che in simili
fattispecie l'indagine istruttoria del giudice utilizzi pienamente i poteri
conferitigli dall'art. 421 codice di procedura civile, facendo ampio ricorso
alla prova per presunzioni di cui agli articoli 2727-2729 codice civile. In
base all’art. 421 cod. proc. civ., nel processo del lavoro il giudice può
disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di
prova, anche fuori dai limiti stabiliti dal codice civile. Le presunzioni sono
la conseguenza che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto
ignoto». Secondo il
corretto insegnamento della Cassazione esplicitato in maniera illuminante in
Cass. n. 5333/1998: «nella prova per presunzioni, ai sensi dell’art.
2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto (nel
caso nostro la perdita di “chance” promotiva, n.d.r.) sussista un
legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il
fatto da provare possa essere desunto dal fatto noto (costituito, nel caso
nostro,dal massiccio demansionamento coniugato all'evidenziazione al
magistrato, possibilmente in termini di raffronto statistico idoneo a farne
risaltare la percentuale, della consistenza della progressione di carriera dei colleghi
invece mantenuti nelle stesse
mansioni o in mansioni professionalmente equivalenti a quelle del
demansionato e non da esse rimossi o ad esse sottratti, n.d.r.) come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un
criterio di normalità, ossia che il rapporto di dipendenza logica tra il
fatto noto e quello ignoto venga accertata alla stregua dei canoni di
probabilità», con la precisazione (operata dalla stessa decisione) che «l’apprezzamento
del giudice di merito circa l’inesistenza degli elementi assunti a fonte
della presunzione e la loro
rispondenza ai requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla
legge, non è sindacabile in sede di legittimità, salvo che risulti viziato
da illogicità o da errori nei criteri giuridici».
Nel campo del lavoro vi sono
molteplici esempi in cui la Cassazione è ricorsa alle presunzioni: tra le
molte decisioni si ricordano le più recenti costituite da Cass. 16 maggio
2000 n. 6366 (riconoscimento di natura discriminatoria di un licenziamento
apparentemente giustificato), Cass. 2 ottobre 1999, n. 10962 (riconoscimento
per presunzioni concordanti della fattispecie del trasferimento d’azienda),
Cass. sez. un. 30 giugno 1999, n. 379 (accertamento della subordinazione
mediante valutazione globale di indizi precisi, gravi e concordanti), Cass. 24
ottobre 2001, n. 13321 (riconoscimento per presunzioni della perdita di
“chance” promotiva ad un lavoratore ingiustificatamente escluso da un
corso di addestramento, implicante la promozione di altri partecipanti).
Concludendo, sul tema del danno alla professionalità – ivi incluso quello “riflesso” e logicamente consequenziale della mancata progressione di carriera a differenza dei colleghi in pari o professionalmente equivalenti mansioni, di pari anzianità di servizio e/o inquadramento iniziale – la valutazione risarcitoria dovrà essere rispondente all’effettività dei danni subiti e tutto si giocherà sul buon senso, in dipendenza ed attraverso le misure che il magistrato utilizzerà, con metro equitativo, per “quantificare” il risarcimento del danno alla professionalità (anche nella componente riflessa della mancata progressione di carriera e della perdita di chance per ricollocazione esterna da obsolescenza, nei casi di forzata inattività di una certa durata o demansionamento massiccio), alla dignità, alla personalità morale, all’immagine, alla reputazione del lavoratore demansionato, all’esterno e all’interno dell’azienda. Sarà pertanto il giudice – da una parte tenendo conto delle c.d. componenti indiscutibilmente immanenti del danno alla professionalità per violazione di diritti inviolabili della personalità, dall’altro delle considerazioni e circostanze concludentemente probanti per rispondenza al fatto notorio, fondatezza e realismo (ex art. 2729 c.c.) – che dovrà calibrare la misura risarcitoria del danno, la cui quantificazione dovrà essere altresì intrinsecamente dotata di un sostanzioso e tangibile carattere di “deterrenza” o “dissuasività” dalla reiterazione. La misura risarcitoria cioè dovrà essere improntata di idoneità a scoraggiare il ripetersi o perpetuarsi del comportamento emarginante, lesivo e contra legem [(allo scopo graduandola caso per caso, tenendo anche opportunamente presente il principio codificato nell’art. 26, comma 2°, c.p. – gia utilizzato nell’art. 38 Stat. lav. – in ordine alla presumibile inefficacia della (indiretta) sanzione pecuniaria in ragione della capacità di resistenza economica dell’azienda, desumibile dal capitale sociale o da indici similari di consistenza economica e significativa presenza sul mercato)]. I nostri giudici si devono allineare ai loro colleghi anglosassoni nel conferire la giusta valenza alle lesioni dei diritti fondamentali ed inviolabili della personalità, in modo tale da non consentire ulteriormente di farci imbattere in cifre risarcitorie dell’ordine dei 10 milioni come si è letto nelle recenti ed isolate sentenze del Tribunale di Torino del 16 novembre 1999 (14) e del 30.12.1999 (in diritto identica alla precedente) in tema “anti mobbing”, perché non è certo questa la strada per realizzare l’obiettivo della dissuasione dei comportamenti vessatori, discriminatori ed emarginanti dei prestatori di lavoro ad essi (quasi impunemente) sottoposti e per ristorare equitativamente il danno da perdita o abbandono (non certo volontario) del bene del posto di lavoro.
4. Le condizioni di risarcibilità
del danno biologico e del danno morale
Anche
sul fronte del risarcimento del danno biologico e del danno morale si sono
raggiunte oramai certezze, per effetto di orientamenti consolidati. Il danno
alle lesioni dell’integrità dello stato di salute – conseguente a
pratiche di demansionamento, di mobbing, di bossing, e simili – è
risarcibile dietro dimostrazione non solo della sussistenza del danno, anche
nella sua entità specifica, ma principalmente del nesso di causalità o di
concausa dalle pratiche afflittive e contra legem datoriali.
Relativamente
al danno morale, si è poi raggiunta la conclusione che - nell’attuale
contesto normativo in cui lo stesso viene risarcito solo in quanto conseguenza
di una condotta costituente reato, ai sensi dell’art. 2059 c.c. – anch’esso
necessità di prova concreta e dell’accertamento della sussistenza del reato
(di norma quello di lesioni
personali ex art. 582 c.p. o di lesioni personali colpose ex art. 590 c.p.,
non escludendosi la possibile ricorrenza dell’abuso d’ufficio ex art. 323
c.p. e la violenza privata ex
art. 610 c.p.), allo scopo considerandosi
pienamente legittimato – in assenza di giudicato penale – il
giudice civile, come riconferma l’odierna Cass. n. 14443/2000, laddove
asserisce che: “Ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale (art.
2059 c.c.), l’inesistenza di una pronuncia del giudice penale, nei termini
in cui ha efficacia di giudicato nel processo civile a norma degli artt. 651 e
652 c.p.p., comporta che il giudice civile possa accertare
‘incidenter tantum’ l’esistenza del reato nei suoi elementi
obiettivi e soggettivi, individuando l’autore, procedendo al relativo
accertamento nel rispetto dei canoni della legge penale (cfr. ex multis Cass.
14.2.2000, n. 1643)”.
In
tal senso sia la dottrina sia la
giurisprudenza sono pacifiche, dopo l’abbandono del principio di preminenza
dell’azione penale sulla civile, e per la legittimazione del giudice civile
(del lavoro) all’autonomo riscontro del reato, si citano – in sede di
legittimità ed in aggiunta a Cass. 14.2.2000, n. 1643 -
in ordine cronologico, Cass. 6.2.1990, n. 817 (15), Cass. 7.5.1997 n.
3992 e 27.2.
1996
n. 1501 (16), Cass. 13.5.1997, n. 4179 (17), Cass. 20.4.1998, n. 4012 (18),
Cass. 20.10.1998, n. 10405 (19) che
con innegabile chiarezza ha anch’essa statuito: “Ai fini del risarcimento del danno morale, il giudice civile ha il
potere di accertare autonomamente se il fatto dannoso, dal quale trae origine
la pretesa risarcitoria, integri gli estremi di un reato, nonostante non sia
stata promossa l’azione penale nei confronti dell’autore materiale di
esso, ovvero il procedimento penale sia stato definito con una declaratoria di
estinzione del reato ovvero sia stato emesso un provvedimento di archiviazione
della notizia di reato o di proscioglimento istruttorio”.
Roma, agosto 2002
Mario Meucci
(già pubblicato, senza gli attuali aggiornamenti, in Lav. prev. Oggi, 12/2000, 2192)
NOTE
(1) In Lavoro e previdenza oggi 2000, n. 12,
2324.
(2) Ibidem 2000, n. 12, 2287.
(3) Cass. 2 gennaio 2002 n. 10, trovasi in Lav. prev. oggi, 2002, 379. Successivamente Cass. n. 10/2202 è stata pubblicata anche nelle due riviste delle associazioni imprenditoriali Confindustria e Abi, cioè rispettivamente in Mass. giur lav. 220, 430 (ed ivi 435, con nota della collaboratrice in sede universitaria Bruzzone) e in Not. giurisp. lav. 2002, 310 (con nota redazionale). Va segnalata la “singolarità”, in linea generale, delle annotazioni di collaboratori alle riviste possedute dalle organizzazioni imprenditoriali – valutate altresì in continuità con le precedenti sul tema - caratterizzate al fondo dal dover prendere atto “obtorto collo” dell’orientamento oramai affermato in nutrite decisioni di legittimità, in ordine alla immanenza del danno da dequalificazione (non necessitante di prove di pregiudizio patrimoniale a carico del lavoratore), sempre osteggiato da tali organizzazioni di tendenza con l’insistito richiamo alle (e la riproposizione anche in tale occasione delle) infelici e dichiaratamente superate decisioni di Cass. nn. 7905/98, 1206/97, 3686/96 e 8835/91. Decisioni, quest’ultime, rese peraltro in un ambiguo contesto di danno biologico congiunto a quello professionale - per cui l’onere probatorio di carattere generale costituiva un “trascinamento” di quello pertinente esclusivamente per il danno biologico - richiedenti irrealisticamente un onere probatorio vanificante, se generalizzato ad entrambi i tipi di danno, il diritto al risarcimento di un pregiudizio alla professionalità tanto scontato quanto praticamente indimostrabile dal lavoratore. Poiché la S. corte ha invece richiesto, ora, la sola dimostrazione dell’ulteriore danno alla c.d. professionalità oggettiva, conseguente a perdita di opportunità (chance) di progressione di carriera interna e di occasioni di ricollocazione all’esterno per subita obsolescenza (intuitiva, nel caso di forzata inattività) – danni che ben possono essere dal magistrato desunti concludentemente per allegazione, specie in contesti contrattuali di promozioni proceduralizzate per merito comparativo, del fatto che colleghi del “mobbizzato” nelle stesse mansioni sono progrediti invece in carriera a differenza di lui o sono avanzati in tempi mediamente più brevi – si riscontra negli annotatori delle riviste datoriali una tendenza a sottolineare per l’occasione, in via residuale ma a fini di enfatizzazione, l’affermazione di questo secondo “onere probatorio” a carico del lavoratore (anche se va dato obiettivamente atto che Bruzzone, pur peccando non venialmente di incompletezza con l’omissione dal riferire la componente critica del nostro pensiero sul punto specifico, conviene con noi sul rischio, che con questo nuovo onere, si giunga ad imporre a carico del lavoratore una reale “probatio diabolica”), onere sul quale la S. corte dovrà rimeditare marginalizzandolo, per evitare che anch’esso rientri nella specie degli “oneri impossibili”, vanificanti l’effettività del risarcimento di danni realisticamente subiti. E’ intuitivo che non si promuove chi si vuole “mobbizzare”e che quindi la mancata progressione di carriera è ascrivibile al solo comportamento vessatorio datoriale, con obblighi risarcitori ricavabili da semplici presunzioni (come detto in prosieguo nel testo dell’articolo) e comune buon senso per fatto notorio ex art. 115 c.p.c.
(4) In Riv. crit. dir. lav. 1993, 315.
(5) In Lavoro e previdenza Oggi, 1999, 2342.
(6-7-8-8 bis) Rispettivamente nel sito, sezione Articoli n. 83, 90 , 94. Cass. nn. 14189 è inedita mentre Cass. n. 14199 trovasi in Lavoro e previdenza oggi, 2002, 156.