Con il parto «quadrigemellare»
dell’11 novembre 2008 (sentenze gemelle nn. 26972, 26973, 26974, 26975) le
Sezioni unite della Cassazione (est. Preden), hanno tentato di fornire una
risposta all’ordinanza di remissione volta a dirimere il contrasto
giurisprudenziale al riguardo, che gli aveva posto 8 quesiti in tema di danno
esistenziale. In particolare chiedendole di esprimersi sulla sussistenza o meno
del danno in questione - quale autonoma categoria - nell’ambito del danno non
patrimoniale, accanto al danno biologico e morale.
Le pronunzie risultano
molto articolate ed affrontano la tematica della responsabilità civile sotto
diversi profili e punti di vista. Di seguito ne forniamo una sintesi piuttosto
piana per favorirne la comprensione da parte del lettore, con l’aggiunta di
talune nostre considerazioni.
2. Il danno non patrimoniale
In tema di
responsabilità risarcitoria dei danni è noto che il processo dottrinale e
giurisprudenziale susseguitosi era approdato al riconoscimento di due categorie
di danno: a) il danno patrimoniale (scisso nelle due componenti del danno
emergente e del danno da lucro cessante); b) il danno non patrimoniale,
articolato in tre sottocategorie, quella del danno morale, del danno biologico e
del danno esistenziale.
Interessa focalizzare
l’attenzione sul danno non patrimoniale, giacché in questo ambito si era venuto
a delineare nei tempi recenti un contrasto di giurisprudenza.
Prima dell’odierna
rilettura ad opera delle sentenze gemelle del novembre 2008, il danno morale era
identificato nella «sofferenza transitoria e transeunte» connessa alla lesione
di un proprio diritto; il danno biologico era individuato nel «danno inferto
allo stato di salute» cioè all’integrità psico-fisica, mentre il danno
esistenziale era identificato nella «modificazione peggiorativa della qualità
della vita e dei pregressi rapporti relazionali» in ambito sociale,
estrinsecandosi in un non facere come in precedenza sul versante areddituale(cioè in ambiti e attività scollegate dal
valore patrimoniale), conseguente direttamente dal danno
subito ed inferto dal danneggiante (meglio sarebbe dire alla «sofferenza
morale determinata da non poter più fare», precisano ora le Sezioni Unite
nella loro rilettura, lumeggiando così l’opzione di far confluire il vecchio
danno esistenziale nel danno morale da sofferenza).
Sul versante del danno
esistenziale si fronteggiavano due orientamenti:
a) quello secondo il
quale il pregiudizio alla serenità dell’esistenza ed al benessere della persona
che questo danno esistenziale mirava a risarcire – in quanto lesivo del diritto
al benefico svolgersi della quotidianità nei suoi aspetti familiari, di lavoro,
ambientali, ricreativi e relazionali – concretizzava un’autonoma categoria o
sottocategoria di danno (in seno alla macrocategoria del danno non
patrimoniale). Scopo di tale danno esistenziale era quello di risarcire danni
distinti e diversi sia dal danno biologico, in quanto non presupponeva una
lesione dell’integrità psico-fisica, sia dal danno morale, in quanto non risolventesi in un mero patema d’animo o sofferenza soggettiva interiore e
transitoria, ma destinato a compensare alterazioni pregiudizievoli ed anche
durature del pregresso, salutare, stile di vita. Danno consistente, secondo la
dottrina migliore, «nella
forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di
compiacimento o di benessere per il danneggiato, indipendentemente dalla
compromissione dell'integrità psico fisica»
(Cendon P., Non di sola salute vive l'uomo, Milano 1999).
Questo indirizzo faceva capo, in giurisprudenza, eminentemente a Cass. nn.
7713/2000, 9009/2001, 6732/2005, 1345/2006, 311/2007, S.U. n. 6572/2006.
b) quello secondo cui il
danno non patrimoniale, risarcibile ex art. 2059 c.c.nei soli casi
previsti dalla legge (tra cui rientrano, a seguito dell’interpretazione
costituzionalmente orientata che della suddetta norma codicistica ne hanno dato
le sentenze gemelle nn. 8827 e 8828/2003, i casi di lesione di diritti e valori
della persona costituzionalmente protetti), non poteva – a differenza del danno
patrimoniale ex art. 2043 c.c. – beneficiare del carattere
dell’atipicità, rinvenendosi invece in capo ad esso una caratteristica di
tipicità che ne circoscriveva e delimitava l’ambito risarcitorio. Con la
conseguenza che questo orientamento negava la natura generalizzante e aperta del
«danno esistenziale», quale invece era stato asserito dalla dottrina e dalla
giurisprudenza di supporto. Questa seconda impostazione negativa si rinveniva
in: Cass. nn. 15760/2006, Cass. 23918/2006, Cass. 9510/2006, Cass. 9514/2007,
14846/2007.
3. Le risultanze dell’intervento delle Sezioni Unite
Le Sezioni
Unite hanno risposto ai quesiti dell’ordinanza di remissione in ordine al cd.
«danno esistenziale», da un lato negando l'individuabilità di questa autonoma
sottocategoria, dall'altro affermando che vari tipi di danno, inclusi dalla
giurisprudenza nel concetto di «danno esistenziale», specificamente individuati,
sono risarcibili come «componenti» del danno non patrimoniale; in tal modo
riaffermando la bipolarità (danno patrimoniale – danno non patrimoniale) del
sistema della responsabilità civile, scivolato verso la frammentazione in più
voci o tipologie, ora ridimensionate e ricondotte a sole esigenze
nominalistico-descrittive, prive di un’autonomia loro propria. Il ragionamento
sviluppato dalle S.U. parte della conferma dell'orientamento ampliativo
espresso dalla Terza Sezione Civile della Suprema Corte nelle sentenze n. 8827 e
n. 8828 del 2003 secondo cui il danno non patrimoniale risarcibile in base
all'art. 2059 c.c. non è soltanto quello morale (inteso come sofferenza
contingente e transeunte) prodotto dal reato (a termini dell'art. 185 c. p.) ma
deve essere inteso nell'accezione più ampia di danno determinato dalla lesione
di interessi inerenti la persona, non connotati da rilevanza economica e
tutelati dall'art. 2 Cost. che riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell'essere umano. La Costituzione - ha affermato la Corte sin dal 2003 -
riconoscendo l'esistenza di diritti inviolabili della persona, non aventi natura
economica, ne esige la tutela e ciò comporta che la loro lesione debba essere
risarcita come danno non patrimoniale; pertanto l'art. 2059 cod. civ. laddove
prevede la risarcibilità dei danni non patrimoniali «nei casi determinati dalla
legge» deve essere interpretato nel senso che fra tali «casi» rientri la lesione
dei diritti della persona costituzionalmente garantiti. Nel concetto di danno
non patrimoniale risarcibile - hanno affermato ora le S.U. - rientrano tra
l'altro: il danno biologico; la lesione dei diritti inviolabili della famiglia
(da ravvisarsi nella perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di
morte o di procurata grave invalidità del congiunto); la violazione del diritto
alla reputazione, all'immagine, al nome, alla riservatezza. La tutela di
interessi personali non patrimoniali - hanno ricordato le S.U. - è prevista
anche da varie norme di legge che disciplinano specifiche fattispecie, come ad
esempio quelle che vietano le discriminazioni. Inoltre - hanno aggiunto sempre
le S.U. - nel danno morale da reato non è compresa soltanto, come sinora
affermato dalla giurisprudenza, la sofferenza momentanea, ben potendo l'effetto
stesso del reato protrarsi anche per lungo tempo. Il catalogo dei casi di
risarcibilità del danno non patrimoniale non costituisce numero chiuso; la
tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona
espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma,
in virtù dell'apertura dell'art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve
ritenersi consentito all'interprete rinvenire nel complessivo sistema
costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi
nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l'ordinamento, ma di
rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.
4.
Irrisarcibilità dei danni cd. bagatellari, non caratterizzati né da ingiustizia
costituzionalmente qualificata né da gravità dell’offesa
Affrontando il
tema del danno esistenziale, le Sezioni Unite hanno rilevato che si tratta di
una figura creata dalla giurisprudenza al fine di assicurare la tutela
risarcitoria nel caso di fatti produttivi di peggioramento della qualità della
vita e di alterazione della vita di relazione, anche in assenza di lesione dei
diritti della persona garantiti dalla Costituzione.
Al danno
esistenziale - hanno osservato le S.U. - è stato dato ampio spazio dai giudici
di pace, con conseguente proliferazione delle liti cosiddette «bagatellari», in
relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi
suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco
di una scarpa da sposa, l'errato taglio di capelli, l'attesa stressante in
aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l'invio di contravvenzioni
illegittime, la morte dell'animale di affezione, il maltrattamento di animali,
il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico; in tal modo si sono risarciti pregiudizi di dubbia
serietà, a prescindere dall'individuazione dell'interesse leso, e quindi del
requisito dell'ingiustizia.
Il pregiudizio
di tipo esistenziale – hanno ribadito le S.U. - è risarcibile solo entro il
limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata
dell'evento di danno; se non si riscontra lesione di diritti
costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria.
Palesemente non meritevoli della tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno
esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti,
ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più
disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai
quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità (cioè quella dei
giudici di pace). Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto
immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere,
alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici; al di fuori dei casi
determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile
della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria
non patrimoniale.
La gravità
dell'offesa - hanno aggiunto le S.U. - costituisce requisito ulteriore per
l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti
alla lesione di diritti costituzionali inviolabili; il diritto deve essere
inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio; in
conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è categoria generale
non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate; in
particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata
«danno esistenziale», perché attraverso questa si finisce per portare anche il
danno non patrimoniale nell'atipicità.
L'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c. c. - hanno
osservato ancora le S.U. - consente peraltro di affermare che anche nella
materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non
patrimoniali; dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti
inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento,
consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia
determinato un danno non patrimoniale comporta l'obbligo di risarcire tale
danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o
extracontrattuale. Se l'inadempimento dell'obbligazione determina, oltre
alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto,
anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore,
la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata
nell'azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all'espediente del
cumulo di azioni, contrattuale ed extracontrattuale; che interessi di natura non
patrimoniale possano assumere rilevanza nell'ambito delle obbligazioni
contrattuali, è confermato dalla previsione dell'art. 1174 c.c., secondo cui la
prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile di
valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non
patrimoniale, del creditore.
La possibilità
che da un'inadempienza contrattuale possa derivare anche un danno non
patrimoniale - hanno sostenuto le S.U. - si verifica in particolare nei
cosiddetti contratti di protezione, rinvenibili nel settore sanitario
(medico-paziente) e in quello dell'istruzione (docente-allievo), nonché nel
rapporto di lavoro subordinato.
5. Regime delle
prove
Il danno non
patrimoniale,
anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona
- hanno precisato le S.U. - costituisce danno conseguenza, che deve essere
allegato e provato; va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno
con l'evento dannoso, parlando di «danno evento». Per quanto concerne i mezzi di
prova - hanno affermato le S.U. - per ildanno biologico la
vigente normativa (artt. 138 e 139 d.lgs. n. 209/2005) richiede l'accertamento
medico-legale; si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si
ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario; così come
è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente
tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l'accertamento medico-legale,
non solo nel caso in cui l'indagine diretta sulla persona non sia possibile
(perché deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente,
superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi
utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni
di comune esperienza e delle presunzioni.Al
danno biologico - hanno precisato le S.U. - va infatti riconosciuta portata
tendenzialmente omnicomprensiva, confermata dalla definizione normativa adottata
dal d.lgs. n. 209/2005, recante il Codice delle assicurazioni private (secondo
cui «per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente
dell'integrità psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione
medico-legale, che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e
sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente
da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito»). Tale
definizione va ritenuta suscettibile di essere adottata in via generale, anche
in campi diversi da quelli propri delle sedes materie in cui è stata
dettata, avendo il legislatore recepito sul punto i risultati, ormai
generalmente acquisiti e condivisi, di una lunga elaborazione dottrinale e
giurisprudenziale. In esso sono quindi ricompresi i pregiudizi attinenti agli
«aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato»; pertanto al danno
esistenziale non può essere riconosciuta dignità di autonoma sottocategoria del
danno non patrimoniale. Ne consegue che nel caso in cui venga rivendicato il
risarcimento, in via primaria, di un danno biologico (es. da lesioni
conseguenti a sinistro stradale) cui si accompagna in via accessoria un danno
morale ed esistenziale, non possono essere liquidate – come in precedenza – tre
poste di danno, ma il danno biologico (che immanentemente ingloba e risarcisce
sofferenza morale e sofferenza esistenziale) sarà oggetto di un’unica
liquidazione omnicomprensiva da parte del giudice tramite una cd.
«personalizzazione» del danno biologico stesso, in senso accrescitivo rispetto
agli standardizzati valori tabellari, giustappunto in ragione delle componenti
della sofferenza morale ed esistenziale in esso insite.
Per la prova
degli altri pregiudizi non patrimoniali
potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva. Attenendo
il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale - hanno osservato le S.U.
- il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare
rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del
convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango
inferiore agli altri (tra le tante, cfr. sent. n. 9834/2002). Il danneggiato
dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie,
siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di
risalire al fatto ignoto.
6.
L’ingiustizia costituzionalmente qualificata nel danno da demansionamento
Quanto ai danni
riconducibili al rapporto di lavoro, le Sezioni Unite hanno ricordato la loro
sentenza n. 6572/06 che ha riconosciuto la risarcibilità del danno esistenziale
derivato al lavoratore subordinato dal demansionamento o dalla dequalificazione,
ma hanno escluso l'esistenza di un contrasto con essa. La sentenza n. 6572/06 -
hanno affermato le S.U. - ha definito danno esistenziale «ogni pregiudizio
di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile,
provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita
e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita
diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo
esterno». Questa decisione - hanno osservato ancora le S.U. - non sembra
tuttavia confortare la tesi di quanti configurano il danno esistenziale come
autonoma categoria, destinata ad assumere rilievo anche al di fuori dell'ambito
del rapporto di lavoro; in esso vengono infatti in considerazione diritti della
persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in
virtù della Costituzione - grazie all'art. 32 Cost., quanto alla tutela
dell'integrità fisica, ed agli art. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della
dignità personale del lavoratore - a diritti inviolabili, la cui lesione dà
luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da
inadempimento contrattuale; si verte, in sostanza, in una ipotesi di
risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente
prevista.
L'esistenza di interessi
non patrimoniali del dipendente nell'ambito del rapporto di lavoro - hanno
affermato le S.U.- è espressamente prevista dalla legge, ovvero dall'art. 2087
c.c. (secondo cui:«L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio
dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e
la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità
morale dei prestatori di lavoro»). Questa norma, inserendo nell'area del
rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica
(l'integrità fisica e la personalità morale), già implicava che, nel caso in cui
l'inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del
danno non patrimoniale. Il presidio di tali interessi della persona ad opera
della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili, ne ha poi
rinforzato la tutela. Con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di
dare luogo al risarcimento dei danni-conseguenza, sotto il profilo della lesione
dell'integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno
biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt.
2, 4, 35 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da
dequalificazione, che si risolvono nella compromissione delle aspettative di
sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale
costituita dall'impresa. Nell'ipotesi da ultimo considerata - hanno
osservato le S.U. - si parla, nella sentenza delle Sezioni Unite n. 6572/06, di
danno esistenziale; definizione che ha valenza prevalentemente nominalistica,
poiché i danni-conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti allo svolgimento della vita
professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità
contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente
qualificata.
Da parte nostra va
osservato che nel caso frequente in cui al danno primario da lesione della
dignità professionale e del diritto all’autorealizzazione nel lavoro – lesione
tipica del demansionamento – si accompagni, in via accessoria e
conseguenzialmente derivata, il danno biologico (es. da sindrome depressiva e
simili), al danno alla professionalità equitativamente determinato dal giudice
(in ragione della durata del demansionamento e/o della forzata inattività, del
livello qualitativo delle mansioni sottratte o inibite in toto, nonché
dell’intensità dolosa del comportamento datoriale) si addizionerà – ma le S.U.
niente hanno detto al riguardo, quindi questa è una nostra opinione suscettibile
di verifica da parte della giurisprudenza prossima ventura – il sussidiario
danno biologico, liquidato secondo i valori tabellari. Poiché il danno da
lesione dei diritti inviolabili della persona deve essere «integralmente»
risarcito, stante l’autonomia del danno alla professionalità cui si cumula il
danno biologico/psichico in via accessoria e derivata (quale pertinenza
occasionale ma non necessariamente ricorrente), ai fini di assicurare al
danneggiato il ristoro integrale del danno non può essere utilizzata l’indicata
tecnica di «personalizzazione» in senso accrescitivo del danno biologico
(secondario e derivato) onde inglobare in esso il danno «primario ed autonomo»
alla professionalità, alle chances di carriera perdute, all’immagine e
all’identità personale, al diritto all’autorealizzazione nel lavoro e al
prestigio sociale compromessi nella comunità d’impresa ed in ambito
extraziendale. Al danno alla professionalità da demansionamento equitativamente
determinato, in tale fattispecie, si dovrà addizionare – secondo la nostra
ragionevole opinione - il risarcimento del danno biologico di natura psichica,
sulla base dei valori tabellari in uso.
Confortano queste nostre conclusioni quanto si legge a pag. 29 della
sentenza n. 26972/08 delle S.U., secondo cui: «altri pregiudizi di tipo
esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non
conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell'ambito del
danno biologico (...) saranno risarcibili purché siano conseguenti alla
lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto
all'integrità psicofisica». Il ragionamento si attaglia
pacificamente al risarcimento «autonomo» delle mortificazioni, sofferenze,
discredito ed emarginazioni in ambito aziendale conseguenti al
demansionamento sul posto di lavoro, lesioni che andranno risarcite a se
stanti nell’ambito della tipologia del cd. «danno alla professionalità» (che
presenta natura composita in quanto non solo strutturato da sofferenza
morale ed esistenziale ma eminentemente consistente in danno al valore
costituzionale della dignità, identità personale, immagine e prestigio
sociale del lavoratore nonché in danno arrecato al valore, anch’esso
costituzionale, dell’autorealizzazione nel lavoro) a prescindere dal danno
biologico che eventualmente potrà seguire o accompagnarsi in via derivata,
in conseguenza dell’indotto stato di frustrazione e prostrazione.
D’altra parte la tecnica
della cd. «personalizzazione» del danno biologico - con effetti di inglobamento
entro prefissati tetti o plafond percentuali del danno moral-relazionale
- è tipica della liquidazione degli indennizzi da sinistro stradale, ove
peraltro il principio cardine del risarcimento integrale viene compresso – in
termini di dubbia costituzionalità – dal legislatore negli artt. 138 e 139
(comma 3, in entrambi) del d. lgs. n. 269/05 (cd. Codice delle assicurazioni
private). Essi stabiliscono che «qualora la menomazione accertata incida in
maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali,
l’ammontare del danno (biologico, ndr) determinato ai sensi della tabella unica
nazionale può essere aumentato dal giudice sino al trenta per cento (per le
lesioni di non lieve entità e sino al 20 per cento per le lesioni di lieve
entità, ndr) con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del
danneggiato». Plafond di dubbia costituzionalità giacché il giudice
deve vagliare caso per caso e analiticamente le singole fattispecie e - a nostro
avviso ed in buona compagnia di altra dottrina (cfr. Bordon R., La
controsvolta delle Sezioni unite, in www.personaedanno.it, 2008) - non
appare del tutto esente da «irrazionalità» imbrigliarne le libere determinazioni
mediante la predeterminare della misura massima del risarcimento del danno
biologico cumulato a quello afferente la sofferenza da lesione degli aspetti
dinamico-relazionali della persona.
Anche in considerazione
di queste perplessità e della riconduzione dei plafond ad esigenze di
uniformità a connotazione squisitamente finanziaria poco conciliabili con il
principio giuridico dell’asserita «integralità» del ristoro del danno, non
sembra davvero né opportuno né ragionevole dilatare la tecnica della
«personalizzazione con plafond» del danno biologico oltre la sedes materiae
dei sinistri stradali.
Mario Meucci - Giuslavorista
Roma, 1 dicembre 2008
(pubblicato in Confronti e Intese n. 247/2009)