La "rilettura" del danno esistenziale
 
1. Le sentenze gemelle delle Sezioni unite
Con il parto «quadrigemellare» dell’11 novembre 2008 (sentenze gemelle nn. 26972, 26973, 26974, 26975) le Sezioni unite della Cassazione (est. Preden), hanno tentato di fornire una risposta all’ordinanza di remissione volta a dirimere il contrasto giurisprudenziale al riguardo, che gli aveva posto 8 quesiti in tema di danno esistenziale. In particolare chiedendole di esprimersi sulla sussistenza o meno del danno in questione - quale autonoma categoria - nell’ambito del danno non patrimoniale,  accanto al danno biologico e morale.
Le pronunzie risultano molto articolate ed affrontano la tematica della responsabilità civile sotto diversi profili e punti di vista. Di seguito ne forniamo una sintesi piuttosto piana per favorirne la comprensione da parte del lettore, con l’aggiunta di talune nostre considerazioni.
 
2. Il danno non patrimoniale
In tema di responsabilità risarcitoria dei danni è noto che il processo dottrinale e giurisprudenziale susseguitosi era approdato al riconoscimento di  due categorie di danno: a) il danno patrimoniale (scisso nelle due componenti del danno emergente e del danno da lucro cessante); b) il danno non patrimoniale, articolato in tre sottocategorie, quella del danno morale, del danno biologico e del danno esistenziale.
Interessa focalizzare l’attenzione sul danno non patrimoniale, giacché in questo ambito si era venuto a delineare nei tempi recenti un contrasto di giurisprudenza.
Prima dell’odierna rilettura ad opera delle sentenze gemelle del novembre 2008, il danno morale era identificato nella «sofferenza transitoria e transeunte» connessa alla lesione di un proprio diritto; il danno biologico era individuato nel «danno inferto allo stato di salute» cioè all’integrità psico-fisica, mentre il danno esistenziale era identificato nella «modificazione peggiorativa della qualità della vita e dei pregressi rapporti relazionali» in ambito sociale, estrinsecandosi in un non facere come in precedenza sul versante areddituale (cioè in ambiti e attività scollegate dal valore patrimoniale), conseguente direttamente dal danno subito ed inferto dal danneggiante (meglio sarebbe dire alla «sofferenza morale determinata da non poter più fare», precisano ora le Sezioni Unite nella loro rilettura, lumeggiando così l’opzione di far confluire il vecchio danno esistenziale nel danno morale da sofferenza).
Sul versante del danno esistenziale si fronteggiavano due orientamenti:
a) quello secondo il quale  il pregiudizio alla serenità dell’esistenza ed al benessere della persona che questo danno esistenziale mirava a risarcire – in quanto lesivo del diritto al benefico svolgersi  della quotidianità nei suoi aspetti familiari, di lavoro, ambientali, ricreativi e relazionali – concretizzava un’autonoma categoria o sottocategoria di danno (in seno alla macrocategoria del danno non patrimoniale). Scopo di tale danno esistenziale era quello di risarcire danni distinti e diversi sia dal danno biologico, in quanto non presupponeva una lesione dell’integrità psico-fisica, sia dal danno morale, in quanto non risolventesi in un mero patema d’animo o sofferenza soggettiva interiore e transitoria, ma destinato a compensare alterazioni pregiudizievoli ed anche durature del pregresso, salutare, stile di vita. Danno consistente, secondo la dottrina migliore, «nella forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento o di benessere per il danneggiato, indipendentemente dalla compromissione dell'integrità psico fisica» (Cendon P., Non di sola salute vive l'uomo, Milano 1999). Questo indirizzo faceva capo, in giurisprudenza, eminentemente a Cass. nn. 7713/2000, 9009/2001, 6732/2005, 1345/2006, 311/2007, S.U. n. 6572/2006.
b) quello secondo cui il danno non patrimoniale, risarcibile ex art. 2059 c.c.nei soli casi previsti dalla legge (tra cui rientrano, a seguito dell’interpretazione costituzionalmente orientata che della suddetta norma codicistica ne hanno dato le sentenze gemelle nn. 8827 e 8828/2003, i casi di lesione di diritti e valori della persona costituzionalmente protetti), non poteva – a differenza del danno patrimoniale ex art. 2043 c.c. – beneficiare del carattere dell’atipicità, rinvenendosi invece in capo ad esso una caratteristica di tipicità che ne circoscriveva e delimitava l’ambito risarcitorio. Con la conseguenza che questo orientamento negava la natura generalizzante e aperta del «danno esistenziale», quale invece era stato asserito dalla dottrina e dalla giurisprudenza di supporto. Questa seconda impostazione negativa si rinveniva in: Cass. nn. 15760/2006, Cass. 23918/2006, Cass. 9510/2006, Cass. 9514/2007, 14846/2007.
 
3. Le risultanze dell’intervento delle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite hanno risposto ai quesiti dell’ordinanza di remissione in ordine al cd. «danno esistenziale», da un lato negando l'individuabilità di questa autonoma sottocategoria, dall'altro affermando che vari tipi di danno, inclusi dalla giurisprudenza nel concetto di «danno esistenziale», specificamente individuati, sono risarcibili come «componenti» del danno non patrimoniale; in tal modo riaffermando la bipolarità (danno patrimoniale – danno non patrimoniale) del sistema della responsabilità civile, scivolato verso la frammentazione in più voci o tipologie, ora ridimensionate e ricondotte a sole esigenze nominalistico-descrittive, prive di un’autonomia loro propria. Il ragionamento sviluppato dalle S.U.  parte della conferma dell'orientamento ampliativo espresso dalla Terza Sezione Civile della Suprema Corte nelle sentenze n. 8827 e n. 8828 del 2003 secondo cui il danno non patrimoniale risarcibile in base all'art. 2059 c.c. non è soltanto quello morale (inteso come sofferenza contingente e transeunte) prodotto dal reato (a termini dell'art. 185 c. p.) ma deve essere inteso nell'accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona, non connotati da rilevanza economica e tutelati dall'art. 2 Cost. che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'essere umano. La Costituzione - ha affermato la Corte sin dal 2003 - riconoscendo l'esistenza di diritti inviolabili della persona, non aventi natura economica, ne esige la tutela e ciò comporta che la loro lesione debba essere risarcita come danno non patrimoniale; pertanto l'art. 2059 cod. civ. laddove prevede la risarcibilità dei danni non patrimoniali «nei casi determinati dalla legge» deve essere interpretato nel senso che fra tali «casi» rientri la lesione dei diritti della persona costituzionalmente garantiti. Nel concetto di danno non patrimoniale risarcibile - hanno affermato ora le S.U. - rientrano tra l'altro: il danno biologico; la lesione dei diritti inviolabili della famiglia (da ravvisarsi nella perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto); la violazione del diritto alla reputazione, all'immagine, al nome, alla riservatezza. La tutela di interessi personali non patrimoniali - hanno ricordato le S.U. - è prevista anche da varie norme di legge che disciplinano specifiche fattispecie, come ad esempio quelle che vietano le discriminazioni. Inoltre - hanno aggiunto sempre le S.U. - nel danno morale da reato non è compresa soltanto, come sinora affermato dalla giurisprudenza, la sofferenza momentanea, ben potendo l'effetto stesso del reato protrarsi anche per lungo tempo. Il catalogo dei casi di risarcibilità del danno non patrimoniale  non costituisce numero chiuso; la tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell'apertura dell'art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all'interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l'ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.
 
4. Irrisarcibilità dei danni cd. bagatellari, non caratterizzati né da ingiustizia costituzionalmente qualificata né da gravità dell’offesa
Affrontando il tema del danno esistenziale, le Sezioni Unite hanno rilevato che si tratta di una figura creata dalla giurisprudenza al fine di assicurare la tutela risarcitoria nel caso di fatti produttivi di peggioramento della qualità della vita e di alterazione della vita di relazione, anche in assenza di lesione dei diritti della persona garantiti dalla Costituzione.
Al danno esistenziale - hanno osservato le S.U. - è stato dato ampio spazio dai giudici di pace, con conseguente proliferazione delle liti cosiddette «bagatellari», in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l'errato taglio di capelli, l'attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l'invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell'animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico; in tal modo si sono risarciti pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall'individuazione dell'interesse leso, e quindi del requisito dell'ingiustizia.
Il pregiudizio di tipo esistenziale – hanno ribadito le S.U. - è risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno; se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria. Palesemente non meritevoli della tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità (cioè quella dei giudici di pace). Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici; al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.
La gravità dell'offesa - hanno aggiunto le S.U. - costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili; il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio; in conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate; in particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata «danno esistenziale», perché attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità.
L'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c. c. - hanno osservato ancora le S.U. - consente peraltro di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali; dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l'obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale. Se l'inadempimento dell'obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell'azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all'espediente del cumulo di azioni, contrattuale ed extracontrattuale; che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell'ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell'art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.
La possibilità che da un'inadempienza contrattuale possa derivare anche un danno non patrimoniale - hanno sostenuto le S.U. - si verifica in particolare nei cosiddetti contratti di protezione, rinvenibili nel settore sanitario (medico-paziente) e in quello dell'istruzione (docente-allievo), nonché nel rapporto di lavoro subordinato.
 
5. Regime delle prove
Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona - hanno precisato le S.U. - costituisce danno conseguenza, che deve essere allegato e provato; va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, parlando di «danno evento». Per quanto concerne i mezzi di prova - hanno affermato le S.U. - per il danno biologico la vigente normativa (artt. 138 e 139 d.lgs. n. 209/2005) richiede l'accertamento medico-legale; si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario; così come è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l'accertamento medico-legale, non solo nel caso in cui l'indagine diretta sulla persona non sia possibile (perché deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni. Al danno biologico - hanno precisato le S.U. - va infatti riconosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva, confermata dalla definizione normativa adottata dal d.lgs. n. 209/2005, recante il Codice delle assicurazioni private (secondo cui «per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente dell'integrità psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione medico-legale, che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito»). Tale definizione va ritenuta suscettibile di essere adottata in via generale, anche in campi diversi da quelli propri delle sedes materie in cui è stata dettata, avendo il legislatore recepito sul punto i risultati, ormai generalmente acquisiti e condivisi, di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. In esso sono quindi ricompresi i pregiudizi attinenti agli «aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato»; pertanto al danno esistenziale non può essere riconosciuta dignità di autonoma sottocategoria del danno non patrimoniale. Ne consegue che nel caso in cui venga rivendicato il risarcimento, in via primaria, di  un danno biologico (es. da lesioni conseguenti a sinistro stradale) cui si accompagna in via accessoria un danno morale ed esistenziale, non possono essere liquidate – come in precedenza – tre poste di danno, ma il danno biologico (che immanentemente ingloba e risarcisce sofferenza morale e sofferenza esistenziale) sarà oggetto di un’unica liquidazione omnicomprensiva da parte del giudice tramite una cd. «personalizzazione» del danno biologico stesso, in senso accrescitivo rispetto agli standardizzati valori tabellari, giustappunto in ragione delle componenti della sofferenza morale ed esistenziale in esso insite.
Per la prova  degli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva. Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale - hanno osservato le S.U. - il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (tra le tante, cfr. sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.
 
6. L’ingiustizia costituzionalmente qualificata nel danno da demansionamento
Quanto ai danni riconducibili al rapporto di lavoro, le Sezioni Unite hanno ricordato la loro sentenza n. 6572/06 che ha riconosciuto la risarcibilità del danno esistenziale derivato al lavoratore subordinato dal demansionamento o dalla dequalificazione, ma hanno escluso l'esistenza di un contrasto con essa. La sentenza n. 6572/06 - hanno affermato le  S.U. - ha definito danno esistenziale «ogni pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno». Questa decisione - hanno osservato  ancora le S.U. - non sembra tuttavia confortare la tesi di quanti configurano il danno esistenziale come autonoma categoria, destinata ad assumere rilievo anche al di fuori dell'ambito del rapporto di lavoro; in esso vengono infatti in considerazione diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione - grazie all'art. 32 Cost., quanto alla tutela dell'integrità fisica, ed agli art. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore - a diritti inviolabili, la cui lesione dà luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale; si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.
L'esistenza di interessi non patrimoniali del dipendente nell'ambito del rapporto di lavoro - hanno affermato le S.U.- è espressamente prevista dalla legge, ovvero dall'art. 2087 c.c. (secondo cui:«L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro»). Questa norma, inserendo nell'area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (l'integrità fisica e la personalità morale), già implicava che, nel caso in cui l'inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale. Il presidio di tali interessi della persona ad opera della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili, ne ha poi rinforzato la tutela. Con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei danni-conseguenza, sotto il profilo della lesione dell'integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 35 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvono nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa. Nell'ipotesi da ultimo considerata - hanno osservato le S.U. - si parla, nella sentenza delle Sezioni Unite n. 6572/06, di danno esistenziale; definizione che ha valenza prevalentemente nominalistica, poiché i danni-conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti allo svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata.
Da parte nostra va osservato che nel caso frequente in cui al danno primario da lesione della dignità professionale e del diritto all’autorealizzazione nel lavoro – lesione tipica del demansionamento – si accompagni, in via  accessoria e conseguenzialmente derivata, il danno biologico (es. da sindrome depressiva e simili), al danno alla professionalità equitativamente determinato dal giudice (in ragione della durata del demansionamento e/o della forzata inattività, del livello qualitativo delle mansioni sottratte o inibite in toto, nonché dell’intensità dolosa del comportamento datoriale) si addizionerà – ma le S.U. niente hanno detto al riguardo, quindi questa è una nostra opinione suscettibile di verifica da parte della giurisprudenza prossima ventura – il sussidiario danno biologico, liquidato secondo i valori tabellari. Poiché il danno da lesione dei diritti inviolabili della persona deve essere «integralmente» risarcito, stante l’autonomia del danno alla professionalità cui si cumula il danno biologico/psichico in via accessoria e derivata (quale pertinenza occasionale ma non necessariamente ricorrente), ai fini di assicurare al danneggiato il ristoro integrale del danno non può essere utilizzata l’indicata tecnica di «personalizzazione» in senso accrescitivo del danno biologico (secondario e derivato) onde inglobare in esso il danno «primario ed autonomo» alla professionalità, alle chances di carriera perdute, all’immagine e all’identità personale, al diritto all’autorealizzazione nel lavoro e al prestigio sociale compromessi nella comunità d’impresa ed in ambito extraziendale. Al danno alla professionalità da demansionamento equitativamente determinato, in tale fattispecie, si dovrà  addizionare – secondo la nostra ragionevole opinione - il risarcimento del danno biologico di natura psichica,  sulla base dei valori tabellari in uso. Confortano queste nostre conclusioni quanto si legge a pag. 29 della sentenza n. 26972/08 delle S.U., secondo cui: «altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell'ambito del danno biologico (...) saranno risarcibili purché siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto all'integrità psicofisica». Il ragionamento si attaglia pacificamente al risarcimento «autonomo» delle mortificazioni, sofferenze, discredito ed emarginazioni in ambito aziendale conseguenti al demansionamento sul posto di lavoro, lesioni che andranno risarcite a se stanti nell’ambito della tipologia del cd. «danno alla professionalità» (che presenta natura composita in quanto non solo strutturato da sofferenza morale ed esistenziale ma eminentemente  consistente in danno al valore costituzionale della dignità, identità personale, immagine e prestigio sociale del lavoratore nonché in danno arrecato al valore, anch’esso costituzionale, dell’autorealizzazione nel lavoro) a prescindere dal danno biologico che eventualmente potrà seguire o accompagnarsi in via derivata, in conseguenza dell’indotto stato di frustrazione e prostrazione.
D’altra parte la tecnica della cd. «personalizzazione» del danno biologico -  con effetti di inglobamento entro prefissati tetti o plafond percentuali  del danno moral-relazionale - è tipica della liquidazione degli indennizzi da sinistro stradale, ove peraltro il principio cardine del risarcimento integrale viene compresso – in termini di dubbia costituzionalità – dal legislatore negli artt. 138 e 139 (comma 3, in entrambi) del d. lgs. n. 269/05 (cd. Codice delle assicurazioni private). Essi stabiliscono che «qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali, l’ammontare del danno (biologico, ndr) determinato ai sensi della tabella unica nazionale può essere aumentato dal giudice sino al trenta per cento (per le lesioni di non lieve entità e sino al 20 per cento per le lesioni di lieve entità, ndr) con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato». Plafond di dubbia costituzionalità giacché il giudice deve vagliare caso per caso e analiticamente le singole fattispecie e - a nostro avviso ed in buona compagnia di altra dottrina (cfr. Bordon R., La controsvolta delle Sezioni unite, in www.personaedanno.it, 2008) - non appare del tutto esente da «irrazionalità» imbrigliarne le libere determinazioni mediante la predeterminare della misura massima del risarcimento del danno biologico cumulato a quello afferente la sofferenza da lesione degli aspetti dinamico-relazionali della persona.
Anche in considerazione di queste perplessità e della riconduzione dei plafond ad esigenze di uniformità a connotazione squisitamente finanziaria poco conciliabili con il principio giuridico dell’asserita «integralità» del ristoro del danno, non sembra davvero né opportuno né ragionevole dilatare la tecnica della «personalizzazione con plafond» del danno biologico oltre la sedes materiae dei sinistri stradali.
 
Mario Meucci - Giuslavorista
Roma, 1 dicembre 2008 (pubblicato in Confronti e Intese n. 247/2009)

 

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