Risarcibilità del danno da falso in bilancio alle cui voci è parametrato il calcolo del premio di rendimento

 

Tribunale di Torino, sez. I. civ., 23 dicembre 2002 – Giud. Tarnagnone Boero – Calvo ed altri (avv. Marpillero, Lamacchia) c. Romiti e Mattioli (avv. Grande Stevens, De Luca, Crippa).

 

Accertata falsificazione in sede penale di bilanci  cui era parametrato il calcolo del premio di rendimento dei lavoratori – Richiesta di danni patrimoniali e di danni morali da parte di sindacalisti e lavoratori dell’azienda – Fondatezza  -  Spettanza.

 

A margine della chiara locuzione di cui all'art. 2059 c.c. ("Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nel casi determinati dalla legge "), e della tradizionale qualifica del danno morale come pretium doloris conseguente alla commissione di violazioni penali - stante il riferimento all'art. 185 c.p. - si è affiancata una interpretazione cd. “costituzionalmente orientata”.

Con tre successive pronunce (Corte Cost., 26 luglio 1979, n. 87; Corte Cost., 14 luglio 1986, n. 184; Corte Cost., 27 ottobre 1994, n. 372), si è passati dalla considerazione della legittimità costituzionale della limitazione in ordine alla risarcibilità del danno non patrimoniale nelle sole ipotesi in cui il fatto generatore venga qualificato come reato (cfr., anche, Cass., 28 gennaio 1984, n. 699) alla conclusione - di ben più ampia portata - secondo cui la risarcibilità del danno non patrimoniale non potrebbe essere esclusa o limitata nelle ipotesi di lesione di diritti costituzionalmente individuati come inviolabili.

In altri termini, detta interpretazione, volta a superare il monopolio della tipizzazione penale, per una asserita inadeguatezza del combinato disposto ex art. 2059 c.c. e 185 c.p., ipotizza un coordinamento diretto fra l’art. 2059 c.c. e l'art. 2 Cost., al fine di coordinare la funzione solidaristica, compensativa e satisfattiva del danno non patrimoniale, ed afferma la risarcibilità del danno non patrimoniale in ogni ipotesi - anche qualora il fatto non sia previsto come reato - se il diritto leso rientri nell'alveo dei diritti costituzionalmente inviolabili.

Siffatta impostazione é stata recentemente fatta propria anche dalla Suprema Corte, nella pronuncia 30 novembre 2000, n. 15330, che, appunto, ipotizza una connessione - ispirata "ai medesimi criteri risarcitori integrali di cui alla "Generalklausel" ex art. 2043 c.c. - tra l'art. 2059 c.c. e l'art. 2 Cost.

Le ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale vengono in tal modo ampliate, mentre per tutti gli illeciti concernenti beni patrimoniali o interessi personali che non assurgono al rango della inviolabilità, andrà ribadita la rilevanza esclusiva dell'art. 185 c.p.

Nel caso di specie, tuttavia, non si ravvisa la necessità di riferimenti costituzionali - peraltro ben ipotizzabili, quantomeno in relazione agli artt. 2, 36 e 46 Cost., - poiché si riscontra la piena rispondenza della fattispecie alla normativa vigente, e cioè al combinato disposto ex art. 2059 c.c. e 185 c.p., essendo stata accertata in sede penale la sussistenza del reato di falsificazione dei bilanci aziendali.

E’ errata, poi, la pretesa di una prova del danno morale da parte dei ricorrenti. E' infatti di tutta evidenza come il concetto di danno morale non possa che essere riferito a situazioni soggettive - giacché, nella ipotesi di situazioni oggettive di sofferenza, si rientrerebbe nell'alveo del diritto alla salute o del danno biologico -, onde la sua sussistenza ben può essere desunta in via presuntiva (cfr. Cass., 1 dicembre 1999 n. 13358; Tribunale di Roma, 13 ottobre 1999 , in Giur. Romana, 2000, 156), vale a dire in base ad elementi che indirettamente e mediante indizi attestino la sussistenza del patimento.

Del resto, anche la pronuncia su cui i convenuti fondano la propria tesi (Cass., 21 dicembre 1998, n. 12767), al di là della fuorviante massima, afferma in motivazione che “ il danneggiato ha l'onere di provare l'esistenza del danno ex art. 2697c.c., (operante pure riguardo al danno morale) mediante l'allegazione di circostanze da cui presumerla" .

Orbene, gli attori hanno indicato - al di là dei riferimenti all'omessa "buona fede", del tutto irrilevanti in questa sede - nell'offesa alla propria identità di "lavoratori, ...sindacalisti...persone", “profondamente impegnati nella gestione delle relazioni sociali all'interno dell'azienda" gli estremi da cui dedurre che "l'esito della vicenda, l'altrui commissione del reato" ha determinato in essi uno stato di sofferenza morale.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione 14 novembre 2001 gli attori suindicati convenivano in giudizio, avanti a questo Tribunale, Cesare Romiti e Francesco Paolo Mattioli, chiedendo l'accoglimento delle conclusioni in epigrafe.

Esponevano gli attori:

- che con sentenza 28/5-15/7/1999 la Corte d'Appello di Torino aveva affermato la responsabilità penale dei convenuti in relazione ai reati di falso nei bilanci consolidati e nelle relazioni accompagnatorie della Fiat spa, di finanziamento illecito ai partiti politici, nonché per la violazione fiscale ex art. 4 lett. e) L. 516/82;

- che nella suddetta sentenza era contenuta altresì condanna del Romiti e del Mattioli, in solido, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite - fra le quali rientravano gli attori, tutti dipendenti del Gruppo Fiat -, "danni da liquidarsi in separata sede";

- che con sentenza 19/10/2000 la Suprema Corte aveva confermato la pronuncia della Corte d'Appello di Torino in ordine al diritto degli odierni attori al risarcimento dei danni patrimoniali e morali, e, in particolare, dopo aver annullato la sentenza impugnata "nei confronti di Francesco Paolo Mattioli perché il reato continuato ascrittogli è estinto per sopravvenuta prescrizione ...e nei confronti di Cesare Romiti, limitatamente alla imputazione di cui al capo B della rubrica", aveva rigettato "il ricorso di Romiti nel resto e quello di Mattioli agli effetti delle statuizioni civili" (cfr. doc. 2 di parti attrici).

Gli attori proseguivano affermando di aver subito, nella loro qualità di dipendenti di aziende del Gruppo Fiat, un danno patrimoniale : ciò in quanto le voci falsificate in bilancio (artatamente "impoverito") avevano inciso negativamente sull'indice generale da cui dipendeva, all'epoca dei fatti, il calcolo del "Premio Performances di Gruppo (P.P.G.)", un premio - istituito con accordo sindacale del 4/7/1989 - che collegava all'andamento del Gruppo Fiat una quota della retribuzione percepita dagli attori.

Gli attori, pertanto, domandavano il ristoro del danno patrimoniale corrispondente alla decurtazione, per gli anni 1988, 1989, 1990 e 1991, del suddetto Premio -, nonché il ristoro del danno morale - da liquidarsi equitativamente - conseguente al comportamento penalmente rilevante tenuto dai convenuti .

Si costituivano in giudizio entrambi i convenuti, i quali preliminarmente eccepivano l'incompetenza per valore del Giudice adito, mentre nel merito, in via subordinata, contestavano la fondatezza delle domande avversarie, chiedendone il rigetto.

Esperito vanamente il rituale tentativo di conciliazione, entrambe le parti chiedevano la fissazione di udienza di precisazione delle conclusioni, non avanzando istanze istruttorie.

Espletato detto incombente, la causa veniva assegnata a decisione previa concessione alle parti dei termini per il deposito degli scritti conclusivi.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE.

I) L'eccezione di incompetenza per valore

I convenuti Romiti e Mattioli hanno preliminarmente eccepito l'incompetenza per valore del Giudice adito, osservando che il valore della causa è inferiore ai 5 milioni di lire (attuali € 2.582,28), onde la competenza per valore apparterrebbe al Giudice di pace.

I convenuti hanno argomentato detta eccezione sotto quattro diversi profili:

a)    la quantificazione del danno patrimoniale effettuata dagli attori ,

pari a £. 17.000 (attuali € 8,77), escluderebbe "all'evidenza ...la competenza del Giudice adito";

b)    a nulla rileverebbe, al fine di "radicare la competenza per valore del Tribunale, (....) la proposta richiesta di condanna al risarcimento di un danno morale di imprecisata entità, da liquidarsi equitativamente", poiché, comunque, "un patema d'animo, un turbamento al proprio equilibrio psichico, il c.d. pretium doloris non potrebbe certo quantificarsi in una somma superiore a quella (£.17.000) che essi stessi indicano quale danno patrimoniale subito" ;

c)    a nulla rileverebbe, ancora, "la considerazione del valore della sommmatoria  delle singole domande degli attori", poiché nel caso di specie non troverebbe applicazione l'art. 10 secondo comma c.p.c., che concerne unicamente domande proposte fra le stesse parti, e non invece domande proposte da diversi soggetti processuali;

d)    a nulla rileverebbe, infine, l'indicativa quantificazione del danno morale (€ 5000 per ciascuno degli attori ) effettuata all'udienza ex art. 183 c.p.c., e conseguentemente, essendosi "in presenza di una richiesta di condanna in via equitativa priva di qualsiasi indicazione minima o massima di valore, e quindi di valore non dichiarato ma presunto ai sensi del I comma dell'art. 14 c.p.c.", alla luce degli elementi offerti dai convenuti con la tempestiva eccezione di incompetenza, non potrebbe che affermarsi che la competenza sia, “all'evidenza ...del Giudice di Pace”.

In sede di memoria di replica, i convenuti hanno proposto "eccezione di illegittimità costituzionale delle norme di cui agli artt. 14, 10, 2°comma, 9, 2° comma c.p.c., in relazione agli art. 24, 2° comma e 25, 1° comma della Costituzione", precisando - in riferimento all'art. 9 c.p.c. - che "non sarebbe consentito considera(re) di valore indeterminabile e, quindi, di competenza del Tribunale ai sensi dell'art. 9 c.p.c. tutte le domande non quantificate di risarcimento danni non patrimoniali".

Osserva anzitutto questo Giudice, con riferimento all'eccezione di illegittimità costituzionale testé riportata, che la Corte Costituzionale si è già pronunciata, in senso negativo, in relazione alla questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 14 c.p.c., con riferimento agli artt. 25 comma 1 e 97 comma 1 Cost.

Nella pronuncia 8 marzo 1996 (Ciampoli c. Ciampoli, in Giur. Cost., 1996, 657), si legge infatti che le dichiarazioni dell'attore e la conseguente individuazione del giudice "rappresentano indispensabili, quanto ovvii  corollari del principio secondo cui il valore della causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda, e, più in generale, dal carattere dispositivo del processo civile", e ciò perché “l'art. 25 Cost. tutela solo l'esigenza che la competenza degli organi giudiziari, al fine di una garanzia rigorosa della loro imparzialità, venga sottratta ad ogni possibilità di arbitrio attraverso la precostituzione per legge del giudice in base ai criteri generali fissati in anticipo e non in vista di singole controversie”.

Tale ineccepibile e chiarissima esplicitazione dei principi generali travolge, evidentemente, la eccezione di incostituzionalità anche in relazione al disposto di cui all' art. 9 comma 1 c.p.c. - mero corollario dei suddetti principi -, determinandone la manifesta infondatezza.

Le argomentazioni addotte dai convenuti in ordine alla eccezione di incompetenza del Tribunale risultano tutte erronee.

E' evidente, infatti, che la domanda di ristoro di danno patrimoniale (£.17.000, pari ad € 8,77) deve essere sommata - per il principio del cumulo delle domande stabilito dall'art. 10 c.p.c. (Cass., 6 aprile 2000 n. 4325) - a quella che concerne il danno morale.

E' parimenti evidente, per contro, che quest'ultimo ben può essere di valore superiore rispetto al primo .

Nessuna norma o principio consente infatti di affermare, come vorrebbero i convenuti, che il danno morale debba necessariamente essere quantificato in misura inferiore rispetto a quello patrimoniale : al contrario, il danno morale può anche prescindere dalla sussistenza di un danno patrimoniale, trattandosi di fattispecie ontologicamente differenti.

Ne deriva che anche aderendo alla impostazione fatta propria dai convenuti, in riferimento alla pronuncia del S.C. 12 ottobre 1998 n. 10081 - peraltro non pacifica : cfr. Cass., 20 febbraio 1999 n. 1425 -, secondo cui “il cumulo di domande stabilito agli effetti della competenza per valore dall'art. 10 comma c.p.c., riguarda solo le domande proposte tra le stesse parti, mentre non si riferisce all'ipotesi di domande proposte nei confronti dello stesso soggetto da diversi soggetti processuali, in ipotesi di litisconsorzio facoltativo”, il risultato non cambia, poiché  anche solo considerando le domande di ciascuno degli attori la competenza per valore fa capo al Tribunale.

E' infatti principio assolutamente pacifico che, nel caso di proposizione cumulativa di più domande - "senza indicazione di valore, non si ha superamento della competenza del giudice adito, ai sensi del combinato disposto degli art. 10 e 14 c.p.c., laddove l’attore formuli (...) clausola o riserva di contenimento, dichiarando cioè di contenere il valore complessivo delle domande " (Cass., 10 dicembre 2001 n. 15571; Cass., 11 aprile 2000 n. 4589; Cass. 26 agosto 1993, n.9203).

Nel caso in esame, al contrario, risulta che gli attori non solo non hanno mai effettuato dichiarazioni di "contenimento", ma, piuttosto, hanno indicato - seppure ai soli fini conciliativi, cfr. verbale in atti - un valore di gran lunga superiore alla competenza del Giudice di Pace per ciascuna delle domande in riferimento al danno morale.

Ne deriva che, in piena aderenza ad una delle ultime pronunce , in termini, del S.C. - secondo la quale "qualora insieme con una domanda di valore determinato ed inferiore al limite della competenza del giudice adito sia stata dall'attore proposta altra domanda senza precisazione della somma richiesta, il principio del cumulo di cui all'ari. 10 comma 2 c.p.c., con spostamento della competenza al giudice superiore, opera sempre, salva l'ipotesi in cui l'attore dichiari, in modo non equivoco, di voler contenere il valore della seconda domanda entro il predetto limite, e cioè in misura pari alla differenza tra questo ed il valore espressamente determinato nell'altra domanda" (Cass., 13 giugno 2002, n.8480) -, l'eccezione di incompetenza sollevata dai convenuti non può che essere respinta.

 

2) L'introduzione del D. Lgs. 61/2002.

Nel corso del presente giudizio è entrato in vigore il D.Lgs. 11/4/2002 n. 61, che, a parere dei convenuti, ha abrogato i reati per cui essi sono stati condannati nella sentenza penale.

I convenuti fanno presente che tra le fattispecie previste nella nuova normativa e quelle per cui le condanne sono state inflitte "non sussiste continuità normativa ai sensi dell'art. 2 comma 3 c.p., bensì un rapporto di abrogazione-sostituzione da ricondurre agli art. 2 comma 2 c.p."; gli attori, al contrario, affermano che tra la normativa precedente e quella attuale vi sarebbe continuità normativa, e che, comunque, la nuova disciplina sarebbe irrilevante in questa sede dovendosi fare riferimento, ai fini del risarcimento del danno, al momento in cui l'evento dannoso si è verificato.

Osserva questo Giudice - non senza far presente che il dibattito giurisprudenziale quanto alla sussistenza o meno di continuità normativa fra la normativa precedente e quella attuale è appena aperto (cfr. ad es., in senso affermativo, Trib. Ravenna, 20 maggio 2002, in Cass. pen, 2002, 2053 ; Trib. Napoli, 16 maggio 2002, in Archivio Ced 2002; ed al contrario, in senso negativo, Trib. Napoli, 28 maggio 2002, in Archivio Ced, 2002) - che ogni questione relativa all'introduzione del D.lgs. 61/2002 è, alla luce dell'orientamento giurisprudenziale in materia, assolutamente sterile ed irrilevante.

Risulta infatti pienamente condivisibile, e conforme ai principi generali la pronuncia della Suprema Corte del 19 febbraio 1998 n. 1761, ove si afferma che "il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale è dovuto ...anche nella eventualità che il fatto, pur costituendo reato nel momento della sua commissione, abbia successivamente perduto siffatta connotazione per effetto di abolitio criminis".

In detta pronuncia - le cui argomentazioni sono state ritenute così incontroverse da venir definite "tanto condivisibili quanto prevedibili” la Corte ha fatto presente che "dallo stesso fatto possono ...scaturire, rispettivamente nella sfera civile e in quella penale, due distinte conseguenze di ordine sanzionatorio (il risarcimento e la pena) che non sempre concorrono, ma sempre si pongono, l'una rispetto all'altra, in termini di reciproca indtfferenza, nel senso, beninteso, che ciascuna di esse soggiace ad una propria disciplina giuridica, distinta ed indipendente da quella a cui soggiace l'altra", il che "comporta che il danno prodotto da un fatto ingiusto è risarcibile sia nel caso in cui il fatto non costituisca reato nel momento in cui è commesso, sia nel caso in cui in quel momento il fatto integri anche una fattispecie criminosa, sia, infine, nel caso in cui il fatto, pur costituendo reato nel momento della sua commissione, abbia successivamente perduto la sua connotazione di illiceità per effetto di abolitio criminis".

Ne deriva, quale logico corollario di detta autonomia del regime giuridico proprio della responsabilità civile rispetto a quello che presiede la responsabilità penale, che l'art. 2 comma 2 c.p. opera solo nell'ambito penale, mentre in sede civile deve applicarsi la regola generale contenuta nell'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale ("la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo "), in quanto "ove si controverta (...) della risarcibilità del danno (...) la giustizia o l'ingiustizia del fatto e delle sue conseguenze vanno valutate con esclusivo riferimento alle norme (anche penali) vigenti nel momento in cui il fatto è stato commesso ed il diritto al risarcimento è sorto”.

 

3) La  valenza della sentenza penale definitiva

Da quanto esposto deriva evidentemente - al contrario di quanto asserito dai convenuti, cfr. pag. 11 memoria di replica Romiti - l'applicabilità del disposto ex art. 651 c.p.p., a norma del quale "la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all'accertamento della sussistenza del fatto e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, nel giudizio civile ... per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale".

Le pronunce giurisprudenziali sono sostanzialmente univoche ed assolutamente chiare in materia: la sentenza dibattimentale ha effetto vincolante per il giudice civile - limitatamente alle parti che hanno preso parte al processo - in relazione ai “fatti nella loro realtà oggettiva e fenomenica - presi in considerazione in sede penale - condotta, evento e nesso di causalità" (Cass., 2 novembre 2000, n. 14328), e solo nell'ipotesi di inesistenza di una pronuncia penale di condanna ex art. 651 c.p.p. il giudice civile può accertare incidenter tantum l'esistenza del reato nei suoi elementi obiettivi e soggettivi (Cast., 9 ottobre 2000, n.13425; Cass., 2 agosto 2000 n.10122).

Per l'ipotesi, poi, di condanna generica, come nel caso di specie, é stato altresì precisato che al giudice civile è rimessa la valutazione sulla sussistenza e sulla quantificazione del danno stesso, verificando altresì il nesso di causalità in concreto (Cass., 2 giugno 2001, n.8807), a meno che detta indagine sia già stata effettuata dal giudice penale, poiché in tal caso valgono i principi del giudicato (Cass. 11 gennaio 2001, n.329).

E tale indagine, nella fattispecie di cui si discute, risulta essere stata pienamente effettuata.

Giova del reato ricordare che proprio la pronuncia di Cassazione su cui si fonda il processo de quo ha chiarito che il giudizio penale può limitare il suo accertamento alla “potenziale capacità lesiva del fatto dannoso ed alla esistenza - desumibile, anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità - di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato”.

 

4) La posizione del convenuto Mattioli

La posizione del convenuto Mattioli - a dispetto delle osservazioni della sua difesa - non differisce da quella del convenuto Romiti.

Invero, ancora alla luce dell'orientamento giurisprudenziale prevalente in materia, "la sentenza dibattimentale del giudice penale, che abbia emesso una pronuncia di proscioglimento per una causa di estinzione del reato, ha effetto vincolante, per il giudice civile - limitatamente alle parti che abbiano preso parte (...) al processo penale (...) - una volta che il giudice penale abbia (...) proceduto a un accertamento in concreto dei fatti ", ed il giudice civile, seppur libero di valutarli, è vincolato dal giudicato per quanto concerne "i fatti nella loro realtà oggettiva e fenomenica" (Cass., 2 novembre 2002, n. 14328).

Ne deriva, che, pur potendosi autonomamente rivalutare il fatto ai fini del risarcimento del danno, non può ritenersi consentito, come vorrebbe il Mattioli, di "verificare la contraddittorietà, nelle dichiarazioni rese dai testi e valutare, la loro attendibilità" (pag. 9 comp. concl.), in quanto ciò contrasterebbe con il disposto ex artt. 651 e 652 c.p.p., e dunque con il giudicato formatosi in ordine alla sussistenza del fatto, alla sua illiceità  ed alla commissione da parte dell'imputato: aspetti tutti esaminati in sede penale, seppur ai limitati fini di addivenire alla pronuncia del tipo suindicato (cfr. sent. Corte d'Appello di Torino 15/7/1999 , pagg. 170 e ss., doc. 1 di parti attrici; sentenza 19/10/2006 della Suprema Corte, pag. 31 e ss, doc. 2 di parti attrici).

 

5) La sussistenza del danno patrimoniale e del nesso causale.

La sussistenza del danno patrimoniale e del nesso causale con il comportamento dei convenuti risulta inequivocabile.

Invero, che la corresponsione del Premio Performances di Gruppo fosse connessa con i risultati e le variazioni dei bilanci consolidati non è sostanzialmente contestato neppure dal Mattioli e dal Romiti, che osservano tuttavia come, delle cinque voci di bilancio utilizzate per la formula di riferimento del premio (ricavi netti, numero dei dipendenti, capitale investito netto, patrimonio netto e spese di garanzia) la sola interessata "dalle attività omesse e dalle anomalie dei bilanci consolidati" risulta essere quella del patrimonio netto (cfr. pag. 19 mem. replica).

Detto assunto, tuttavia, appare più che sufficiente ai fini dell'individuazione del danno e del nesso causale: sotto il profilo strettamente giuridico dell'an, infatti, non ha rilevanza l'entità della variazione, ma é sufficiente che il comportamento - id est la falsificazione delle voci di bilancio - abbia comunque influenzato l'erogazione del premio dovuto agli attori in virtù dell'accordo negoziale.

Quanto alla contestazione in ordine all'intervenuta sottoscrizione dell'accordo, effettuata dai convenuti in sede di memoria di replica (pag. 17), questo giudice si limita a rilevarne l'assoluta tardività ed inammissibilità.

Da quanto esposto, deriva la piena accoglibilità della domanda formulata dagli attori in relazione al danno patrimoniale patito, non contestato nel suo ammontare (£.17.000, pari ad attuali € 8,78) dai convenuti.

 

5) Il danno morale.

La sussistenza e conseguente riparabilità del danno morale è stata contestata dai convenuti, in base all'assunto secondo cui "l'onere di provare il danno del quale si domanda la riparazione incombe sul danneggiato, e detta prova costituisce il presupposto indispensabile anche per poter procedere a liquidazione di tipo equitativo" (pag. 14 memoria di replica).

I convenuti, in buona sostanza (pag. 15 mem. replica), opinano che gli attori nulla avrebbero allegato in ordine alla sussistenza del danno non patrimoniale, limitandosi a far riferimento, all'uopo, alle risultanze del processo penale .

Al di là del rilevo che detto ultimo riferimento - di cui alla pag. 13 della conclusionale attorea - concerneva il danno patrimoniale e non quello morale, va immediatamente precisato che l'argomento del cd. danno morale ha negli ultimi anni subito una serie di interventi correttivi e chiarificatori della giurisprudenza di merito, di legittimità nonché costituzionale.

Così, a margine della chiara locuzione di cui all'art. 2059 c.c. ("Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nel casi determinati dalla legge "), e della tradizionale qualifica del danno morale come pretium doloris conseguente alla commissione di violazioni penali - stante il riferimento all'art. 185 c.p. - si è affiancata una interpretazione cd. “costituzionalmente orientata”.

Con tre successive pronunce (Corte Cost., 26 luglio 1979, n. 87; Corte Cost., 14 luglio 1986, n. 184; Corte Cost., 27 ottobre 1994, n. 372), si è passati dalla considerazione della legittimità costituzionale della limitazione in ordine alla risarcibilità del danno non patrimoniale nelle sole ipotesi in cui il fatto generatore venga qualificato come reato (cfr., anche, Cass., 28 gennaio 1984, n. 699) alla conclusione - di ben più ampia portata - secondo cui la risarcibilità del danno non patrimoniale non potrebbe essere esclusa o limitata nelle ipotesi di lesione di diritti costituzionalmente individuati come inviolabili.

In altri termini, detta interpretazione , volta a superare il monopolio della tipizzazione penale, per una asserita inadeguatezza del combinato disposto ex art. 2059 c.c. e 185 c.p., ipotizza un coordinamento diretto fra l’art. 2059 c.c. e l'art. 2 Cost., al fine di coordinare la funzione solidaristica, compensativa e satisfattiva del danno non patrimoniale, ed afferma la risarcibilità del danno non patrimoniale in ogni ipotesi - anche qualora il fatto non sia previsto come reato - se il diritto leso rientri nell'alveo del diritti costituzionalmente inviolabili.

Siffatta impostazione é stata recentemente fatta propria anche dalla Suprema Corte, nella pronuncia 30 novembre 2000, n. 15330, che, appunto, ipotizza una connessione - ispirata "ai medesimi criteri risarcitori integrali di cui alla "Generalklausel" ex art. 2043 c.c. - tra l'art. 2059 c.c. e l'art. 2 Cost.

Le ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale vengono in tal modo ampliate, mentre per tutti gli illeciti concernenti beni patrimoniali o interessi personali che non assurgono al rango della inviolabilità, andrà ribadita la rilevanza esclusiva dell'art. 185 c.p.

Tali osservazioni non appaiono irrilevanti, in quanto attestano una evoluzione in senso ampliativo della nozione di danno non patrimoniale.

Nel caso di specie, tuttavia, non si ravvisa la necessità di riferimenti costituzionali - peraltro ben ipotizzabili, quantomeno in relazione agli artt. 2, 36 e 46 Cost., - poiché si riscontra la piena rispondenza della fattispecie alla normativa vigente, e cioè al combinato disposto ex art. 2059 c.c. e 185 c.p.

Il fatto lesivo, invero, riveste - rectius, rivestiva al momento cui bisogna far riferimento - gli estremi del reato, onde "è più intensa l'offesa all'ordine giuridico e maggiormente sentito il bisogno di una energica repressione anche con carattere preventivo" (cfr. Relazione Ministeriale al Codice Civile) e dunque "il risarcimento dei danni non patrimoniali persegue scopi di più intensa repressione e prevenzione certamente estranei al risarcimento di altri tipi di danno" (Corte Cost. 184/1986 cit.).

Se dunque è vero, come è vero, che il danno morale è definibile come il perturbamento ingiustamente arrecato alle condizioni d'animo di una persona in conseguenza di una offesa subita; se è vero, come è vero, che il legislatore ha effettuato una valutazione a priori del fatto lesivo, e cioè dell'offesa - individuandolo, de iure condito, nel "fatto-reato" -; se, ancora è vero, come è vero, che il danno morale può essere conseguente anche ad un illecito contro il patrimonio, poiché anche i reati contro il patrimonio "possono arrecare turbamenti e sofferenze psichiche”; se, infine, è vero come è vero che "la riparazione del danno non patrimoniale da reato svolge una funzione composita che è di per sé satisfattiva e nel contempo anche punitiva, in quanto il dolore ed il perturbamento d'animo che il reato produce nell'offeso e che sono l'essenza del danno non patrimoniale trovano soddisfazione solo se la riparazione costituisce anche una misura attiva del colpevole " (App. Roma, 5/11/1990, in Arch. CED), ebbene, allora del tutto illogico, nel sistema, sarebbe richiedere alla parte offesa la "prova piena" del suddetto danno morale, in ossequio al disposto dell'art. 2697 c 1 c.c.

E' infatti di tutta evidenza come il concetto di danno morale non possa che essere riferito a situazioni soggettive - giacché, nella ipotesi di situazioni oggettive di sofferenza, si rientrerebbe nell'alveo del diritto alla salute o del danno biologico -, onde la sua sussistenza ben può essere desunta in via presuntiva (cfr. Cass., 1 dicembre 1999 n. 13358; Tribunale di Roma, 13 ottobre 1999, in Giur. Romana, 2000, 156), vale a dire in base ad elementi che indirettamente e mediante indizi attestino la sussistenza del patimento.

Del resto, anche la pronuncia su cui i convenuti fondano la propria tesi (Cass., 21 dicembre 1998, n. 12767), al di là della fuorviante massima, afferma in motivazione che “ il danneggiato ha l'onere di provare l'esistenza del danno ex art. 2697 c.c., (operante pure riguardo al danno morale) mediante l'allegazione di circostanze da cui presumerla" .

Orbene, gli attori hanno indicato - al di là dei riferimenti all'omessa "buona fede", del tutto irrilevanti in questa sede - nell'offesa alla propria identità di "lavoratori, ...sindacalisti...persone", “profondamente impegnati nella gestione delle relazioni sociali all'interno dell'azienda" gli estremi da cui dedurre che "l'esito della vicenda, l'altrui commissione del reato" ha determinato in essi uno stato di sofferenza morale.

Ritiene questo Giudice che l’assunto sia fondato.

Ed infatti, le modalità di commissione del reato - notoriamente plurioffensivo - con riferimento all'intervenuto accordo sottoscritto con le organizzazioni sindacali, vale a dire l'assoluta indifferenza, nella falsificazione delle voci di bilancio consolidato, rispetto alle pattuizioni concordate, che proprio ai dati contabili falsificati facevano riferimento; il comportamento concretatosi in una assoluta mancanza di rispetto dei lavoratori sia nella loro individualità che nella forma associativa; il disprezzo delle regole di correttezza che avrebbero dovuto presiedere alle trattative ed alla conclusione del citato accordo, costituiscono elementi sufficienti da cui dedurre la sussistenza di quel "perturbamento ingiustamente arrecato alle condizioni d'animo" che concreta la sussistenza del "danno morale" da reato.

Posta l'accoglibilità della domanda sotto il profilo dell' an, è necessario procedere alla quantificazione del danno.

Gli attori, invero, hanno indicato una somma (€ 5.000 per ciascuno di essi) solo al fini conciliativi, onde deve ritenersi ch' essi si siano integralmente rimessi alla valutazione giudiziale.

Richiamandosi ai parametri ordinariamente utilizzati - modalità dell'offesa, intensità del dolo o della colpa, condizioni economiche del responsabile - e considerate quindi le posizioni delle parti nonché il fatto che già al momento della sottoscrizione dell'accordo sindacale i convenuti erano consapevoli di aver falsificato i dati dei bilanci consolidati , ritiene questo Giudice di liquidare equitativamente, a titolo di danno morale, la somma di € 1500 per ciascuno degli attori.

I convenuti, pertanto, dovranno essere condannati solidalmente anche al pagamento della suddetta somma, maggiorata di interessi legali dalla data di passaggio in giudicato della sentenza penale al saldo effettivo in favore di ciascuno degli attore.

 

Spese alla soccombenza, liquidate in dispositivo.

 

P.Q.M.

IL Giudice Unico,

definitivamente pronunciando,

contrariis rejectis,

ACCOGLIE parzialmente domande proposte dagli attori nei confronti dei convenuti, e per l'effetto

CONDANNA i convenuti Cesare Romiti e Francesco Paolo Mattioli al pagamento, in favore di ciascuno degli attori, della somma di € 1508,78 oltre a interessi in misura legale dalla data di passaggio in giudicato della pronuncia penale al saldo effettivo;

CONDANNA i convenuti in solido a rifondere agli attori le spese del presente procedimento, liquidate complessivamente in € 6.556,00 (di cui € 1.000,00 per diritti, € 455,75 per esposti ed il resto per onorari) oltre Iva e Cpa.

Cosi deciso in Torino il 23/12/2002

 

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