Secondo la Corte costituzionale i benefici previdenziali per l’esposizione ad amianto non si applicano ai lavoratori già pensionati all’epoca dell’entrata in vigore della legge n. 257/92; secondo il Tribunale di Ravenna, sì e motivatamente.

 

I

Corte Costituzionale 31 ottobre 2002, n. 434 (ud. 21 ottobre 2002) – Pres. Ruperto – Red. Amirante – Gamberini ed altro c. Inps (avv. Riccio)

 

Benefici di supervalutazione dell’anzianità contributiva per esposizione ad amianto -  Questione di costituzionalità per la negazione giurisprudenziale nei confronti di coloro già titolari di pensione di anzianità (o vecchiaia) prima del 28 aprile 1992 (data di entrata in vigore della L. n. 257/92) -  Infondatezza – Presupposti richiesti dall’art. 13, 8 comma, l. n. 257/92: esposizione ultradecennale unitamente alla natura qualificata della medesima per concentrazione d’amianto oltre determinati  limiti, superati i quali acquista potenzialità morbigene.

 

L’espressione “ai fini delle prestazioni pensionistiche” rinvenibile nell’art. 13 , comma 8, della L. n. 257/92 deve esser letta come riferentesi alle prestazioni pensionistiche da conseguire e cioè come sostanzialmente equivalente a quella originaria codificata nella stessa legge – prima delle modifiche introdotte dalla l. n. 271 del 1993 - ove era più chiaramente stabilito che il beneficio valeva “ai fini del conseguimento delle prestazioni pensionistiche...”, cioè a dire di quelle ancora da maturare, con esclusione implicita per quelle già maturate, come desumibile da attenta ricognizione dei lavori parlamentari che sul punto documentano non essersi voluta introdurre alcuna sostanziale modificazione innovativa.

L’affermazione effettuata dalla sentenza n. 5 della Corte, in base alla quale la norma dell’art. 13, 8 comma, L. n. 257/92 non fu ritenuta  incostituzionale per supposta indeterminatezza della platea dei beneficiari, discese dal fatto che  tale eventualità venne esclusa in ragione del  duplice requisito selettivo costituito dalla fissazione del tempo di esposizione all'amianto – oltre un decennio – unitamente a quella del limite superato il quale la concentrazione dell'amianto aveva potenzialità morbigene (limite che sembra rinvenibile, secondo la ricostruzione storica del processo di formazione della legge ad opera della Consulta, nel superamento dei valori fissati dal d. lgs. n. 277 del 1991, n.d.r.).

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto), come modificato dalla legge 27 marzo 1993, n. 271 – recte: come modificato dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 5 giugno 1993, n. 169 (Disposizioni urgenti per i lavoratori del settore dell'amianto), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 1993, n. 271 – e dell'art. 80, comma 25, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), promosso con ordinanza del 18 dicembre 2001 dal Tribunale di Ravenna nel procedimento civile vertente tra Gamberini Roberto ed altro e l'INPS, iscritta al n. 59 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell'anno 2002.

Visti l'atto di costituzione dell'INPS nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 18 giugno 2002 il Giudice relatore Francesco Amirante;

uditi l'avvocato Alessandro Riccio per l'INPS e l'avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.— Nel corso di un giudizio nel quale due ex dipendenti della Compagnia portuale di Ravenna, ai quali la pensione di anzianità era stata liquidata con decorrenza 1° maggio 1987, avendo ricevuto dall'INAIL l'attestazione di esposizione all'amianto per oltre un decennio, hanno chiesto il riconoscimento del beneficio della rivalutazione contributiva di cui all'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257, il Tribunale di Ravenna, con ordinanza del 18 dicembre 2001, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del citato art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto), come modificato dalla legge 27 marzo 1993, n. 271 – recte: come modificato dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 5 giugno 1993, n. 169 (Disposizioni urgenti per i lavoratori del settore dell'amianto), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 1993, n. 271 – e dell'art. 80, comma 25, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), nella parte in cui, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, non stabiliscono che l'erogazione del beneficio della rivalutazione contributiva ivi prevista spetti ai lavoratori esposti all'amianto per oltre un decennio che fossero già pensionati al momento dell'entrata in vigore della citata legge n. 257 del 1992.

Il Tribunale remittente, dopo aver precisato che da un atto di indirizzo del Ministero del lavoro e della previdenza sociale del 20 aprile 2000 risulta che per i lavoratori portuali l'esposizione all'amianto attraverso manipolazioni dirette ha avuto inizio alla data della relativa assunzione (coincidente con l'iscrizione nei registri portuali) e si è conclusa prima della entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, essendo cessata il 31 dicembre 1990, fa una serie di considerazioni relative all'uso nocivo dell'amianto, ai progressi della scienza medica al riguardo, alla relativa consapevolezza dimostrata dalla Comunità europea fin dal 1983 (direttiva del Consiglio n. 83/477/CEE) ed al ritardo dell'Italia nel dare attuazione alla suddetta direttiva, avendo il nostro Paese provveduto a tale doverosa incombenza solo con il decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277, emanato dopo una condanna subita da parte della Corte di giustizia CEE (sentenza 13 dicembre 1990, n. 240).

In tale situazione, anche in considerazione dell'inclusione, da parte della giurisprudenza della Corte di cassazione, nella platea dei destinatari del beneficio de quo di tutti i soggetti ancora inseriti nel mondo del lavoro alla data di entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, qualunque fosse il loro stato occupazionale del momento (di occupato nel settore dell'amianto, di disoccupato, di sospeso ovvero di occupato in un settore diverso), a prescindere dall'attualità dell'esposizione, così come addirittura dei titolari di pensione o assegno di invalidità (sul presupposto del mantenimento da parte loro di una residua capacità lavorativa), non si comprende come mai la stessa Corte, con giurisprudenza ormai consolidata, abbia sempre escluso l'applicabilità del beneficio di cui si tratta nei confronti di coloro che al momento dell'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992 fossero già titolari di pensione di anzianità (come gli attuali ricorrenti) ovvero di vecchiaia.

Osserva il remittente che diverse sono le censure che possono essere mosse non solo al più volte citato art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992, interpretato nel senso suindicato, ma anche all'art. 80, comma 25, della successiva legge n. 388 del 2000, che dello stesso art. 13, comma 8, fornirebbe indiretta interpretazione autentica.

Le suddette disposizioni si pongono, infatti, in contrasto con i parametri invocati in primo luogo perché, in violazione del principio di eguaglianza, riservano ai soggetti già pensionati di cui si è detto un trattamento ingiustificatamente deteriore rispetto agli altri soggetti che si ritengono compresi fra i destinatari del beneficio di natura previdenziale in argomento, pur essendo stata accertata nei loro confronti la medesima situazione di rischio.

Sarebbe, inoltre, ravvisabile un contrasto con il principio di razionalità e coerenza normativa di cui all'art. 3 della Costituzione in quanto, se il contenuto precettivo delle disposizioni impugnate fosse quello loro attribuito dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, esse sarebbero in conflitto con la loro stessa ratio – da individuare, anche secondo quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 5 del 2000, nella volontà del legislatore di offrire un indennizzo a tutti i lavoratori che sono stati esposti ad un rischio ritenuto morbigeno – perché si finirebbe "per negare lo stesso indennizzo ad una circoscritta categoria di soggetti che hanno subito la stessa esposizione parimenti morbigena per motivi di lavoro" di coloro del cui diritto non si dubita.

Con specifico riguardo all'art. 80, comma 25, della legge n. 388 del 2000, il remittente precisa, inoltre, che tale norma si porrebbe in contrasto con l'art. 3 della Costituzione anche ove stabilisce che non si fa luogo al recupero, da parte dell'INPS, degli importi oggetto di ripetizione di indebito nei confronti dei titolari di pensione interessati al beneficio, in conseguenza della rinuncia all'azione da parte del pensionato e dell'estinzione del relativo procedimento. Tale norma sembrerebbe, infatti, configurare solo per tali soggetti "una forma indiretta di coazione a rinunciare alla prosecuzione del giudizio".

Nell'ordinanza si sostiene infine che, come è già stato sottolineato nella citata sentenza di questa Corte n. 5 del 2000, e non è stato considerato invece dalla giurisprudenza ordinaria che si contesta, la legge n. 257 del 1992 ha una copertura finanziaria che non è dei soli 72 miliardi di lire previsti nel d.l. n. 169 del 1993 ma anche dei 110 miliardi di lire originariamente stanziati dall'art. 13, comma 12, della legge n. 257 medesima. Detto questo, se si pone un problema di sufficienza di questa copertura, esso non può valere solo per una categoria di soggetti (i pensionati di anzianità al momento dell'introduzione del beneficio) ma, caso mai, deve porsi per tutti coloro che hanno titolo ad essere destinatari del beneficio, non potendo, secondo quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 136 del 2001, l'esigenza del contenimento della spesa "autorizzare un uso sperequato e discriminatorio della discrezionalità normativa che sconfini nella aperta violazione di altri principi cardine dell'ordinamento costituzionale".

 2.— Nel giudizio davanti alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso chiedendo, anche in una memoria aggiunta, che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.

La difesa erariale, dopo aver osservato che il remittente pone in realtà in discussione scelte di politica sociale riservate alla discrezionalità del legislatore, sottolinea che la ricostruzione interpretativa della normativa impugnata operata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, a partire dalla sentenza n. 6605 del 1998, cui il Tribunale di Ravenna si oppone, è invece da considerare quella maggiormente conforme al dato letterale, sistematico e teleologico delle disposizioni impugnate. E', infatti, da ritenere che il legislatore abbia concepito il beneficio contributivo in discussione come meccanismo diretto a facilitare il raggiungimento dei requisiti assicurativi necessari per l'accesso al pensionamento e non come strumento finalizzato ad incrementare i trattamenti pensionistici già erogati al momento dell'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992. Questa è l'unica interpretazione della disposizione di cui all'art. 13, comma 8, della citata legge n. 257 del 1992, attualmente impugnato, che risulti armonica rispetto ai precedenti commi 2 e 7 dello stesso art. 13 ed è anche l'interpretazione su cui poggia la copiosa giurisprudenza della Corte di cassazione che ha legittimamente diversificato il trattamento da attribuire ai soggetti già titolari di pensione di anzianità e di vecchiaia rispetto ai titolari di assegno e pensione di invalidità. Soltanto a questi ultimi è stata riconosciuta la possibilità di avvalersi della rivalutazione contributiva de qua in quanto solo ad essi può essere riconosciuta una residua capacità lavorativa, con l'esigenza di incrementare l'anzianità contributiva per conseguire le prestazioni di vecchiaia.

La suddetta interpretazione la quale, quindi, esclude che il beneficio contributivo di cui si tratta possa essere attribuito a tutti i soggetti che comunque, nel corso della loro vita lavorativa, siano stati esposti ad inalazione di fibre di amianto, è stata confermata ed arricchita di ulteriori argomenti dalla Corte di cassazione anche dopo la sentenza costituzionale n. 5 del 2000 (v. per tutte Cass. 3 aprile 2001, n. 4913) ed è l'unica che risulta coerente con la copertura di spesa predisposta dal legislatore in materia. Va, infatti, considerato al riguardo che, allo stato, hanno ottenuto il riconoscimento dell'esposizione ultradecennale all'amianto 42.000 lavoratori, di cui 10.108 attivi al momento della entrata in vigore della citata legge n. 257 del 1992, mentre risultano presentate circa 132.000 domande di riconoscimento di esposizione all'amianto. Da ciò si desume che, in considerazione della platea dei potenziali interessati, una eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale della normativa impugnata determinerebbe "rilevanti maggiori oneri a carico della finanza pubblica".

L'Avvocatura dello Stato sostiene, infine, la natura meramente interpretativa della questione in argomento.

3.— Si è costituito l'INPS che ha concluso chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

L'Istituto sottolinea che la norma di cui all'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992 deve essere riguardata nell'ambito della logica dei prepensionamenti, come ritenuto fin dalle sue prime pronunce in argomento dalla Corte di cassazione. Interpretare la norma in modo diverso vorrebbe dire non solo snaturare la ratio legis – consistente nella introduzione di un meccanismo diretto a favorire il pensionamento dei lavoratori esposti all'amianto – ma significherebbe anche attribuire un identico trattamento a situazioni disomogenee, come ha lucidamente sottolineato la stessa Corte di cassazione nella sentenza n. 12524 del 2001, nella quale si è fra l'altro ritenuta manifestamente infondata una questione di costituzionalità analoga a quella attualmente sollevata richiamandosi il principio, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui "non può contrastare con il principio di uguaglianza un differenziato trattamento applicato alla stessa categoria di soggetti ma in momenti diversi nel tempo perché lo stesso fluire di questo costituisce di per sé un elemento diversificatore".

Considerato in diritto

1.— Il Tribunale di Ravenna, nel corso di un giudizio civile per la riliquidazione della pensione di anzianità promosso contro l'INPS da due lavoratori portuali collocati in quiescenza il 30 aprile 1987 ed in possesso dell'attestazione dell'INAIL di essere stati esposti alle polveri di amianto per oltre un decennio, ha sollevato, con riferimento agli artt. 3, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto), come modificato dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 5 giugno 1993, n. 169 ( Disposizioni urgenti per i lavoratori del settore dell'amianto), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 1993, n. 271, e dell'art. 80, comma 25, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), in quanto dette norme, come costantemente interpretate dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, non prevedono che spetti ai soggetti già titolari di pensione di anzianità o di vecchiaia al momento di entrata in vigore della legge n. 257 del 1992 (28 aprile 1992) il beneficio contributivo di cui al citato art. 13, comma 8, della stessa, consistente nella moltiplicazione, ai fini delle prestazioni pensionistiche, per il coefficiente di 1,5 dell'intero periodo lavorativo soggetto all'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall'esposizione all'amianto.

Secondo il remittente il beneficio oggetto del giudizio a quo ha natura di indennizzo del pericolo corso dai lavoratori per essere stati esposti all'amianto per il periodo indicato; la moltiplicazione per il coefficiente di 1,5, ai fini delle prestazioni pensionistiche, dell'intero periodo lavorativo soggetto all'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall'esposizione all'amianto atterrebbe quindi al bene salute e non costituirebbe un'agevolazione all'esodo dei lavoratori impiegati in attività comportanti l'uso dell'amianto. Ciò, secondo l'opinione del remittente, è stato già affermato da questa Corte nella sentenza n. 5 del 2000 e successivamente dalla giurisprudenza ordinaria (Cass. 3 aprile 2001, n. 4913).

Una volta identificata nel senso suindicato la ratio del citato comma 8 dell'art. 13 della legge n. 257 del 1992, la inapplicabilità del beneficio ai lavoratori già fruenti della pensione di vecchiaia o di anzianità sarebbe irragionevole perché si risolverebbe nel praticare un trattamento ingiustificatamente deteriore a soggetti che si sono trovati nella medesima situazione di coloro ai quali esso si applica e contrasterebbe quindi con il principio di eguaglianza – art. 3 Cost. – nonché con l'art. 38, secondo comma, Cost., in quanto tali soggetti percepirebbero una prestazione previdenziale insufficiente.

L'illegittimità costituzionale del citato art. 13, comma 8, comporterebbe anche quella dell'art. 80, comma 25, della legge n. 388 del 2000 il quale stabilisce, in caso di rinuncia all'azione, l'estinzione dei giudizi aventi ad oggetto la domanda di riliquidazione della pensione proposta dai soggetti già pensionati al momento dell'entrata in vigore della prima norma, la compensazione delle spese e l'irripetibilità delle somme loro indebitamente erogate a tale titolo; norma quest'ultima che sembra contenere un'indiretta interpretazione autentica della prima e costituisce un'illegittima coazione nei confronti dei soggetti già pensionati a non far valere i propri diritti.

2.— Si rileva, in via preliminare, che le eccezioni di inammissibilità sollevate dall'Avvocatura dello Stato non possono essere accolte.

Non vale, infatti, nel caso in esame, invocare la discrezionalità legislativa perché il giudice remittente censura di irragionevolezza proprio la scelta operata dal legislatore, adducendone il contrasto con l'art. 3 della Costituzione.

Quanto alla rilevanza è sufficiente osservare che dall'ordinanza di remissione risulta che i soggetti attori nel giudizio a quo godevano della pensione di anzianità da circa cinque anni prima dell'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992.

3.— La questione non è fondata.

E' necessario ripercorrere l'iter degli interventi normativi, comunitari e nazionali, che si sono succeduti in materia di progressiva riduzione e di finale eliminazione dei rischi derivanti dall'uso dell'amianto, a partire dalla direttiva CEE n. 477 del 19 settembre 1983.

Nelle considerazioni premesse all'articolato, mentre si dava atto della nocività dell'amianto, si rilevava nel contempo che erano numerose le situazioni di lavoro in cui tale agente nocivo era presente; che le conoscenze scientifiche dell'epoca non consentivano di stabilire il livello al di sotto del quale non vi fossero più rischi per la salute, rischi da ritenere comunque proporzionati al tipo di lavorazione, al correlativo grado di concentrazione dell'amianto e ai tempi di esposizione.

Sulla base di tali considerazioni, il provvedimento dettava una serie di disposizioni dirette, anzitutto, ad accertare, mediante le opportune notifiche da parte delle imprese, le lavorazioni comunque comportanti l'uso dell'amianto ed i livelli di concentrazione e ad ottenere la eliminazione di un certo tipo di lavorazione (applicazione dell'amianto a spruzzo: art. 5), l'adozione di misure concernenti le modalità di svolgimento delle lavorazioni, la protezione degli ambienti in cui si svolgevano, ed, infine, l'accertamento delle condizioni di salute dei lavoratori e la dotazione di idonei equipaggiamenti individuali, qualora non fosse stato possibile eliminare altrimenti i rischi.

A tale direttiva gli Stati membri avrebbero dovuto dare attuazione entro il 1° gennaio 1987, ad esclusione delle attività estrattive dell'amianto per le quali era previsto un termine più lungo.

Poiché l'Italia non aveva adottato i provvedimenti dovuti, la Corte di giustizia delle Comunità europee, a seguito di procedura di infrazione promossa dalla Commissione, con sentenza 13 dicembre 1990, n. 240, la dichiarò inadempiente agli obblighi che le incombevano in forza del Trattato CEE.

Successivamente il Consiglio emise la direttiva n. 382 del 1991 con la quale, nel ribadire la nocività dell'amianto e la sua presenza in numerose situazioni di lavoro e quindi la necessità di prevederne la sostituzione con altro materiale non pericoloso o meno pericoloso, vietò, in aggiunta alla applicazione a spruzzo, altre forme d'impiego del materiale e indicò nuovi valori limite, pur dando ancora atto che non erano del tutto noti allo stato delle conoscenze scientifiche le circostanze in cui l'amianto poteva essere morbigeno e i tempi di insorgenza delle diverse patologie.

Per dare attuazione alla suindicata direttiva n. 477 del 1983 e ad altre concernenti la protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, in esecuzione della delega di cui all'art. 7 della legge 30 luglio 1990, n. 212, fu emesso il decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277, il quale, tra l'altro, all'art. 31 fissò i valori limite di esposizione alla polvere di amianto, espressi come media ponderata in funzione del tempo di riferimento di otto ore.

Fu poi emanata la legge n. 257 del 1992 il cui art. 1, comma 1, individua le finalità con essa perseguite nella dismissione dell'amianto dalla produzione e dal commercio, nella cessazione dell'estrazione, dell'importazione, dell'esportazione, dell'utilizzazione di detto materiale e dei prodotti che lo contengono, nonché nella bonifica delle aree inquinate, nella ricerca di materiali sostitutivi e nella riconversione produttiva.

L'art. 13 della legge in esame, costituente il capo IV intitolato "Misure di sostegno per i lavoratori", prevede una serie di misure di carattere previdenziale: collocamento in cassa integrazione straordinaria, pensionamenti anticipati per un numero limitato di lavoratori calcolato in seicento unità, rivalutazione ai fini contributivi del periodo di lavoro durante il quale i lavoratori fossero stati esposti all'amianto.

Nell'ambito di tali misure fu inserito, al comma 8, il beneficio di cui si discute nel presente giudizio. Il testo originario della disposizione era il seguente: "Ai fini del conseguimento delle prestazioni pensionistiche i periodi di lavoro soggetti all'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall'esposizione all'amianto gestita dall'INAIL quando superano i dieci anni sono moltiplicati per il coefficiente di 1,5".

L'ultima parte della disposizione dette luogo ad incertezze interpretative in quanto si ritenne non chiaro se ad essere soggetto a rivalutazione mediante moltiplicazione per il coefficiente indicato fosse soltanto il periodo di lavoro eccedente il decennio, oppure l'intero periodo di esposizione all'amianto una volta che esso si fosse protratto per più di dieci anni (cfr. Camera dei deputati, XI legislatura, Assemblea, discussioni, resoconto della seduta del 12 luglio 1993, intervento del relatore del disegno di legge n. 2744 di conversione del d.l. n. 169 del 1993).

Il Governo intervenne con decretazione d'urgenza e, dopo un primo decreto-legge (5 aprile 1993, n. 95) non convertito, fu emesso il d.l. n. 169 del 1993, convertito con modifiche nella legge n. 271 del 1993.

Il testo originario dell'art. 1 del d.l. n. 169 del 1993, sostitutivo del comma 8 dell'art. 13 della legge n. 257 del 1992, era così formulato: "Per i lavoratori dipendenti dalle imprese che estraggono amianto o utilizzano amianto come materia prima, anche se in corso di dismissione o sottoposte a procedura fallimentare o fallite o dismesse, che siano stati esposti all'amianto per un periodo superiore ai dieci anni, l'intero periodo lavorativo soggetto all'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall'esposizione all'amianto, gestita dall'INAIL, è moltiplicato, ai fini delle prestazioni pensionistiche, per il coefficiente di 1,5".

In sede di conversione fu eliminato ogni riferimento al tipo di attività svolta dalle imprese ed alla situazione in cui esse versassero.

 4.— L'esposizione della vicenda legislativa in cui si colloca la prima delle norme censurate consente di escludere che la ratio della medesima sia quella, risarcitoria o indennitaria, indicata dal remittente, con ciò venendo meno lo stesso presupposto della sua asserita illegittimità costituzionale in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

La legge n. 257 del 1992 ha la sua origine storica nella direttiva comunitaria n. 477 del 1983 che, sulla base della accertata nocività dell'amianto, prescriveva l'adozione di una serie di misure finalizzate all'eliminazione dei rischi derivanti dall'utilizzazione del suindicato materiale in ogni fase e con qualsiasi modalità di lavorazione (come è reso palese anche dall'esplicito riferimento alla "cessazione dell'impiego dell'amianto" contenuto nel suo titolo).

A sua volta, il capo IV della legge stessa, che si esaurisce nell'art. 13, è intitolato "Misure di sostegno per i lavoratori" e contiene, come si è detto, altre misure oltre quella in oggetto, quali il collocamento in cassa integrazione ed i prepensionamenti, riguardanti, per loro natura, soltanto i soggetti ancora inseriti nel circuito lavorativo e quindi la sorte del loro rapporto di lavoro in considerazione della difficoltà di instaurarne altri.

Inoltre, il testo originario del comma 8 dell'art. 13 della legge n. 257 del 1992 iniziava con l'espressione "ai fini del conseguimento delle prestazioni pensionistiche…". La necessità di modificare tale testo sorse non con riguardo a siffatta espressione, bensì, come si è detto e come risulta con chiarezza dai lavori preparatori alla legge n. 271 del 1993 (v. Camera dei deputati, XI legislatura, Assemblea, discussioni, resoconto della seduta del 12 luglio 1993, citato intervento del relatore del relativo disegno di legge n. 2744), riguardo alla determinazione del periodo lavorativo oggetto della rivalutazione. Ne consegue che l'espressione "ai fini delle prestazioni pensionistiche", contenuta nel testo attuale della norma censurata, deve essere letta come riferentesi alle prestazioni pensionistiche da conseguire e cioè come sostanzialmente equivalente a quella originaria.

Tale opinione trova ulteriore conforto in affermazioni formulate nel corso dei lavori preparatori ed, in particolare, nel passo della relazione citata in cui la disposizione in questione viene assimilata a quelle concernenti la cassa integrazione ed i prepensionamenti nonché nella precisazione effettuata nella successiva discussione in Assemblea secondo cui il beneficio era diretto ai lavoratori che "per il solo motivo di aver lavorato l'amianto e per il carattere morbigeno di tale lavorazione non trovano spazi sul mercato del lavoro, ormai tutto nominativo".

 5.— Il giudice remittente sostiene che, se la misura in questione fosse predisposta ad ovviare alla difficoltà per i lavoratori del settore amianto di mantenere il posto di lavoro o di trovarne altro, e quindi ad assicurarne il collocamento in quiescenza, essa non raggiungerebbe lo scopo in quanto il periodo contributivo di quindici anni – e cioè il minimo garantito dalla norma in esame – non sarebbe sufficiente per la maturazione del diritto a pensione. Il giudice a quo sostiene inoltre che questa Corte nella sentenza n. 5 del 2000 ha già affermato la funzione risarcitoria della rivalutazione contributiva prevista dal comma 8 dell'art. 13 impugnato. Infine, ad avviso del Tribunale di Ravenna, l'esclusione dei soggetti già pensionati al momento dell'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992 non potrebbe essere giustificata neppure con il rispetto delle esigenze di bilancio, perché tali esigenze sono state soddisfatte con l'individuazione dei necessari stanziamenti, come questa Corte ha ritenuto con la sentenza citata.

 

6.— Nessuna di tali tesi può essere condivisa.

Come si è premesso, gli organi della Comunità ed il legislatore nazionale si sono trovati a dover dettar norme riguardanti una materia della quale molti aspetti non erano del tutto noti. Infatti, se da un lato la nocività dell'amianto era da tempo accertata, non erano – e non lo sono tuttora – appieno conosciuti le modalità ed i tempi con i quali le polveri di amianto producono le gravi patologie ad esse riconducibili; d'altro canto, l'utilizzazione dell'amianto non era ristretta a ben precise categorie di imprese, sicché non era possibile identificare i beneficiari con riguardo al tipo di azienda in cui lavorassero o avessero lavorato. Proprio la consapevolezza che la realtà di fatto delle imprese e delle lavorazioni comportanti in qualsiasi forma l'uso dell'amianto non era determinabile indusse il Parlamento all'eliminazione, in sede di conversione, di quella parte della norma che delimitava la platea dei destinatari del beneficio in relazione all'appartenenza ad imprese che estraessero o utilizzassero amianto come materia prima. Da qui il carattere approssimativo della normativa rispetto ai fini perseguiti, ma non contraddittorio né irragionevole. D'altra parte, come questa Corte ha affermato, non ogni incoerenza o imprecisione di una normativa può venire in questione ai fini dello scrutinio di costituzionalità (v., tra le altre, proprio la sentenza n. 5 del 2000 invocata dal remittente).

Né è vero che questa Corte, nella sentenza n. 5 del 2000, abbia affermato il carattere risarcitorio del beneficio in esame escludendo che esso abbia invece la principale funzione di permettere ai lavoratori coinvolti nel processo di dismissione delle lavorazioni comportanti l'uso dell'amianto di ottenere il diritto alla pensione.

Nello stabilire il significato ed il valore di un precedente occorre tenere conto del contesto e, soprattutto, identificarne la ratio con riguardo alla questione oggetto della decisione. Il quesito al quale questa Corte ha risposto con la sentenza da ultimo richiamata consisteva nello stabilire se la norma dell'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992 come modificata, avesse descritto una fattispecie sufficientemente determinata, tale da escludere l'attribuzione all'amministrazione di una discrezionalità così ampia da rendere possibili trattamenti diversi per casi analoghi o eguale trattamento di situazioni diverse. La decisione fu positiva nel senso che la fissazione del tempo di esposizione all'amianto – oltre un decennio – unitamente a quella del limite superato il quale la concentrazione dell'amianto aveva potenzialità morbigene induceva a negare la paventata eventualità, senza alcun riferimento al profilo prospettato dal remittente.

Alla luce di queste considerazioni, l'espressione contenuta nella sentenza stessa che la norma ha "la finalità di offrire, ai lavoratori esposti all'amianto per un apprezzabile periodo di tempo (almeno dieci anni), un beneficio correlato alla possibile incidenza invalidante di lavorazioni che, in qualche modo, presentano potenzialità morbigene" non ha il valore che le attribuisce il remittente. Si può infatti osservare che proprio la possibilità di contrarre una patologia derivante dall'esposizione all'amianto rende difficile la collocazione al lavoro delle persone che si siano trovate nella situazione descritta dalla norma, come fu rilevato anche nel corso dei lavori preparatori.

Non assume alcun rilievo in senso contrario a quanto si è esposto la ricomprensione tra i destinatari della disposizione di coloro che, pur non avendo ancora raggiunto l'anzianità contributiva massima, abbiano maturato prima dell'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, anche senza l'applicazione del beneficio di cui si tratta, i requisiti di contribuzione per il conseguimento della pensione di anzianità o di vecchiaia e siano stati collocati in quiescenza in data successiva, atteso che essa trova giustificazione nel principio generale secondo cui le prestazioni si liquidano sulla base della legge vigente alla data della liquidazione stessa. La circostanza che tale inclusione si traduce, così come avverrebbe per i pensionati attualmente esclusi dalla rivalutazione contributiva, nella possibilità di ottenere un aumento della misura della pensione e non in un'agevolazione per il raggiungimento del trattamento pensionistico non è sufficiente a determinare la necessità di una parificazione di disciplina in quanto, come più volte è stato affermato da questa Corte, "l'estensione di agevolazioni a categorie di soggetti non contemplate dalla disciplina di favore può ritenersi costituzionalmente necessitata solo ove, accertata la piena omogeneità delle situazioni poste a confronto, lo esiga la ratio della disciplina invocata quale tertium comparationis" (v. sentenze n. 431 del 1997 e n. 86 del 1985, nonché ordinanza n. 194 del 2000). Nella specie, tale omogeneità va esclusa in considerazione della diversità di date di conseguimento del diritto cui si deve fare riferimento per ciascuna delle categorie di soggetti di cui si tratta e della corrispondenza di tale criterio discretivo ai principi generali regolatori della materia, corrispondenza che porta a concludere che il legislatore ha esercitato non irragionevolmente la discrezionalità che gli compete nella scelta delle modalità di configurazione dei trattamenti che – come la rivalutazione contributiva in oggetto – abbiano carattere eccezionale.

Ma ciò che più conta è che anche nei confronti dei soggetti già in possesso al 28 aprile 1992 dei requisiti per ottenere la pensione di anzianità o di vecchiaia il beneficio di cui si discute conserva la finalità di incentivare l'esodo dal mondo del lavoro.

Infine, non è condivisibile l'opinione del giudice a quo secondo la quale il legislatore avrebbe previsto l'estensione del beneficio ai soggetti già fruenti della pensione di anzianità o di vecchiaia al momento di entrata in vigore della legge, indicando le somme occorrenti per provvedervi e i relativi stanziamenti.

Basta rilevare sul punto che, mentre non risulta che alcuna indagine preventiva fu svolta riguardo al numero dei lavoratori già pensionati all'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, il rappresentante del Governo manifestò perplessità sull'adeguatezza degli stanziamenti qualora fosse stata eliminata dal decreto la limitazione del beneficio ai lavoratori operanti in imprese estrattive o che impiegavano l'amianto come materia prima (v. Camera dei deputati, XI legislatura, Assemblea, discussioni, resoconto della seduta del 12 luglio 1993, p. 15950 e s.).

 7.— La questione non è fondata neppure in riferimento all'art. 38, secondo comma, della Costituzione.

Questa Corte, infatti, ha più volte escluso che la garanzia prevista da tale precetto costituzionale possa riguardare le pensioni di anzianità liquidate, come quelle cui si riferisce il presente giudizio, nel regime precedente alla riforma introdotta dalla legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), presupponendo esse la sola maturazione di una determinata anzianità contributiva (v. sentenza n. 416 del 1999 e ordinanza n. 70 del 2002).

Comunque, pur prescindendo dalla suddetta considerazione, all'infondatezza della questione si perviene in linea generale anche in base all'affermazione di questa Corte secondo cui la norma costituzionale di cui si tratta "esige che il trattamento previdenziale sia sufficiente ad assicurare le esigenze di vita del lavoratore pensionato; ma nell'attuazione di tale principio al legislatore deve riconoscersi un margine di discrezionalità, anche in relazione alle risorse disponibili, almeno quando non sia in gioco la garanzia delle esigenze minime di protezione della persona" (cfr., ex multis, sentenza n. 180 del 2001 e ordinanza n. 342 del 2002).

 8.— L'infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992 determina l'infondatezza anche della questione di costituzionalità concernente l'art. 80, comma 25, della legge n. 388 del 2000, sollevata come derivante dalla illegittimità della prima norma censurata sotto il profilo che il citato comma 25 ne costituirebbe una singolare forma d'interpretazione autentica. Infatti, una volta ritenuta la legittimità costituzionale del citato art. 13, comma 8, interpretato nel senso che esso esclude dal beneficio i soggetti già pensionati per anzianità o vecchiaia al momento dell'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, viene meno ogni dubbio sulla legittimità del suindicato art. 80 sotto il profilo che costituirebbe una coazione alla rinuncia a far valere un diritto.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto), come modificato dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 5 giugno 1993, n. 169 (Disposizioni urgenti per i lavoratori del settore dell'amianto), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 1993, n. 271, e dell'art. 80, comma 25, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Ravenna con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 ottobre 2002.

Depositata in Cancelleria il 31 ottobre 2002.

 

II

Tribunale di Ravenna (sezione lavoro, 1° grado) 20 aprile 2003 (ud. 26 marzo 2003) – Giud. Riverso – Serafini Sivano ed altri (avv. ti Miscione, Casadio)  c. INPS – Istituto nazionale della previdenza sociale (avv. Caruso, Vagliasindi).

Previdenza sociale – Benefici di maggiorazione contributiva per esposizione ad amianto – Per coloro che si trovavano già in pensione alla data di entrata in vigore della l. n. 257/92 – Spettanza – Dissenso dalle argomentazioni di dinego di cui alla sentenza di rigetto di Corte cost. n. 434/2002 – Argomentazioni.

In aderenza a quella componente compensativa del rischio, immanente nell’applicazione del beneficio introdotto dalla l. n. 257/92, la rivalutazione contributiva non può essere negata, in virtù di un’interpretazione conforme a Costituzione, al lavoratore certificato come esposto dall’INAIL benché pensionato ante legem 257: perché egli  si è trovato nella stessa situazione di rischio (se non in una situazione peggiore) del collega di lavoro dello stesso settore al quale l’analogo beneficio dell’incremento della misura della pensione è stato concesso per effetto dell’identica esposizione (subita nel passato). Ne le due posizioni a confrontodi soggetti che hanno maturato entrambi il diritto a pensione prima della legge 257/92 a prescindere dalla stessa - possono essere differenziate sotto il profilo del fattore temporale; per il fatto cioè che uno dei due si trovi ancora in attività al momento dell’entrata in vigore della normativa.
Si è già visto infatti per un verso che il beneficio viene concesso anche a chi non subisce alcun pregiudizio occupazionale per effetto dell’abolizione dell’uso dell’amianto ed anche a chi non è occupato al momento della legge (come ad es. il disoccupato o l’invalido); mentre, per altro verso, l’esposizione che rileva nella struttura della norma è quella che si è consumata nel passato.
Del tutto incongruo sarebbe infatti pensare di considerare come elemento differenziale tra l’uno e l’altro soggetto una potenziale situazione di esposizione attuale; perché ciò significherebbe anzitutto decretare il fallimento del sistema di prevenzione introdotto con il d.lgs 277/91.
Del resto proprio secondo l’unanime giurisprudenza l’attualità lavorativa non è requisito costitutivo del beneficio; tanto che lo stesso beneficio si applica ai lavoratori già transitati in settori diversi fin da prima della legge; ai lavoratori disoccupati ed agli invalidi.  Non si spiega dunque come, in base a quale criterio, nell’ipotesi in cui il beneficio serva a tutti questi lavoratori ai soli fini dell’incremento della misura della pensione, il fattore tempo possa servire a differenziare la situazione di chi è al lavoro o è disoccupato dopo la legge da chi ha cessato il lavoro prima della legge.
La tesi secondo cui la legge presuppone un rapporto di lavoro in atto è stata superata dalla stessa Cassazione allorché ha considerato che il principio di eguaglianza impone l’estensione del beneficio anche ai lavoratori disoccupati, a chi ha cambiato azienda, a chi è stato licenziato ed ai pensionati per invalidità civile (v. espressamente sentenza Cass. n.5746 del 19.4.2001, rel. Menichiello). L’argomento secondo cui la norma avrebbe come suo scopo esclusivo,  diretto ed indefettibile di assicurare il “conseguimento della pensione” ad alcuni lavoratori  - (sempre quelli del settore amianto, per sopperire alla perdita del posto di lavoro ed allontanarli dal rischio), per cui non si può applicare a chi ha già la pensione- non resiste ad una semplice verifica logica e sistematica.
Non si tiene conto del fatto che il beneficio dell’art.13,comma 8° è stato pensato per valere sempre, vale cioè sia per il conseguimento della pensione, sia per la misura della pensione.
Sotto questo profilo cioè non si vuole tenere conto del modo in cui è stato concepito e strutturato il beneficio dalla legge: rapportato al tempo dell’ esposizione; al lavoratore spetta tanta rivalutazione contributiva quanto è il tempo di esposizione!. Anche se la stessa contribuzione non fosse sufficiente per far conseguire la pensione (da conseguire più in là); anche se, per converso, essa fosse invece sovrabbondante rispetto al traguardo rappresentato dal requisito contributivo minimo necessario per il conseguimento della pensione, e quindi anche se esso serva solo ad incrementare la pensione (da conseguire o già conseguita).
Insomma nessuna sterilizzazione e decurtazione è possibile; dice la legge: “l’intero periodo lavorativo .. è  moltiplicato per il coefficiente di 1,5”; “ ai fini delle prestazioni pensionistiche” (vi sono due, non uno, argomenti testuali nella legge a questo proposito).
Va poi considerato che per negare il beneficio ai lavoratori pensionati si neutralizza, si mutila, anche il valore normativo specifico, interno alla stessa disposizione, che discende dall’espressione “ai fini delle prestazioni pensionistiche”; un’espressione che con carattere di ampiezza e di novità rispetto all’espressione “ai fini  del conseguimento delle prestazioni pensionistiche”,  utilizzata  negli altri commi della stessa norma (ed anche rispetto alla originaria stesura della legge), consentirebbe  invece esplicitamente, de plano, la soluzione positiva del riconoscimento del beneficio per i pensionati (per tutti i pensionati) nei limiti in cui il beneficio possa esercitare effetti ai fini di incrementare le prestazioni già conseguite.
Non meno infondato risulta poi l’ulteriore argomento che si è opposto alla richiesta dei pensionati, allorché si è pure sostenuto che il beneficio previdenziale non può essere riconosciuto ai pensionati esposti perché nell’ipotesi in cui uno di essi avesse già raggiunto il massimo contributivo…il beneficio non potrebbe essere operativo. L’obiezione non è fondata nemmeno in diritto perché anche nei confronti del pensionato che avesse già raggiunto il massimo della contribuzione versata, il riconoscimento del beneficio legale sarebbe in grado di portare ad un utile risultato permettendo la liquidazione di un supplemento di pensione (cioè di una quota aggiuntiva che si somma all’importo già determinato) ex art.7 l. 155/81 ( circ.Inps 259/94).
Svolgimento del processo
Con il ricorso depositato in atti i ricorrenti indicati in epigrafe adivano questo giudice contro l’INPS sostenendo di essere stati riconosciuti dall’Inail quali lavoratori esposti all’amianto per aver lavorato presso il datore di lavoro indicato in ricorso svolgendo le mansioni ivi elencate; di essere attualmente pensionati con decorrenza anteriore all’entrata in vigore della legge 257/92; di aver maturato il diritto alla rivalutazione dei periodi contributivi ai sensi dell’art.13, comma 8 della legge 27/3/92 n.257 il quale prevede tale beneficio per i “lavoratori che siano stati esposti all’amianto per un periodo superiore a dieci anni...”.
A fondamento della domanda i ricorrenti osservavano che l’art.13 della legge 257/92 ha una disciplina composita e preveda una varietà di benefici (“una diversificata gamma di benefici previdenziali; Corte Cost.n.5/2000) distinti per natura, presupposti e destinatari; in particolare richiamavano l’evoluzione legislativa che aveva subito la specifica disposizione del comma 8° dell’art.13, che era stata ad un certo punto novellata con un decreto legge ( il n.139 del 5.06.93) col quale si faceva riferimento ad una categoria più ristretta di lavoratori “dipendenti delle imprese che estraggono o utilizzano amianto come materia prima….”; ricordavano a questo proposito, che come osservato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 5/2000: “ In sede di conversione del predetto provvedimento d’urgenza, la legge 4 agosto 1993, n.271 ha soppresso la locuzione ‘dipendenti dall’ imprese che estraggono o lavorano l’amianto come materia prima, anche se in corso di dismissione o sottoposte a procedure fallimentari o fallite o dismesse’, così intendendo soddisfare – secondo quanto si evince dai lavori preparatori – l’esigenza di attribuire centralità, ai fini dell’applicazione del beneficio previdenziale all’assoggettamento  dei lavoratori all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’amianto, escludendo al tempo stesso, ogni selezione che potesse derivare dal riferimento alla tipologia dell’attività produttiva del datore di lavoro”; che pertanto non era possibile sostenere la limitazione del beneficio ai soli lavoratori appartenenti al c. d. settore amianto ovvero ad astratte categorie merceologiche, perché il beneficio era stato voluto per tutti i lavoratori comunque esposti alla sostanza nociva per oltre dieci anni.
Sulla scorta di tali premesse, ampiamente illustrate in punto di fatto e di diritto, la difesa dei ricorrenti chiedeva l’accoglimento delle conclusioni precisate in epigrafe.
Con memoria ritualmente depositata si è costituito in giudizio l’INPS sostenendo che per ottenere il beneficio previsto dall’art.13, comma 8 cit. non era sufficiente che i lavoratori avessero subito l’esposizione per oltre dieci anni all’amianto essendo pure necessario non essere pensionati al momento dell’entrata in vigore della legge, siccome il beneficio in questione si rivolgerebbe ai soli lavoratori in attività al fine di agevolarne l’esodo;  che pertanto l’Istituto aveva respinto le domande di accredito del beneficio contributivo e di maggiorazione della pensione avanzate dai ricorrenti; concludeva pertanto per il rigetto integrale del ricorso.
La causa è stata istruita con il deposito di documenti e dopo la discussione effettuata dalle parti veniva pronunciata la decisione come da separato dispositivo.
Motivi della decisione
A. I lavoratori ricorrenti sono andati in pensione prima dell’entrata in vigore della legge 257/92 ed essendo stati riconosciuti come esposti all’amianto dall’Inail hanno richiesto il beneficio della rivalutazione contributiva previsto dal comma 8 dell’art.13 della legge.2571992: il quale  recita nel suo tenore testuale (sostituito dalla legge 4.8.1993 n.271) : “Per i lavoratori che siano stati esposti all’amianto per un periodo superiore a dieci anni, l’intero periodo lavorativo soggetto all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’esposizione all’amianto, gestita dall’INAIL, è moltiplicato, ai fini delle prestazioni pensionistiche, per il coefficiente di 1,5”.
Questo giudice non condivide l’orientamento della giurisprudenza che nega il beneficio della rivalutazione contributiva ai lavoratori esposti all’amianto pensionati prima della legge 257; lo stesso orientamento assegna alla norma il fine esclusivo di incentivare all’esodo il lavoratore appartenente del dimesso settore amianto; si tratta di una tesi che risulta in contrasto: con il contenuto della disposizione risultante dalla legge di modifica 4.8.1993 n.271; con la volontà del legislatore resa palese dalla lettura dei lavori preparatori; con la concreta quotidiana applicazione della norma in sede amministrativa; con l’interpretazione che sulla ratio della disposizione ha dato la giurisprudenza di merito, di legittimità ed  anche costituzionale; con il sistema normativo e le leggi anche successive; e, non ultimo, con il sentimento di concreta giustizia che deve animare ogni giudice nella ricerca dell’interpretazione della norma maggiormente conforme alla Costituzione. 
B. La sentenza  della Corte Costituzionale del 21.10.2002 n. 434.
Sulla spettanza del beneficio di cui all’art.13, comma 8° della 257/92 ai lavoratori esposti all’amianto, già pensionati al momento di entrata in vigore della stessa legge, si è pronunciata recentemente la Corte Costituzionale con la sentenza n.434/2002.
La Corte ha respinto le censure di costituzionalità sollevate in relazione agli artt.3,1, e 38 della Costituzione contro l’interpretazione dell’art.13,comma 8 che nega il beneficio ai pensionati ed ha riaffermato che questa disposizione ha la “principale funzione di permettere ai lavoratori coinvolti nel processo di dismissione delle lavorazioni comportanti l’uso dell’amianto di ottenere il diritto alla pensione”.
In sostanza anche la Corte Cost. ha ricollegato il beneficio in questione alla dismissione dell’amianto disposta con la stessa legge 257; ed ha quindi sostenuto la tesi che esso abbia la funzione di sopperire alla perdita del posto o alle difficoltà occupazionali per i lavoratori del  settore amianto e sia pertanto da riconoscere ai soli lavoratori in attività di servizio a quella data, in determinate aziende, al fine di agevolarne il prepensionamento.
Le sentenze di rigetto della Corte Costituzionale sono, ovviamente, non vincolanti nei confronti del giudice ordinario, libero di procedere all’interpretazione delle leggi  in vigore nell’ordinamento positivo e di optare per differenti soluzioni ermeneutiche.
Ritiene questo giudice di dover disattendere la decisione della Corte escludendo che agli argomenti utilizzati possa essere riconosciuta capacità persuasiva.
Va infatti osservato che per individuare il fine del beneficio nei termini sopra indicati la Corte Costituzionale ha utilizzato esclusivamente pretesi argomenti di natura storica che appaiono di secondaria importanza e, soprattutto, di valore neutro ai fini della soluzione della stessa questione.
Invece di interpretare lo stesso disposto normativo oggetto della censura  (secondo i consueti canoni: letterale, logico, sistematico) nel contenuto obiettivo risultante dalla specifica vicenda legislativa che - con apposito emendamento introdotto alla Camera dei Deputati in sede di conversione del decreto legge 169/93 - ha condotto all’attuale testo normativo; alla Corte è parso sufficiente ricordare – per identificare il fine della norma - che la legge 257/92 si ricollegherebbe alla direttiva CEE 477/83 e che la prima stesura dell’art.13,comma 8° della 257/92 diede origine a dubbi interpretativi sotto il profilo della identificazione del quantum della rivalutazione.
Si tratta di argomenti che non appaiono esaustivi ed insuperabili; né soprattutto tali da poter prevalere sull’analisi del testo della disposizione.
Il fatto che la legge 257/92 avrebbe un collegamento storico con la direttiva comunitaria n. 477/1983 - che prescriveva l’adozione di una serie di misure finalizzate all’eliminazione dei rischi derivanti dall’utilizzazione dell’amianto – non è argomento dirimente per identificare la ratio legis esclusivamente con la dismissione dell’amianto.
A tale proposito va considerato che proprio la direttiva 477 non prescrive la cessazione dell’uso dell’amianto; che proprio la l. 257/92 non è legge di attuazione della direttiva CEE 477/1983; che proprio la direttiva n. 477/1983 era già stata attuata un anno prima con il d.lgs 277/1991 il quale non prescrive nemmeno l’eliminazione dell’uso dell’amianto ma punta sulla prevenzione del rischio e sulla tutela della salute dei lavoratori .
Anche in altri Paesi Europei che hanno recepito prima dell’Italia quella direttiva a tutti oggi non vige il divieto di uso di amianto ma sono prescritte solo misure di salvaguardia.
In ogni caso, non si vede come una direttiva comunitaria - che mira a proteggere i lavoratori dal rischio di una sostanza nociva – possa rendere inconciliabile,  sul piano logico giuridico, l’accoglimento della tesi sul carattere compensativo del beneficio; tanto più se si riflette che proprio nelle premesse della Direttiva CEE 83/477 si riconosceva che “riducendo il tempo di esposizione a amianto, diminuirà il rischio di malattie ad esso connesse”; ed ancor di più se si considera la tardività, di circa 9 anni, con cui è stata recepita la stessa direttiva ed il fatto che lo Stato italiano sia stato condannato per questo inadempimento in sede comunitaria (il che evidentemente valorizza la prospettiva risarcitoria: perché quanto prima si fosse mosso lo Stato tanto prima si sarebbero create le condizioni giuridiche e storiche necessarie ad evitare che i lavoratori fossero lasciati esposti all’azione nociva della sostanza senza adeguate misure di protezione e ad impedire che l’amianto potesse influire in maniera drammatica sulla vita di migliaia di lavoratori).
L’argomento storico desunto dal richiamo della direttiva 477 non appare perciò di rilievo alcuno ai fini della identificazione della ratio del beneficio, potendo giustificare anche, ed ancor di più, l’ipotesi risarcitoria: come peraltro dimostrano tutte le sentenze della Cassazione e della Corte Costituzionale che partendo dalla rievocazione delle stesse premesse storiche erano pervenute a riconoscere una finalità indennitaria e compensativa a fondamento del beneficio.
2. Altra premessa storica che secondo la Corte influirebbe nell’identificazione della ratio della norma sarebbe la vicenda legislativa che ha portato alla modifica del testo dell’art.13, 8 co.
A questo proposito però la Corte Costituzionale si limita ad osservare che il testo originario dell’art. 13 diede luogo ad incertezze interpretative con riferimento all’identificazione del quantum (periodo di tempo) oggetto della rivalutazione contributiva  (solo la frazione eccedente il decennio ovvero tutto il periodo di esposizione purchè superiore al decennio); sicchè il d.l. n. 169/93, convertito con modifiche nella l. 271/93, eliminò questo dubbio e si stabilì che “ai fini della prestazioni pensionistiche” oggetto della rivalutazione fosse “l’intero periodo lavorativo soggetto all’assicurazione contro le malattie professionali”.
Anche sotto questo aspetto però può ripetersi, come sopra, che la necessità di eliminare il dubbio (mera occasio legis del d.l.169/93),  relativo all’identificazione del periodo di rivalutazione, risulta, in sé e per sé, argomento neutro rispetto alla identificazione della ratio della normativa; e che in ogni caso questa considerazione non poteva prevalere ed assorbire quella, ben più pregnante a fini esegetici, della valutazione del testo normativo risultante dall’intervento di modifica effettuato dal Parlamento sul decreto legge in sede di conversione.
3. E’ su questo aspetto che l’analisi della Corte Costituzionale appare carente: occorreva prestare attenzione – come la Corte aveva fatto in altre occasioni - al prodotto dell’operazione legislativa di modifica della normativa con l’eliminazione da parte del Parlamento di quella parte di essa che delimitava la platea dei destinatari in relazione all’appartenenza dell’impresa al c.d. settore amianto. Su questo aspetto determinante della vicenda la nuova sentenza della Corte Cost. non da invece alcuna spiegazione; e si limita invece ad evidenziare con evidente petizione di principio “il carattere approssimativo della normativa rispetto ai fini perseguiti” (dunque assegnati alla norma in via assiomatica).
Sul punto fanno però fede i lavori parlamentari che hanno portato alla modifica in sede di conversione del decreto legge 139/93 ( vedi resoconto della seduta della Camera dei Deputati 12-14.7.1993); i quali dimostrano come gli emendamenti, appositamente introdotti dalla Camera ed illustrati dal relatore (on. Morgando), fossero intesi – senza alcuna esitazione -  a “far sì che per tutti i lavoratori che siano stati esposti all’amianto per un periodo superiore a dieci anni l’intero periodo lavorativo soggetto ad assicurazione obbligatoria sia moltiplicato per il coefficiente di 1,5”. Di più risulta dai lavori preparatori che tutti i deputati intervenuti nel dibattito hanno attribuito lo stesso significato alla norma, richiamando il grave rischio alla salute che hanno corso i lavoratori; rammaricandosi piuttosto del limite di dieci anni; ricordando che la sostanza non ha limite di soglia; richiamando tutte le malattie asbesto correlate; ripromettendosi di intervenire in favore di altre lavorazioni usuranti;  senza mai sostenere che il beneficio fosse esclusivamente limitato ai soli lavoratori in difficoltà occupazionali ovvero appartenenti  a specifiche areee mercelogiche.
Dunque per individuare il fine della norma assumeva un peso determinante considerare (più dell’occasione storica) che l’intervento normativo effettuato fin dal 1993 con la l. 271 risultò ben più esteso di quello richiesto per l’eliminazione del dubbio relativo all’identificazione del periodo della rivalutazione.
La norma è stata infatti deliberatamente mutata nella sostanza sotto due profili essenziali: a) eliminando, in maniera motivata ed a seguito di nutrito dibattito parlamentare, il riferimento alle imprese del c.d. settore amianto (ossia “all’imprese che estraggono amianto o utilizzano amianto come materia prima” inserito nel decreto legge ed eliminato di proposito nella legge di conversione); b) allargando l’operatività del beneficio  “al fine delle prestazione pensionistiche” col venir meno del termine conseguimento.
Una piana lettura di questo specifico intervento dovrebbe portare a riconoscere che:
a) eliminando il riferimento alla tipologia dell’impresa ed allargando il beneficio a tutti i lavoratori delle ” circa 3000 applicazioni dell’amianto” ( v. intervento alla Camera dell’on. A. Muzio; atti cit.) lo scopo dell’attribuzione non può essere più ricostruito in termini di incentivazione all’esodo per i lavoratori del settore amianto ( o quantomeno non più in questi termini esclusivi) .
La norma si radica ora su un unico testuale elemento: l’esposizione ultradecennale di qualsiasi lavoratore al rischio amianto (al rischio cioè di contrarre  malattie professionali) quale che sia l’attività lavorativa  svolta ed il settore d’intervento; quale che sia la situazione occupazionale dell’avente diritto al momento dell’entrata in vigore della legge: occupato nel settore, occupato in altro settore, disoccupato, invalido (e per identità di ratio pensionato).  
Per attribuire il beneficio in base a questa norma l’interprete indaga solo se il lavoratore sia stato esposto oppure no all’amianto; non se abbia perso il posto di lavoro o se rischiava di perderlo; come dimostra la concreta applicazione della norma in sede giudiziaria ed amministrativa,  ed ora anche la legge 179/2002 (v. avanti).
b) Sotto l’altro profilo, l’eliminazione del termine “conseguimento” ha assicurato il massimo della latitudine all’applicazione di questo beneficio; esso opera infatti non solo ai fini del conseguimento della pensione ma anche ai fini dell’incremento della pensione (come dimostra la concreta applicazione della norma in sede amministrativa) ; e se vale ad incrementare la pensione, già maturata in diritto, del lavoratore in attività nel 92, può valere allo stesso identico fine di incrementare la pensione già conseguita dal lavoratore nel 92.
Insomma dalla nuova soluzione normativa scelta dal Parlamento deriva che tutto il periodo di esposizione sia soggetto alla rivalutazione e che il beneficio operi sempre ed in ogni direzione: serve a far conseguire la pensione, serve al fine di incrementarla, e serve anche al solo fine di accrescere la posizione contributiva ( e quindi anche quando non serve ai fini del pensionamento).
E’ dunque non si capisce come si possa assegnare alla norma il fine esclusivo di far “ottenere il diritto alla pensione” se la stessa norma venga poi applicata al caso in cui il lavoratore non possa conseguire la pensione e all’altro caso in cui il lavoratore abbia già acquisito il diritto alla pensione; perché nel primo caso il lavoratore dovrà rimanere al lavoro se vuole acquistare il diritto a pensione; mentre nel secondo caso il lavoratore potrà utilizzare il beneficio al solo fine di incremento della misura della pensione.
Si vorrà almeno in questi casi riconoscere che la norma obbedisce anche a fini diversi dal conseguimento della pensione?
Sotto questo aspetto non si giustifica dunque perché la Corte Costituzionale abbia sostenuto da una parte che il venir meno del termine conseguimento all’interno della disposizione non eserciti alcun rilievo (e cioè la formula legis sia sostanzialmente equivalente a quella originaria), sicché l’espressione deve essere letta “come riferentesi alle prestazioni pensionistiche da conseguire”; e dall’altra parte abbia considerato ammissibile che il beneficio influisca anche ai fini della misura della pensione e non del solo conseguimento (risultato che senza quella eliminazione non si sarebbe potuto produrre).
Sul punto è palese la contraddizione; per la Corte il beneficio serve per agevolare l’esodo e far “ottenere il diritto alla pensione”; ma se il diritto a pensione è stato già conseguito esso serve per incrementare la misura; e se non influisce ne sul diritto ne sulla misura, il beneficio serve lo stesso a meri fini di incremento della posizione contributiva.
4. Occorre considerare che la lettura della vicenda legislativa e dei lavori parlamentari nei termini esposti, come espressione della ratio compensativa del beneficio, era stata accolta – prima della sentenza 434/2002 della Corte Cost. ­- da tutta la giurisprudenza (di merito, legittimità, costituzionale) in maniera unanime, tanto da poter essere considerato oramai un punto fermo nella contrastata interpretazione della normativa a partire dalla sentenza n.5/2000 della Corte Cost.
La sentenza 434 della Corte Costituzionale ha invece disatteso anzitutto se stessa; ed in particolare le due precedenti sentenze rese sull’argomento: la sentenza del 12.1.2000 n.5 in materia di determinatezza della fattispecie; e la sentenza del 22 aprile 2002, n. 127 in materia di lavoratori addetti alla Ferrovie dello Stato; e quest’ultima sentenza pur  essendo stata pronunciata solo pochi mesi prima della sentenza 434/2002 sullo identico aspetto soggettivo della disposizione. 
Proprio all’interno della sentenza n. 127/2002 la Corte Costituzionale si era soffermata sul significato e sulla portata della precedente sentenza n. 5 del 2000; ed  aveva ribadito, come nella prima sentenza, “ che la norma censurata ¾ nel testo risultante dalla soppressione (operata in sede di conversione in legge del decreto-legge n. 169 del 1993) della locuzione «dipendenti dalle imprese che estraggono amianto o utilizzano amianto come materia prima, anche se in corso di dismissione o sottoposte a procedure fallimentari o fallite o dismesse» ¾ conferisce essenziale rilievo, ai fini dell’applicazione del beneficio previdenziale, all’assoggettamento dei lavoratori alla assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’amianto, escludendo, al tempo stesso, ogni selezione che possa derivare dal riferimento alla tipologia dell’attività produttiva del datore di lavoro».
Sicchè la stessa Corte Costituzionale osservava che Coerentemente con tale conclusione, che trova conferma proprio nelle vicende normative che hanno preceduto l’approvazione del testo attuale del comma 8 dell’art. 13, lo scopo della disposizione medesima è stato rinvenuto nella finalità di offrire, ai lavoratori esposti all’amianto per un apprezzabile periodo di tempo (almeno 10 anni), un beneficio correlato alla possibile incidenza invalidante di lavorazioni che, in qualche modo, presentano potenzialità morbigene».
Anche in questa seconda sentenza, relativa ai lavoratori delle Ferrovie, non vi è nessun riferimento all’incentivo all’esodo dei lavoratori del settore amianto al fine di ricostruire la ratio della disposizione; e nonostante che l’oggetto del giudizio riguardasse l’aspetto soggettivo della disposizione, ossia proprio l’identificazione dei lavoratori beneficiari della rivalutazione contributiva - come per i lavoratori pensionati.
Solo che per la Corte Costituzionale dell’aprile 2002, per sapere se i lavoratori della ferrovie fossero o meno destinatari del beneficio, la ratio della norma doveva essere individuata esclusivamente nella “nozione di rischio morbigeno, caratterizzante il sistema della assicurazione obbligatoria gestita dall’INAIL” (concetto  che ha come ulteriore portato costituzionale il criterio di parità di tutela a parità di rischio; v. Corte Cost.’74/206; Corte Cost.114/1977); mentre nella sentenza dell’ottobre 2002 sui pensionati il criterio del rischio morbigeno risulta scomparso; non vi si fa nemmeno un cenno; e la ratio del beneficio diventa quella dell’agevolazione all’esodo .
Nella medesima sentenza 127/2002 i presupposti per ricomprendere nel beneficio previdenziale i lavoratori delle Ferrovie dello Stato sono stati individuati dalla Corte Cost. negli stessi comuni presupposti valevoli per la generalità dei lavoratori: “ attinenti, segnatamente, all’esposizione ultradecennale all’amianto, alla soggezione all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’esposizione all’amianto e al rischio morbigeno”; e senza che sia  stato minimamente richiesto che gli stessi ferrovieri abbiano sofferto crisi occupazionale.
5. Va poi considerato che nella sentenza n.434 del 31 ottobre 2002 sui pensionati la Corte Costituzionale sostiene di non aver mai riconosciuto il carattere compensativo del beneficio: “Né è vero che questa Corte, nella sentenza n. 5 del 2000, abbia affermato il carattere risarcitorio del beneficio in esame escludendo che esso abbia invece la principale funzione di permettere ai lavoratori coinvolti nel processo di dismissione delle lavorazioni comportanti l’uso dell’amianto di ottenere il diritto alla pensione”.
Su questo rilievo è sufficiente richiamare le parole  della stessa Corte Costituzionale dell’11 aprile 2002 n. 127 ; allorché, proprio a proposito dell’ambito di applicazione soggettivo della norma, osservava come esistano “plurimi elementi esegetici, i quali portano a ritenere che essa sia volta a tutelare, in linea generale, tutti i lavoratori esposti all’amianto, in presenza, beninteso, dei presupposti fissati dalla disposizione stessa, secondo quanto evidenziato dalla già ricordata sentenza di questa Corte n. 5 del 2000. Presupposti richiesti proprio perché la legge n. 271 del 1993 ha voluto tener conto della capacità dell’amianto di produrre danni sull’organismo in relazione al tempo di esposizione, sì da attribuire il beneficio della maggiorazione dell’anzianità contributiva in funzione compensativa dell’obiettiva pericolosità dell’attività lavorativa svolta .”
Va ribadito: “in funzione compensativa dell’obiettiva pericolosità dell’attività lavorativa svolta”; perché ciò vale, ovviamente, non tanto per ricostruire una sorta di verità filologica, quanto per evidenziare come ai lavoratori delle Ferrovie  il beneficio sia stato riconosciuto in quanto lavoratori assoggettati al medesimo rischio morbigeno da amianto (e non già perché riconosciuti lavoratori coinvolti nel processo di dismissione dell’amianto); e per dirla con le stesse parole della Corte Cost. in considerazione dell’ “obiettiva pericolosità che indubbiamente non manca anche nell’ambito del servizio ferroviario; obiettiva pericolosità che invece non è stata minimamente considerata nella sentenza sui pensionati, nonostante essi fossero già certificati dall’Inail come esposti al rischio.
6. Del resto che quello sopraindicato fosse il reale contenuto delle sentenze rese nella materia dalla Corte Cost. non era stato affermato solo da qualche distratto e superficiale giudice di merito; bensì dopo la sentenza n. 5/2000 della Corte Cost. da tutta la giurisprudenza di legittimità, all’unanimità.
A partire da Cass.4913/2001 che, proprio a proposito dell’avvenuta modifica della norma e dell’allargamento del beneficio oltre il settore amianto, evidenziava come nel corso del dibattito parlamentare si “segui una soluzione che, tenendo conto della capacità di produrre danni in relazione al tempo di esposizione, consente una maggiorazione dell’anzianità contributiva per tutti i dipendenti che siano stati esposti all’amianto per più di dieci anni”. Sicchè individuava la ratio dell’attribuzione del beneficio in chiave di  attuazione dei principi di solidarietà di cui è espressione l’art.38 Cost. – in funzione compensativa dell’obiettiva pericolosità dell’attività lavorativa spiegata”.
E di analogo tenore sono state le tesi espresse da Cassazione 2926/2002; 10979/2002; 10114/2002; 7048/2002.
Quest’ultima sentenza in particolare nota :“ questa Corte ha avuto modo di chiarire, attraverso decisioni adottate in epoca successiva alla pronuncia 12 gennaio 2000, n. 5 della Corte costituzionale, dichiarativa della non fondatezza delle questioni di costituzionalità della norma in oggetto, sollevate in riferimento agli art. 3 e 81 Cost., che la eliminazione, ad opera della legge di conversione n. 271 del 1993, del riferimento - contenuto sia nel testo originario del comma 8 dell'art. 13, sia in quello sostituito dal d.l. n. 169 del 1993 - ai "dipendenti delle imprese che estraggono amianto o utilizzano amianto come materia prima, anche se in corso di dismissione o sottoposte a procedure fallimentari o fallite o dismesse" sia significativa dell'intento del legislatore di evitare ogni selezione soggettiva che possa derivare dal riferimento alla tipologia dell'attività produttiva del datore di lavoro e di attribuire, piuttosto, centralità all'avvenuta ultradecennale adibizione del lavoratore ad attività soggette all'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall'amianto”.
Tant’è che la stessa Cass. 7048/2002 conclude esplicitamente :
Destinatari della disposizione in esame non sono, dunque, i lavoratori che abbiano perso - o siano esposti al rischio di perdere - il posto di lavoro di conseguenza della soppressione delle lavorazioni dell'amianto, bensì, come si è detto, i lavoratori, quale che sia l'attività produttiva dell'Impresa datrice di lavoro, che abbiano subito una esposizione "qualificata" all'amianto”.
7. In relazione a tali precedenti giurisprudenziali la tesi sostenuta da ultimo dalla Corte Costituzionale deve essere quindi considerata come un cambiamento  di rotta, tanto più immotivato perché fondato su argomenti non esaustivi (l’argomento storico) che anche il resto della giurisprudenza, per giungere ad una ratio diversa, aveva condiviso integrandolo però con la considerazione dei lavori preparatori e sopratutto del testo della norma modificata dal Parlamento, che dovrebbe essere il punto di partenza di ogni operazione interpretativa.
C. La legge 179/2002 su certificazioni Inail e direttive ministeriali.
Va ora aggiunto che nell’interpretazione di una norma conta anche il quadro sistematico, e dunque non solo le norme precedenti ma anche quelle ad essa successive, quando sono tali da contribuire alla ricostruzione del reale valore normativo della disposizione. Il complesso dell’ordinamento nel cui ambito la norma si colloca deve essere tenuto presente e lo sforzo dell’interprete deve essere diretto ad evitare antinomie e contraddizioni al fine di realizzare il massimo possibile di giustizia in conformità alla Costituzione (ovvero di evitare eclatanti ingiustizie).
Sulla questione che si giudica influisce ora l’art. 18 comma 8° della legge 31.07.2002 n. 179 (in vigore da prima della sentenza 434/02 della Corte Cost.) il  quale, ai fini del beneficio di cui si tratta, ha riconosciuto la validità delle “certificazioni rilasciate o che saranno rilasciate dall’INAIL sulla base degli atti di indirizzo emanati sulla materia dal Ministero del Lavoro”.
Va ora chiarito che gli atti di indirizzo ministeriali cui si riferisce la norma riguardano le più disparate imprese e settori di attività; nessuno di essi , per quanto se ne sa, attiene al c.d. settore amianto; ad es. a Ravenna gli stessi atti di indirizzo hanno riguardato i lavoratori del polo chimico e gli addetti ai lavori di facchinaggio della Compagnia Portuale: lavoratori che dopo la legge 257/92 non hanno mai rischiato il posto di lavoro; che dopo l’abolizione dell’uso dell’amianto hanno continuato a produrre prodotti chimici ed a scaricare sacchi e merci presso il porto di Ravenna; che non avevano bisogno di essere agevolati ad alcun esodo.
Tutt’altro: la ratio di questa recente norma ( che riconosce per legge la validità di un’atto amministrativo) è esattamente opposta a quella che si suppone a fondamento della legge 257; l’art.18,8 della l.31.07.2002 n. 179 è stato infatti emanato per far cessare le opposizioni e le controversie che le imprese avevano intentato sotto vari aspetti contro questi provvedimenti ministeriali, impugnandoli davanti al Tar Lazio e al Consiglio di Stato,   al fine di impedire ai lavoratori di lasciare il posto di lavoro; alla base di questo provvedimento di legge non vi è dunque alcuna difficoltà di mantenere il posto di lavoro o di trovarne altro”. Al contrario i lavoratori volevano abbandonare il posto, mentre le imprese volevano tenerli al lavoro e hanno promosso addirittura delle cause per cercare di trattenerli quanto più a lungo possibile al lavoro.
Proprio per impedire che si realizzasse questo risultato il legislatore è intervenuto; per affermare che gli stessi lavoratori pur non subendo alcuna difficoltà occupazionale avevano comunque diritto alla rivalutazione contributiva per l’amianto; e che le certificazioni loro rilasciate dall’INAIL avevano validità.
Dunque dopo la legge del 271/1993, ed a maggior ragione dopo la legge 179/2002, affermare che la norma abbia ancora la principale o esclusiva funzione di permettere ai lavoratori pregiudicati dal processo di dismissione dell’amianto di ottenere il diritto a pensione,  significa negare il principio di realtà.
Oggi la stragrande maggioranza dei lavoratori a cui il beneficio è stato accordato sia in base alla legge 271/1993, sia in base agli atti  di indirizzo ministeriali (ed alla legge 179/2002) sono lavoratori che non appartengono al settore amianto (sono lavoratori della chimica, delle centrali elettriche, delle ferrovie, dei cantieri navali, delle compagnie portuali, ecc.); per cui continuare ad opporsi alle istanze dei pensionati sostenendo che il beneficio abbia la esclusiva finalità di alleviare le ricadute e le difficoltà occupazionali derivanti in quel  settore dalla cessazione dell’amianto appare non solo sommamente ingiusto, ma soprattutto privo di qualsivoglia collegamento con la realtà.
E’ evidente dunque che in questa materia si usano due criteri di giudizio differenti (due pesi e due misure). Ai lavoratori in attività si dice che la legge non ha lo scopo di tutelare il posto di lavoro ma di concedere un beneficio che ha di mira il rischio morbigeno; ai lavoratori pensionati si dice invece il contrario  e cioè che la legge non ha funzione compensativa del rischio morbigeno bensì di tutelare la perdita del posto e siccome essi non possono correre questo rischio il beneficio a loro non spetta.
D. Necessità di riconoscere almeno la complessità della funzione sottesa al beneficio.
1. Da quanto fin qui esposto discende quindi la necessità di affermare, quantomeno, che la ratio della legge non sia sempre una e una soltanto ( come  si suppone in molte pronunce adoperando una semplificatoria reductio ad unum pur in presenza delle più disparate situazioni); diventa cioè ineludibile riconoscere che la stessa legge contenga una disciplina complessa ed ammetta finalità composite; che comprenda, accanto ad una finalità di incentivazione all’esodo, una “funzione compensativa dell’obiettiva pericolosità dell’attività lavorativa svolta.(Corte Cost.127/2002)
Si dovrebbe riconoscere quindi che la legge non è tutta rivolta a coloro che perdono il posto (Cass.7048/2002); che a molti lavoratori il beneficio viene concesso in un’ottica solidale e di compensazione del rischio ( Cass.4931/2001).
Solo così si può spiegare il riconoscimento del beneficio alla stragrande maggioranza dei lavoratori che non avevano difficoltà occupazionali; ai lavoratori che non sono in grado di raggiungere lo scopo dell’ accesso  a pensione (con 15 anni di contribuzione, periodo minimo garantito dalla norma); ai lavoratori che beneficiano della rivalutazione a soli fini di incremento della misura della pensione.
Diversamente si potrà continuare a sostenere l’esclusiva finalità di incentivo all’esodo del beneficio ma eludendo la legge 271/1993, la legge 179/2002, la sentenza della Corte Cost. sui ferrovieri; e si potrà continuare a sostenere che l’eliminazione dell’espressione conseguimento non ha alcun valore, contrariamente a quanto dimostra la costante applicazione amministrativa del beneficio previdenziale ai casi di semplice maggiorazione della misura della pensione; e si potrà pure affermare “il carattere approssimativo della normativa rispetto ai fini perseguiti” e sostenere persino che al legislatore del ’92 e del ’93  non erano del tutto noti allo stato delle conoscenze scientifiche le circostanze in cui l’amianto poteva essere  morbigeno e i tempi di insorgenza delle diverse patologie”; quando secondo unanimi e risalenti conoscenze di carattere medico e scientifico e secondo univoche prescrizioni normative ( v. dpr. 303/56, tu.1124/65 , direttiva Cee 477/83, dlgs 277/91) tutti sanno che non esistono limiti al di sotto dei quali possa ritenersi innocua l’esposizione ad amianto; essendo il rischio morbigeno rappresentato dall’esposizione in sè, anche a basse dosi (  testualmente la direttiva CEE 477/83); mentre sul punto dell’epoca della diffusione di queste conoscenze la giurisprudenza pullula di ricostruzioni storiche minuziose e documentate (per tutte Cassazione IV Sez. penale,11.5.1998) da cui risulta che già nel 1930 erano noti i rischi di contrazione dell’asbestosi ( la cui assicurazione è stata resa obbligatoria già nel 1943 con la legge n.455); mentre  l’associazione amianto–mesotelioma è stata unanimemente riconosciuta fin dal 1965(Cass. cit.).
Ma se questo è il quadro – tecnico-giuridico, scientifico e storico -  in cui occorre inscrivere la tesi di chi nega questo beneficio ai pensionati,  allora esso non può essere condiviso da questo giudice alla luce dei principi costituzionali di legalità, uguaglianza e razionalità.
Tutto ciò stride anzitutto ad un elementare senso etico e di giustizia perché imporrebbe a questo giudice di dover affermare che il beneficio in questione sia rivolto all’unico fine  di favorire l’esodo di lavoratori in crisi occupazionale, quando nelle migliaia di casi in cui esso è stato accordato - in via giudiziaria ed in via amministrativa – in questa città di Ravenna, nemmeno uno di essi riguardava lavoratori del c.d. settore amianto
2.  Del resto proprio la Corte Cost. nella sentenza n.434/2002 lascia spazi che devono essere valorizzati dall’interprete - ad es. laddove parla di “ principale funzione” del beneficio in esame, senza escludere che la norma possa rivestire anche  funzioni ulteriori; e quando evidenzia nodi che devono essere risolti dall’interprete allorché a proposito dell’allargamento della platea dei destinatari parla di “carattere approssimativo della normativa rispetto ai fini perseguiti”.
Appare dunque possibile, senza violare alcun dogma; ed in conformità alla  Corte Cost. 127/2002; ed anche senza contraddire la Corte Costituzionale 434/02; ammettere quantomeno che - per effetto delle sovrapposizioni normative, della successiva legislazione, della concreta applicazione in sede amministrativa - la norma non abbia un solo fine ed un’unica ratio.
Ed è in aderenza a quella componente compensativa del rischio, immanente nell’applicazione di questo beneficio, che la rivalutazione contributiva non può essere negata, in virtù di un’interpretazione conforme a Costituzione, al lavoratore certificato come esposto dall’INAIL benchè pensionato ante legem 257: perchè egli  si è trovato nella stessa situazione di rischio (se non in una situazione peggiore) del collega di lavoro dello stesso settore al quale l’analogo beneficio dell’incremento della misura della pensione è stato concesso per effetto dell’identica esposizione (subita nel passato).
Ne le due posizioni a confrontodi soggetti che hanno maturato entrambi il diritto a pensione prima della legge 257/92 a prescindere dalla stessa - possono essere differenziate sotto il profilo del fattore temporale; per il fatto cioè che uno dei due si trovi ancora in attività al momento dell’entrata in vigore della normativa.
Si è già visto infatti per un verso che il beneficio viene concesso anche a chi non subisce alcun pregiudizio occupazionale per effetto dell’abolizione dell’uso dell’amianto ed anche a chi non è occupato al momento della legge (come ad es. il disoccupato o l’invalido); mentre, per altro verso, l’esposizione che rileva nella struttura della norma è quella che si è consumata nel passato.
Del tutto incongruo sarebbe infatti pensare di considerare come elemento differenziale tra l’uno e l’altro soggetto una potenziale situazione di esposizione attuale; perché ciò significherebbe anzitutto decretare il fallimento del sistema di prevenzione introdotto con il d.lgs 277/91.
Del resto proprio secondo l’unanime giurisprudenza l’attualità lavorativa non è requisito costitutivo del beneficio; tanto che lo stesso beneficio si applica ai lavoratori già transitati in settori diversi fin da prima della legge; ai lavoratori disoccupati ed agli invalidi.  Non si spiega dunque come, in base a quale criterio, nell’ipotesi in cui il beneficio serva a tutti questi lavoratori ai soli fini dell’incremento della misura della pensione, il fattore tempo possa servire a differenziare la situazione di chi è al lavoro o è disoccupato dopo la legge da chi ha cessato il lavoro prima della legge.
E. Gli altri argomenti utilizzati dalla giurisprudenza per negare il beneficio contributivo ai pensionati.
Per maggiore chiarezza anche sistematica va ribadito che questo giudice non condivide nemmeno gli altri argomenti adottati dalla giurisprudenza  ordinaria per negare il beneficio ex art.13,comma 8 ai pensionati ante legem 257/92. Queste sentenze solo apparentemente si fondano su una varietà di argomenti di carattere letterale, logico e sistematico; esse discendono in realtà dalla stessa unica (infondata) premessa originaria : quella secondo cui il fine esclusivo della norma sarebbe di rivolgersi al solo lavoratore del settore amianto in crisi occupazionale  per fargli conseguire la pensione.
Si tratta, come si è visto, di una premessa contraria alla voluntas legis perché elude una parte del contenuto della legge quale risulta dalla modifica che è intervenuta nel corpo della disposizione attraverso la legge 271/93, con l’espresso scopo di non limitare l’applicazione della norma a singole categorie di imprese e di estendere il beneficio della rivalutazione contributiva a tutti i lavoratori.
Lo aveva già detto la Corte Costituzionale con la sentenza n.5/2000 e  lo dice ora anche la  Cassazione 4913/2001 (ma solo quando si occupa di lavoratori non pensionati):  “ la legge del 4.8.1993 n271 di conversione del decreto legge 193/93 non resse quindi al confronto parlamentare sicchè venne eliminato il riferimento ai lavoratori di “imprese che estraggono o utilizzano amianto come materia prima” e si seguì una soluzione che tenendo conto della capacità di produrre danni sull’organismo in relazione al tempo di esposizione consente una maggiorazione dell’anzianità contributiva per tutti i dipendenti che siano esposti all’amianto per più di dieci anni”.
Caduta questa prima fondamentale ed assorbente premessa, non rimane infatti nulla degli argomenti che si frapponevano alla legittima richiesta dei pensionati ante legem 257/92 di ricevere il beneficio previsto dalla legge.
1.Per ciò che attiene all’argomento letterale la stessa Cassazione ( v. sent.5764/2001) ammette che il termine “lavoratori esposti” si addice ad alcuni pensionati (a quelli di invalidità), mentre non si addice ad altri pensionati (a quelli di anzianità e di vecchiaia); e non certo quindi per motivi letterali.
2. L’ulteriore argomento - secondo cui lo scopo della legge è quello di allontanare i lavoratori dal rischio (“anche in relazione a fatti di esposizione consumati nel passato”; sic ), è semplicemente insostenibile perché la legge 257/92 è successiva all’introduzione di un imponente sistema di prevenzione introdotto dal d.lgs. 277/91 e comunque presuppone l’assoggettamento ad un rischio già consumato nel passato con un’esposizione ultradeccennale.
3. La tesi secondo cui la legge presuppone un rapporto di lavoro in atto è stata superata dalla stessa Cassazione allorché ha considerato che il principio di eguaglianza impone l’estensione del beneficio anche ai lavoratori disoccupati, a chi ha cambiato azienda, a chi è stato licenziato ed ai pensionati per invalidità civile (v. espressamente sentenza Cass. n.5746 del 19.4.2001, rel. Menichiello).
4. L’argomento secondo cui la norma avrebbe come suo scopo esclusivo,  diretto ed indefettibile di assicurare il “conseguimento della pensione” ad alcuni lavoratori  - ( sempre quelli del settore amianto, per sopperire alla perdita del posto di lavoro ed allontanarli dal rischio), per cui non si può applicare a chi ha già la pensione- non resiste ad una semplice verifica logica e sistematica.
Lo stesso argomento non tiene anzitutto conto del fatto che la rivalutazione contributiva riconosciuta dalla norma non è da sola in grado di assicurare il raggiungimento di questo scopo essenziale, in vista del quale si dice sarebbe stata esclusivamente voluta (non per niente i prepensionamenti sono regolati a parte nella stessa legge).
Il conseguimento della pensione potrebbe non essere in concreto raggiunto con la concessione del beneficio; ad es. se un soggetto ha lavorato solo poco più di dieci anni nel settore amianto non va in pensione con poco più di 15 anni di contributi (quanto ne assicura il meccanismo di rivalutazione previsto dalla norma); questo lavoratore dovrà invece continuare a lavorare, pur potendo usufruire della maggiorazione ex art13,comma 8 che gli verrà comunque accreditata sulla propria posizione contributiva.
Inoltre non si tiene conto del fatto che il beneficio dell’art.13,comma 8° è stato pensato per valere sempre, vale cioè sia per il conseguimento della pensione, sia per la misura della pensione.
Sotto questo profilo cioè non si vuole tenere conto del modo in cui è stato concepito e strutturato il beneficio dalla legge: rapportato al tempo dell’ esposizione; al lavoratore spetta tanta rivalutazione contributiva quanto è il tempo di esposizione!. Anche se la stessa contribuzione non fosse sufficiente per far conseguire la pensione (da conseguire più in là); anche se, per converso, essa fosse invece sovrabbondante rispetto al traguardo rappresentato dal requisito contributivo minimo necessario per il conseguimento della pensione, e quindi anche se esso serva solo ad incrementare la pensione (da conseguire o già conseguita).
Insomma nessuna sterilizzazione e decurtazione è possibile; dice la legge: “l’intero periodo lavorativo .. è  moltiplicato per il coefficiente di 1,5”; “ ai fini delle prestazioni pensionistiche” ( vi sono due, non uno, argomenti testuali nella legge a questo proposito).
Va poi considerato che per negare il beneficio ai lavoratori pensionati si neutralizza, si mutila, anche il valore normativo specifico, interno alla stessa disposizione, che discende dall’espressione “ai fini delle prestazioni pensionistiche”; un’espressione che con carattere di ampiezza e di novità rispetto all’espressione “ai fini  del conseguimento delle prestazioni pensionistiche”,  utilizzata  negli altri commi della stessa norma (ed anche rispetto alla originaria stesura della legge), consentirebbe  invece esplicitamente, de plano, la soluzione positiva del riconoscimento del beneficio per i pensionati (per tutti i pensionati) nei limiti in cui il beneficio possa esercitare effetti ai fini di incrementare le prestazioni già conseguite.
5. Non meno infondato risulta poi l’ulteriore argomento che si è opposto alla richiesta dei pensionati, allorché si è pure sostenuto che il beneficio previdenziale non può essere riconosciuto ai pensionati esposti perché nell’ipotesi in cui uno di essi avesse già raggiunto il massimo contributivo…il beneficio non potrebbe essere operativo!
Ma a parte il fatto che una situazione simile potrebbe essere in concreto riscontrata anche rispetto ad un lavoratore in attività che continui a lavorare pur avendo già raggiunto il massimo contributivo (non c’è nessun divieto in tal senso), occorre in ogni caso obiettare che il legislatore ha previsto come beneficio di tutti gli esposti una rivalutazione contributiva; ed è il legislatore che decide secondo la propria discrezionalità; per cui in concreto il beneficio è destinato ad operare nei limiti consentiti dal sistema all’interno del quale esso si colloca.
L’obiezione non è poi fondata nemmeno in diritto perché anche nei confronti del pensionato che avesse già raggiunto il massimo della contribuzione versata, il riconoscimento del beneficio legale sarebbe in grado di portare ad un utile risultato permettendo la liquidazione di un supplemento di pensione ( cioè di una quota aggiuntiva che si somma all’importo già determinato) ex art.7 l.155/81 ( circ.Inps 259/94). 
Inoltre lo stesso argomento appare comunque incongruo, perché non si può utilizzare come termine di comparazione ai fini dell’applicazione di un beneficio contributivo la situazione di chi versa in una condizione di assoluto favore ( avendo già raggiunto il massimo di contribuzione ), per negare il beneficio anche a chi è messo peggio e potrebbe trarre una concreta utilità dallo stesso riconoscimento.
Si ripete che il legislatore ha accordato a tutti gli esposti ultradecennali un beneficio di natura contributiva, il risultato che può scaturire da questo beneficio varia a seconda delle condizioni personali dei singoli destinatari e dei limiti di operatività del sistema in cui è destinato ad operare (non solo per i pensionati ma per tutti i destinatari, anche per i lavoratori in attività).
F. Va dunque riconosciuto il diritto dei ricorrenti alla rivalutazione contributiva nei limiti del periodo di esposizione certificato dall’Inail.
Le spese del giudizio si compensano dato il contrasto che divide la giurisprudenza sulla spettanza di questo beneficio ai pensionati; va posta invece a carico dell’Inps quella parte delle spese processuali che riguarda i lavoratori ricorrenti (Magrini Romano) che al momento della legge 257/92 fossero titolari di pensione o di assegno di invalidità dato che per essi è invece consolidato l’orientamento della giurisprudenza, anche di legittimità, favorevole all’attribuzione del beneficio (Cass.13786/2001).
P.Q.M.
Visto l’art. 429 c.p.c.  e definitivamente pronunciando sulla domanda ogni diversa domanda, eccezione od istanza disattesa, così decide:
Dichiara che i ricorrenti hanno diritto alla maggiorazione ex art. 13, 8° comma L. 257/92 per i periodi di esposizione all’amianto come da certificazioni in atti.
Dispone che l’INPS provveda all’accredito di legge.
Condanna l’INPS alla rifusione parziale delle spese di lite liquidate in complessivi Euro 1200 di cui 1000 per onorari, oltre IVA e CPA, come per legge.
Ravenna, 26.03.2003
Il Giudice  del  Lavoro   
dott. Roberto RIVERSO
Depositato in Cancelleria il 20.4.2003

 

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