Il Paese fondato sulle corporazioni

 

La Corporazione  non è  di destra. Anzi, è la difesa di privilegi che spesso sono spacciati per conquiste sindacali. Ed è un'ingenua demagogia o, forse, un'insensatezza pura e semplice lasciar pensare che contro le liberalizzazioni, coraggiosamente iniziate dal governo Prodi, insorgerà il centrodestra, e che i tassisti romani daranno del comunista al ministro Bersani o che i farmacisti daranno la colpa alla falce e martello di Diliberto. 

La verità è che, come ha scritto Eugenio Scalfari, siamo all'inizio - appena all'inizio - di un sano processo di smantellamento di rendite di posizione, di incrostazioni e di privilegi, che rendono più costosa e più pesante la vita quotidiana, dal prendere un taxi al comprare un'aspirina, dall’ aprire un negozio al fare impresa.

Diciamolo   più   chiaramente: le liberalizzazioni sono il sogno dell'elettore di centrodestra, uno dei tradimenti del governo Berlusconi. E dunque il rischio non è certamente quello dei camionisti cileni e delle padelle in piazza. Il vero rischio, qualora  il  processo andasse davvero in fondo, potrebbe essere la reazione del sindacalismo senza se e  senza  ma,  la tentazione   del sindacalismo corporativo   che difende come diritti dei lavoratori la  vita  comoda del topo nel formaggio.

D'altra parte, il corporativismo non è un oltranzismo o una deviazione  sindacale, ma quella natura antica, prepotente e incapace di misurarsi con il mercato, in nome della   famiglia, della   clientela, del clan, per la salvaguardia delle prerogative e degli interessi costituiti, si tratti di pescivendoli che fanno incetta di licenze o di politici che si aumentano gli stipendi e mettono a carico degli italiani mogli, figli e parenti, tutti da eleggere nella corporazione dei parlamentari.

Qualche anno fa, raccomandato dal padre che era stato ministro, il figlio dell'onorevole Azzaro fu cooptato, anzi fu "incorporato" come assessore nel Comune di Catania. Timido e mite, quel ragazzo, che non parlava mai, fu dall'architetto Giacomo Leone soprannominato «il muto agevolata». Ebbene, l'Italia è un paese di muti agevolati, di raccomandati inetti, dai banchieri ai macellai, dai giornalisti ai tabaccai, dai pizzicagnoli ai notai.

In Italia non si entra nei mestieri, vale a dire nelle corporazioni, se non per cooptazione familistica.

Filo che unisce fascismo, regime democristiano e sindacato comunista, la corporazione in Italia è una famiglia allargata, è tribalismo ristretto, è cosca feroce.

Prendiamo gli architetti, per esempio. Ogni parcella che l'architetto presenta al cliente deve prima ottenere la vidimazione dell'Ordine degli architetti che preleva l' 1,5  per cento — il pizzo? — dell'importo complessivo. E accade anche, nei casi peggiori, che qualche presidente dell'Ordine imponga un'aggiunta illegale al pizzo legale. È una funzione vessatoria, il cui costo ricade sul committente.

Spostatevi adesso in una qualsiasi facoltà universitaria e controllate le targhette dietro le porte delle stanze dei docenti. Certamente troverete inquietanti omonimie, proprio come nella Gea, la società del figlio di Moggi. Anzi in qualche università, come in quella di Bari per esempio, la successione  nelle  cattedre sembra la dinastia dei Luigi di Francia, i quali si accanirono ben sedici volte, sino alla ghigliottina. Insomma, anche nelle università  italiane prevale la logica del cognome, fondamento e garanzia della corporazione, e i figli subentrano ai padri nella titolarità degli insegnamenti in consapevole opposizione alle regole del mercato e con la faccia tosta di ritenere che il criterio cooptativo-corporativo assicura la qualità professionale.

In Italia tengono famiglia anche i vescovi, che sono una corporazione potentissima. E così in questura, tra i carabinieri, tra i commessi parlamentari e tra i bancari che addirittura per statuto lasciano il posto al figlio. Per non parlare dei giornalisti che spesso contrattano l'anticipo dell’uscita in pensione con l'assunzione di un familiare. Il tratto distintivo del mercato del lavoro, anche del lavoro usurante, non è il clientelismo, come  qualcuno ha sostenuto, ma è il familismo, è la corporazione che si difende e si riproduce con  la famiglia, è la pre-modernità come incapacità italiana di misurarsi con il mercato.

Liberare l'Italia dalle corporazioni non è un'istanza antifascista. Prodi non è Einuadi che prende le distanze dal lascito del sindacalismo corporativo del Ventennio. Il corporativismo infatti è un'eterna tentazione italiana che parte dalle Gilde medievali, passa per il sindacalismo delle leghe operaie, artigiane e contadine rosse e bianche, socialiste e cattoliche prima; per quello fascista dopo, e infine comunista.

Da strumento di difesa è diventato rifugio di tutti i privilegi, di tutti i ritardi e di tutti gli abusi che in alcuni settori del movimento opeaio vengono inscritti nell'orbita dei Soviet.

Né una padella, né una piazza dunque per i tassisti, i notai, i farmacisti. L'Italia competitiva, meno cara e più moderna, sarà un affare anche per loro.

Francesco Merlo

 

(da “la repubblica” del 5 luglio 2006, p.1 e ss.)

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