La disinvoltura con cui  “accademici” (impegnati in politica o nelle libere professioni) trattano gli interessi vitali dei lavoratori, al di sopra della loro testa

(1)

NOTE A MARGINE DI UNA POLEMICA SULL’ART. 18

Il 3 marzo 2000 fu presentato alla Camera dei Deputati un disegno di legge che reca il numero 6835/00. Primo firmatario Tiziano Treu, già Ministro del lavoro nel Governo Prodi, ed altri 48 parlamentari di vari gruppi dell'Ulivo (DS compreso), fra i quali Michele Salvati, Giancarlo Lombardi, Ferdinando Targetti, Gaetano Veneto, Stefano Bastianoni e Augusto Fantozzi.

Il testo del predetto d.l. così letteralmente recita: «L’ articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 è sostituito dal seguente: " Il giudice, qualora accerti l'insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo... del licenziamento, ... può disporre la riassunzione del lavoratore o, in mancanza, il versamento di un'indennità il cui limite viene fissato in 28 mensilità dell'ultima retribuzione».

Nel volume "Politiche del lavoro - Insegnamenti di un decennio" a firma di Tiziano Treu (edizione Il Mulino), quel disegno di legge viene presentato, a pagina 387, come riforma mancata della XIII legislatura e come indicazione di rotta per il futuro.

La proposta di riforma avanzata da Treu ricalca quella che viene comunemente definita come il "modello tedesco". Una riforma che il Prof. Pietro Ichino - docente di diritto del lavoro all'Università di Milano - giudica "moderata, ma incisiva" e, "con qualche modulazione estensibile a tutti i 16 milioni di lavoratori italiani'. In un articolo di fondo intitolato "L’opposizione e il lavoro: cautele e imbarazzi. Doppia verità su una riforma" apparso su il Corriere della sera del 6 giugno 2002, Pietro Ichino sottolinea la doppia verità su una riforma mancata. Non solo. Lo stesso specifica testualmente che “se anche Giuliano Amato è personalmente ben convinto della bontà di quella linea di politica del lavoro, perché ora nello 'statuto dei lavori' elaborato dagli stessi Amato e Treu si legge che del vecchio diritto del lavoro, per i 9 milioni di lavoratori a cui si applica, non deve cambiare una virgola?.

Il Prof. Pietro Ichino - da noi peraltro professionalmente conosciuto nella sua attività forense come difensore della BCI (Banca commerciale italiana, n.d.r.) nelle vertenze giuslavoristiche - continua affermando che "nel corso di incontri pubblici e privati, a molte persone, anche eminenti, che nutrono idee simili a quelle di Treu e Salvati’ ha "chiesto spiegazioni circa il cambiamento di rotta ideologica" e "che la risposta è sempre stata una sola: queste idee saranno praticabili quando saremo tornati al governo, non ora, con questa maggioranza, perché cedere su di un punto può significare spalancare la porta ad uno smantellamento incontrollato del diritto del lavoro".

Il Prof. Ichino dalla prima pagina dell'autorevole quotidiano pone "una domanda agli attuali oppositori con riserva mentale. Pensate davvero di poter facilmente tornare al governo con la parola d'ordine per cui il vecchio diritto del lavoro non si tocca? E se anche la cosa dovesse funzionare, che cosa direte ai vostri elettori il giorno dopo che sarete tornati al governo, per riprendere il discorso sull'indispensabile riforma del diritto del lavoro?

Potrete dire. «Finora abbiamo scherzato, da questo momento ricominciamo a fare sul serio»".

Fin qui l'esimio Prof. Ichino il quale merita un ringraziamento per la sua pubblica franchezza.

Le cose da lui raccontate, però, non ci hanno fatto cambiare opinione circa l'articolo 18.

Le considerazioni da noi espresse nel precedente n. 173 di Confronti e Intese restano un nostro intimo convincimento, sicuri che i diritti acquisiti non devono essere toccati o, per dirla più semplicisticamente, le regole del gioco non possono essere modificate a partita iniziata. E questo soprattutto per i lavoratori in attività di servizio. L’articolo 18 è una conquista del "capitalismo sociale". La tutela reale del posto di lavoro con la reintegrazione obbligatoria in caso di licenziamento illegittimo, è un momento di civiltà giuridica e sociale.

Fra venti anni, quando anche il nostro Paese avrà adeguato il suo tessuto legislativo a quello degli altri Paesi dell'Unione Europea - questi ultimi hanno un tessuto ben più avanzato in termini di certezza applicativa del diritto - forse, e solo allora forse, sarà possibile adeguare la nostra legislazione lavoristica a quella, ad esempio, della Germania o della Francia.

Nella bella Italia occorrono dai cinque ad otto-dieci anni per avere una sentenza di lavoro che diventi definitiva, passando attraverso i tre gradi di giudizio. Negli altri paesi europei bastano appena 1-2 anni. E questo è un semplice esempio. Ma potremmo continuare. Di fronte ad un sistema giudiziario inefficiente (certamente non per colpa dei lavoratori) e ad un mercato del lavoro estremamente "rigido", la cancellazione dell'art. 18 così come attualmente formulato, porrebbe il lavoratore - già di per sé contraente più debole nel rapporto di lavoro - in balìa dell'imprenditore, facendo compiere a tutta la Classe lavoratrice un salto nel buio e nell'oscurantismo degli anni cinquanta-sessanta che tutti noi ben conosciamo, specialmente i lavoratori più anziani.

Ma dopo aver letto il "pezzo" di Ichino (che riportiamo di seguito al n. 2, per completezza informativa, n.d.r.), gli interrogativi da lui sollevati mi sono tornati più volte alla mente. E dalle considerazioni prima dormienti nel mio subconscio e poi affiorate a livello di conscio, è emersa spontanea una domanda. E cioè: siamo per caso di fronte ad un nuovo corso e ricorso storico, tipo l'episodio che ha caratterizzato l'introduzione della riforma delle pensioni, prima respinta massicciamente a furor di popolo - con la mobilitazione di tutti i lavoratori e di tutte le confederazioni sindacali - e successivamente approvata dal Parlamento senza colpo ferire, in maniera sostanzialmente immutata?

Cosa dobbiamo noi fare di fronte a questa ipotesi? Dobbiamo noi cambiare posizione? No, noi non possiamo rispondere che con una posizione di estrema fermezza: continuiamo a battagliare contro la paventata riforma. Ora e nel futuro.

Pietro Pisani, Presidente del Sinfub (Sindacato del credito, finanza e assicurazioni)

 

(pubblicato in “Confronti e Intese”, n. 176 del giugno 2002, 2)

 

(2)

L’opposizione e il lavoro: cautele e imbarazzi

DOPPIA VERITA’ SU UNA RIFORMA

di

PIETRO ICHINO

Dall'atto della Camera dei Deputati n. 6835/00: «L'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, è sostituito dal seguente: Art. 18. ... Il giudice, qualora accerti l’insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo... del licenziamento, ... può disporre la riassunzione del lavoratore o, in mancanza, il versamento di un'indennità ... », il cui limite massimo.viene fissato in 28 mensilità dell'ultima retribuzione. In altre parole, è quello che viene comunemente indicato come il «modello tedesco»: una riforma della materia moderata ma incisiva; e, con qualche modulazione , estensibile a tutti i 16 milioni di lavoratori italiani dipendenti.

E questa la proposta con cui il governo si propone di uscire dall'improvvisazione e disorganicità delle sue prime proposte sull'articolo 18? No: quello sopra riprodotto è il testo dell'articolo 2 del disegno di legge 3 marzo 2000, di iniziativa di Tiziano Treu, già ministro del lavoro del Lavoro nel governo Prodi; seguono le firme di altri 48 parlamentari, di vari gruppi dell'Ulivo, diessini compresi, tra i quali Michele Salvati, Giancarlo Lombardi, Ferdinando Targetti, Gaetano Veneto, Stefano Bastianoni, Augusto Fantozzi.

Certo, sono passati due anni; e cambiare idea è del tutto legittimo. Risulta, però, che almeno il primo firmatario non l'abbia cambiata: è fresco di stampa un suo libro (Politiche del lavoro - Insegnamenti di un decennio, il Mulino) dove a pag. 387 quel disegno di legge è presentato come «riforma mancata» della XIII legislatura, e come indicazione di rotta per il futuro. Se dunque è così, e se anche Giuliano Amato è personalmente ben convinto della bontà di quella linea di politica del lavoro, perché ora nello «Statuto dei lavori» elaborato dagli stessi Amato e Treu si legge che del vecchio diritto del lavoro, per i 9 milioni di lavoratori a cui esso si applica, non deve cambiare una virgola?

Che Cofferati non sia d'accordo, lo si sa fin dal suo epico scontro con D'Alema al congresso dei Ds dei 1997; ma se tanti illustri esponenti del centrosinistra non erano d'accordo con Cofferati nel 2000, e se, come sembra, presi uno per uno, essi non hanno cambiato idea nel frattempo, perché ora gli vanno tutti dietro, come tanti soldatini «allineati e coperti»? E la Cisl e la Uil? Che cosa induce Pezzotta e Angeletti a pensare che le rispettive confederazioni usciranno meglio dall'impasse restando sostanzialmente in mezzo al guado, cioè. senza presentare al tavolo delle trattative una propria proposta organica di riforma?

Dopo lo sciopero generale del 16 aprile ho posto questa domanda, nel corso di incontri pubblici e privati, a molte persone, anche assai eminenti, che nutrono idee simili a quelle di Treu o di Salvati. La risposta è sempre stata una sola: queste idee saranno praticabili quando saremo tornati al governo; non ora, con questa maggioranza, perché cedere su di un punto può significare spalancare la porta a uno smantellamento incontrollato del diritto del lavoro. A me sembra, però, che quella porta la si spalanchi di più lasciando che l'attuale maggioranza proceda unilateralmente ad approvare i suoi attuali disegni di legge, come peraltro è suo diritto fare. Chi vuole davvero mantenere un controllo efficace su quella porta deve negoziare con il governo in termini di una riforma; e su questa materia un’intesa sensata è più che possibile.

Infine altre due domande agli «oppositori con riserva mentale»: pensate davvero di poter tornare più facilmente al governo con la parola d'ordine per cui «il vecchio diritto del lavoro non si tocca»? E se anche la cosa dovesse funzionare, che cosa direte ai vostri elettori il giorno dopo che sarete tornati al governo, per riprendere il discorso sull’indispensabile riforma lei diritto e del mercato lei lavoro? Potrete forse dire: «Finora abbiamo scherzato; da questo momento ricominciamo a fare sul serio»?

 

(pubblicato in “Corriere della sera”, del 6 giugno 2002, 1)

 

(Ritorna all'elenco Articoli nel sito)