Primi passi verso una legge antimobbing

 

I numeri del mobbing

 Il termine mobbing, che da qualche tempo è divenuto di uso frequente, deriva dal verbo inglese «to mob», che significa assalire tumultuando in massa, malmenare, aggredire. Fu usato, per la prima volta, da Konrad Lorenz, biologo inglese dell’Ottocento (e poi ripreso agli inizi degli anni Ottanta del professor Leymann) per indicare il comportamento di alcuni animali quando si coalizzano contro un membro del gruppo fino ad escluderlo dalla comunità.

    Si tratta di un termine destinato a entrare in modo diffuso nella lingua italiana di qui ai prossimi anni, giacché oggi è largamente interpretato per indicare una qualsiasi forma di terrorismo psicologico esercitato nei luoghi di lavoro in danno dei lavoratori.

 Lo scopo del mobbing è quello di porre in essere comportamenti di tipo persecutorio, attuati in modo evidente e continuo, per eliminare una persona che è o è divenuta, in qualche modo, scomoda, distruggendola psicologicamente e socialmente in modo da provocarne il licenziamento o indurla alle dimissioni.

    Anche le molestie sessuali possono rientrare nelle pratiche di mobbing: il cui scopo finale appare, in ogni caso, quello di eliminare «soggetti scomodi».

    I soggetti attivi del mobbing possono essere i superiori, i capi intermedi e gli stessi colleghi del lavoratore, vittima della persecuzione. In qualche caso, la stessa azienda o lo stesso datore di lavoro possono assumere il ruolo di mobbers, nel quadro di una precisa strategia aziendale tesa ad ottenere le dimissioni di lavoratori scomodi.

    Fondamentalmente, a qualunque fine sia mirato, il mobbing rimane un abuso perpetrato nei confronti della dignità di una persona, che ne subisce in primo luogo i danni di natura psicologica e, secondariamente, quelli di natura economica.

Seguendo l’interpretazione di Leymann possiamo tentare di spiegare il fenomeno contraddistinguendone le diverse fasi nel modo seguente:

    I fase. – In tutti i luoghi di lavoro nascono quotidianamente dei conflitti, il che è normale: infatti nel lavoro come nella vita, si scontrano caratteri, opinioni e abitudini diverse. Questi conflitti non fanno sempre parte del mobbing, ma possono diventarlo: quando il conflitto quotidiano non si risolve, se il momentaneo screzio non si chiarisce, allora l’astio, il desiderio di rivalsa da parte di uno o più attori possono perdurare anche per lungo tempo e minare alla base le relazioni sociali, favorendo l’insorgere di una situazione di mobbing.

    II fase. – Si verifica quando un conflitto nato per caso matura e diventa continuativo, trasformandosi in mobbing vero e proprio. Il ruolo della vittima e quello del mobber si definiscono: il mobber continua ad agire in modo sistematico e per lo più intenzionale, mentre per colui che subisce la situazione di mobbing inizia un pericoloso processo di stigmatizzazione: egli diventa agli occhi di tutti la vittima.

    III fase. – Il mobbing è ormai così evidente da oltrepassare i limiti dell’ufficio o del reparto in cui è nato e diventa di pubblico dominio. La vittima comincia ad accusare problemi di salute, ad assentarsi con sempre maggiore frequenza, a richiedere permessi sempre più frequenti per visite mediche, a mettersi in malattia, a manifestare un calo del rendimento. Il caso probabilmente sarà esaminato dall’ufficio di amministrazione del personale che svolgerà delle indagini. Di solito i risultati saranno inficiati dall’azione dei miti psicologici sparsi dal mobber, per cui spesso ne consegue che la vittima è un elemento dannoso e dispendioso per l’azienda e per costringerla alle dimissioni si ricorre a trasferimenti, declassamenti di mansioni e punizioni di vario tipo.

    IV fase. – Il mobbing raggiunge il suo scopo: eliminare la vittima. Essa può dimettersi, esasperata può chiedere il prepensionamento oppure essere licenziata con un pretesto o con l’inganno. Non tutti i casi di mobbing arrivano però a questa fase. Solo le vittime dei casi estremi sono costrette in un modo o nell’altro ad abbandonare il lavoro.

    Tuttavia, anche senza abbandonare il lavoro, il mobilizzato può entrare in una situazione di vera disperazione. Di solito soffre di forme depressive più o meno gravi e si cura con psicofarmaci e terapie che hanno solo un effetto palliativo perchè il problema sul lavoro non solo resta, ma tende ad aggravarsi. Spesso anche la famiglia della vittima è coinvolta, infatti l’assorbimento familiare della crisi causata dal mobbing implica che anche i vari membri ne subiscano le conseguenze, sia di ordine psicologico che pratico ed economico, come nel caso in cui si dovesse arrivare al licenziamento o alle dimissioni.

    Gli errori da parte dell’amministrazione sono spesso dovuti alla mancanza di conoscenza del fenomeno e delle sue caratteristiche. Di conseguenza i provvedimenti presi sono non solo inadatti, ma molto pericolosi per la vittima.

    Per una corretta valutazione del fenomeno, si devono comunque tenere in considerazione le correlazioni con l’ambiente culturale in cui ha luogo. Il mobbing, infatti, non è un evento fisso e omogeneo: esso è un processo articolato che comincia lentamente e subdolamente e diventa spesso evidente dopo un lungo periodo con manifestazioni diverse.

Gli effetti del mobbing sono assai rilevanti per l’ordinamento: sono legati non solo alla riqualificazione del lavoratore, ma anche e soprattutto al suo stato di salute, il cui decadimento finisce per riverberarsi sulla struttura sanitaria nazionale, in termini di aggravio delle spese per l’assistenza. E ciò senza considerare gli altri obiettivi danni subiti dalla stessa unità lavorativa interessata, con un inevitabile, grave calo della produttività in tale ambito.

    Approfondite ricerche svolte in altri Paesi hanno dimostrato che il mobbing può portare alla invalidità psicologica del lavoratore, sì che può essere corretto, in proposito, parlare di una vera e propria malattia professionale, del tutto simile a un infortunio sul lavoro.

 Per quel che attiene al nostro Paese, talune statistiche riferiscono di una percentuale modesta, pari al 4,2 per cento del totale dei lavoratori dipendenti in Italia, circa 750.000 vittime.

    In realtà il dato che emerge, appare assai lontano dal vero, in quanto ancora oggi le violenze morali in ambito lavorativo, risultano particolarmente difficili da quantificare: sia perché lo studio del fenomeno giunge con notevole ritardo, rispetto alle altre nazioni, sia perché le stesse vittime rifiutano di considerarsi tali, per timore di ulteriori ritorsioni, o per altri motivi.

    Una recente ricerca effettuata dall’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro, avrebbe accertato l’esistenza di circa 1.500.000 lavoratori, vittime del mobbing nel giugno 2000.

    Se si tiene conto, tuttavia, del fatto che oltre al lavoratore interessato, anche i familiari sono pienamente coinvolti dalle ritorsioni – sia di ordine pratico che psicologico – causate dal fenomeno sopra descritto, non è difficile pervenire ad un numero globale di circa 4.000.000 di soggetti perseguiti in via diretta o indirettamente.

    Sempre l’ISPESL riferisce che il 71 per cento delle denunce riguarderebbe i dipendenti del pubblico impiego. Nel 62 per cento dei casi, si tratterebbe di persone con più di 50 anni; l’81 per cento sarebbe, poi, composto da quadri e impiegati. Da un’altra analisi risulterebbe che a esercitare il mobbing sarebbero per il 57,3 per cento i superiori e per il 30,3 per cento i colleghi.

 

Posizione sulla disciplina legale del mobbing

 

La stampa ha dato notizia che si stanno facendo in Parlamento i primi passi per varare una legge anti mobbing. E’ stato infatti messo a punto dal Comitato ristretto della Commissione Lavoro del Senato un testo che raccoglie le diverse proposte di legge in materia presentate nella XIV legislatura, testo che è stato illustrato il 2 febbraio 2005. Il testo unificato conferisce al mobbing una tipizzazione di illecito civile – cui si accompagnano responsabilità disciplinari e risarcitorie di danno – evitando di configurarlo quale delitto, cioè reato penale autonomo e tipizzato cui si accompagna la pena della reclusione, misura quest’ultima che, a nostro avviso, è l’unica che possiede idoneità deterrente, cioè  a dire capacità di scoraggiare realmente ed incisivamente il fenomeno del mobbing.

Nel testo unificato viene data una definizione elastica al mobbing in modo da ricomprendere tutti i fenomeni di violenza e persecuzione psicologica caratterizzati da un minimo comun denominatore, costituito da un elemento oggettivo – ossia la continuità e sistematicità di atti e comportamenti persecutori tenuti in ambito lavorativo - e da un elemento teleologico, consistente nella finalizzazione specifica di tali atti a danneggiare l’integrità psico-fisica della lavoratrice o del lavoratore. Tale elemento teoleologico comporta – in capo al lavoratore che adduce il mobbing –  l’onere della prova  o dimostrazione di una intenzionalità del mobber di infliggergli le vessazioni; comporta cioè per il lavoratore l’onere di provare la sussistenza dell’animus nocendi del vessatore ovverosia il dolo specifico che anima i di lui comportamenti antigiuridici lesivi della dignità e dei diritti della personalità del mobbizzato, dolo la cui dimostrazione notoriamente costituisce per il soggetto destinatario delle iniziative vessatorie e persecutorie una  probatio diabolica, che proprio per la difficoltà dell’essere dimostrata è suscettibile di lasciare i mobber indenni da responsabilità (sia penale che civile)  e di garantire impunità a coloro che hanno posto in essere le iniziative illecite di inflizione di danni a livello psicologico, professionale e di salute, con l’effetto deleterio ed indesiderato di circoscrivere a pochi casi eclatanti ed inequivoci il riconoscimento, in sede giudiziaria, della fattispecie del mobbing.

La tipizzazione del mobbing come illecito civile (caratterizzato da sola responsabilità risarcitoria) in luogo di una tipizzazione (da noi auspicata e preferita) quale reato penale nonchè l’accollo al mobbizzato dell’onere probatorio del dolo specifico del mobber (dolo che pur non essendo espressamente menzionato emerge dalla previsione contenuta nel d.d.l. secondo cui, per essere riconducibili alla fattispecie del mobbing, le iniziative vessatorie debbono essere svolte con “palese predeterminazione”), costituiscono i difetti principali dell’attuale testo unificato, giacché è a tutti noto che le più frequenti e durature vessazioni avvengono in situazioni di colpa, per negligenza, per mancato controllo, per distratta o compiaciuta tolleranza, senza che sia possibile, per la vittima, dimostrare l’esistenza di una pervicace intenzione dolosa che si estenda alla previsione specifica di arrecare danno biologico ed al fine di allontanare il lavoratore dal posto di lavoro.

Questi sostanziosi difetti dell’emananda disciplina legislativa sono stati rimossi dal più recente dei d.d.l. sul tema (del 22 dicembre 2004 e di cui ha dato notizia la stampa nel febbraio 2005, ma che non sembra essere  stato preso in adeguata considerazione ai fini della predisposizione del testo unificato: d.d.l. n.3255 del sen. Magnalbò (AN) che menzioniamo per correttezza anche se di forza politica da noi progressisti avversata) – disegno di legge che, con nostra piena adesione, ha proposto di conferire al socialmente dannoso ed antigiuridico fenomeno del mobbing, rilevanza penale affiancandogli la misura punitiva della reclusione fino a 4 anni. Addizionalmente il d.d.l. in questione  ha previsto l’inversione dell’onere della prova (sebbene solo per la tutela civilistica a fini risarcitori) dal lavoratore vittima al mobber. Toccherebbe, quindi, al datore di lavoro e/o al superiore gerarchico (in caso di mobbing verticale) ovvero al collega-mobber (in caso di mobbing orizzontale) dimostrare di non aver voluto nuocere intenzionalmente.

Concludendo sul tema esprimiamo la convinzione che per debellare un fenomeno esiziale, che sempre più va diffondendosi nel mondo del lavoro, la disciplina legale sul mobbing in corso di approvazione debba:

    a) tipizzare la fattispecie del mobbing come reato penalmente rilevante e sanzionato con la misura punitiva della reclusione;

    b) sganciarne la punibilità dal riscontro del dolo specifico o intenzionalità del mobber, prevedendone per legge la punibilità – sia dal lato penale che della responsabilità civile risarcitoria – alla ricorrenza della sola colpa, atteso che ciò che rileva per la vittima é l’aver subito oggettivi e seri pregiudizi (per la salute a causa di sindromi depressive indotte, a livello psicologico per caduta dell’autostima, sul versante della professionalità a causa di demansionamento o confinamento in forzata inattività), riconducibili con nesso di causalità  a comportamenti antigiuridici e colposi del mobber (datore di lavoro, superiore gerarchico o collega)

    c) trasferire l’onere della prova dalla vittima al persecutore, in base alla realistica presunzione della consapevolezza, da parte del persecutore, della potenzialità pregiudizievole e dannosa dei suoi comportamenti o omissioni, con la conseguenza che - una volta che la vittima abbia dimostrato che i  danni subiti sono conseguenza delle iniziative persecutorie del mobber e ad esso oggettivamente imputabili -  sia il mobber ad essere onerato della prova (a discarico) di assenza di intenzionalità di nuocere o di una qualsiasi altra colpa, in mancanza di assolvimento della quale sarà considerato responsabile degli addebiti mossegli dalla vittima e automaticamente soggetto alle responsabilità di carattere civile e penale.

 

Mario Meucci

Roma, 10 marzo 2005

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