Il contenuto e la pubblicita’ del codice disciplinare

     Sommario:
1. Il contenuto del codice disciplinare
2.La pubblicità del codice disciplinare

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  1. Il contenuto del codice disciplinare

Il codice disciplinare deve contenere l'elencazione delle infrazioni e delle relative sanzioni nonché l'indicazione delle procedure di contestazione.

Il punto maggiormente delicato della disposizione concerne il grado di specificazione con cui deve essere formulato l'elenco delle infrazioni, registrandosi in dottrina ed in giurisprudenza  opinioni variegate.

La previsione di un codice disciplinare non può essere integralmente rapportata al principio del "nullum crimen sine lege"; peraltro anche il richiamo al principio del "nullum crimen" non sembra risolutivo, posto che anche in materia penale numerose ipotesi di reato sono necessariamente generiche, potendo essere completate solo mediante il ricorso al comune modo di sentire della società, a regole dell'esperienza o della tecnica, ovvero a qualificazioni giuridiche contenute in altre fonti dell'ordinamento.

Se, quindi, lo stesso ordinamento penalistico - ove pure l'esigenza della previa determinazione dell'illecito  ha ben altra formulazione legislativa e risponde  a ben più rilevanti esigenze sociali - è costretto a cedere in taluni casi all'impossibilità di una compiuta predeterminazione della normativa, a maggior ragione occorre far riferimento con una certa oculatezza al principio della tassatività e specificità delle infrazioni disciplinari.

Certamente le considerazioni che precedono non possono portare ad attribuire rilevanza a certe clausole talmente generiche da impedire qualsiasi individuazione dei comportamenti sanzionabili, così come avviene, ad esempio, nel generico riferimento all'obbligo di rispettare le disposizioni del contratto ovvero di non tenere comportamenti in contrasto con il dovere di fedeltà o ancora di non porre in essere comportamenti che possano riuscire di pregiudizio agli interessi dell'impresa.

In tutti questi casi la norma non può che essere ritenuta "tanquam non esset", con la conseguenza che l'esercizio del potere disciplinare fondato su di una tale disposizione renderebbe pacificamente illegittimo il successivo provvedimento disciplinare.

Il problema, quindi, neanche si pone per i casi in cui la genericità della normativa esclude l'effettiva previsione di un'infrazione sanzionabile, occorrendo bandire le formulazioni indeterminate ed onnicomprensive, siccome insuscettibili di realizzare le finalità volute dal legislatore con la prevista obbligatorietà del codice disciplinare.

Il problema si è concretamente posto, in giurisprudenza, con riferimento alla normativa sui provvedimenti disciplinari contenuta nel contratto dei bancari ed in quello dei dipendenti SIP.

La normativa dei bancari - dopo aver delineato i provvedimenti disciplinari  (rimprovero verbale, biasimo scritto, sospensione dal servizio e dal trattamento economico fino al massimo di 10 giorni, licenziamento per notevole inadempimento agli obblighi contrattuali (cioè per giustificato motivo soggettivo), licenziamento per mancanza così grave da non consentire la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto (cioè per giusta causa) - dispone aggiuntivamente che "i provvedimenti disciplinari vengono applicati secondo le norme di legge che regolamentano la materia, in relazione alla gravità o recidiva della mancanza o al grado della colpa, senza riguardo all'ordine in cui sono elencati".

Analogamente dispone il contratto per i dipendenti SIP (ora Telecom).

La prima giurisprudenza di Cassazione ha riscontrato in essi i precitati vizi di genericità, statuendone l'illegittimità, tramite la seguente affermazione di principio: "il potere disciplinare riconosciuto dall'art. 2106 c.c. al datore di lavoro presuppone che le ipotesi astratte di illecito...siano determinate nelle loro caratteristiche essenziali sia oggettive che soggettive, che - pur senza giungere ad un'analitica tipicizzazione di tutte le possibili mancanze del lavoratore - abbia però un grado di specificità sufficiente ad escludere che la condotta del lavoratore nella fattispecie disciplinare sia interamente devoluta ad una valutazione unilaterale ed ampiamente discrezionale del datore di lavoro, di talché non è idoneo un generico riferimento all'inadempimento del lavoratore in ordine agli obblighi scaturenti dal contratto unitamente ad un'altrettanto generica differenziazione delle sanzioni fondantesi sul criterio della graduazione della colpa ovvero dell'entità del danno causato" ( così Cass. 16 novembre 1985, n. 5646).

Successivamente l'orientamento della Cassazione - sia in relazione al contratto SIP sia a quello dei bancari - è (incomprensibilmente) mutato, giungendosi a riconoscerne la legittimità, con la seguente statuizione: "ai fini dell'osservanza dell'art. 7, 1 comma, L. n. 300/'70, non è necessario che il codice disciplinare contenga un'analitica e specifica predeterminazione delle infrazioni e - in relazione  alla loro gravità - delle corrispondenti sanzioni secondo il rigore formale proprio del sistema sanzionatorio penale statuale, essendo sufficiente per la sua validità che esso sia redatto in forma che renda chiare le ipotesi di infrazione, sia pur dando una nozione schematica e non dettagliata delle varie prevedibili o possibili azioni del singolo, e che indichi, in corrispondenza, le previsioni sanzionatorie, anche se in maniera ampia e suscettibile di adattamento secondo le effettive e concrete inadempienze"(così Cass n. 1695/1991 e Cass. n.4219/1991).

Nonostante si possa convenire, in linea astratta, sul principio più di recente espresso, non si riesce a comprendere come lo stesso abbia portato alla salvezza del precitato codice disciplinare contenuto nei  premenzionati contratti SIP e dei bancari. Ad ogni buon conto si esprime  un opinione di  preferenza e di concordanza con l'orientamento iniziale più aderente allo spirito dell'art. 7, giacché la maggiore elasticità del successivo orientamento ha implicato indebite attribuzioni di legittimità a formulazioni di contratti che altro non contengono che un generico richiamo al criterio legale di proporzionalità della sanzione alla mancanza e, quel che più le inficia, lasciano un illimitato margine di discrezionalità al datore di lavoro nella valutazione della concreta sanzione applicabile all'inadempienza, non idoneo a soddisfare le esigenze garantistiche  per il prestatore volute dall'art. 7 L. n. 300/'70.

Occorre, infatti, che il fatto addebitato al dipendente sia riconducibile, con sufficiente chiarezza e specificazione al precetto contenuto nella normativa disciplinare.

Inoltre, nel compiere  l'operazione di riconducibilità della fattispecie concreta alla previsione astratta, ben può ritenersi variabile lo stesso grado di specificazione in relazione alla fonte mediata da cui deriva in via principale il divieto di un certo comportamento.

E' infatti di tutta evidenza come sia ben minore l'esigenza di assicurare la conoscibilità della normativa e l'imparzialità dell'esercizio del potere in relaziona a comportamenti costituenti reato ovvero violazione di norme legali o di elementari regole del vivere civile acquisite dalla coscienza sociale come "minimo etico".  A differenza di tali infrazioni o inadempienze, la cui cognizione dell'essere tali e sanzionabili discende dalla loro previsione da parte della legge (così Cass. n. 1974/1994 e Cass. n. 10582/1993)  - secondo il principio per cui "ignorantia legis non excusat" -, sussiste invece una ben diversa esigenza di  prevedere una specifica e dettagliata normativa in relazione alle disposizioni impartite dall'imprenditore per l'esecuzione e la disciplina del lavoro.

L’esigenza di obiettività postulata dalla norma dell’art. 7, è garantita a priori dalla qualificazione come illecito di un certo comportamento da parte dell'ordinamento generale, laddove  non può porsi in dubbio che la predetta esigenza imponga un ben diverso grado di specificazione allorché difetti una norma preesistente e neutra che qualifichi come illecito il comportamento sanzionato.

Lo stesso discorso vale in relazione all'esigenza di rendere certa la conoscenza da parte del lavoratore di determinati precetti, non potendo essere posta sullo stesso piano la conoscenza di norme penali e di disposizioni aziendali.

Relativamente alle ipotesi in questione e cioè limitatamente a quei comportamenti già previsti, come reato, violazione di legge o inadempimento contrattuale da altre fonti, ben può essere condivisa quella giurisprudenza che ritiene sufficiente - e, ad avviso delle decisioni di Cassazione, addirittura superflua -  una elencazione delle mancanze limitate ad alcune fattispecie generali,  aventi la funzione di indicare esclusivamente i criteri orientativi, purchè la singola mancanza sia ragionevolmente riconducibile ai criteri derivanti, appunto, dall'elenco esemplificativo contenuto nel codice disciplinare.

Il codice disciplinare deve inoltre contenere l'elenco delle possibili sanzioni e sotto questo profilo non sembra dubitabile che la disposizione abbia accolto integralmente il principio penalistico del "nulla poena sine lege", il che impedisce la irrogazione di una sanzione non prevista dal codice disciplinare, posto che un'eccezione  a tale principio priverebbe il lavoratore della fondamentale garanzia che il potere disciplinare venga esercitato con correttezza ed imparzialità.

L'elenco delle infrazioni dovrà, quindi, essere effettuato per gruppi passibili di identica sanzione, anche se ciò non impedisce l'esistenza di un certo margine di discrezionalità che consenta all'imprenditore di spaziare tra un minimo ed un massimo  o, anche, tra due diverse sanzioni a seconda della gravità del comportamento.

Tale margine, però, sarà legittimo solo in quanto predeterminato, mediante la specifica indicazione delle possibili sanzioni e dei criteri utilizzabili per la graduazione del potere disciplinare.

Pertanto, mentre saranno illegittime quelle clausole che riservano all'imprenditore la scelta in concreto della sanzione, devono invece ritenersi conformi all'art. 7 quelle disposizioni che, in relazione all'intensità della lesione del bene tutelato o ad altri ed individuati elementi di fatto, consentano l'adozione di differenti provvedimenti disciplinari

 

2. La pubblicità del codice disciplinare

La normativa disciplinare, una volta fissata, deve essere portata a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti.

La norma in questione, benché formulata con estrema chiarezza, ha dato luogo a particolari contrasti dottrinari e giurisprudenziali, essenzialmente in ordine all'ammissibilità e legittimità di altri mezzi equipollenti di diffusione delle normativa disciplinare, soprattutto con riferimento alla sufficienza o meno della consegna al lavoratore del contratto collettivo.

In proposito sembra opportuno ricordare ancora una volta che il codice disciplinare, tranne ipotesi limitatissime, non ha efficacia costitutiva dell'illecito, ma si limita a rendere maggiormente certa la conoscenza, mediante la predisposizione appunto del codice, cui va, peraltro, anche riconosciuta - con  riferimento  allo specifico momento dell'affissione - la funzione peculiare di costituire uno strumento finalizzato ad attirare l'attenzione del dipendente sulla normativa disciplinare.

Ma accanto a questo aspetto non va dimenticata la funzione principale perseguita dalla norma e consistente nella predeterminazione di una normativa certa in materia disciplinare, con impossibilità - quindi - anche per l'imprenditore di distaccarsene; ciò al fine di attuare una garanzia di obiettività e di imparzialità nell'esercizio del potere disciplinare.

Se pertanto al codice disciplinare vanno riconosciute le evidenziate finalità, appare di immediata evidenza come la predisposizione di altri mezzi di  conoscenza non possa essere  mai considerata equipollente, in quanto non si tratta - o quanto meno non si tratta esclusivamente - di assicurare ai lavoratori la conoscibilità del codice disciplinare.

L'indicata funzione della normativa di assicurare  il rispetto della libertà e dignità del lavoratore, non sembra infatti realizzabile con strumenti individuali di diffusione del codice disciplinare, posto che l'evidenziata finalità può essere perseguita solo con forme rigorose e collettive di "pubblicazione" della disciplina, allo scopo di consentire un controllo collettivo e non solo individuale sull'operato dell'imprenditore.

In altre parole, per un insieme di motivi, in precedenza sottolineati, il legislatore ha voluto che alla normativa disciplinare venisse dato un crisma di ufficialità, mediante l'affissione, onde sembra del tutto ultroneo porsi il problema dell'equipollenza o meno di altre forme di conoscenza, posto che il nodo reale della questione non è solo la conoscibilità della normativa, ma l'ufficialità ed oggettività della stessa, ed a tali esigenze può ottemperare, per espressa volontà del legislatore, la sola affissione del codice.

Conformemente si sono espresse le sezioni unite della Cassazione nella decisione n. 1208/1988 ( in Mass. giur. lav. 1988, 292), secondo cui: " Se è vero che  il codice disciplinare aziendale è atto unilaterale ricettizio con funzione normativa, ...e se la destinataria del codice è la stessa collettività indeterminata - anche perchè continuamente variabile - dei lavoratori, ne consegue che in tanto esso produrrà effetti in quanto sia stato reso noto o conoscibile alla collettività cui è destinato; senza tale conoscibilità il codice disciplinare è improduttivo di effetti in quanto giuridicamente inesistente. Ne consegue che l'opzione del legislatore a favore dell'affissione, rispetto ad altri ipotizzabili mezzi di esteriorizzazione di carattere individuale (come ad es., la consegna ai dipendenti dell'intero testo contrattuale o di un estratto contenente le sole disposizioni in materia disciplinare), non è arbitraria,né meramente indicativa ma prescrittiva ed esclusiva, in quanto trova la sua ratio nella natura e nella funzione cui l'atto si riferisce. Peraltro, la tesi secondo cui l'affissione va considerata come il mezzo esclusivo di cognizione del codice disciplinare non può essere inficiata dal richiamo al generale principio di libertà delle forme, posto che l'interpretazione letterale e sistematica del disposto di cui all'art. 7  statuto dei lavoratori, induce a ritenere che a detto principio si sia  voluto derogare. Nè possono venire in questione, al fine dell'efficacia delle norme disciplinari, mezzi di comunicazione del codice disciplinare diversi dall'affissione, ogni qualvolta, come nel caso in esame, essi riguardino i lavoratori individualmente considerati e non la collettività dei dipendenti".

L'autorevole opinione pone, quindi, fine alla diatriba, accogliendo la tesi anche da noi esposta in precedenza.

Anche a prescindere dall'autorevole avallo della Cassazione a sezioni unite, la tesi preferibile non può essere  che quella che ritiene l'affissione quale unico strumento suscettibile di attribuire giuridica esistenza al codice disciplinare, con impossibilità, quindi, di ritenere rilevanti altri mezzi c.d. equipollenti di conoscenza.

In definitiva si può ritenere senz'altro esatto il rilievo che le diverse fonti che qualificano come illeciti disciplinari determinati comportamenti del lavoratore, siano insuscettibili di applicazione diretta, ma richiedano necessariamente, per la loro operatività, la trasfusione in una normativa disciplinare da portarsi a conoscenza dei lavoratori con l'affissione, trattandosi dell'unico strumento di pubblicità previsto dalla legge.

Altra tesi, spesso seguita, distingue l'onere di pubblicità del datore di lavoro, a seconda della fonte da cui la norma disciplinare promani, ritenendosi necessaria l'affissione esclusivamente per la normativa predisposta unilateralmente dall'imprenditore, mentre sarebbero ammissibili strumenti equipollenti per le clausole  di derivazione contrattuale o legislativa (cfr. Trib. Milano 4.5.1977 in Or. giur. lav. 1977, 644).

Anche tale tesi  non sembra però condivisibile, proprio perché pone l'accento esclusivamente sulla funzione conoscitiva del codice e non anche sulla funzione garantistica di imparzialità del comportamento imprenditoriale, che non sembra realizzabile in maniera diversa dall'affissione, ovvero da altri mezzi di pubblicità oggettivi e come tali non suscettibili di autonoma scelta da parte dell'imprenditore.

Peraltro tale tesi, oltre a determinare i soliti problemi di certezza nell'individuazione della normativa applicabile, non tiene in alcuna  considerazione il dato letterale del primo comma dell'art. 7, che riconnette l'onere dell'affissione  a norme disciplinari che devono già costituire applicazione della contrattazione collettiva.

Peraltro la fonte collettiva, pur potendo essere integrata ed ampliata dalla fonte predisposta unilateralmente dall'imprenditore, resta tuttavia la fonte principale di quel codice disciplinare per il quale è espressamente previsto l'obbligo dell'affissione, onde appare del tutto priva di senso l'affermazione tendente ad escludere la necessità dell'affissione per quella parte del codice di derivazione contrattuale.

Del resto va ricordato che l'originaria formulazione dell'art. 7 prevedeva espressamente un obbligo di portare a conoscenza la sola normativa predisposta dall'imprenditore (qualora i contratti non dispongano al riguardo, il datore di lavoro deve stabilire e portare a conoscenza...), per cui la diversa formulazione poi data alla norma denota chiaramente la volontà legislativa di dettare un'unica disciplina della pubblicità della normativa disciplinare, quale che ne fosse la derivazione.

Semmai è da esaminare se l'affissione costituisca l'unico onere per l'imprenditore, ovvero se debba essergli attribuito anche l'ulteriore obbligo di attivarsi affinché venga effettivamente resa possibile la conoscenza della normativa da parte di tutti i dipendenti.

Certamente l'imprenditore deve adempiere alla prescrizione legislativa con la necessaria diligenza, per cui il luogo di affissione non solo deve essere normalmente accessibile da parte della generalità dei dipendenti, ma deve essere anche ubicato in modo da porre in risalto, o quanto meno rendere evidente, il codice disciplinare . Cosa che normalmente consiglia l’affissione murale o in albi collocati agli ingressi aziendali ove sono disposti di norma gli orologi marcatempo o i più moderni strumenti tecnologici di registrazione delle presenze tramite badges, ovvero presso le mense o i refettori frequentati da tutti i lavoratori, sedi che possono consentire la presa di conoscenza agevole mediante lettura iniziale e rilettura per la specifica occasione di infrazione.

Al riguardo la Cassazione - nella decisione del 18 marzo 1988 n. 2525 ( in Or. giur. lav. 1988, 681), ha ritenuto - correttamente - “regolare l’affissione...avvenuta in quegli stessi ambienti in cui i lavoratori prestano abitualmente la loro opera”. Da parte della giurisprudenza di merito - specificatamente da Trib. Milano 20 ottobre 1981 (in Lav. 80, 1982, 121) e da Trib. Milano 12 settembre 1975 (in Or. giur. lav. 1976, 200) è stata ritenuta insufficiente l’affissione del codice disciplinare presso una sede o stabilimento diversi da quelli cui era addetto il lavoratore. Nello stesso senso Trib. Milano 4 luglio 1981 (in Lav. 80, 1981, 935) che ha deciso che costituiva violazione dell’art. 7 dello Statuto, con conseguente nullità della sanzione, l’affissione delle norme disciplinari negli uffici della direzione e non nelle singole farmacie ove i lavoratori prestavano la loro opera. Similmente Pret. Milano 23 dicembre 1988 (in Lav. 80, 1989,409) che ha giudicato inidonea a realizzare lo scopo perseguito dall’art. 7 l’affissione del codice disciplinare all’interno della guardiola delle guardie giurate, trattandosi di locale non di transito, di dimensioni tali da non consentire un facile accesso ai lavoratori e non potendosi escludere poi che il fatto di poter consultare il codice disciplinare esclusivamente in presenza dei sorveglianti potesse avere sui lavoratori un effetto dissuasivo ponendoli in condizioni di minorata libertà.

Gli obblighi inerenti alla scelta del luogo di affissione sono comunque sufficientemente evidenti, mentre una questione di maggior rilievo e problematicità si pone in relazione a quelle categorie di lavoratori che, avendo un rapporto saltuario o inesistente con la sede principale o anche con una qualsiasi sede dell'impresa, vengano a trovarsi nell'impossibilità di prendere conoscenza della normativa (es., viaggiatori, rappresentanti, trasfertisti abituali, ecc.).

Si è, in questo casi, ritenuto insufficiente l'obbligo di affissione, sul presupposto dell'impossibilità di individuare uno specifico luogo di lavoro del singolo dipendente (in tal senso Pret. Milano 23 marzo 1976, in Or. giur. lav. 1976, 342).

In effetti la norma parla di luogo accessibile a tutti, il che non può che essere interpretato nel senso della effettività dell'accessibilità, per cui ove la stessa sia esclusa in relazione a particolari modalità della prestazione, non può ritenersi adempiuto l'onere previsto dalla legge. In tale ipotesi la consegna individuale del codice disciplinare viene pertanto a costituire per l'imprenditore un atto dovuto e non una sua facoltà, dovendosi ritenere la conoscibilità effettiva  della normativa come un presupposto indefettibile per l'esercizio del potere disciplinare, con la conseguenza  che costituirà un preciso onere dell'imprenditore realizzare la concreta possibilità di tale conoscenza, ove l'organizzazione aziendale renda impraticabile il sistema previsto dallo Statuto.

In questi casi la normale affissione fornirà la garanzia dell'imparzialità ed oggettività della normativa disciplinare, mentre la consegna del codice disciplinare, ai singoli dipendenti non addetti alla sede, assolverà alla funzione di conoscibilità della normativa, esigenza, quest'ultima, parimenti perseguita dalla norma.

Infine  va evidenziato – per non incorrere in equivoci  o ingenerare certezze di impunità da parte dei trasgressori – che un oramai consolidato orientamento (v. da ultimo Cass. 16 novembre 2000 (in Guida al lavoro, n.49/2000, p.25, cui adde Cass. 1 settembre 2000, n. 11476 e Cass.22 aprile 2000, n. 5299, in sintesi in Lav. prev. Oggi, n. 6/2000, p. 1273) asserisce l’assoluta non necessarietà dell’obbligo di previsione e affissione, ai fini della legittimità della sanzione disciplinare conservativa o espulsiva ex art. 7 l. n. 300/70, allorché gli addebiti contestati al lavoratore si riferiscano a comportamenti costituenti violazione di norme penali o, anche al di là della loro rilevanza o non rilevanza penale, qualora per il loro carattere “visibilmente antigiuridico” sicuramente espongano il trasgressore ad una riprovazione sociale. Si sostiene - invero talora con eccesso di amplificazione ad una indefinita gamma di fattispecie non sempre circoscrivibili (come invece dovrebbe consentire indirettamente anche una semplice affermazione di principio)  - che la garanzia prevista dall’art. 7, 1 comma, l. n. 300/’70 “è collegata al licenziamento per giusta causa o giustificato motivo quando esso sia intimato per specifiche ipotesi previste dalla normativa collettiva o (validamente) poste dal datore di lavoro e non anche quando faccia riferimento a situazioni giustificative del recesso, correlate a comportamenti del lavoratore che siano considerati dalla coscienza sociale lesivi delle regole fondamentali del vivere civile o siano lesivi dell’interesse dell’impresa o comunque costituiscano gravi violazioni dei doveri fondamentali del lavoratore, come quelli inerenti alla fedeltà e al rispetto del patrimonio del datore di lavoro” (così Cass. 27 marzo 1999, n. 2954). Insomma la garanzia della  previsione e pubblicità del codice disciplinare – condizionante la validità dell’irrogazione della sanzione – non può trovare applicazione, (secondo il precitato orientamento dottrinale e giurisprudenziale prevalente del quale deve tenersi indiscutibilmente conto), qualora il licenziamento per giustificato motivo o giusta causa venga intimato per comportamenti del prestatore di lavoro che la coscienza sociale considera lesivi delle norme della civile convivenza, codificate in precetti  dell’ordinamento positivo o in  convincimenti morali di base (c.d. etica comune) per l’ordinamento medesimo (sul punto, nello stesso senso ed in aggiunta alle precedenti decisioni, Cass. 27.3.1999, n. 2954, in Dir. prat. lav. 1999, 33, 2412; Cass. 18.9.1996, n. 8751, in Giust. civ. 1997, I, 997 e in Lav. giur. 1997, 3, 225; Cass. 17.11.1994, n. 9719 in Dir. lav. 1995, II, 395).

 M. Meucci

 

(pubblicato, senza gli attuali aggiornamenti,  su Confronti e Intese, rivista del Sinfub, n. 3/1997)

 

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