Legittimo (anche) per le Sezioni Unite il versamento dei contributi
sindacali per “cessione di credito” ex art. 1260 c.c.
Le
sezioni unite, con la decisione n. 28269 del dicembre 2005, hanno risolto
la divergenza di orientamenti sul tema della trattenuta dei contributi
sindacali per le OO.SS. non firmatarie dei contratti collettivi applicati
in azienda, legittimando – secondo il prevalente orientamento – il ricorso
da parte degli iscritti alla “cessione di credito” ex art. 1260 c.c., in
base alla quale il datore di lavoro dovrà provvedere alle ritenute sulle
retribuzioni da versare alle OO.SS.a titolo di contributo associativo
dell’iscritto.
di
Mario Meucci – giuslavorista in Roma
1.
La decisione delle sezioni unite n. 28269 del 21 dicembre 2005
Il
contenzioso di merito degli anni 97-98 sulle trattenute per i contributi
sindacali da destinare alle OO.SS. non firmatarie dei contratti collettivi
applicati in azienda – dopo essere approdato in Cassazione per il tramite
delle sentenze n. 1968 e n. 3917 del 3 e 26 febbraio 2004, nonché n.10616/2004
e n.14032 del 26 luglio 2004 di segno conforme alla n. 3917 – è stato a
suo tempo assegnato alle sezioni unite in ragione di un contrasto interno
alla sezione lavoro della S.C. . La prima decisione n. 1968/2004 (rel.
Balletti) – unitamente alla successiva n. 10616/2004 - infatti aveva
finito per ritenere inadeguata, senza il consenso datoriale, la cessione
ex art. 1260 c.c. del credito del lavoratore a favore del sindacato a fini
di contribuzione associativa, mentre le n. 3917 e 14032/2004 avevano
raggiunto conclusioni opposte, con la conseguenza che il rifiuto datoriale
di effettuare la trattenuta sulla retribuzione concretizzava, anche senza
l’accordo datoriale, comportamento antisindacale. Sulla stessa falsariga
la prevalente giurisprudenza di merito (per tutte vedasi Trib. Milano 3
febbraio 2004) secondo la quale: ««E’ legittima – e costituisce
condotta antisindacale il diniego datoriale al riguardo – la richiesta del
lavoratore di cedere con delega (contenente in fattispecie anche facoltà
di revoca) al proprio sindacato una quota di retribuzione a titolo di
contributo sindacale di affiliazione. Osserva infatti il giudicante a
fronte delle eccezioni datoriali: perché non dovrebbe essere consentito al
sindacato, ente portatore di valori ritenuti dal Costituente e dal
legislatore meritevoli di speciale tutela, di ottenere ciò che una
qualunque società finanziaria automaticamente ottiene? E perché il
cittadino lavoratore potrebbe cedere parte del suo salario a tutti ma non
ad una organizzazione sindacale, subendo così una riduzione dei suoi
diritti civili senza ben pregnanti ragioni e anzi venendo limitato proprio
nell'esercizio del suo diritto di sostenere nel modo ritenuto più
opportuno il sindacato di sua fiducia soltanto perché lo stesso non ha
stipulato contratti collettivi? Quest'ultima condizione discriminante, se
può giustificare un trattamento preferenziale dei sindacati stipulanti sul
piano dei diritti strettamente sindacali, in nessun modo può rilevare nel
rapporto lavoratore-sindacato da un lato e nello status del cittadino
lavoratore dall'altro, entrambi regolati dalle norme del diritto civile».
Le
sezioni unite, nella recentissima sentenza n. 28269 (rel. Picone) del 21
dicembre 2005 hanno confermato la validità di queste conclusioni,
attraverso la seguente massima da noi redatta, che così dispone: «
L’abrogazione referendaria dell'art. 26, commi 2 e 3, Statuto dei
lavoratori, non ha certo determinato un "vuoto" nella regolamentazione
della materia, ma - come precisato dalla Corte costituzionale in relazione
all'intento dei promotori (sentenza 13/1995)- ha "restituito"
all'autonomia contrattuale la materia già disciplinata dalla legge in
termini di prestazione imposta al datore di lavoro, cosicché resta
ammissibile, senza limitazioni, il ricorso a tutti i possibili strumenti
negoziali che consentono di realizzare lo scopo di versare ai sindacati la
quota associativa mediante ritenuta sulla retribuzione, altrimenti si
attribuirebbero all'istituto del referendum non i soli effetti abrogativi
che gli sono propri, ma anche effetti propositivi. E’ del tutto errato,
pertanto, ritenere – come ha fatto la difesa dell’azienda - che l'esito
referendario abbia introdotto nell'ordinamento il principio inderogabile
del divieto di realizzare il risultato di imporre al datore di lavoro,
senza il suo consenso, di versare al sindacato quote della retribuzione.
Si è già detto come sia del tutto arbitrario desumere un tale principio
dall'effetto abrogativo del referendum, limitato alla soppressione di un
obbligo ex lege, senza interferire minimamente sull'apparato degli
strumenti negoziali a disposizione di tutti i soggetti dell'ordinamento.
Scomparso l'obbligo legale, tutti gli strumenti negoziali possono
essere impiegati per realizzare risultati, non certo identici o analoghi,
ma, al più, equivalenti. E ciò stabilito, l'inadempimento del datore di
lavoro che incide sull'attività sindacale in senso proprio concreta in
tutti i casi condotta antisindacale, senza che possa in alcun modo
rilevare la fonte dell'obbligo medesimo. Va aggiunto che il referendum ha
lasciato in vigore il primo comma dell'art. 26 Statuto dei lavoratori, che
protegge i diritti individuali dei lavoratori concernenti l'attività
sindacale per quanto attiene, in particolare, alla raccolta dei
contributi: stipulare con il sindacato i contratti di cessione di quote
della retribuzione costituisce una modalità di esercizio dei detti
diritti; il rifiuto del datore di lavoro di darvi corso, lungi dal
concretare un mero illecito civilistico, opera una compressione dei
diritti individuali e di quelli del sindacato. Ne consegue che il rifiuto
ingiustificato del datore di lavoro di eseguire i pagamenti configura un
inadempimento che, oltre a rilevare sotto il profilo civilistico,
costituisce anche condotta antisindacale, in quanto oggettivamente idonea
a limitare l'esercizio dell'attività e dell'iniziativa sindacale.
L'effetto del rifiuto è quello di privare i sindacati che non hanno
stipulato i contratti collettivi della possibilità di percepire con
regolarità la fonte primaria di sostentamento per lo svolgimento della
loro attività e di porli in una situazione di debolezza, non solo nei
confronti del datore di lavoro, ma anche delle altre organizzazione
sindacali con cui sono in concorrenza».
Non
possiamo che salutare con soddisfazione la conferma dell’orientamento
prevalente, giacché anche noi – in diverse sedi – avevamo sostenuto la
legittimità di esercizio del diritto di cui al vecchio 1° comma dell’art.
26 Stat. lav. (nel testo emendato dal referendum abrogativo del ‘95),
secondo il quale sussiste in capo ai lavoratori il diritto di “raccogliere
contributi” per le loro OO.SS. e quello correlato di effettuare versamenti
al sindacato da essi prescelto secondo le proprie, libere, convinzioni
ideologico-sociali – quantunque senza la cooperazione obbligata datoriale
introdotta negli anni ’70 dagli abrogati commi 2 e 3 dell’art. 26 Stat.
lav. - a precindere se sia firmatario o meno dei contratti di lavoro
applicati dall’azienda, che è invece requisito selettivo per il diverso
diritto di costituzione delle RSA, ex art. 19 Stat. lav.
Conviene, per riepilogo e per favorire la comprensione della tematica al
lettore, entrare più approfonditamente nel merito della questione e
tracciare anche un excursus storico della problematica che ha
trovato, per il tramite delle sezioni unite, la sua conclusione.
2.
Il nuovo art. 26 dello Statuto dei lavoratori dopo il referendum del
1995
Dopo
l’approvazione del referendum dell’11 giugno 1995 (e la correlativa
emanazione del DPR 28 luglio 1995 n. 313) - con il quale vennero tolti dal
corpo dell’art. 26 dello Statuto dei lavoratori, due commi che prevedevano
l’obbligo legale del datore di lavoro di effettuare il servizio di
raccolta e versamento dei contributi sindacali dietro semplice delega (o
disposizione al datore di lavoro da parte del lavoratore) di trattenerli
dal credito di lavoro maturato in busta paga - è emerso un singolare
contenzioso tra aziende e sindacati.
Si
tratta normalmente di Sindacati autonomi non direttamente firmatari di
ccnl, o di sigle aggressive fino al punto di ricusare la firma di
contratti di lavoro non condivisi, impossibilitate per ciò stesso ad
avvalersi – per il finanziamento tramite contribuzione dei lavoratori –
delle clausole contrattuali pattuite nella parte obbligatoria del ccnl,
tramite cui i datori di lavoro si sono nuovamente accollati “per via
contrattuale” (ma chiaramente a favore dei soli sindacati firmatari dei
ccnl) l’abrogato onere “legale generalizzato” della trattenuta sulla busta
paga dei contributi al Sindacato su delega del lavoratore.
Prima
di entrare nel merito, conviene delineare l’assetto normativo vigente,
quale scaturito a seguito dell’esito referendario del 1995, sulla materia
dei contributi sindacali.
In
conseguenza della predetta abrogazione l’attuale art. 26 dispone: che: “I
lavoratori hanno diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di
proselitismo per le loro organizzazioni sindacali all’interno dei luoghi
di lavoro, senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività
aziendale”. Sono state abrogate, pertanto le precedenti disposizioni
che addizionavano alla previsione sopra riportata quelle che prevedevano
che: “Le associazioni sindacali dei lavoratori hanno diritto di
percepire, tramite ritenuta sul salario, i contributi sindacali che i
lavoratori intendono loro versare, con modalità stabilite dai contratti di
lavoro, che garantiscano la segretezza del versamento effettuato dal
lavoratore a ciascuna associazione sindacale” (2° co.).
“Nelle aziende nelle quali il rapporto di lavoro non è regolato da
contratti collettivi, il lavoratore ha diritto di chiedere il versamento
del contributo sindacale all’associazione sindacale da lui indicata” (3°
co.)”.
In
buona sostanza, in omaggio ad un (prevalso) atteggiamento ostile verso
l’istituzione sindacale, con il referendum del ‘95 è stato soppresso
l’obbligo per il datore di lavoro di effettuare quel “sevizio gratuito”-
sempre mal sopportato dall’opinione borghese e “bottegaia”, in quanto
imposto ad una parte del rapporto di lavoro (l’azienda) a favore della
“controparte antagonista” (il sindacato) – consistente nella raccolta ed
nel versamento delle contribuzioni necessarie per la vita e la continuità
dell’organizzazione. Contraddittoriamente (e discriminatoriamente, a
nostro avviso) si consentivano e si consentono, pacificamente, senza
reazioni di sorta - in assenza di una norma di legge speciale e sulla
base delle norme di diritto comune in tema di “cessione di credito” (art.
1260 e ss. c.c.) - le ritenute ed i versamenti alle varie finanziarie
operanti sul mercato, con le quali i lavoratori hanno contratto
finanziamenti e mutui ed alle quali hanno ceduto (parzialmente) il
proprio credito sulla retribuzione (e sul t.f.r.) dovutagli dal datore di
lavoro in conseguenza della prestazione contrattualmente pattuita.
Il
metodo dei “due pesi e due misure” nell’effettuazione del servizio di
esazione – improntato ad indisponibilità nel caso si tratti
dell’avversario sindacale e, all’opposto, a tolleranza o condiscendenza
nel caso dell’operatore finanziario/commerciale - è altresì illuminante in
ordine alla genesi ed alla funzione dell’art. 26 Stat. lav.
Si
vuole cioè dire che - come evidenzia la notazione soprariferita - anche
in mancanza di una norma speciale in ordine all’obbligo di esazione a
favore del creditore cessionario (il sindacato), esistevano per il
creditore cedente (lavoratore) istituti di diritto comune – come la
cessione di credito ex art. 1260 e ss. c.c. – idonei a realizzare in capo
al datore di lavoro (debitore ceduto) l’obbligo del servizio di esazione,
senza che questi si potesse opporre o potesse pretendere di manifestare
il suo consenso all’operazione in questione, disponendo l’art. 1260 c.c.
che : «il creditore può trasferire a titolo oneroso o gratuito il suo
credito, anche senza il consenso del debitore, purché il credito non abbia
carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla
legge».
3.
La genesi statutaria dell’obbligo datoriale di esazione dei
contributi sindacali
Ci si
chiede e ci si è chiesti – anche nel corso delle vertenze giudiziarie –
perché allora il legislatore statutario abbia sentito l’esigenza di
imporre al datore di lavoro l’obbligo di provvedere all’esazione dei
contributi a favore dell’organizzazione sindacale, quando un simile
risultato poteva essere egualmente conseguito secondo le norme di diritto
comune.
La
regione è eminentemente di “politica del diritto”.
Con lo
Statuto dei lavoratori, il legislatore si ripromise di dotare il
sindacato di una serie di diritti implicanti un dovere di cooperazione
datoriale. E’ questa cooperazione che il legislatore statutario ha inteso
“forzare” ed affermare come dovuta dal datore di lavoro (c.d. obbligo di “pati”):
così è avvenuto per l’ipotesi di approntamento di “appositi spazi” (o
bacheche) per l’esercizio del diritto di affissione, ex art. 25 s.d.l.,
per i locali delle RSA., ex art. 27 s.d.l., per il locale di svolgimento
delle assemblee, ex art. 20 s.d.l., cui ha addizionato, per similitudine
di materia e per vincere l’indisponibilità psicologica datoriale a
collaborare al finanziamento dell’antagonista sindacale, l’obbligo
dell’esazione dei contributi, sulla base del principio secondo cui “quod
abundat non deficit”. Fatta salva l’esigenza (mai realizzata nei
fatti) di favorire, per via contrattuale, sistemi di salvaguardia della
segretezza dei soggetti effettuanti il versamento al sindacato, cioè a
dire degli iscritti, la disposizione statutaria aveva un significato
eminentemente “emblematico o di affermazione di principio” e si inquadrava
nell’ottica della mera completezza del disegno legislativo in ordine alla
garanzia dei diritti di sostegno delle OO.SS., piuttosto che essere
finalizzata ad un obiettivo altrimenti non conseguibile.
Come
osservò a suo tempo una decisione pretorile (1): «con la promulgazione
dello Statuto dei Lavoratori il legislatore ha voluto evidentemente
realizzare un ‘catalogo’ dei diritti sia dei singoli lavoratori, sia delle
organizzazioni sindacali, disegnando un quadro unitario…; in quest’ottica
la previsione espressa di un diritto del sindacato ad ottenere il
versamento dei contributi a mezzo di ritenuta sul salario, ben si spiega
con la volontà del legislatore di dare ampio riconoscimento agli interessi
superindividuali e collettivi dei lavoratori, ma non può evidentemente
significare che lo stesso risultato pratico – del sostentamento sindacale
a mezzo di ritenute sullo stipendio dei lavoratori/iscritti – non potesse
essere raggiunto ricorrendo ai normali principi civilistici, operanti
anche al di fuori del settore lavoristico (come avvenuto nella specie, con
il ricorso allo schema negoziale della cessione del credito). Del resto
una previsione espressa, come quella contenuta nei commi 2 e 3 dell’art.
26 st. lav., oltre al valore ‘simbolico’ di cui si è detto, portava con sé
anche effetti giuridici specifici, che ne attestavano la peculiarità
rispetto alle generali previsioni civilistiche: si pensi alla necessità di
assicurare la segretezza del versamento, che è profilo estraneo alle
figure civilistiche della cessione del credito o della delegazione di
pagamento, attraverso le quali lo stesso risultato della contribuzione al
sindacato può essere raggiunto».
4.
La situazione post-referendaria
Con il
venir meno dell’obbligo legale di esazione dei contributi per ritenuta
sulla retribuzione, è stato detto - piuttosto superficialmente – che
l’obbligazione poteva essere reintrodotta solo per via contrattuale, cioè
dietro pattuizione collettiva o individuale.
Di
fatto invece si è assistito:
a)
ad una riaffermazione dell’obbligazione esattiva datoriale per via
negoziale, normalmente ad opera delle OO.SS. stipulanti i Ccnl, sia
tramite pattuizione nuova (è il caso delle OO.SS. del personale direttivo
del credito il cui previgente Ccnl non prevedeva l’obbligo esattivo
datoriale) sia in virtù di pattuizione preesistente, già contemplante il
diritto del lavoratore al versamento del contributo al sindacato prescelto
(è il caso più ricorrente);
b)
alla soluzione unilaterale, e non già pattizia, del ricorso al negozio
della “cessione del credito”, attraverso cui i lavoratori (prevalentemente
iscritti a sindacati non firmatari dei Ccnl applicati nell’unità
produttiva) hanno notificato all’azienda, ai fini e per gli effetti della
trattenuta e del relativo versamento al sindacato, una delega d’iscrizione
al sindacato che, contemporaneamente, li impegnava – per espressa menzione
dell’istituto della “cessione di credito” ex art. 1260 e ss. c.c. - al
versamento nei confronti dell’organizzazione di una quota mensile, a
titolo di contributo associativo, per la durata di un anno (o più anni),
salvo revoca da notificarsi in tempo utile.
5.
Le antecedenti sentenze n. 1968, 3917, 10616 e 14032 del 2004 della
Cassazione
La
prima delle decisioni sopra citate, espressamente la n. 1968 (rel.
Balletti ) - unitamente alla terza n. 10616 – giunse a dichiarare la
inidoneità della “cessione di credito” per ottenere dal datore di lavoro
la trattenuta sulla retribuzione da devolvere al sindacato (non firmatario
di ccnl) - fondando le sue argomentazioni sui seguenti presupposti:
a)
prima dell'abrogazione del secondo e del terzo comma dell'art. 26
l'obbligo ex lege per il datore di lavoro di effettuare le
trattenute sindacali veniva inquadrato nell'istituto della "delegazione di
pagamento" o quale conseguenza di un atto unilaterale del lavoratore non
inquadrabile in un negozio "nominato";
b)
la Corte Costituzionale - nel dichiarare ammissibile il referendum
abrogativo - ha statuito che con il referendum veniva eliminata la
ragione fondativa legale (ex lege) del diritto alla riscossione dei
contributi sindacali mediante trattenute sulla retribuzione e la materia
era così "restituita" alla base contrattuale individuale e collettiva (ex
contractu) - cioè veniva sancito il passaggio dalla "fonte legale"
alla "fonte contrattuale";
c)
con esclusivo riferimento alla contrattazione collettiva che
post-referendum ha regolamentato la materia, la Cassazione ha
ritenuto che la cennata regolamentazione non potesse applicarsi nei
confronti dei lavoratori aderenti ad associazioni sindacali non firmatarie
del contratto collettivo: per cui dalla relativa contrattazione collettiva
non poteva scaturire un obbligo a carico del datore di lavoro di
effettuare le trattenute sulla retribuzione di detti lavoratori a titolo
di contributi sindacali a favore dei sindacati non firmatari;
d)
con il supplire alla mancanza di un accordo contrattuale, ricorrendo allo
“sforzato” riferimento ad una norma di legge (art. 1260 c.c.) che
imporrebbe comunque l'obbligo per il datore di lavoro di una trattenuta
del contributo sindacale senza il consenso della parte debitrice
dell'obbligazione retributiva, il diritto del lavoratore (o, più
pragmaticamente, del sindacato) verrebbe nuovamente fatto scaturire ex
lege e, conseguentemente, non in conformità all'intendimento
referendario così come inteso dalla Consulta; per cui, se si aderisse a
tale conclusione, si verificherebbe che - mediante il contratto collettivo
- il datore di lavoro sarebbe obbligato ad effettuare la trattenuta
secondo le modalità pattuite (si ritiene in maniera meno onerosa per la
riscossione) contrattualmente, mentre - "al di fuori del contratto
collettivo" pure disciplinante la materia ed applicabile aziendalmente -
sarebbe obbligato "nolente" a subire l'unilaterale determinazione del
"lavoratore-sindacato non firmatario".
In
questo caso sembra evidente un'indebita interferenza nelle relazioni
sindacali in quanto il risultato della contrattazione collettiva verrebbe
"scavalcato" dalla determinazione unilaterale del lavoratore non aderente
ai sindacati firmatari.
A chi
scrive le argomentazioni non sono mai apparse convincenti [o meglio
apparvero più convincenti quella opposte di Cass. n. 3917 del 24 febbraio
2004 (rel. Filadoro) e Cass. n. 14032 del 26 luglio 2004], in quanto non
si vide la necessità – una volta condivisa la genesi della codificazione
dell’onere esattivo nell’art. 26 dello Statuto dei lavoratori – per cui i
sindacati dovessero assoggettarsi alla stipulazione di un contratto
collettivo nazionale per fruire del diritto all’autofinanziamento, talché
si darebbe vita alla configurazione del ccnl come una specie di “forca
caudina” cui sottomettersi per fruire di un requisito di sussistenza
vitale per la libertà sindacale, quale la contribuzione dagli iscritti. In
secondo luogo anche la ricostruzione della posizione della Corte
costituzionale – individuata nella volontà di eliminare l’obbligo di fonte
legale preesistente nell’art. 26 l. n. 300 per restituirlo all’autonomia
individuale e collettiva – non ci apparve del tutto convincente, giacché
la Corte non poteva assolutamente affermare o ipotizzare che il
referendum avesse l’intenzione (irrealistica) di eliminare qualsiasi fonte
“legale” (riposante nel diritto positivo civilistico) idonea a realizzare
lo stesso (o equipollente) risultato senza il consenso dell’azienda, quale
la cessione di credito.
Ad ogni
buon conto i sostenitori della tesi sopra riferita e portata avanti – con
nostro dissenso – da Cass. n. 1968/2004, obiettavano addizionalmente che
l’istituto della “cessione di credito” doveva implicare l’indifferenza dei
costi cioè a dire l’assenza di oneri per il debitore ceduto (il datore di
lavoro) mentre invece l’azienda se niente sopporta per la trattenuta
retributiva sul salario del lavoratore sostiene, invece, dei costi per il
bonifico bancario a favore del Sindacato. A tale obiezione si è risposto,
in sede giurisprudenziale, con la considerazione che in materia era
richiamabile il generale principio in tema di obbligazioni che prevede
che «le spese del pagamento sono a carico del debitore » (art. 1196
c.c.) e, che, comunque, tale «onerosità non appariva certamente
eccessiva e debordante rispetto al normale obbligo di collaborazione e
salvaguardia nella esecuzione del contratto fissato dalla legge ove si
consideri che per lunghi anni questi oneri sono stati assunti per espressa
previsione normativa»(2).
In
terzo luogo la decisione n. 1968/2004 fece leva sulla riconosciuta,
prevalente qualificazione dell’obbligo datoriale di esazione, individuato
nella delegazione di pagamento, revocabile ed implicante il consenso
datoriale, notazione indubitabilmente più corretta ma non preclusiva di
altri e differenti strumenti giuridici quali la “cessione di credito” ex
art. 1260 c.c. Con specifico riferimento a questa configurazione, si è, in
dottrina, fatto leva sulla mancanza – nell’istituto bilaterale della
cessione del credito – della revocabilità per atto unilaterale del
lavoratore, che invece sarebbe consentita, dall’art. 1269, 2° co. c.c.,
nello schema unilaterale della“delegazione di pagamento” (ragion per cui
la dottrina che inquadrò l’obbligo imposto dallo Statuto sul datore di
lavoro, preferì ricondurlo alla delegatio solvendi, di cui all’art.
1268 e ss. c.c., piuttosto che alla cessione di credito). E’ questa
l’unica obiezione di seria consistenza che poteva indurre a dubitare che
una pattuizione contrattuale in cui sia prevista la “revocabilità
unilaterale” possa prefigurare lo schema della “cessione di credito” in
luogo della “delegazione di pagamento”. Sul piano pratico, affinché il
lavoratore non rischi di restare iscritto a tempo indeterminato
all’associazione sindacale prescelta inizialmente (e a cui ha ceduto il
credito retributivo per un importo pari alla quota sindacale), dovrà
pre-acquisire dal Sindacato il consenso alla revoca in qualsiasi momento,
il ché potrà avvenire qualora nella delega (predisposta dal sindacato)
venga inserita una formula con cui il creditore cessionario (appunto il
Sindacato) “dà sin d’ora atto del proprio consenso alla revoca, in
qualsiasi momento, del credito parziale da parte del cedente” (il
lavoratore), “con tutti i conseguenti effetti estintivi nei confronti del
debitore ceduto” (il datore di lavoro). Revoca che (come nota Cass. n.
3917/2004) era appunto reperibile nelle deleghe predisposte dai due
sindacati non firmatari nelle vicende approdate in Cassazione ed in quella
che ha occasionato Trib. Milano 3 febbraio 2004, rispettivamente
Slai-Cobas, Sincobas e Savip.
Non è
nostra intenzione realizzare la “quadratura del cerchio” intorno
all’istituto della “cessione di credito” applicato all’esazione dei
contributi sindacali. Indubbiamente qualche “sfrido” tra l’attuale
configurazione contrattuale (o fattuale) delle “deleghe” per la
trattenuta ed il versamento dei contributi con lo schema legale
codicistico è innegabile che ci sia, tuttavia i “nei” riscontrati, o
enfaticamente evidenziati dagli oppositori, non ci sono mai sembrati di
tale consistenza giuridica da essere ostativi all’utilizzo dell’istituto
legale, nella materia de qua.
Ci
sembrò, invero, di cogliere nei detrattori un accanimento sostenuto da
un’ideologia contraria al diritto alla vita ed all’operatività delle
organizzazioni sindacali, nelle multiformi varietà consentite dal
pluralismo costituzionale, che non consente di fare distinzioni –
perlomeno in ordine al diritto del cittadino/lavoratore di sostenere il
sindacato prescelto come più confacente alle sue inclinazioni – tra
sindacati “firmatari” di Ccnl e sindacati “non firmatari”, rilevando il
dato dell’effettività della forza sul campo, nel nuovo testo dell’art. 19
s.d.l., solo ai fini della legittimazione a radicarsi in azienda, tramite
la costituzione di RSA. (talora surrogabile, giustappunto per effetto del
nuovo testo dell’art. 19 S.d.l., dalla disponibilità datoriale ad un
accreditamento, con il consentire al sindacato meno antagonista e
conflittuale e quindi tutore meno genuino degli interessi dei
rappresentati, la sottoscrizione dei Ccnl o dei contratti applicati in
azienda).
A
questo riguardo e contro questo rischio di inquinamento della neutralità
delle relazioni sindacali ci apparvero del tutto pertinenti le
realistiche considerazioni di Cass. n. 14032 del 2004 secondo cui: «
Nel caso in esame invero, il rifiuto del datore, oltre a configurare
inadempimento rispetto al contratto di cessione di credito stipulato dal
lavoratore, si pone come obiettivamente idoneo a limitare l'attività
sindacale, perchè se non impedisce al lavoratore di scegliere
l'associazione sindacale di appartenenza, gli impedisce però di sostenerla
con una forma di finanziamento adeguato, non essendovi dubbio che il
meccanismo di raccolta dei contributi di cui al primo comma dell'art. 26
della legge 300/70, che ovviamente è sempre possibile e consentito,
costituisce però una modalità molto meno sicura e puntuale, con obiettivo
danno della associazione da sostenere. Inoltre, come già rilevato, si
farebbe dipendere l'ammissibilità del meccanismo medesimo esclusivamente
dalla determinazione unilaterale del datore, che potrebbe scegliere di
prestarsi solo per alcuni sindacati (anche se non firmatari della
contrattazione collettiva) e per altri no, intervenendo così proprio nel
contesto di obiettiva e fisiologica contrapposizione di interessi, ove
appare indebita ogni interferenza datoriale. D'altra parte gli stessi
promotori del referendum abrogativo dei due commi dell'art. 26 della legge
300/70, che pure volevano sottrarre alla prerogativa sindacale il
fondamento legale, intendevano però far sì che l'obbligo datoriale
scaturisse da una "genuina espressione di autonomia negoziale", la quale,
diversamente opinando, verrebbe nella sostanza ad essere sacrificata».
Conclusivamente abbiamo sempre ritenuto preferibili le conclusioni
raggiunte dalle opposte Cass. n. 3197 e n. 14032 del 2004, le cui
argomentazioni sostanziali possono essere desunte – oltre a quanto detto
in precedenza - dalla seguente massima da noi elaborata: «L'effetto del
referendum abrogativo dell'art. 26 dello Statuto e del conseguente D.P.R.
è stato di eliminare dall'ordinamento il secondo comma di tale articolo;
sicché è venuto meno l'obbligo per il datore di lavoro di operare, su
richiesta del dipendente, la trattenuta sindacale in favore
dell'organizzazione di appartenenza.
In
tal modo, tuttavia, non si è affatto posto un divieto e resa illecita la
riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata
dal datore di lavoro.
Molto più semplicemente, deve ritenersi che per effetto del referendum
abrogativo e del successivo D.P.R. 313 del 28 luglio 1995, la materia è
stata restituita all'autonomia privata, individuale e collettiva (Corte
Cost. n. 13 del 12 gennaio 1995). Come ha rilevato il giudice delle leggi,
l'intento dei promotori del referendum era quello di "restituire la
materia all'autonomia privata, facendo venir meno l'obbligo legale di
cooperazione gravante sul datore di lavoro. Tale obbligo giuridico,
scaturente dalle abrogande disposizioni, avrebbe in concreto determinato
un vincolo contributivo a tempo indeterminato a carico del lavoratore,
indipendentemente dalla permanenza del vincolo associativo".
In
altre parole, l'obiettivo del referendum non era quello di evitare che
attraverso altri strumenti riconducibili all'autonomia negoziale privata o
a quella collettiva, il datore di lavoro fosse tenuto ad accreditare i
contributi in favore delle associazioni sindacali.
Tanto è vero che gli stessi promotori menzionavano, tra gli istituti
utilizzabili "ai medesimi fini", proprio la cessione di credito, accanto
alla delegazione di pagamento, dimostrando così di non ritenere contrario
allo spirito della consultazione popolare un meccanismo di accredito dei
contributi realizzato, sul piano dell'autonomia negoziale, anche a
prescindere dalla volontà del datore di lavoro.
Né
può dirsi, come sembra affermare la ricorrente, che, in tal modo, siano
posti a carico della società datrice di lavoro oneri non previsti e
comunque insostenibili.
Nel
bilanciamento dei diversi interessi non è affatto illogico che prevalga
quello del sindacato alla raccolta dei contributi ed al versamento diretto
degli stessi.
Tra
l'altro, gli oneri del pagamento non potranno - intuitivamente - essere
superiori a quelli previsti per l'accredito delle quote associative ai
sindacati firmatari del contratto collettivo nazionale di lavoro, rispetto
ai quali la società ha già contrattualmente assunto il relativo compito
organizzativo.
In
precedenti occasioni, questa Corte ha avuto occasione di sottolineare come
il rifiuto dell'azienda di effettuare le trattenute sindacali - laddove i
lavoratori abbiano rilasciato autorizzazione al datore di lavoro di
trattenere sulle retribuzioni i contributi sindacali e di versarli ad
associazioni sindacali non firmatarie di contratti collettivi applicati in
azienda - concreti un comportamento che lede non solo i diritti del
singolo lavoratore ma anche quelli del sindacato destinatario dei
contributi e perciò costituisce un ostacolo all'esercizio ed allo sviluppo
dell'attività, configurando così una ipotesi di condotta antisindacale
(Cass. 16 marzo 2001, n. 3813; 5 febbraio 2000, n. 1312; 9 settembre 1991,
n. 9470) e, pertanto, a tale giurisprudenza si ritiene di aderire».
E le
sezioni unite, con la recentissima n. 28269 del 21 dicembre 2005 (rel.
Picone) hanno manifestato la loro preferenza verso tale orientamento,
precludendo potenzialmente per il futuro – in ragione della funzione
nomofilattica che è loro propria – il verificarsi di scostamenti
incontrollati o di orientamenti difformi (quantunque sempre possibili)
all’interno della S. corte.
Va
infine segnalato che a seguito dell’estensione – per effetto
dall'art. 1, comma 137, della l. 311/2004, mediante l'aggiunta, nel primo
comma, delle parole «nonché le aziende private», come modificato
dall'art. 13-bis del d.l. 35/2005, convertito in l. 80/2005 - ai
dipendenti delle aziende private del divieto di cedibilità (pignorabilità
e sequestrabilità delle retribuzioni) originariamente riguardante solo i
pubblici dipendenti ex art. 1 d.P.R. 180/1950, il precedente regime di
illimitata cedibilità dei salari e degli stipendi dei lavoratori privati
ex art. 1260 c.c. è stato, dal 1 gennaio 2005, ricondotto entro l’ambito
del quinto e per un periodo non superiore ai 10 anni.
NOTE
1) Pret.
Cassino 8 febbraio 1996 (decr.) in MGL 1996, 63, con annotazione di
Rendina, Riflessioni in tema di contributi sindacali e cessione del
credito.
2)
Pret. Cosenza 20 dicembre 1997, in LPO 1998, p. 1875.
Roma, 24
gennaio 2006
- ****
-
- all.
te sentenze
- Corte
di Cassazione, Sez. lav., sentenza 3 febbraio 2004, n. 1968 (ud. 17
giugno 2003) - Pres. Prestipino - Rel. Balletti
– Iveco Spa (avv. Bonamico, Borsotti, De Luca Tamajo) c. S.L.A.I.-Cobas
di Torino (avv. La Macchia, D’Amati)
-
- Svolgimento
del processo - Con
ricorso ex art. 28 della legge
n. 300/1970 lo SLAI-COBAS conveniva in giudizio la s.p.a. IVECO dinanzi al
Giudice del lavoro di Torino chiedendo allo stesso di sanzionare l'antisindacalità
del comportamento della società consistito nell'avere omesso di operare
le trattenute delle quote associative a favore del ricorrente sindacato
dovute per effetto dell'avvenuta notifica alla società datrice di lavoro
di distinti atti individuali di asserita cessione di credito retributivo.
- Nel
relativo giudizio si costituiva la s.p.a. IVECO che impugnava
integralmente l'avverso ricorso e ne chiedeva il rigetto.
- L'adito
Giudice del lavoro, con decreto ex
art. 28 cit., dichiarava l'antisindacalità del comportamento della
convenuta società, ordinava alla stessa l'immediata cessazione di tale
comportamento e la rimozione degli effetti - e, cioè, di effettuare i
pagamenti mensili in favore del ricorrente sindacato in relazione alle
cessioni di credito delle quali aveva ricevuto comunicazione da parte dei
suoi dipendenti ex artt. 1260 e segg. c.c. -, ordinava l'affissione del dispositivo
nelle bacheche esistenti presso l'azienda per la durata di giorni venti,
condannava la società al pagamento delle spese processuali.
- Avverso
tale decisione proponeva opposizione la s.p.a. IVECO e - ricostituitosi il
contraddittorio - il Giudice del lavoro revocava l'opposto decreto,
rigettando le domande proposte dal sindacato con l'originario ricorso, ma
- su impugnativa della parte soccombente - la Corte di Appello di Torino,
in accoglimento dell'appello, confermava il decreto ex
art. 28 della legge n. 300/1970 e condannava la società appellata al
pagamento delle spese dei due gradi di giudizio.
- Per
quello che rileva in questa sede il Giudice di appello ha rimarcato che: a)
"l'art. 26, secondo comma, della legge n. 300/1970 attribuiva alle
associazioni sindacali (a tutte, a prescindere da particolari requisiti di
rappresentatività, come invece, per l'art. 19) il diritto di riscuotere i
contributi sindacali tramite ritenuta sul salario; la norma poneva,
quindi, un obbligo di collaborazione a carico del datore di lavoro che
doveva prestarsi ad effettuare la trattenuta ed il versamento al
sindacato; l'effetto del referendum
abrogativo e del conseguente D.P.R. è stato di eliminare dall'ordinamento
tale norma (e, quindi, di eliminare il diritto del sindacato e l'obbligo
del datore di lavoro da tale norma nascente) ma non di porre un divieto e
rendere quindi illecita la condotta di riscossione delle quote associative
sindacali a mezzo trattenuta operata dal datore di lavoro"; b)
"ciò è di assoluta evidenza se si considera che, pur dopo il referendum,
sono rimaste valide le pattuizioni contrattuali - quali l'art. 6
"disciplina generale, sezione seconda" del c.c.n.l. del settore
metalmeccanico - che prevedevano l'effettuazione delle trattenute e,
sostituita la fonte contrattuale a quella legale, il diritto alla
riscossione tramite trattenuta è rimasto in vita per i sindacati che di
tali norme potevano avvalersi (non lo SLAI-COBAS che non è firmatario del
c.c.n.l. metalmeccanici)"; c)
"ulteriore conseguenza è che la cessione di credito posta in essere
dai lavoratori a favore del sindacato non integra la fattispecie di nullità
del contratto per illiceità della causa di cui all'art. 1344 c.c.: non può
infatti dirsi che il contratto sia il mezzo per eludere l'applicazione di
una norma imperativa poiché, come sopra visto, una norma imperativa che
vieti al sindacato di ottenere il pagamento delle quote associative
mediante trattenuta sulla retribuzione ad opera del datore di lavoro non
esiste, né è sorta come effetto del referendum"; d)
"l'attività posta in essere dallo SLAI-COBAS facendo ricorso
all'istituto della cessione di credito è manifestamente finalizzata ad
uno scopo tipico del sindacato e necessario alla sua stessa esistenza, e
cioè al suo finanziamento (né rileva che a tale scopo il sindacato
potrebbe provvedere anche altrimenti), il rifiuto di dar attuazione ad una
legittima cessione di credito chiaramente finalizzata al finanziamento del
sindacato significa porre un ostacolo alla libertà sindacale"; e)
"non costituisce una valida ragione di opposizione l'invocare
asseriti oneri aggiuntivi: la cessione di credito è istituto che non
richiede l'assenso del debitore ceduto e gli oneri del pagamento sono a
carico del debitore ex art. 1196
c.c.; comunque tali oneri sono assai modesti, posto che già esiste
certamente una procedura per l'accredito delle quote associative ai
sindacati firmatari del c.c.n.l."; f) "la giurisprudenza ritiene sanzionabile il comportamento
oggettivamente antisindacale (Cass. Sez., unite 12 giugno 1997, n.
5295)"; g) "nel caso in esame l'inconsistenza delle ragioni addotte
per non dar corso alle cessioni dimostra la positiva esistenza di un
intento antisindacale, cioè la volontà di ostacolare il sindacato
SLAI-COBAS”.
- Per
la cassazione di tale sentenza la s.p.a. IVECO propone ricorso affidato a
tre motivi e sostenuto da memoria ex
art. 378 c.pc.
- L'intimato
SLAI-COBAS resiste con controricorso.
-
- Motivi
della decisione – I.
Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente denunciando
"violazione del D.P.R. n. 313/1995 e vizi di motivazione" rileva
che "la sentenza impugnata appare viziata sia sotto il profilo della
violazione di legge, in quanto di fatto reintroduce quell'obbligo legale
che il legislatore referendario aveva voluto invece escludere, sia sotto
il profilo della retta ed ineccepibile motivazione, non essendo
convincente l'affermazione secondo cui l'effetto del referendum
sarebbe unicamente quello di impedire la proposizione di un obbligo
"legale" del datore di lavoro, ma non già di una diversa
tecnica tesa a raggiungere il medesimo risultato".
- Con
il secondo motivo la ricorrente - denunciando "violazione degli artt.
1260 e segg. c.c. e vizi di motivazione" - censura la decisione della
Corte di Appello di Torino per non avere considerato "che lo schema
negoziale effettivamente utilizzato nella specie è quello della
delegazione di pagamento, istituto in cui si inquadra la ritenuta
sindacale ex c.c.n.l. (e prima ex
art. 26 "statuto") in quanto revocabile in ogni momento, per cui
il lavoratore, qualora muti opinione in materia sindacale, può eliminare
la ritenuta o mutarne il sindacato destinatario in ogni momento, con
efficacia dal primo periodo di paga successivo, mentre la stessa revoca
immediata non è possibile qualora si adotti lo schema della cessione di
credito, senza il consenso del sindacato beneficiario".
- Con
il terzo motivo di ricorso la società - denunciando "violazione
dell'art. 28 della legge n. 300/1970 e vizi di motivazione" -
addebita alla sentenza impugnata di essere "largamente immotivata
circa il carattere antisindacale del comportamento del datore di lavoro,
non potendosi ritenere, in realtà, che la semplice violazione di un patto
inter alios possa automaticamente determinare una lesione di uno
specifico e qualificato interesse del sindacato ... [atteso che] essendo venuta meno la fonte legale del diritto, le
aspettative del sindacato in tale materia possono scaturire esclusivamente
da una fonte privatistico-contrattuale, come tale idonea a creare
obbligazioni unicamente sul piano meramente civilistico, con la
conclusione che, in mancanza di una precisa norma legale o collettiva che
attribuisca uno specifico diritto al sindacato, non potrà considerarsi
antisindacale l'ipotetico inadempimento di un obbligo del datore nei
confronti del lavoratore solo perché quest'ultimo ha individuato come
terzo beneficiario del negozio giuridico il sindacato".
- II.
I cennati motivi di ricorso - esaminabili congiuntamente in quanto
intrinsecamente connessi - si appalesano fondati.
- Al
riguardo - al fine di una completa valutazione della questione relativa
alla riscossione dei contributi sindacali con riferimento alla normativa
ed agli orientamenti giurisprudenziali in materia - occorre precisare che
il secondo comma dell'art. 26 della legge n. 300/1970 (come sostituito
dall'art. 18 della legge n. 223/1991) attribuiva alle associazioni
sindacali "il diritto di percepire, tramite ritenuta sul salario
nonché sulle prestazioni erogate per conto degli enti previdenziali, i
contributi sindacali che i lavoratori intendono loro versare, con modalità
stabilite dai contratti collettivi di lavoro, che garantiscono la
segretezza del versamento effettuato dal lavoratore a ciascuna
associazione sindacale". Il terzo, comma dello stesso articolo
prevedeva poi che, nelle aziende in cui il rapporto di lavoro non fosse
stato regolato da contratti collettivi, il lavoratore aveva "diritto
di chiedere il versamento del contributo sindacale all'associazione da lui
indicata".
- A
seguito del referendum popolare
dell'11 giugno 1995 la cennata norma è stata abrogata (D.P.R. 28 luglio
1995, n. 313), per cui è venuto meno l'obbligo ex
lege per il datore di lavoro di operare, sulla base di una mera
richiesta del lavoratore dipendente, la trattenuta sulla retribuzione
della quota associativa sindacale (cd. contributo sindacale) a favore
dell'associazione sindacale di appartenenza.
- Peraltro,
alla stregua della (quasi totalità della) contrattazione collettiva
successivamente intervenuta, le organizzazioni sindacali stipulanti hanno
ottenuto dalle associazioni imprenditoriali il riconoscimento del diritto
di riscossione dei contributi sindacali tramite trattenuta della
retribuzione sostituendo, così, alla "fonte legale" la
"fonte contrattuale sindacale" [cfr., per tutti (data la
"funzione pilota" riconosciuta generalmente al contratto dei
"metalmeccanici"), l'art. 6 della "disciplina generale,
sezione seconda" del relativo c.c.n.l.].
- In
relazione a tali "momenti" normativi la giurisprudenza è
intervenuta secondo i seguenti significativi indirizzi:
- a/1)
nel periodo "pre-referendario" questa Corte (Sez. Lavoro) ha
ritenuto che il rapporto cui dava luogo l'applicazione dell'art. 26 della
legge n. 300/1970 si configurava come "delegazione di pagamento"
e non quale "cessione di credito" in quanto nella specie veniva
costituito un rapporto plurisoggettivo con partecipazione di negozio fin
dall'origine del delegante, del delegato e del delegatario, negozio nel
quale il delegante impartisce al delegato l'ordine di eseguire il
pagamento a favore del delegatario (iussum
solvendi) ed a quest'ultimo l'ordine di riceverlo (iussum
accipiendi); così il rapporto di lavoro (o, meglio, il credito di
retribuzione) costituisce la provvista e il rapporto associativo sindacale
(o più esattamente contributivo), che si realizza per il tramite del
primo, rappresenta invece la valuta [Cass. sez. lav. n. 761/1989 e, in
termini sostanzialmente analoghi, ex
plurimis Cass. sez. lav. n.
822/1989, Cass. sez. lav. n. 9470/1991, Cass. sez. lav. n. 1312/2000
(quest'ultima intervenuta sempre su fattispecie regolata interamente dalla
normativa pre referendaria)];
-
- a/2)
questa Corte (I Sezione civile), sempre nel periodo di vigenza dell'art.
26, ha precisato che l'atto di disposizione del lavoratore impartito al
datore di lavoro di accredito del contributo sindacale "non è
qualificabile né come cessione di credito in considerazione della sua
unilateralità e revocabilità, né come delegatio
solvendi in considerazione del suo carattere vincolante per il datore
di lavoro" (così, testualmente, Cass. 1 sez. n. 307/1990, Cass. I
sez. n. 308/1990, Cass. sez. 1 n. 778/1990, Cass. I sez. n.
10318/1992: decisioni tutte conformemente pronunziate nel senso che il
credito di un'associazione di categoria nei confronti del datore di
lavoro, in relazione a contributi sindacali che il dipendente abbia deciso
di versare, con ritenuta sul salario, secondo la previsione dell'art. 26
cit. e mediante la delega all'uopo contemplata dai contratti collettivi,
non ha attinenza con un credito di lavoro, e non gode quindi del
privilegio generale accordato a quest'ultimo dall'art. 2751-bis,
n. 1, c.c.);
- b)
la Corte Costituzionale, nel dichiarare ammissibile l'iniziativa
referendaria di abrogazione dell'art. 26 cit., ha precisato che il secondo
ed il terzo comma di tale norma erano strettamente collegati fra di loro
concorrendo a configurare in ogni caso la "ritenuta" come
diritto perfetto del sindacato, per cui l'intendimento abrogativo
"consisteva nel voler eliminare la base legale di quel diritto e del
correlativo obbligo di intermediazione, per restituire la materia
all'autonomia privata, individuale e collettiva" (Corte Cost. n.
13/1995);
- c)
successivamente all'abrogazione della norma statutaria, questa Corte è
intervenuta sulla questione dell'applicabilità della disposizione del
contratto collettivo (sanzionante l'obbligo contrattuale della trattenuta
del contributo sindacale) nei confronti dei lavoratori non iscritti alle
organizzazioni sindacali stipulanti statuendo che: *)
la distinzione fra clausole "normative" e
"obbligatorie" che possono essere contenute in un contratto
collettivo è nel senso che quelle "normative" sono destinate a
regolare i contratti e rapporti individuali di lavoro, mentre sono
"obbligatorie" quelle che regolano esclusivamente i rapporti tra
le associazioni sindacali partecipanti alla stipulazione dei contratti
medesimi, con la conseguenza che queste ultime clausole creano obblighi e
diritti per le parti stipulanti e non già per i singoli lavoratori; *)
nell'interpretazione dell'art. 6 del c.c.n.l. dell'industria
metalmeccanica privata (che sanciva l'impegno del datore di lavoro ad
effettuare le trattenute dei contributi sindacali sulle retribuzioni dei
dipendenti), deve essere verificato con particolare incisività ex
art. 1363 c.c. se la cennata clausola contrattuale - in quanto collocata
nella "sezione dei diritti sindacali" - rientri nell'ambito
della parte "obbligatoria" del contratto (e non, invece, in
quella "normativa") e pertanto, essendo accoglibile la prima
ipotesi, se la clausola medesima siccome diretta a regolare i rapporti fra
le associazioni sindacali stipulanti possa non rivestire efficacia nei
confronti dei lavoratori non aderenti alle cennate associazioni [Cass. n.
3813/2001, Cass. n. 6656/2002: decisioni sostanzialmente conformi, ma con
l'avvertenza che solo la prima di esse contiene l'obiter
(ripreso nella massima secondo cui "qualora i lavoratori abbiano
richiesto al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i
contributi sindacali e abbiano rilasciato delega allo stesso per versarli
ad associazioni sindacali non firmatarie di contratti collettivi applicati
in azienda, il comportamento omissivo del datore di lavoro che rifiuti di
effettuare detti versamenti si configura come antisindacale, in quanto
pregiudica l'acquisizione da parte del sindacato dei mezzi di
finanziamento necessari allo svolgimento dell'attività, e perciò ricade
nella tutela inibitoria di cui all'art. 28 Stat. Lav.") che si rifà
espressamente alla giurisprudenza della Corte dinanzi citata sub
"a/1" e riferita esclusivamente alla normativa pre-referendaria].
- III/a.
Dall'excursus sullo stato della normativa e della giurisprudenza nella
dedotta materia discende che:
- A)
prima dell'abrogazione del secondo e del terzo comma dell'art. 26
l'obbligo ex lege per il datore
di lavoro di effettuare le trattenute sindacali veniva inquadrato
nell'istituto della "delegazione di pagamento" o quale
conseguenza di un atto unilaterale del lavoratore non inquadrabile in un
negozio "nominato";
- B)
la Corte Costituzionale - nel dichiarare ammissibile il referendum abrogativo - ha statuito che con il referendum veniva eliminata la ragione fondativa legale (ex
lege) del diritto alla riscossione dei contributi sindacali mediante
trattenute sulla retribuzione e la materia era così
"restituita" alla base contrattuale individuale e collettiva (ex
contractu) - cioè veniva sancito il passaggio dalla "fonte
legale" alla "fonte contrattuale" -;
- C)
con esclusivo riferimento alla contrattazione collettiva che post-referendum
ha regolamentato la materia, questa Corte ha ritenuto che la cennata
regolamentazione non potesse applicarsi nei confronti dei lavoratori
aderenti ad associazioni sindacali non firmatarie del contratto
collettivo: per cui dalla relativa contrattazione collettiva non poteva
scaturire un obbligo a carico del datore di lavoro di effettuare le
trattenute sulla retribuzione di detti lavoratori a titolo di contributi
sindacali a favore dei sindacati non firmatari.
- Tanto
evidenziato, la questione sollevata dalla società ricorrente attiene alla
insussistenza di un obbligo ex se,
a suo carico, di effettuare le trattenute di parte della retribuzione per
contributi sindacali dovuti dal lavoratore a favore di un sindacato non
firmatario del contratto collettivo e che la Corte di Appello di Torino ha
ritenuto, invece, sussistente a prescindere dall'applicabilità del
contratto collettivo disciplinante la materia - e, cioè, ex se, in forza di un atto dispositivo del lavoratore inquadrabile
nella "cessione del credito" - ed ha, quindi, qualificato il
relativo comportamento inadempiente della società datrice di lavoro come
comportamento antisindacale sanzionabile ex
art. 28 della legge n. 300/1970.
- Nel
presente giudizio deve essere risolta - vale rimarcarlo - la questione
concernente l'asserita sussistenza di un obbligo a carico del datore di
lavoro di effettuare la trattenuta del contributo sindacale esclusivamente
sulla base di un atto dispositivo del lavoratore anche senza il consenso
dello stesso debitore-datore di lavoro ex
art. 1260 c.c. e senza alcun riferimento al contratto collettivo pure
disciplinante la materia e, pertanto, non a seguito di un accordo
contrattuale inter partes (intese le stesse quali parte creditrice e parte debitrice
della retribuzione).
- III/b.
Anzitutto, il "capo" della decisione del Giudice di appello che
ha inquadrato il cennato obbligo nell'ambito della "cessione di
credito" non può essere censurato tout
court in relazione all'argomentazione della ricorrente che siffatta
soluzione dovrebbe essere considerata "in frode alla legge" e ciò
in quanto l'abrogazione della normativa legislativa statutaria non ha
certo determinato un "vuoto" nella regolamentazione della
materia, ma - come ha precisato la Consulta - ha "restituito"
all'autonomia contrattuale la materia già disciplinata dalla legge: per
cui ora, piuttosto che accennare ad una attività negoziale "in frode
alla legge", occorre verificare in che modo l'attività contrattuale
possa correttamente svilupparsi per regolamentare la dedotta materia.
- In
tale indagine l'affermazione della Corte di Appello - su cui si fonda la
sentenza impugnata -, a mente della quale "non si tratta di far
rivivere la norma abrogata ma di prendere atto che il medesimo risultato
è raggiungibile per altre legittime vie, siano esse quelle dell'accordo
contrattuale tra le parti oppure quelle del ricorso ad un diverso istituto
giuridico che non richiede per la sua attuazione il consenso del datore di
lavoro" appare negativamente generica perché accomuna due ipotesi
tra di loro non assimilabili: quella di un accordo contrattuale e l'altra
di un atto dispositivo del lavoratore senza l'accordo del datore di
lavoro.
- Nel
primo caso la "via" per pervenire al risultato della
"trattenuta del contributo sindacale sulla retribuzione" si
conforma a quanto rilevato dalla Corte Costituzionale per sancire
l'ammissibilità del referendum abrogativo dell'art. 26 - secondo cui, vale ribadirlo,
l'intendimento abrogativo si identificava nel voler eliminare "la
base legale" del diritto del sindacato alla trattenuta per
"restituire" la materia all'autonomia contrattuale (sindacale o
individuale) - e, conseguentemente, è legittimamente percorribile; non
altrettanto è a dirsi nel secondo caso in cui si supplisce alla mancanza
di un accordo contrattuale con lo sforzato riferimento ad una norma di
legge (art. 1260 c.c.) che imporrebbe comunque l'obbligo per il datore di
lavoro di una trattenuta del contributo sindacale senza il consenso della
parte debitrice dell'obbligazione retributiva, sicché il diritto del
lavoratore (o, più pragmaticamente, del sindacato) verrebbe nuovamente
fatto scaturire ex lege e,
conseguentemente, non in conformità all'intendimento referendario così
come inteso dalla Consulta; per cui, se si aderisse a tale conclusione, si
verificherebbe che - mediante il contratto collettivo - il datore di
lavoro sarebbe obbligato ad effettuare la trattenuta secondo le modalità
pattuite (si ritiene in maniera meno onerosa per la riscossione)
contrattualmente, mentre - "al di fuori del contratto
collettivo" pure disciplinante la materia ed applicabile
aziendalmente - sarebbe obbligato "nolente" a subire
l'unilaterale determinazione del "lavoratore-sindacato non
firmatario".
- In
questo caso sembra evidente un'indebita interferenza nelle relazioni
sindacali in quanto il risultato della contrattazione collettiva verrebbe
"scavalcato" dalla determinazione unilaterale del lavoratore non
aderente ai sindacati firmatari: specificamente, mentre nell'ipotesi della
regolamentazione in generale sancita dal contratto collettivo di lavoro e
non applicabile ex se ai lavoratori non iscritti ai sindacati firmatari o aderenti a
sindacati non firmatari tale regolamentazione non viene imposta alle parti
non sindacalizzate, per la materia delle trattenute dei contributi
sindacali la regolamentazione collettiva avrebbe un significato del tutto
marginale potendo le parti più direttamente interessate far leva sulla
loro determinazione unilaterale a prescindere da un accordo contrattuale
con la parte datoriale.
- Siffatta
conclusione si pone, inoltre, in evidente contrasto con il principio di
correttezza e buona fede, che - secondo la relazione ministeriale al
codice civile "richiama nella sfera del creditore la considerazione
dell'interesse del debitore, nella sfera del debitore il giusto riguardo
all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di
reciprocità, una volta collocato nel quadro di valori introdotto dalla
Costituzione - deve essere inteso come una specificazione degli
inderogabili doveri imposti dalle norme costituzionali (tra le altre, artt.
2, 3, 35, 39, 41 Cost.): la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a
ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo
da preservare gli interessi dell'altro, a prescindere dall'esistenza di
specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da
singole norme di legge.
- III/c.
Poste le cennate premesse di carattere "particolare" e
"generale", risalta chiaramente l'erroneità della sentenza
della Corte di Appello che, pure ammettendo che con il ricorso alla
cessione del credito ex art.
1260 c.c. "risorge un obbligo di collaborazione identico a quello che
il referendum ha voluto far
venir meno", individua la fonte del cennato obbligo "non già
nella norma abrogata ma negli artt. 1260 e segg. c.c. che autorizzano la
cessione del credito senza il consenso del debitore ceduto".
- Tale
ammissione conferma che la soluzione collegata al ricorso alla
"cessione del credito" non si conforma all'intendimento della
volontà popolare espressa dal referendum
abrogativo e, più precisamente, all'intendimento precisato dalla Corte
Costituzionale di eliminare la base legale dell'obbligo datoriale per
restituire la materia all'autonomia contrattuale: con tale soluzione si è,
in sostanza, sostituita ad una norma di legge (art. 26 della legge n.
300/1970) un'altra norma di legge (art. 1260 c.c.) in contrasto evidente
con il risultato sancito dal referendum
abrogativo dell'art. 26.
- L'istituto
della "cessione del credito" non è, in ogni caso, praticabile
per avvalorare la cennata soluzione - ab
imis errata per la fondamentale ragione dinanzi evidenziata in
considerazione, altresì, di quanto ritenuto in dottrina che la cessione
in generale non costituisce un autonomo tipo negoziale per coincidere con
lo schema negoziale di volta in volta idoneo ad operare e a giustificare
il trasferimento - in quanto: a) sussiste una incompatibilità strutturale tra l'impossibilità
di una revoca immediata senza il consenso del sindacato beneficiario
propria dell'istituto della cessione del credito conformemente alla sua
natura che la connota come una forma di alienazione di diritti e la
revocabilità immediata dell'atto volontario di contribuzione sindacale
obbligatoriamente discendente dal principio di libertà sindacale ex
art. 39 Cost.; b) non vi è dubbio che a causa della pretesa cessione sorgano a
carico del debitore dell'obbligazione retributiva obblighi e responsabilità
ulteriori rispetto a quelli che avrebbe comportato l'adempimento a favore
del creditore originario, dovendo il datore di lavoro predisporre una
particolare organizzazione amministrativa (diversa rispetto a quella
prevista per le trattenute regolamentate dal contratto collettivo) per
l'immediato versamento mensile dei contributi sindacali "ad
nutum" del lavoratore sindacato interessato ed essendo lo stesso
datore esposto ad una particolare forma di responsabilità (oltre,
naturalmente, quella civilistica) collegata all'applicabilità dell'art.
28 della legge n. 300/1970 (sotto un profilo diverso e
"concorrenziale" rispetto a quello considerato nella sentenza
impugnata); c) a quest'ultimo
riguardo, nel caso di cd. "cessione individuale" - a favore di
un sindacato-non-firmatario - del credito retributivo da parte di un
lavoratore iscritto ad un sindacato firmatario di un contratto collettivo
che regola la materia delle trattenute di contributi sindacali, l'obbligo ex
art. 1260 c.c. di provvedere all'immediata trattenuta della retribuzione
costringerebbe il datore di lavoro "nolente" a cessare
dall'effettuare le trattenute a favore del sindacato firmatario e lo
esporrebbe ad un'azione giudiziaria ex
art. 28 su iniziativa di detto sindacato; d) il credito del lavoratore per retribuzione, anche se può non
rientrare nell'ambito dei crediti di natura strettamente personale per i
quali sussiste il divieto di cedibilità ex
art. 1260, primo comma, c.c., dovrebbe impropriamente venire trasferito
con le garanzie personali e reali ex
art. 1263 c.c. (a differenza di quanto avviene per la delegazione di
pagamento a norma dell'art. 1275 c.c.), quando per i crediti da lavoro
occorre tenere conto dei limiti di pignorabilità ex
art. 545 c.p.c. in considerazione, appunto, della natura
particolare-personale delle "somme dovute da privati a titolo di
stipendio, salario e altre indennità relative a rapporti di lavoro o di
impiego" e della necessità di garantire l'osservanza dei cennati
limiti in presenza di procedure espropriative.
- III/d.
A questo punto si rileva che la qualificazione degli atti compiuti dalle
parti è compito del giudice, il quale, sulla base del risultato
perseguito dalle medesime con riferimento alle allegazioni fornite e
nell'ambito delle singole norme di legge, ha il potere-dovere di
individuare la disciplina ad essi applicabile e di inquadrarli negli
schemi giuridici agli stessi compatibili.
- Nel
caso in esame - esclusa la
possibilità di inquadrare la fattispecie della trattenuta del contributo
sindacale sulla retribuzione nell'ambito della cessione di credito - lo
schema più idoneo a qualificare la cennata situazione resta quello della
delegazione di pagamento, che richiede il consenso del datore di
lavoro-debitore e, quindi, un accordo con esso delegato alla base della
possibilità per il "lavoratore-sindacato non firmatario di contratto
collettivo" di ottenere che il datore di lavoro effettui la
trattenuta sulla retribuzione ed il versamento dei contributi al sindacato
non firmatario. In sostanza si riconduce, così, la fattispecie alla
finalità prevista dalla Corte Costituzionale - di restituire, cioè, la
materia all'autonomia contrattuale delle parti - poiché esclusivamente in
forza di un accordo sorge il diritto del lavoratore-sindacato alla
trattenuta del contributo sindacale e non certo mediante una
determinazione unilaterale del lavoratore-sindacato a prescindere dalla
volontà del debitore ceduto [come, invece, impropriamente avverrebbe con
la cessione di credito mediante cui il sindacato non firmatario tenta di
recuperare il mancato consenso derivante dalla mancata accettazione (ex secondo comma dell'art. 1269 c.c.) della delega del lavoratore da
parte del datore di lavoro o attraverso, appunto, l'escogitazione
giurisprudenziale (erroneamente condivisa dal Giudice di appello) del
ricorso alla disciplina dell'art. 1260 c.c. o attraverso l'evidente
forzatura (peraltro, espressamente esclusa dalla Corte di Appello)
dell'estensione della contrattazione collettiva ai lavoratori non aderenti
ai sindacati firmatari].
- È
da precisare che l'istituto della delegazione di pagamento [che, come da
tempo statuito da questa Corte (Cass. n. 2354/1960, Cass. n. 1336/1962),
si differenzia in generale dalla cessione di credito in quanto, mentre la
cessione interviene tra due soli soggetti (cedente e cessionario), la
delegazione presuppone il concorso di tre soggetti (delegante, delegato,
delegatario)] viene adattato alla fattispecie in modo certamente peculiare
- con la fondamentale precisazione che, a differenza di quanto è stato
dinanzi evidenziato con riferimento all'istituto della cessione di
credito, il "peculiare adattamento" avviene sicuramente in
conformità all'intendimento perseguito dal referendum abrogativo del 1995 -, tenendo presente che dall'analisi
del modello delegatorio degli artt. 1268 e segg. c.c. si evidenzia che la
delegazione può essere realizzata attraverso una pluralità di distinti
negozi bilaterali ed unilaterali, dotati ciascuno di una propria causa,
pur se tra loro finalisticamente collegati (cfr. Cass. n. 6387/2000).
- Pervero
- come è stato efficacemente rilevato in dottrina - il duplice piano
contrattuale (collettivo o individuale), cui esclusivamente deve essere
riportato il diritto alla riscossione dei contributi sindacali mediante
trattenute sulla retribuzione, impone che il sindacato, ove voglia
acquisire il cennato diritto, deve essere parte del contratto collettivo
che comunque regola la materia. Il diritto del singolo trae origine - sul
piano individuale - come conseguenza di un accordo contrattuale che si
perfeziona con la volontà del lavoratore-delegante e del datore di lavoro
delegato e da cui deriva una situazione di vantaggio del "sindacato
non firmatario". Il sindacato, pertanto, dovrà o essere firmatario
del contratto collettivo o, in mancanza, dovrà limitarsi a fare
riferimento all'accettazione da parte del datore di lavoro della delega di
pagamento inviata dal lavoratore.
- In
questa reale constatazione ritorna attuale l'indirizzo giurisprudenziale
risalente all'assetto normativo pre-referendario con il ricorso specifico
all'istituto della delegazione di pagamento ovvero con il riferimento ad
un atto negoziale del lavoratore non avente uno specifico nomen
iuris: nel senso che, venuto meno l'obbligo ex lege sancito dall'art. 26 della legge n. 300/1970, la relativa
materia viene ora regolamentata in forza della contrattazione collettiva
di diritto comune oppure - se la contrattazione collettiva non è comunque
applicabile - mediante un negozio inquadrabile nella delegazione di
pagamento con peculiare specificità.
- Si
conferma, in conclusione, l'erroneità della sentenza impugnata per avere
il Giudice di appello inquadrato nell'istituto della "cessione di
credito" la delega del lavoratore di fare effettuare dal datore di
lavoro la trattenuta sulla retribuzione del contributo sindacale a favore
di un sindacato-non-firmatario, per cui il ricorso proposto su tale punto
dalla s.p.a. IVECO deve essere accolto.
- IV.
Deve, altresì, essere riformata la decisione della Corte torinese anche
ove essa ha ritenuto azionabile ex
art. 28 della legge n. 300/1970 la pretesa del sindacato-non-firmatario di
ottenere il versamento del contributo sindacale a seguito di trattenuta
della retribuzione del lavoratore aderente a tale sindacato, poiché
"il rifiuto della società datrice di lavoro di dare attuazione ad
una legittima cessione di credito chiaramente finalizzato al finanziamento
del sindacato significa porre un ostacolo alla libertà sindacale ...
essendo sanzionabile il comportamento oggettivamente antisindacale".
- Ora
- a parte che, non sussistendo (come si è dinanzi statuito) nella specie
una "legittima cessione di credito" - non vi è alcun
inadempimento datoriale sanzionabile ex
art. 28 (anche se è stato ritenuto che l'uso di strumenti in astratto
leciti può risultare, nelle circostanze concrete, oggettivamente idoneo a
limitare la libertà sindacale) un intervento del giudice per imporre al
datore di lavoro un comportamento in contrasto o (almeno) al di fuori di
quanto stabilito da un contratto collettivo applicabile in azienda [in
partic., nella specie, statuendo l'obbligo a carico del datore
("nolente") di effettuare la trattenuta della retribuzione per
versare il contributo sindacale a favore di un sindacato non firmatario
delegato dal lavoratore quando un contratto collettivo regolamenta la
materia e può avvenire che il versamento del contributo sindacale sia già
avvenuto a favore di un sindacato firmatario a cui il lavoratore sia (o
sia stato) associato] costituisce una indebita interferenza nelle
relazioni sindacali e, sotto tale specifico aspetto rappresenterebbe un
comportamento - sostanzialmente - antisindacale.
- In
ogni caso, nella sentenza n. 5295/1997 delle Sezioni Unite (con cui,
occorre precisarlo, era stato rigettato il ricorso per cassazione proposto
dalle organizzazioni sindacali originariamente ricorrenti ex
art. 28) richiamata dalla Corte di Appello per ritenere sanzionabile il
comportamento "oggettivamente antisindacale" sulla base che
"nel caso in esame l'inconsistenza delle ragioni addotte per non dar
corso alle cessioni dimostra la positiva esistenza di un intento
antisindacale" veniva, tra l'altro, precisato che la sussistenza, o
meno, di un intento del datore di lavoro di ledere la libertà sindacale e
il diritto di sciopero "non è sufficiente in quanto tale intento non
può far considerare antisindacale un'attività che non appare
obiettivamente diretta a limitare la libertà sindacale": per cui, se
dalle risultanze processuali non è dato evincere che la condotta del
datore di lavoro non era obiettivamente idonea a violare la libertà
sindacale (con il relativo onere probatorio a carico del sindacato
ricorrente e di cui il giudice del merito ha l'obbligo di dare congrua e
corretta motivazione nella decisione), deve escludersi la sussistenza di
un comportamento antisindacale sanzionabile ex art. 28.
- Nella
specie, la decisione del Giudice di appello si è sviluppata unicamente
sul versante dell'inquadramento della fattispecie negli schemi negoziali
del diritto civile senza indicare in che modo fattualmente la condotta
della società datrice di lavoro fosse realmente idonea a limitare la
libertà sindacale dell'associazione ricorrente (a tale proposito non può
essere seriamente considerato il cd. argomento concernente
"l'inconsistenza delle ragioni addotte per non dar corso alle
cessioni") e, quindi, la cennata decisione è caratterizzata da
un'impostazione civilistica che, pur tenendo riguardo allo scopo
assicurato dall'abrogata norma dell'ari 26 della legge n. 300/1970 di
garantire al sindacato il diritto al versamento dei contributi, avrebbe
potuto costituire oggetto soltanto di un autonomo giudizio ordinario e
non, certo, di un procedimento speciale ex
art. 28.
- Di
conseguenza, anche sotto tale profilo, la sentenza impugnata deve essere
riformata in accoglimento delle specifiche censure proposte (specif. con
il terzo motivo) dalla società ricorrente.
- V.
In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso
proposto dalla s.p.a. IVECO deve essere integralmente accolto, per cui la
sentenza del Tribunale di Torino impugnata deve essere cassata e decidendo
nel merito ex art. 384 (ult.
alinea del primo comma) c.p.c. poiché non sono necessari ulteriori
accertamenti di fatto va revocato il decreto opposto emesso ex
art. 28 della legge n. 300/1970 dal Pretore di Torino in data 29 marzo
1999.
- Ricorrono
giusti motivi per dichiarare compensate tra le parti le spese dell'intero
giudizio.
-
- P.Q.M.
-
- La
Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e decidendo nel
merito revoca il decreto emesso ex
art. 28 della legge n. 300/1970 dal Pretore di Torino in data 29 marzo
1999; compensa tra le parti le spese dell'intero giudizio.
- ******
- Corte
di Cassazione, Sez. lav., sentenza 26 febbraio 2004, n. 3917 (ud. 24
novembre 2003) – Pres. Mattone – Rel. Filadoro
– Fiat Auto Partecipazioni SpA e Fiat Auto SpA (avv. Tamajo, Tosi,
Bonamico e Borsotti) c. Sincobas (avv. Sonetto)
-
- Svolgimento
del processo - Con
sentenza 6 ottobre - 17 novembre 2000, la Corte d'Appello di Torino rigettava l'appello proposto dalla s.p.a. FIAT
AUTO avverso la decisione del locale Pretore del 15 marzo - 19 aprile
1999, che aveva dichiarato antisindacale il comportamento della società,
consistente
nel non dar corso alle richieste di centoventotto lavoratori,
aderenti al sindacato SINCOBAS, di operare le trattenute delle
quote
sindacali sulle loro retribuzioni, trasferendole a detta
- organizzazione.
- La
Corte d'Appello respingeva l'eccezione di carenza di legittimazione
passiva del COBAS, rilevando:
- -
che l'associazione aveva il requisito della nazionalità (non occorrendo
la stipulazione di accordi a livello nazionale o aziendale);
- -
che si trattava di associazione sindacale nazionale di categoria e non di
sindacato intercategoriale.
- Nel
merito, i giudici di appello rilevavano che dopo il referendum
abrogativo del 1995 il COBAS aveva richiesto alla società FIAT AUTO la
cessione di una parte della retribuzione di alcuni dipendenti a titolo di
quota associativa.
- La
società aveva opposto un rifiuto, così ponendo in essere la condotta
antisindacale denunciata.
- La
Corte osservava che la tutela di cui all'art. 28 dello Statuto dei
lavoratori non è limitata ai diritti sindacali nominativamente
riconosciuti, ma comprende qualsiasi comportamento del datore di lavoro
diretto a impedire o comunque a limitare l'esercizio delle libertà e
dell'attività sindacale (oltre che il diritto di sciopero).
- Avverso
tale decisione la società FIAT AUTO ha proposto ricorso per Cassazione
sorretto da tre distinti motivi, illustrati da memoria.
- Resiste
il SINCOBAS con controricorso.
- FIAT
AUTO ha depositato anche note d'udienza, a seguito delle conclusioni
espresse dal Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte.
-
- Motivi
della decisione - Con
il primo motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 28 della legge n. 300 del
1970, contraddittoria, erronea e insufficiente motivazione circa la
carenza di legittimazione passiva (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.).
- Erroneamente,
ad avviso della ricorrente, i giudici di appello hanno ritenuto che il
SINCOBAS non sia una confederazione di sindacati di categoria, ma un vero
e proprio sindacato, portatore di un interesse diretto ed immediato a
difendere l'esercizio di attività sindacali nelle realtà periferiche
nelle quali è presente.
- Nonostante
sia del tutto evidente che l'organizzazione esiste e riesce ad assumere
dimensione nazionale solo come coalizione di un numero di comitati di
base, appartenenti alle più diverse categorie.
- In
realtà, precisa la ricorrente "l'anomala struttura organizzativa
assunta da SINCOBAS costituisce un abile artificio per superare
formalmente il requisito di nazionalità, senza che siano tuttavia
rispettate le esigenze sostanziali sottese a tale limitazione
normativa". Il riconoscimento della legittimazione attiva, ai sensi
dell'art. 28 dello Statuto, ai soli organismi locali appartenenti a
sindacati nazionali deriva dall'esigenza di limitare l'esercizio di tale
azione solo a soggetti dotati di una responsabilità e di una comprensione
dei fenomeni che trascenda il contesto locale. Tale funzione non sarebbe
affatto rispettata se si ammettesse ad agire un coacervo di comitati di
base appartenenti alle più diverse categorie, con diverse esigenze e
realtà di riferimento, capaci poi di raggiungere una dimensione nazionale
solo attraverso una formale unione sotto l'egida di una unica
organizzazione intercategoriale.
- Il
motivo non è fondato.
- La
lettera dell'art. 28 dello Statuto dei lavoratori è chiara ed univoca
nell'attribuire la legittimazione ad agire alle "associazioni
sindacali nazionali che vi abbiano interesse" e quindi nel richiedere
solo il requisito della diffusione nazionale del sindacato sul territorio
nazionale senza esigere che l'associazione debba far parte di una
confederazione ed essere maggiormente rappresentativa.
- La
dizione letterale trova del resto corrispondenza nella stessa "ratio"
della legge. Infatti, nell'art. 19 lettera a);
nella sua originaria formulazione - prima dell'abrogazione del 1995 - si
poneva esclusivamente la questione dell'ammissibilità della costituzione
di rappresentanze sindacali aziendali, e quindi tale diritto - per la
delicata interferenza nella vita interna dell'azienda – era riconosciuto
agli organismi (tra i non firmatari di contratti nazionali o provinciali)
ritenuti più responsabili.
- Nell'art.
28, invece, viene indicata solamente la legittimazione alla speciale
procedura per la repressione di ogni condotta antisindacale. Tale
legittimazione (che pur implica valutazioni responsabili: Corte Cost. 6
marzo 1974, n. 54) va tuttavia conciliata col rispetto del libero sviluppo
dell'attività sindacale (art. 39, comma 1, Costituzione), per cui la
legittimazione stessa è attribuita a tutte le associazioni sindacali
nazionali interessate, a prescindere dalla loro confluenza in
confederazioni o comunque dalla loro intercategorialità.
- Proprio
la Corte Costituzionale, del resto, con la sentenza 24 marzo 1988 n. 334
ha rilevato, tra l'altro, che l'art. 28 è espressione della garanzia, nel
nostro ordinamento, del libero sviluppo di una "normale dialettica
sindacale", perché "il suo impiego presuppone una dimensione
organizzativa - quella nazionale - che, per non essere legata né ad una
aggregazione a livello confederale intercategoriale, né alla stipulazione
di contratti collettivi, consente concreti spazi di operatività anche
alle organizzazioni che disseti dalle politiche sindacali
maggioritarie".
- I
giudici di appello hanno fatto riferimento a numerosi documenti dai quali
è possibile ricavare la dimensione nazionale di SINCOBAS (non solo la sua
presenza in tutte o quasi le province e l'elezione di suoi rappresentanti
sindacali in importanti aziende, ma anche lo svolgimento di una effettiva
azione sindacale su gran parte del territorio nazionale).
- La
società ricorrente, con il secondo profilo del primo motivo, contesta la
legittimazione attiva del SINCOBAS rilevando che questo non sarebbe una
associazione sindacale nazionale di categoria, ma un
- sindacato
intercategoriale.
- Anche
questa censura è infondata.
- L'art.
28 dello Statuto attribuisce la legittimazione attiva indistintamente a
tutti gli "organismi locali delle associazioni sindacali nazionali
che vi abbiano interesse" e non solo alle associazioni sindacali
nazionali di categoria.
- La
posizione del SINCOBAS, ha accertato la Corte d'Appello, con motivazione
che sfugge a qualsiasi censura, non è affatto assimilabile a quella degli
organismi locali delle confederazioni sindacali, escluse dall'ambito
dell'art. 28 dello Statuto da questa Corte (perché non incardinati in un
sindacato di categoria nazionale e privi di interesse ad agire).
- Gli
stessi giudici hanno riconosciuto che - a differenza delle confederazioni
sindacali (che costituiscono degli organismi di coordinamento dei vari
sindacati di categoria) - il SINCOBAS ha tra i suoi compiti istituzionali
la tutela diretta delle varie categorie di lavoratori che rappresenta ed
in cui eventualmente si articola.
- Dallo
Statuto del SINCOBAS è risultato che lo stesso è una associazione
sindacale nazionale (art. 1) e non una confederazione sindacale: esso non
costituisce una confederazione di sindacati di categoria, pur raggruppando
lavoratori di tutte le categorie, articolandosi in diversi settori e
categorie (art. 2).
- La
giurisprudenza di questa Corte è ferma, del resto, nel ritenere
fondamentali le indicazioni contenute nelle norme Statutarie ai fini della
individuazione degli organismi zonali deputati ad agire ai sensi dell'art.
28 dello Statuto; ciò per la necessità di lasciare all'organizzazione
sindacale la piena libertà di darsi una struttura a livello locale e di
individuare gli organismi ritenuti più idonei alla tutela degli interessi
locali (Cass. 5765 del 20 aprile 2002).
- La
questione della legittimazione attiva del SINCOBAS deve pertanto essere
risolta in senso favorevole allo stesso.
- Con
il secondo motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa
applicazione dell'art. 28 della legge n. 300 del 1970, erronea motivazione
circa l'estraneità della controversia rispetto alla nozione di condotta
antisindacale (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.).
- In
ogni caso, la condotta di FIAT AUTO, secondo la ricorrente, rimarrebbe del
tutto estranea rispetto alla nozione di "condotta antisindacale"
che delimita rigorosamente la possibilità di ricorrere al procedimento ex art. 28 Statuto dei lavoratori.
- In
altre parole, una volta venuta meno la fonte legale del diritto alla
trattenuta dei contributi ed al successivo versamento delle quote alle
organizzazioni sindacali, non sarebbe più possibile parlare di
comportamento antisindacale del datore di lavoro.
- Infatti,
una volta caduto l'obbligo di fonte legale un diritto del sindacato ad
ottenere la cooperazione del datore di lavoro nel meccanismo di raccolta
dei contributi potrebbe discendere solo da un impegno assunto per effetto
di autonomia contrattuale del datore di lavoro nei confronti del sindacato
(nel caso di specie, inesistente).
- I
giudici di appello avevano ritenuto sufficiente ad attribuire valenza
antisindacale alla condotta aziendale il mero fatto che le somme oggetto
di cessione fossero destinate al finanziamento del sindacato, ritenendo
poi che tale conclusione trovasse conforto nel principio, espresso dalle
Sezioni Unite di questa Corte, circa l'irrilevanza dell'elemento
soggettivo nella qualificazione della condotta antisindacale.
- Il
vero nodo da dipanare era, però, tutt'altro e consisteva nello stabilire
se, in un contesto di fisiologica contrapposizione di interessi (in cui
non esiste dovere di collaborazione al di fuori di specifiche previsioni
legali o contrattuali), il sindacato possa pretendere di qualificare come
antisindacale l'inadempimento di un'obbligazione che vede come parti
esclusivamente il datore di lavoro ed il singolo lavoratore, solo per il
fatto che quest'ultimo, con un negozio tipicamente astratto come la
cessione di credito, abbia ritenuto di individuare come beneficiario
parziale della prestazione il sindacato di appartenenza.
- Con
il terzo motivo la società ricorrente denuncia violazione degli articoli
1260 c.c. e 39, primo comma, Costituzione, nonché insufficiente e/o
erronea motivazione circa l'inapplicabilità della cessione di credito
alla fattispecie concreta (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.).
- Ad
avviso della ricorrente il venir meno del secondo e terzo comma dell'art.
26 della legge 300 del 1970, a seguito del referendum abrogativo, ha reso
la delegazione di pagamento non più idonea ai risultati auspicati dal
sindacato, in quanto la delegazione richiede il consenso del delegato (nel
caso di specie, il datore di lavoro).
- Il
sindacato aveva ritenuto di aggirare questi ostacoli, facendo riferimento
alla cessione di credito.
- Nel
caso di specie, tuttavia, mancavano tutti i requisiti essenziali per poter
qualificare in questo modo la situazione oggetto di causa.
- La
cessione di credito è un istituto che non può trovare applicazione
quando da essa consegua un aggravamento degli oneri e dei rischi del
debitore ceduto. Gli oneri previsti per le trattenute SINCOBAS sarebbero
di gran lunga maggiori di quelli derivanti dall'applicazione della regola
generale di cui all'art. 6 del contratto collettivo nazionale di lavoro
per le organizzazioni stipulanti (comportando necessità di verifiche e
controlli più frequenti e costosi).
- Doveva
anche escludersi la possibilità di configurare come cessione di credito
la fattispecie oggetto di causa per l'assorbente ragione della strutturale
incompatibilità fra un negozio traslativo del credito e la revocabilità
dell'atto volontario di contribuzione sindacale.
- Un
ulteriore profilo di incompatibilità della cessione rispetto allo scopo
perseguito dal sindacato si pone in relazione alla disciplina sul luogo
dell'adempimento dell'obbligazione retributiva, che, secondo l'art. 1182
c.c., deve avvenire nel luogo in cui si svolge la prestazione.
- L'azienda
potrebbe, al più, ritenersi obbligata a mettere a disposizione
dell'organizzazione sindacale la somma trattenuta presso i propri uffici,
ma non a versarla - in mancanza di pattuizione espressa in tal senso - al
sindacato stesso.
- Anche
ad ammettere, infine, che la fattispecie in esame fosse da ricondurre alla
cessione di credito, la stessa sarebbe comunque improduttiva di effetti
giuridici, giacché ci troveremmo in presenza di un negozio posto in
essere in frode alla legge, in quando diretto ad eludere l'esito del referendum e la conseguente abrogazione dei commi 2 e 3 dell'art. 26
dello Statuto dei lavoratori.
- I
due motivi possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi tra
di loro.
- Essi
non sono fondati.
- Con
motivazione adeguata e sufficiente, la Corte d'Appello ha ricordato che
l'effetto del referendum
abrogativo dell'art. 26 dello Statuto e del conseguente D.P.R. è stato di
eliminare dall'ordinamento il secondo comma di tale articolo; sicché è
venuto meno l'obbligo per il datore di lavoro di operare, su richiesta del
dipendente, la trattenuta sindacale in favore dell'organizzazione di
appartenenza.
- In
tal modo, tuttavia, non si è affatto - come pretenderebbe la società
ricorrente - posto un divieto e resa illecita la riscossione di quote
associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro.
- Molto
più semplicemente, deve ritenersi che per effetto del referendum abrogativo e del successivo D.P.R. 313 del 28 luglio
1995, la materia è stata restituita all'autonomia privata, individuale e
collettiva (Corte Cost. n. 13 del 12 gennaio 1995). Come ha rilevato il
giudice delle leggi, l'intento dei promotori del referendum
era quello di "restituire la materia all'autonomia privata, facendo
venir meno l'obbligo legale di cooperazione gravante sul datore di lavoro.
Tale obbligo giuridico, scaturente dalle abrogande disposizioni, avrebbe
in concreto determinato un vincolo contributivo a tempo indeterminato a
carico del lavoratore, indipendentemente dalla permanenza del vincolo
associativo".
- In
altre parole, l'obiettivo del referendum
non era quello di evitare che attraverso altri strumenti riconducibili
all'autonomia negoziale privata o a quella collettiva, il datore di lavoro
fosse tenuto ad accreditare i contributi in favore delle associazioni
sindacali.
- Tanto
è vero che gli stessi promotori menzionavano, tra gli istituti
utilizzabili "ai medesimi fini", proprio la cessione di credito,
accanto alla delegazione di pagamento, dimostrando così di non ritenere
contrario allo spirito della consultazione popolare un meccanismo di
accredito dei contributi realizzato, sul piano dell'autonomia negoziale,
anche a prescindere dalla volontà del datore di lavoro.
- Del
resto, come hanno riconosciuto i giudici di appello, pur dopo il referendum del giugno 1995, sono rimaste valide le pattuizioni
contrattuali collettive (quali l'art. 6 disciplina generale, parte
seconda, del c.c.n.l. metalmeccanico privato) che prevedevano
l'effettuazione delle trattenute e, sostituita la fonte contrattuale a
quella legale, il diritto alla riscossione tramite trattenuta è rimasto
in vita per i sindacati che potevano avvalersi di tali norme - non
evidentemente per il SINCOBAS che non è tra i firmatari del c.c.n.l.
- Ulteriore
conseguenza - ha osservato ancora la Corte con motivazione irreprensibile
- è che la cessione di un credito dei lavoratori a favore del sindacato
non potrebbe integrare nullità del contratto per illiceità della causa ex
art. 1344 c.c., in quanto mezzo per eludere l'applicazione di una norma
imperativa.
- Una
norma che vieti al sindacato di ottenere il pagamento delle quote
associative attraverso le trattenute sulla retribuzione dei dipendenti non
esiste, né è stata introdotta come effetto o a seguito del referendum.
- L'unica
questione da risolvere è allora quella (formulata nel terzo motivo di
ricorso per Cassazione) relativa alla qualificazione da attribuire
all'istituto posto in essere dai lavoratori.
- Il
Collegio ritiene di dover condividere l'interpretazione data dai giudici
di appello, secondo la quale i lavoratori hanno posto in essere una
cessione dei crediti, la quale non richiede il consenso del debitore.
- Mentre
la cessione del contratto, comportando la sostituzione della parte tenuta
all'esecuzione del rapporto, richiede sempre il consenso della parte
ceduta, questo consenso non è richiesto per la cessione di credito, poiché
il cedente aliena e trasferisce semplicemente una pretesa creditoria e,
normalmente, per il debitore ceduto è indifferente eseguire la
prestazione ad un nuovo avente diritto.
- L'art.
1260 c.c. stabilisce al primo comma che: "il creditore può
trasferire a titolo oneroso o gratuito il suo credito, anche senza il
consenso del debitore, purché il credito non abbia carattere strettamente
personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge".
- Nel
caso di specie non ricorre alcuna delle due ipotesi di esclusione
espressamente previste.
- La
giurisprudenza citata dalla difesa della società ricorrente riguarda in
via esclusiva il periodo prereferendario. La stessa ha escluso che
l'istituto in questione possa configurarsi quale cessione essenzialmente
perché la cessione impedirebbe al lavoratore per tutto il periodo cui si
riferisce, di esercitare unilateralmente il potere di revoca. Inoltre
l'accredito dovrebbe avere carattere periodico, mentre la manifestazione
di volontà del lavoratore consisterebbe in un unico atto e riguarderebbe
crediti futuri.
- Nessun
dubbio che la cessione possa riguardare anche crediti futuri (Cass. 11
maggio 1990, n. 4040, 17 marzo 1995, n. 3099; cfr. anche Cass. 2 agosto
1977, n. 3421 e 2798 del 1978).
- La
società ricorrente nega la natura di cessione di credito della
autorizzazione alla trattenuta sindacale muovendo dalla constatazione che
l'indicazione posta alla base dell'istituto della cessione di credito
sarebbe, per sua natura, irrevocabile.
- L'obiezione
non tiene conto della circostanza che l'autorizzazione non si rivolge ad
un unico credito preesistente, ma anche a crediti futuri, e comunque della
chiara volontà manifestata dai lavoratori aderenti all'organizzazione
sindacale che ha espressamente previsto la revocabilità della cessione
prima della scadenza indicata (cfr. pag. 10 controricorso, doc. 12,
fascicolo di primo grado SINCOBAS).
- Anche
in assenza della clausola di revoca, pure espressamente prevista nella
lettera, in caso di recesso del lavoratore dall'associazione sindacale
verrebbe meno automaticamente il collegato negozio di cessione di credito
(per sopravvenuta carenza di causa e condizione necessaria).
- Ad
avviso di questa Corte, non è possibile rinvenire alcun limite alla
integrazione della disciplina codicistica (nel senso sopra prospettato)
potendo l'autonomia negoziale privata intervenire per regolamentare
interessi meritevoli di tutela, quale è, indubbiamente, quello
all'autofinanziamento di una organizzazione sindacale, espressamente
previsto e tutelato dalle leggi vigenti.
- È
appena il caso di ricordare che l'interesse del sindacato a ricevere le
quote sindacali non costituisce un interesse di mero fatto, ma è pur
sempre legislativamente protetto, dal momento che il primo comma dell'art.
26 della legge n. 300 del 1970, sopravvissuto alla abrogazione
referendaria, contempla il diritto dei lavoratori di raccogliere i
contributi sul luogo di lavoro, con conseguente compressione del potere di
organizzazione imprenditoriale.
- Né
può dirsi, come sembra affermare la ricorrente, che, in tal modo, siano
posti a carico della società datrice di lavoro oneri non previsti e
comunque insostenibili.
- Nel
bilanciamento dei diversi interessi non è affatto illogico che prevalga
quello del sindacato alla raccolta dei contributi ed al versamento diretto
degli stessi.
- Tra
l'altro, gli oneri del pagamento non potranno - intuitivamente - essere
superiori a quelli previsti per l'accredito delle quote associative ai
sindacati firmatari del contratto collettivo nazionale di lavoro, rispetto
ai quali la società ha già contrattualmente assunto il relativo compito
organizzativo.
- La
società ricorrente ha tentato di individuare nello strumento della
cessione rigidità strutturali che non sono rinvenibili affatto nella
disciplina dell'istituto, così come regolata dalle previsioni
codicistiche ed elaborata dalla giurisprudenza.
- Da
ultimo, la società ricorrente rileva che l'inadempimento, da parte sua,
al negozio di cessione potrebbe operare solo sul piano civilistico, ma non
certo integrare gli estremi della condotta antisindacale. Si tratta di una
osservazione solo all'apparenza suggestiva, ma non condivisibile.
- La
censura, come hanno già precisato i giudici di appello, trascura il dato,
assolutamente pacifico, che la tutela ex art. 28 dello Statuto dei
lavoratori non è limitata ai diritti sindacali nominativamente
riconosciuti, ma copre qualsiasi comportamento del datore di lavoro
diretto, comunque, "ad impedire o limitare l'esercizio della libertà
e dell'attività sindacale nonché del diritto di sciopero".
- Quanto
all'intenzionalità del comportamento del datore di lavoro, la
giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che essa sia del
tutto irrilevante ai fini dell'integrazione della condotta antisindacale
di cui all'art. 28 dello Statuto dei lavoratori.
- A
tal fine, è sufficiente che il comportamento del datore di lavoro leda
oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le
organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente)
uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro né nel caso di
condotte tipizzate perché consistenti nell'illegittimo diniego di
prerogative sindacali (quali, il diritto di assemblea, il diritto delle
rappresentanze sindacali aziendali a locali idonei allo svolgimento delle
loro funzioni, il diritto ai permessi sindacali), né nel caso di condotte
non tipizzate ed in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee,
nel risultato, a limitare la libertà sindacale, sicché ciò che il
giudice deve accertare è l'obiettiva idoneità della condotta denunciata
a produrre l'effetto che la disposizione citata intende impedire, ossia la
lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero (Cass. S.U. 12
giugno 1997, n. 5295).
- In
precedenti occasioni, questa Corte ha avuto occasione di sottolineare come
il rifiuto dell'azienda di effettuare le trattenute sindacali - laddove i
lavoratori abbiano rilasciato autorizzazione al datore di lavoro di
trattenere sulle retribuzioni i contributi sindacali e di versarli ad
associazioni sindacali non firmatarie di contratti collettivi applicati in
azienda - concreti un comportamento che lede non solo i diritti del
singolo lavoratore ma anche quelli del sindacato destinatario dei
contributi e perciò costituisce un ostacolo all'esercizio ed allo
sviluppo dell'attività, configurando così una ipotesi di condotta
antisindacale (Cass. 16 marzo 2001, n. 3813; 5 febbraio 2000, n. 1312; 9
settembre 1991, n. 9470). Conclusivamente il ricorso deve essere
rigettato, con la condanna della società ricorrente al pagamento delle
spese liquidate come in dispositivo.
-
- P.Q.M.
-
- La
Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese
che liquida in euro 3.500 (tremilacinquecento) per onorari di avvocato,
oltre ad euro 19,20 per spese.
- ******
- Tribunale
di Milano, sez. lavoro (1° grado) –
3 febbraio 2004 - Giudice
Dott. Francesco L. Frattin. - SAVIP
- Sindacato Autonomo della Vigilanza Privata (avv. Caputo) c. I.V.R.I. -
ISTITUTI DI VIGILANZA RIUNITI D'ITALIA S.p.A. (avv. Moro e Failla)
-
- Richiesta
di versamento di contributi sindacali per cessione di credito da parte del
lavoratore – Legittimità – Conseguente comportamento antisindacale
nel rifiuto aziendale di operare la trattenuta.
-
- E’
legittima – e costituisce condotta antisindacale il diniego datoriale al
riguardo – la richiesta del lavoratore di cedere con delega (contenente
facoltà di revoca) al proprio sindacato una quota di retribuzione a
titolo di contributo sindacale di affiliazione. Osserva infatti il
giudicante a fronte delle eccezioni datoriali: perché non dovrebbe essere
consentito al sindacato, ente portatore di valori ritenuti dal Costituente
e dal legislatore meritevoli di speciale tutela, di ottenere ciò che una
qualunque società finanziaria automaticamente ottiene? E perché il
cittadino lavoratore potrebbe cedere parte del suo salario a tutti ma non
ad una organizzazione sindacale, subendo così una riduzione dei suoi
diritti civili senza ben pregnanti ragioni e anzi venendo limitato proprio
nell'esercizio del suo diritto di sostenere nel modo ritenuto più
opportuno il sindacato di sua fiducia soltanto perché lo stesso non ha
stipulato contratti collettivi? Quest'ultima condizione discriminante, se
può giustificare un trattamento preferenziale dei sindacati stipulanti
sul piano dei diritti strettamente sindacali, in nessun modo può rilevare
nel rapporto lavoratore-sindacato da un lato e nello status del cittadino
lavoratore dall'altro, entrambi regolati dalle norme del diritto civile.
-
- Svolgimento
del processo
- Con
ricorso depositato il giorno 6 luglio 2003 II sindacato ricorrente
proponeva opposizione contro il decreto ex art. 28 con il quale il
Tribunale aveva rigettato il ricorso promosso dallo stesso sindacato per
far dichiarare antisindacale il rifiuto opposto da IVRI di dar corso alle
cessioni di credito tramite le quali il SAVIP ed i lavoratori ad esso
iscritti chiedevano e chiedono di raccogliere le quote associative.
Resisteva la convenuta, chiedendo il rigetto del ricorso sia per il
merito, sia per la mancanza del requisito della "nazionalità".
La causa veniva ritenuta dallo scrivente documentale. Udita la discussione
dei difensori, la causa veniva decisa come in dispositivo.
- Motivi
della decisione
- Lo
scrivente, che si è espresso più volte, in passato, in senso conforme al
decreto qui opposto, deve dichiarare subito di avere, re melius
perpensa, e alla luce del caso presente, mutato opinione circa la nota
questione delle ritenute sindacati. Peraltro l'indirizzo oggi ripudiato
non era stato assunto senza dar conto delle vistose controindicazioni che
si portava dietro.
- Riesaminando
oggi il problema, lo scrivente rileva che la tesi che il lavoratore possa
cedere i propri crediti anche futuri a chiunque - finanziarie, creditori
vari - ma non ad un sindacato, porta, come é stato giustamente annotato
allora da un critico, ad una restrizione del catalogo dei diritti del
cittadino lavoratore per via interpretativa. Questo esito, effettivamente
molto grave, poggia, a ben vedere, sulla estremizzazione del principio
della necessaria revocabilità della decisione di adesione ad una
organizzazione sindacale. Poiché, (dissero il sottoscritto ed altri), al
mutamento di opinione politico-sindacale del lavoratore deve seguire
immediatamente il recupero della libertà di disporre del proprio salario,
e la cessione del credito è strutturalmente irrevocabile salvo il
consenso del creditore, per ottenere il quale occorre comunque un certo
tempo, non è ammissibile che la libertà sindacale (nella sua componente,
diciamo così, strumentale-economica) resti compressa né per molto né
per poco tempo, trattandosi di una questione di principio.
- Nel
nostro caso le c.d. "deleghe" apprestate dal sindacato e da
questo trasmesse al datore di lavoro portano ben chiaro il consenso
anticipato del sindacato medesimo ad una eventuale revoca della cessione,
stabilendo soltanto un tempo davvero minimo, anzi, inesistente, per
l'effetto della revoca, visto che si prevede espressamente che la revoca
della delega "avrà effetto economico dal mese successivo" e che
“il Savip, in ipotesi di disdetta, si impegna a comunicare
tempestivamente al datore di lavoro la rinuncia al beneficio della
cessione del credito". (Qui va rilevato che normalmente i sindacati
confederali stipulanti tutti i contratti collettivi stabiliscono un tempo
fisso di qualche mese di ultravalidità della scelta in atto, il che
significa che una certa ultrattività non viene ritenuta da loro stessi
lesiva dei diritti sindacali dei lavoratori).
- Il
fatto che sia il sindacato Savip medesimo a portare le deleghe al datore
di lavoro, contenenti le clausole di cui sopra, vale indubbiamente come
accettazione tacita della clausola di revoca e dell’impegno conseguente.
Siamo cioè, in realtà, in una situazione in cui non si ravvisa alcuna
comprensione effettiva della libertà (della scelta) sindacale. A fronte
di ciò perché non dovrebbe essere consentito al sindacato, ente
portatore di valori ritenuti dal Costituente e dal legislatore meritevoli
di speciale tutela, di ottenere ciò che una qualunque società
finanziaria automaticamente ottiene? E perché il cittadino lavoratore
potrebbe cedere parte del suo salario a tutti ma non ad una organizzazione
sindacale, subendo così una riduzione dei suoi diritti civili senza ben
pregnanti ragioni e anzi venendo limitato proprio nell'esercizio del suo
diritto di sostenere nel modo ritenuto più opportuno il sindacato di sua
fiducia soltanto perché lo stesso non ha stipulato contratti collettivi?
Quest'ultima condizione discriminante, se può giustificare un trattamento
preferenziale dei sindacati stipulanti sul piano dei diritti strettamente
sindacali, in nessun modo può rilevare nel rapporto lavoratore-sindacato
da un lato e nello status del cittadino lavoratore dall'altro, entrambi
regolati dalle norme del diritto civile.
- Si
ritiene poi che non sia di ostacolo il fatto che le "deleghe"
sindacali siano sempre state ritenute configuranti delegazioni di
pagamento anziché cessioni di credito. Nel momento in cui le parti
accettano e configurano una cessione dì credito revocabile ad nutum,
non si ravvisano in un tale accordo violazioni di norme imperative né
altre ragioni di nullità di un siffatto negozio.
- Quanto
all'asserito aggravio per il datore dì lavoro, l'obiezione, in presenza
di sistemi informatici e di prassi conformi per larghe masse di lavoratori
aderenti ai sindacati stipulanti, appare del tutto pretestuosa.
- Infine,
quanto alla legittimazione attiva del Savip nel presente giudizio, lo
scrivente ritiene sufficiente il materiale probatorio prodotto dallo
stesso. La legge, prevedendo il carattere della nazionalità, richiede una
diffusione apprezzabile in aree territoriali diverse, tali da far
escludere nel sindacato attore un carattere meramente regionale o locale.
Sotto questo profilo l'organizzazione sindacale ricorrente appare in
regola con la previsione normativa. Ravvisandosi dunque, in accoglimento
dell'opposizione, l'illegittimità del rifiuto di I.V.R.I. S.p.a. a dar
corso alte cessioni di credito, il comportamento di I.V.R.I., incidendo
direttamente sul rapporto lavoratori-sindacato e sul concreto esercizio
della libertà e dell'attività sindacale, deve essere dichiarato
antisindacale e represso come tale. La presenza di un forte contrasto in
giurisprudenza consiglia la compensazione delle spese di lite.
- P.
Q. M.
- Il
Giudice
- in
accoglimento dell'opposizione,
- dichiara
- antisindacale
il comportamento della società opposta di rifiuto di operare le ritenute
in favore del sindacato opponente; ordina alla IVRI S.p.a. di astenersi in
futuro dal comportamento lamentato col ricorso. Compensa tra le partì le
spese di lite.
- Milano
3.2.2004
- Il
Giudice del Lavoro
- (Francesco
L. Frattin)
-
*********
Corte di cassazione, Sezioni unite
civili, 24 novembre – 21 dicembre 2005,
n. 28269
– Pres. Carbone – Rel. Picone – S. In.Cobas c. Teksid SpA
Trattenuta dei contributi
sindacali a mezzo cessione di credito secondo le norme civilistiche –
Legittimità e non contrasto con l’esito referendario modificativo dell’art. 26
Stat. lav. – Diniego del datore di lavoro – Comportamento antisindacale –
Sussistenza.
L’abrogazione referendaria
dell'art. 26, commi 2 e 3, Statuto dei lavoratori, non ha certo determinato un
"vuoto" nella regolamentazione della materia, ma - come precisato dalla Corte
costituzionale in relazione all'intento dei promotori (sentenza 13/1995)- ha
"restituito" all'autonomia contrattuale la materia già disciplinata dalla
legge in termini di prestazione imposta al datore di lavoro, cosicché resta
ammissibile, senza limitazioni, il ricorso a tutti i possibili strumenti
negoziali che consentono di realizzare lo scopo di versare ai sindacati la
quota associativa mediante ritenuta sulla retribuzione, altrimenti si
attribuirebbero all'istituto del referendum non i soli effetti abrogativi che
gli sono propri, ma anche effetti propositivi. E’ del tutto errato, pertanto,
ritenere – come ha fatto la difesa dell’azienda - che l'esito referendario
abbia introdotto nell'ordinamento il principio inderogabile del divieto di
realizzare il risultato di imporre al datore di lavoro, senza il suo consenso,
di versare al sindacato quote della retribuzione. Si è già detto come sia del
tutto arbitrario desumere un tale principio dall'effetto abrogativo del
referendum, limitato alla soppressione di un obbligo ex lege, senza
interferire minimamente sull'apparato degli strumenti negoziali a disposizione
di tutti i soggetti dell'ordinamento.
Scomparso l'obbligo legale, tutti gli strumenti negoziali possono essere
impiegati per realizzare risultati, non certo identici o analoghi, ma, al più,
equivalenti. E ciò stabilito, l'inadempimento del datore di lavoro che incide
sull'attività sindacale in senso proprio concreta in tutti i casi condotta
antisindacale, senza che possa in alcun modo rilevare la fonte dell'obbligo
medesimo. Va aggiunto che il referendum ha lasciato in vigore il primo comma
dell'art. 26 Statuto dei lavoratori, che protegge i diritti individuali dei
lavoratori concernenti l'attività sindacale per quanto attiene, in
particolare, alla raccolta dei contributi: stipulare con il sindacato i
contratti di cessione di quote della retribuzione costituisce una modalità di
esercizio dei detti diritti; il rifiuto del datore di lavoro di darvi corso,
lungi dal concretare un mero illecito civilistico, opera una compressione dei
diritti individuali e di quelli del sindacato. Ne consegue che il rifiuto
ingiustificato del datore di lavoro di eseguire i pagamenti configura un
inadempimento che, oltre a rilevare sotto il profilo civilistico, costituisce
anche condotta antisindacale, in quanto oggettivamente idonea a limitare
l'esercizio dell'attività e dell'iniziativa sindacale. L'effetto del rifiuto è
quello di privare i sindacati che non hanno stipulato i contratti collettivi
della possibilità di percepire con regolarità la fonte primaria di
sostentamento per lo svolgimento della loro attività e posti in una situazione
di debolezza, non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche delle
altre organizzazione sindacali con cui sono in concorrenza.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza sopra
specificata, la Corte di appello di Torino, giudicando fondata l'impugnazione
proposta dal S.IN.COBAS - Sindacato intercategoriale dei comitati di base -
contro la decisione del Tribunale della stessa sede, ha confermato il decreto
in data 27 aprile 1999 del Pretore di Torino, con il quale, ritenuta
l'antisindacalità del comportamento della Teksid s.p.a., consistito nel
rifiutare il pagamento al sindacato, ricorrente ex art. 28 l. 300/1970, delle
quote di retribuzione cedutegli dai lavoratori aderenti, ne aveva ordinato la
cessazione e la rimozione degli effetti (mediante il pagamento dei crediti
scaduti), con affissione del dispositivo nelle bacheche per trenta giorni.
2. È stato respinto, invece,
l'appello incidentale della Teksid contro la statuizione di primo grado, nella
parte in cui aveva ritenuto la legittimazione del S.IN.COBAS a proporre
ricorso per la repressione del comportamento antisindacale, con la motivazione
che era stata fornita la prova della dimensione nazionale del sindacato, in
relazione alla presenza e allo svolgimento di attività in gran parte del
territorio, nonché della sua natura, in base allo statuto, di associazione
sindacale nazionale con articolazioni periferiche, e non di confederazione di
diverse organizzazioni di categoria.
3. Sulle altre questioni, le
argomentazioni che sostengono la decisione sono: a) scomparso dall'ordinamento
l'obbligo legale del datore di lavoro di effettuare le trattenute dei
contributi sindacali e di curarne il versamento, l'obbligo medesimo può
legittimamente derivare da fattispecie negoziali; b) nel caso concreto era
stata realizzata, con accordi tra ciascun lavoratore e il sindacato, la
cessione di una parte del credito retributivo, e gli effetti di collaborazione
del datore di lavoro derivavano dagli artt. 1260 ss. c.c., come pure gli oneri
aggiuntivi erano posti a suo carico dal disposto dell'art. 1196 dello stesso
codice, oneri, peraltro, molto modesti, atteso che era in atto nell'azienda la
procedura per riscuotere le quote associative relative ai sindacati firmatari
del contratto collettivo di lavoro; c) il rifiuto del datore di lavoro,
debitore ceduto, di adempiere nei confronti del sindacato, incideva fortemente
su di un profilo assai rilevante dell'attività e, perciò, stante l'atipicità
della condotta antisindacale e la sua oggettiva lesività, doveva essere
represso con lo strumento apprestato dall'art. 28 l. 300/1970.
4. La cassazione della sentenza è
domandata dalla Teksid s.p.a. con ricorso per tre motivi, ulteriormente
precisati con memoria depositata in relazione all'udienza della Sezione lavoro
della Corte fissata per il 23 novembre 2004; ha resistito con controricorso il
Sindacato intercategoriale dei comitati di base.
5. Rilevato che la questione
dell'antisindacalità del comportamento del datore di lavoro, consistito nel
rifiuto di pagare al sindacato le quote di retribuzione cedute dai lavoratori,
era già stata decisa in senso difforme da sentenze della Sezione lavoro, il
Primo Presidente ha disposto che la Corte pronunci a Sezioni unite, ai sensi
dell'art. 374, comma 2, c.p.c. In relazione all'udienza fissata, la Teksid
s.p.a. ha depositato ulteriore memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo del ricorso,
denunciando violazione dell'art. 28 della l. 300/1970, nonché erronea e
insufficiente motivazione, domanda la cassazione della sentenza nella parte in
cui ha ritenuto legittimato il sindacato a proporre ricorso per la repressione
della condotta antisindacale, cassazione che sarebbe assorbente di ogni altra
questione.
1.1. Si sostiene che la Corte di
Torino ha trascurato di considerare la caratteristica, pure accertata in
fatto, del raggiungimento della dimensione nazionale solo come risultato della
coalizione di più comitati di base, relativi alle più disparate categorie di
lavoratori, caratteristica che avrebbe richiesto la verifica specifica
dell'interesse concreto ad agire della base locale, collocabile entro la
dimensione nazionale, a tutela dei lavoratori metalmeccanici; in ogni caso, se
in senso stretto non si era in presenza di una confederazione, la sostanza del
fenomeno era tuttavia quella di un'associazione di secondo livello, siccome lo
statuto, esaminato dal giudice del merito, riconosceva proprio ai comitati di
base il ruolo operativo fondamentale.
2. Il motivo non può trovare
accoglimento.
Come già avvertito, il contrasto
di giurisprudenza che ha determinato l'assegnazione della causa alle Sezioni
unite non riguarda la questione oggetto del motivo di ricorso in esame; al
contrario, su tale questione gli orientamenti espressi sono stati univoci nel
senso di ritenere sussistente la legittimazione attiva di organismi locali di
sindacati non maggiormente rappresentativi sul piano nazionale, né
intercategoriali o aderenti a confederazioni, essendo invece determinante il
requisito della diffusione del sindacato (anche monocategoriale) sul
territorio nazionale, dovendosi però intendere tale diffusione nel senso che
bastino svolgimento di effettiva azione sindacale (non su tutto ma) su gran
parte del territorio nazionale (Cassazione 10114/1990; 5765/2002; 11833/2002;
3917/2004; 10616/2004; 269/2005). Questi orientamenti meritano di essere
confermati, non risultando efficacemente contestati dalla ricorrente.
2.1. È opinione condivisa che il
disposto dell'art. 28 Statuto dei lavoratori, con l'attribuire la
legittimazione ad agire in giudizio, «agli organismi locali delle associazioni
sindacali nazionali, che vi abbiano interesse», detta un criterio di selezione
basato sul necessario carattere nazionale delle organizzazioni, escludendo la
legittimazione sia dei singoli lavoratori, sia di forme di autotutela
collettiva non organizzate su base nazionale.
Al riguardo, la Corte
costituzionale, in numerose decisioni (cfr. Corte costituzionale 54/1974,
334/1988 e 89/1995), dopo avere premesso che il legislatore ha attribuito a
soggetti qualificati uno strumento di azione giudiziaria dotato di particolare
efficacia, ha poi evidenziato come risulti operata una scelta - degli
organismi e del livello di rappresentatività - ragionevole, perché volta a
privilegiare «organizzazioni responsabili che abbiano un'effettiva
rappresentatività» (misurata sulla dimensione nazionale), e che «possano
operare consapevolmente delle scelte concrete valutando - in vista di
interessi di categorie lavorative e non limitandosi a casi isolati e alla
protezione di interessi soggettivi di singoli - l'opportunità di ricorrere
alla speciale procedura». In particolare, il giudice delle leggi ha precisato
come l'art. 28 sia espressione della garanzia del libero sviluppo di "una
normale dialettica sindacale" perché il suo impiego presuppone una dimensione
organizzativa - quella nazionale - che, per non essere legata ad una
aggregazione a livello confederale intercategoriale, né alla stipulazione di
contratti collettivi, consente concreti spazi di operatività anche alle
organizzazioni che dissentono dalle politiche sindacali maggioritarie (si
veda, in particolare Corte costituzionale 334/1988, cit.)
L'accesso alla speciale tutela
per la repressione della condotta antisindacale, quindi, è basata su di un
criterio di selezione che nulla ha a che fare con quello operante ai fini
della costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali (art. 19 Statuto
dei lavoratori, nel testo determinato dall'esito del referendum indetto con
d.P.R. 5 aprile 1995), ovvero con la nozione di organizzazione sindacale
dotata di «maggiore rappresentatività» (cfr., al riguardo, Cassazione
10114/1990).
2.2. Sulla specifica questione
della legittimazione delle organizzazioni che non abbiano limitato ad una
sola, predeterminata, categoria professionale il fine della loro attività, e,
quindi, mirino ad associare e tutelare i lavoratori in genere, la soluzione,
in linea di principio, deve essere positiva.
In tal senso depongono la
mancanza di elementi normativi testuali di segno contrario, la libertà delle
associazioni sindacali di scegliere le modalità organizzative secondo cui
operare, e, infine, la circostanza che la mancanza di un'unica categoria di
riferimento non esclude che, in via presuntiva e tendenziale, la dimensione
nazionale assicuri l'operare di scelte, nell'azione sindacale, maggiormente
consapevoli e razionali e, quindi, con maggiore probabilità, funzionali alla
protezione degli interessi dei lavoratori.
D'altra parte, nell'attuale
configurazione dell'ordinamento non sussiste - stante anche la mancata
attuazione dell'art. 39, commi 2 ss., Cost. - una predeterminazione delle
singole categorie di imprese, in relazione alle quali debbano essere stipulati
i contratti collettivi (cfr. Cassazione, Sezioni unite, 2665/1997) e, più in
generale, essere intrattenute le cosiddette relazioni industriali.
Ne consegue che il principio
costituzionale consacrato dall'art. 39 Cost. rende insindacabile l'eventuale
intento di associazioni di nuova costituzione di promuovere una rappresentanza
di interessi che non segua le linee organizzative della rappresentanza dei
lavoratori conformate dalle categorie.
2.3. Né l'ipotesi del sindacato
"non categoriale" o "intercategoriale", è riconducibile al modulo della
confederazione sindacale.
Quest'ultima, infatti, non solo
associa organizzazioni sindacati di varie categorie, ma si caratterizza anche
per il fatto di lasciare a queste ultime la tutela e la rappresentanza dei
lavoratori nei confronti delle singole imprese, nonché l'attività
concorrenziale nei confronti delle singole contrapposte organizzazioni di
categoria. Ed è questa la ragione precipua per cui le confederazioni sono
carenti di legittimazione a ricorrere ex art. 28 Statuto dei lavoratori, non
diversamente dai sindacati di una diversa categoria: si configura, infatti, il
difetto del requisito dell'interesse alla repressione della condotta
sindacale, menzionato da detta norma (cfr. Cassazione 7368/1997, e 6058/1998,
secondo cui sono privi di legittimazione ex art. 28 gli organismi locali delle
confederazioni sindacali, in quanto non incardinati in un sindacato di
categoria nazionale e privi di interesse, non rientrando nei loro compiti
istituzionali la tutela di una specifica categoria).
2.4. Il carattere
intercategoriale dell'associazione sindacale, tuttavia, qualche specifico
riflesso può avere in tema di accertamento dell'adeguata diffusione della
medesima sul territorio nazionale. Sulla base del principio, ricavabile dalla
stessa giurisprudenza costituzionale sopra citata, secondo cui, ai fini della
legittimazione al ricorso ex art. 28 Statuto dei lavoratori, è necessaria la
presenza di un sindacato dotato di un minimo di rappresentatività non limitata
ad una dimensione locale, ma diffusa nel territorio nazionale, là dove si
rinviene la categoria di riferimento del sindacato stesso (così Cassazione
7368/1997, cit.; cfr. anche Cassazione 10114/1990, cit., che parla di
requisito della diffusione del sindacato sul territorio nazionale), in linea
di principio i limiti minimi di presenza sul territorio di un sindacato
intercategoriale devono ritenersi, in termini assoluti, più elevati di quelli
richiesti a un'associazione di categoria. Tuttavia, in sede applicativa, tale
affermazione deve essere correlata con il principio secondo cui la
rappresentatività richiesta dall'art. 28 Statuto dei lavoratori costituisce,
come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di quello della
maggiore rappresentatività; e comunque, vi è stato al riguardo un accertamento
del giudice del merito non specificamente censurato.
2.5. Come già osservato, ai fini
della legittimazione di un organismo sindacale locale, è necessario che lo
stesso sia effettivamente un'articolazione di associazione nazionale.
Affinché si possa ritenere
sussistente, al di là dei variabili moduli organizzativi, un rapporto di tale
genere, l'associazione nazionale deve svolgere effettivamente un'azione
sindacale per la promozione degli interessi dei lavoratori in favore dei quali
si dirige, sul piano locale, l'azione dei singoli organismi territoriali. In
altre parole, non può rilevare qualunque associazione tra organismi sindacali
meramente locali, ancorché in qualche modo funzionale al perseguimento dei
fini sindacali dei singoli gruppi, perché in questo caso sarebbe chiaramente
eluso il requisito dell'esistenza di un'associazione sindacale adeguatamente
rappresentativa in quanto nazionale, e non si verificherebbero i presupposti
per quella selezione degli interessi garantita da un'organizzazione non
meramente locale.
L'individuazione degli organismi
locali delle associazioni nazionali legittimati ad agire per il procedimento
di repressione della condotta antisindacale deve desumersi dagli statuti
interni delle associazioni stesse, dovendosi fare riferimento alle strutture
che detti statuti ritengono maggiormente idonei alla tutela degli interessi
locali.
2.6. In base al complesso delle
considerazioni svolte, non sono fondate le critiche alla sentenza impugnata
relative alla parte in cui ha riconosciuto - a seguito della lettura dello
Statuto del S.IN.COBAS e di un puntuale accertamento di fatto in ordine alla
diffusione territoriale dell'azione sindacale - all'organizzazione ricorrente
la natura di "organismo locale di associazione sindacale nazionale",
escludendo la presenza di associazione di secondo livello rispetto ad altre
associazioni (i comitati di base).
3. In ordine logico, merita esame
prioritario il terzo motivo di ricorso, con il quale si denuncia violazione e
falsa applicazione degli artt. 1260 ss. c.c. e 39, comma 1, Cost., nonché
insufficiente ed erronea motivazione.
3.1. La società ricorrente
sostiene l'inutilizzabilità del negozio di cessione del credito, che non
richiede il concorso della volontà del debitore ceduto, in relazione a
fattispecie di cessioni generalizzate di piccole parti di crediti futuri e con
previsione di un termine di efficacia (nel caso, triennale): a) per il
notevole aggravamento degli oneri e dei rischi del debitore, non certamente
resi marginali per l'operatività in azienda delle deleghe sindacali previste
dal c.c.n.l., secondo un sistema nettamente differenziato; b) per
l'incompatibilità tra negozio traslativo del credito e revocabilità
dell'adesione e contribuzione al sindacato; c) per la modificazione dei
contenuti dell'obbligazione, diventando creditore della retribuzione un
soggetto diverso dal lavoratore e mutando il luogo dell'adempimento; d) per la
nullità derivante da frode alla legge dell'operazione.
4. La Corte, a sezioni unite,
giudica infondato questo motivo di ricorso, in tali sensi componendo il
contrasto tra le sentenze che hanno in precedenza deciso la questione,
ritenendo alcune non utilizzabile l'istituto della cessione del credito per
versare al sindacato le quote associative (Cassazione 1968/2004: 10616/2004),
fornendo altre risposta di segno affermativo e ritenendo altresì antisindacale
il rifiuto di pagamento opposto dal datore di lavoro (Cassazione 3917/2004;
14032/2004).
4.1. Va precisato,
preliminarmente, che alla fattispecie va applicato il regime normativo vigente
fino al 31 dicembre 2004, non rilevando la modificazione del testo dell'art. 1
del d.P.R. 180/1950 (Insequestrabilità, impignorabilità e incedibilità di
stipendi, salari, pensioni ed altri emolumenti), operata dall'art. 1, comma
137, della l. 311/2004, mediante l'aggiunta, nel primo comma, delle parole
«nonché le aziende private», rendendo cosi incedibili, fuori dei casi
consentiti dal medesimo testo normativo (come modificato dall'art. 13-bis del
d.l. 35/2005, convertito in l. 80/2005) anche i compensi erogati dai privati
datori di lavoro ai dipendenti.
Nel regime precedente, infatti,
non si dubitava, stante la regola generale della cedibilità dei crediti, posta
dall'art. 1260 c.c., esclusi soltanto i crediti di carattere strettamente
personale e quelli il cui trasferimento è vietato dalla legge,
dell'ammissibilità della cessione dei crediti retributivi dei lavoratori del
settore privato, non trovando per essi applicazione l'art. 1 del d.P.R.
180/1950 (vedi Cassazione 4930/2003).
4.2. Neppure si è posto in dubbio
che un ostacolo alla cessione della retribuzione potesse derivare dal
carattere parziale e futuro del credito ceduto. La cessione può certamente
avere ad oggetto solo una parte del credito, come si argomenta dal secondo
comma dell'art. 1262 c.c., ed anche crediti futuri, com'è pacifico in
giurisprudenza (Cassazione 8497/1994, 5947/1999, 7162/2002).
4.3. Va senz'altro disattesa la
tesi del negozio in frode alla legge, come hanno ritenuto, del resto, tutte le
sentenze che si sono occupate della questione.
Si è correttamente osservato che
l'abrogazione referendaria dell'art. 26, commi 2 e 3, Statuto dei lavoratori,
non ha certo determinato un "vuoto" nella regolamentazione della materia, ma -
come precisato dalla Corte costituzionale in relazione all'intento dei
promotori (sentenza 13/1995), ha "restituito" all'autonomia contrattuale la
materia già disciplinata dalla legge in termini di prestazione imposta al
datore di lavoro, cosicché resta ammissibile, senza limitazioni, il ricorso a
tutti i possibili strumenti negoziali che consentono di realizzare lo scopo di
versare ai sindacati la quota associativa mediante ritenuta sulla
retribuzione, altrimenti si attribuirebbero all'istituto del referendum non i
soli effetti abrogativi che gli sono propri, ma anche effetti propositivi. Ed
è in effetti questa, nella sostanza, la tesi della società ricorrente: l'esito
referendario avrebbe introdotto nell'ordinamento una regola nuova, in base
alla quale, lo scopo del versamento diretto al sindacato delle quote
associative potrebbe essere realizzato esclusivamente mediante istituti che
richiedano il consenso del datore di lavoro. La tesi, come già posto in
evidenza, è in contrasto con l'essenza esclusivamente abrogativa dell'istituto
e con il risultato perseguito con l'indizione del referendum, da individuare
esclusivamente dell'eliminazione dell'obbligo ex lege a carico del datore di
lavoro.
4.4. Venendo all'oggetto
specifico del contrasto di giurisprudenza, l'istituto della "cessione del
credito" è stato ritenuto non praticabile per raggiungere il suddetto scopo
fondamentalmente per due ragioni.
La prima, contenuta nella
sentenza della Sezione lavoro 1968/2004, è che la cessione del credito, in
generale, non costituisce un autonomo tipo negoziale, coincidendo con lo
schema negoziale di volta in volta idoneo ad operare e a giustificare il
trasferimento; l'ostacolo ad impiegare l'istituto per il pagamento della quota
associativa al sindacato sarebbe da ravvisare nell'incompatibilità strutturale
tra l'impossibilità di una revoca immediata senza il consenso del sindacato
beneficiario (propria dell'istituto della cessione del credito, conformemente
alla sua natura che la connota come una forma di alienazione di diritti) e la
revocabilità immediata dell'atto volontario di contribuzione sindacale
obbligatoriamente discendente dal principio di libertà sindacale ex art. 39
Cost.
4.4.1. Le Sezioni unite ritengono
l'argomentazione non condivisibile.
La specifica disciplina relativa
alla cessione detta si uno schema unitario, che viene ad applicarsi a tutte le
fattispecie traslative del credito, ma senz'altro incompleto: essa si pone
quale correttivo e/o integrazione predisposti, in contemplazione del
particolare oggetto, nei confronti dei singoli negozi causali traslativi. Nel
caso in esame, lo schema si applica ad una cessione per pagamento (solvendi
causa), ed infatti il cedente (lavoratore), in luogo di corrispondere al suo
creditore (associazione sindacale) la prestazione dovuta (quota sindacale),
gli cede in pagamento parte del credito (futuro) che egli ha nei confronti del
debitore ceduto (datore di lavoro).
Ne discende che la causa del
contratto di cessione si determina mediante il collegamento con il negozio al
quale è funzionalmente preordinata, assumendo, quindi, nel caso, una funzione
di assolvimento degli obblighi nascenti dal rapporto di durata originato
dall'adesione associativa. Di conseguenza, se viene meno il rapporto
sottostante, ciò provoca la caducazione della funzione del negozio di
cessione, determinandone l'inefficacia.
In conclusione, la cessione ha
funzione di pagamento della quota sindacale e il pagamento è dovuto dal
lavoratore soltanto finché ed in quanto aderisce al sindacato, in forza di un
contratto dal quale il recesso ad nutum è garantito dai principi inderogabili
di tutela della libertà sindacale del singolo lavoratore. I pagamenti
eventualmente eseguiti dal datore di lavoro successivamente alla "revoca della
delega" (che non è revoca della cessione, come tale inconcepibile, ma
cessazione della sua causa per sopravvenuta inesistenza nel collegamento con
il negozio di base) sono effettuati a soggetto diverso dal creditore ed
avranno effetto liberatorio soltanto se il debitore non ha avuto conoscenza
della cosiddetta "revoca" (art. 1189 c.c.).
4.4.2. La sentenza 1968/2004 si
fonda altresì sull'impossibilità di utilizzare lo strumento della cessione del
credito perché produrrebbe un aggravamento della posizione del debitore.
L'argomento è ripreso e sviluppato dalla sentenza 10616/2004, la quale, anche
mediante il richiamo del principio di correttezza e buona fede, in apparenza
lo eleva ad unica ratio decidendi. Si diceva in apparenza, perché il complesso
delle considerazioni svolte nella motivazione suscita l'impressione che
rilievo precipuo sia conferito all'esito referendario, insistendosi
nell'osservare che ammettere l'istituto della cessione del credito finirebbe,
da una parte, per vanificare l'effetto della soppressione dell'obbligo ex lege
a carico del datore di lavoro, dall'altra, per annullare ogni differenza tra
la condizione dei sindacati firmatari dei contratti collettivi e gli altri non
firmatari.
Ma si è già osservato (n. 4.1)
che questi argomenti non possono influenzare il tema della validità ed
efficacia del contratto di cessione del credito retributivo al sindacato, per
adempiere agli obblighi associativi, se non ipotizzandone la nullità per frode
alla legge, e, quindi, che l'esito referendario abbia introdotto
nell'ordinamento il principio inderogabile del divieto di realizzare il
risultato di imporre al datore di lavoro, senza il suo consenso, di versare al
sindacato quote della retribuzione. Si è già detto, nella sede richiamata,
come sia del tutto arbitrario desumere un tale principio dall'effetto
abrogativo del referendum, limitato alla soppressione di un obbligo ex lege,
senza interferire minimamente sull'apparato degli strumenti negoziali a
disposizione di tutti i soggetti dell'ordinamento.
4.4.3. Sgomberato il campo da
ogni indebito condizionamento dell'indagine, si deve ricordare come si ammetta
comunemente che, in caso di cessione del credito, l'obbligazione del debitore
possa subire alcune modifiche (tra queste quella, non certo marginale, del
luogo di adempimento). Ma il limite della non esigibilità di una modificazione
eccessivamente gravosa, da identificare in concreto con l'applicazione del
precetto di buona fede e correttezza (art. 1175 c.c.), non riguarda la
validità e l'efficacia del contratto di cessione del credito, ma soltanto il
piano dell'adempimento, del pagamento. Ne segue che l'eccessiva gravosità può
giustificare l'inadempimento, fino a quando il creditore non collabori a
modificarne in modo adeguato le modalità, onde realizzare un giusto
contemperamento degli interessi. Ovviamente, a norma dell'art. 1218 c.c., è il
debitore che deve provare la giustificatezza dell'inadempimento.
Nel caso concreto, anche
prescindendo dagli accertamenti compiuti dal giudice del merito, le censure
mosse sul punto alla sentenza impugnata si mantengono su livelli di totale
genericità. In sostanza, ci si limita ad affermare che l'organizzazione in
atto per riscuotere le quote sindacali sulla base delle clausole del contratto
collettivo applicato in azienda non era idonea ad essere impiegata anche per
dare esecuzione alle cessioni, ma senza alcuna specificazione delle
differenze. In ogni caso, il giudizio di merito circa il "modesto"
aggravamento della posizione debitoria non è validamente contestato, siccome
non sono dedotti fatti che, sottoposti al vaglio della Corte di Torino, non
sono stati valutati, o valutati insufficientemente, ovvero in modo illogico.
5. Va ora esaminato il secondo
motivo del ricorso, con il quale è denunciata violazione e falsa applicazione
dell'art. 28 della l. 300/1970, erronea motivazione circa l'estraneità della
controversia rispetto alla nozione di condotta antisindacale.
Si sostiene che, anche ammessa
l'esistenza di una fattispecie di inadempimento imputabile all'azienda, non
era tuttavia configurabile comportamento antisindacale, perché la titolarità
da parte del sindacato dei crediti ceduti era estranea alla sfera di libertà e
di attività tutelate dall'art. 28 Statuto dei lavoratori, un'estraneità
direttamente derivante dall'esito referendario.
5.1. Anche questo motivo non può
essere accolto.
Il rifiuto ingiustificato del
datore di lavoro di eseguire i pagamenti configura un inadempimento che, oltre
a rilevare sotto il profilo civilistico, costituisce anche condotta
antisindacale, in quanto oggettivamente idonea a limitare l'esercizio
dell'attività e dell'iniziativa sindacale. L'effetto del rifiuto è quello di
privare i sindacati che non hanno stipulato i contratti collettivi della
possibilità di percepire con regolarità la fonte primaria di sostentamento per
lo svolgimento della loro attività e posti in una situazione di debolezza, non
solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche delle altre organizzazione
sindacali con cui sono in concorrenza.
5.2. A ben vedere, la ricorrente
non contesta tanto la presenza di un inadempimento qualificato dall'idoneità
ad incidere in modo recessivo sull'attività del sindacato, quanto la
possibilità giuridica di ritenere che il diritto di riscuotere quote
associative nella qualità di creditore cessionario del credito retributivo
possa ascriversi all'attività sindacale tutelata dall'art. 28 Statuto dei
lavoratori. Ciò sarebbe precluso, ad avviso della ricorrente, dall'esito
referendario, che, sopprimendo l'obbligo di collaborazione del datore di
lavoro, non consente di tutelare il diritto acquistato con altri strumenti dal
sindacato, in assenza del consenso del datore di lavoro, quale attività
sindacale ai sensi e per gli effetti dell'art. 28 Statuto dei lavoratori.
5.3. Osserva la Corte che un tale
ordine di argomentazioni ripete, sostanzialmente immutata, la tesi già
disattesa nell'esame del terzo motivo. Ed infatti, si pretende di desumere
dall'esito referendario il precetto secondo il quale è antisindacale soltanto
l'inadempimento di obblighi assunti volontariamente dal datore di lavoro nei
confronti dei soggetti sindacali, non anche l'inadempimento di obblighi
derivanti da fonti negoziali che non ne contemplano il consenso.
Non resta, quindi, che rinviare
alle considerazioni già svolte per escludere che lo strumento della cessione
del credito per riscuotere quote sindacali possa reputarsi nulla per frode
alla legge; si ribadisce che, scomparso l'obbligo legale, tutti gli strumenti
negoziali possono essere impiegati per realizzare risultati, non certo
identici o analoghi, ma, al più, equivalenti. E ciò stabilito, l'inadempimento
del datore di lavoro che incide sull'attività sindacale in senso proprio
concreta in tutti i casi condotta antisindacale, senza che possa in alcun modo
rilevare la fonte dell'obbligo medesimo.
Una considerazione conclusiva si
impone: il referendum ha lasciato in vigore il primo comma dell'art. 26
Statuto dei lavoratori, che protegge i diritti individuali dei lavoratori
concernenti l'attività sindacale per quanto attiene, in particolare, alla
raccolta dei contributi: stipulare con il sindacato i contratti di cessione di
quote della retribuzione costituisce una modalità di esercizio dei detti
diritti; il rifiuto del datore di lavoro di darvi corso, lungi dal concretare
un mero illecito civilistico, opera una compressione dei diritti individuali e
di quelli del sindacato.
6. Per le ragioni esposte il
ricorso va rigettato, Sussistono, evidenti, giusti motivi per compensare le
spese del giudizio.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite,
rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso
in Roma 24 novembre 2005 (depositato il 21 dicembre 2005)
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