- Danno
patrimoniale e non patrimoniale - Danno morale soggettivo, danno biologico
e danno esistenziale - Natura ontologicamente autonoma - Il loro distinto
risarcimento non concretizza duplicazioni, pur dovendosi operare una
valutazione in un contesto complessivo, laddove scaturenti dallo stesso
fatto illecito o comportamento ingiusto.
-
-
L’evoluzione giurisprudenziale più significativa in tema di danno non
patrimoniale è recentissima. Con due sentenze depositate il medesimo giorno
(31 maggio 2003 nn. 8828, che indica le soluzioni proposte, e 8827 che, su
questi temi, richiama e fa proprie le argomentazioni dell’altra sentenza)
la terza sezione civile di questa Corte ha ribadito innanzitutto come non
possa più essere ricondotto, il concetto di danno non patrimoniale, al mero
danno morale soggettivo e ha interpretato l’articolo 2059 in esame nel
senso che «il danno non patrimoniale deve essere inteso come che categoria
ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla
persona». Ha ritenuto che una lettura costituzionalmente orientata
dell’articolo 2059 Cc imponga di ritenere inoperante il limite posto da
tale norma «se la lesione ha riguardato valori della persona
costituzionalmente garantiti» ed in particolare i diritti inviolabili
dell’uomo riconosciuti e garantiti dall’articolo 2 della Costituzione.
- Il
giudice civile di legittimità sembra propendere per un concetto unitario di
danno non patrimoniale e ritiene non proficuo «ritagliare all’interno di
tale generale categoria specifiche figure di danno etichettandole in vario
modo: ciò che rileva, al fini dell’ammissione al risarcimento, in
riferimento all’articolo 2059, è l’ingiusta lesione di un interesse
inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di
valutazione economica». In questa ottica le sentenze citate della terza
sezione evitano di fare espresso riferimento al danno esistenziale ma
l’esame dei casi presi in considerazione conferma che i danni accertati
erano riferiti a questo tipo di danno (in un caso riguardavano la perdita
del rapporto parentale; nell’altro lo sconvolgimento delle abitudini dei
genitori conseguente alle gravissime lesioni subite dal figlio ridotto allo
stato vegetativo) perché si riferivano a casi che la precedente
giurisprudenza, anche di legittimità, collocava tra i danni di natura
esistenziale.
- Il
danno morale è da intendere come danno morale soggettivo, consistente
nella sofferenza psicologica o nel turbamento transitorio dello stato
d'animo provocato dal fatto illecito, è stato svincolato - ai fini del
suo riconoscimento - dalla ricorrenza del reato, sia da Cass. n. 8827 e
8828/2003 sia da Corte cost. n. 233/2003, nell'ottica di una
interpretazione dell'art. 2059 c.c. costituzionalmente
aggiornata.
- La
nozione di danno biologico è frutto di elaborazione giurisprudenziale (ma
recentemente ha trovato significative conferme a livello legislativo con
l’entrata in vigore del D.Lgs 38/2000 e della legge 57/2001) ed è
costituito dalla compromissione, di natura areddituale, dell’integrità
psicofisica della persona. Generalmente è ritenuto necessario che a questa
compromissione si accompagni una perdita o riduzione di funzioni vitali,
anche non definitiva.
- Sul
punto della collocazione teorica del danno biologico deve rilevarsi che la
qualificazione come danno non patrimoniale data dal giudice della
riparazione appare del tutto corretta e confermata dalla giurisprudenza di
legittimità. La lesione del bene giuridico tutelato non necessariamente
comporta un pregiudizio di natura patrimoniale: chi vive esclusivamente di
investimenti finanziari potrà continuare a farlo, e a percepire i medesimi
introiti, anche se ha subito un gravissimo incidente che ne provoca
l’immobilità. Per converso un danno biologico modesto (per es. una
lesione permanente ad una mano) potrà provocare un danno economico
rilevantissimo ad un affermato pittore o ad un noto pianista. Ma, in
quest’ultimo caso, il danno economico andrà risarcito autonomamente come
riduzione della capacità lavorativa (in questo caso specifica) e non come
danno biologico che troverà un suo autonomo risarcimento (ma taluni, come
si è già accennato, preferiscono usare, per il danno non patrimoniale e
quindi anche per il danno biologico, il termine riparazione).
- Fermo restando che il danno biologico è un danno
di natura non patrimoniale, e come tale va considerato, il fondamento della
tutela deve però rinvenirsi nell’articolo 2059 Cc e non nell’articolo
2043; e questa impostazione è stata autorevolmente accolta anche dalla
Corte costituzionale che, investita per l’ennesima volta della questione
di costituzionalità dell’articolo 2059 Cc, ha, con la sentenza 233/03,
condiviso integralmente il mutamento giurisprudenziale del giudice di
legittimità sul danno non patrimoniale e ha espressamente affermato la
natura non patrimoniale del danno biologico tutelabile attraverso la tutela
fornita dall’articolo 2059 Cc che, proprio in conseguenza di questa
interpretazione costituzionalmente orientata, si è salvato ancora una volta
dalla dichiarazione di incostituzionalità.
- Questa
Corte non condivide le preoccupazioni che tramite la dilatazione delle
figure di danno non patrimoniale si estenderebbe in modo abnorme una
forma di responsabilità per sua natura dai contorni generici ed
indefiniti, giacché a) anche il danno non patrimoniale richiede pur
sempre l'ingiustizia (oltreché l'elemento soggettivo e il rapporto di
causalità), b) il risarcimento del danno non patrimoniale avviene per
lesione di interessi meritevoli di tutela con il parametro
costituzionale (addirittura, se il riferimento è all'art. 2, con la
sola considerazione dei diritti inviolabili). Insomma ingiustizia del
danno e valori costituzionali valgono sufficientemente a selezionare i
danni meritevoli di tutela riparatoria, anche se provocati
nell'esercizio di attività legittime (ma con conseguenze ingiuste)
rispetto a quelli "bagatellari" (es. danno da vacanza
rovinata).
- Il danno esistenziale è
ricollegato ad un peggioramento non temporaneo della qualità della vita del
danneggiato con un conseguente mutamento radicale delle sue abitudini, dei
suoi rapporti personali e familiari. Sulla natura, presupposti e fondamento
del danno esistenziale la dottrina è divisa...mentre la
giurisprudenza è sempre più orientata a ritenere ammissibile la
riparazione del danno esistenziale e questo percorso è da ritenere
confermato dalle citate sentenze 8828 e 8827 e da quella della Corte
costituzionale n. 233 (quest’ultima, a differenza delle altre due, fa
esplicito riferimento anche al danno esistenziale).
- Quanto
al danno esistenziale non è condivisibile la critica di fondo contenuta nei
due ricorsi che, sostanzialmente, lamentano che, con il riconoscimento del
danno esistenziale, si opererebbe un’indebita duplicazione risarcitoria
con il danno biologico. Questa duplicazione non esiste perché il danno
esistenziale è cosa diversa dal danno biologico e non presuppone alcuna
lesione fisica o psichica, né una compromissione della salute della
persona, ma si riferisce ai già indicati sconvolgimenti delle abitudini di
vita e delle relazioni interpersonali provocate dal fatto illecito. Si
vedano gli esempi esaminati, e già accennati, nelle sentenze 8827 e 8828.
- Neppure
appare corretta l’affermazione, contenuta nell’ordinanza impugnata,
secondo cui il danno morale soggettivo, non risarcibile per la ragione
indicata, sarebbe di fatto assorbito dal danno esistenziale perché, anche
con questa affermazione, si confonde la natura delle due tipologie di danno:
il danno morale soggettivo (pati) si esaurisce nel dolore provocato
dal fatto dannoso, è un danno transeunte di natura esclusivamente
psicologica; il danno esistenziale (non facere ma anche un facere obbligato
che prima non esisteva), pur avendo conseguenze di natura psicologica, si
traduce in cambiamenti peggiorativi permanenti, anche se non sempre
definitivi, delle proprie abitudini di vita e delle relazioni
interpersonali.
-
- La
Corte osserva
- I)
Premessa. La Corte d’appello di Genova, con ordinanza 6 febbraio 2003, ha
accolto la domanda di riparazione dell’errore giudiziario proposta da
Barillà Daniele che, con sentenza 17 luglio 2000 della Corte d’appello di
Genova, non impugnata, era stato definitivamente assolto con la formula
"per non aver commesso il fatto" da reati, concernenti il traffico
illecito di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti, per i quali era
stato in precedenza condannato alla pena, divenuta definitiva, di anni
quindici di reclusione e lire 150.000.000 di multa, con sentenza 7 dicembre
1993 del Tribunale di Livorno parzialmente confermata dalla sentenza 1°
dicembre 1994 della Corte d’appello di Firenze (che aveva soltanto ridotto
la pena); quest’ultima decisione era divenuta definitiva a seguito della
sentenza 25 ottobre 1996 della Corte di cassazione.
- A
seguito di questa vicenda Barillà, aveva subito una detenzione, prima
cautelare e poi in espiazione di pena, pari ad anni sette, mesi cinque e
giorni dieci.
- La
Corte genovese, dopo aver nominato due periti per l’accertamento delle
conseguenze di natura psico fisica della detenzione (con particolare
riguardo ai riflessi sulla capacità lavorativa) e di quelle di natura
reddituale derivanti dalla cessazione dell’attività d’impresa in
precedenza svolta dall’istante, ha determinato l’entità della
riparazione (dopo avere nelle more liquidato una somma a titolo di
provvisionale) nella somma complessiva di euro 3.947.994,00, oltre alle
pronunzie accessorie (interessi decorrenti dal 1° gennaio 2003, spese di
difesa, spese della procedura ecc.).
- Contro
questo provvedimento hanno proposto distinti ricorsi (in gran parte di
identico contenuto) l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Genova e il
Pg presso la Corte d’appello della medesima Città deducendo vari motivi
di ricorso (che verranno di seguito analiticamente esaminati) riferibili ai
criteri utilizzati dalla Corte di merito per la determinazione dell’entità
della riparazione. Ha resistito il difensore di Barillà con memorie con le
quali ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi e comunque
il loro rigetto.
- Il
Pg presso questo Ufficio ha concluso chiedendo il parziale accoglimento dei
ricorsi.
- II)
Questioni preliminari. Con la memoria datata 10 novembre 2003, e depositata
presso questo Ufficio il giorno successivo, il difensore di Barillà ha
contestato l’ammissibilità dei ricorsi sotto diversi profili che vanno
separatamente esaminati.
- a)
La prima eccezione di inammissibilità si riferisce alla natura dei motivi
posti a sostegno dei ricorsi. Si sostiene, nella memoria, che i ricorrenti
avrebbero in realtà censurato esclusivamente i dati di fatto presi in
considerazione dalla Corte di merito per stabilire l’entità della
riparazione ma questa censura non rientrerebbe tra quelle consentite
dall’articolo 606 comma lo Cpp perché diretta ad una rivalutazione degli
elementi di prova acquisiti dal giudice di merito.
- Il
motivo deve peraltro essere ritenuto infondato perché, se se è vero che al
giudice di legittimità non è consentito rivalutare il compendio probatorio
acquisito e preso in considerazione dal giudice di merito, è altrettanto
vero che rientra nel controllo di legittimità devoluto alla Corte di
cassazione verificare innanzitutto l’esistenza della motivazione e poi la
correttezza delle argomentazioni logiche che il giudice di merito ha
utilizzato al fine di controllare se egli sia incorso in mancanza o
manifesta illogicità della motivazione. Naturalmente quanto più ampi siano
i poteri discrezionali del giudice (per es. proprio in tema di valutazione
equitativa dell’indennizzo) tanto minori saranno i poteri di sindacato del
giudice di legittimità ma non per questo può ritenersi che venga meno il
potere dovere di verifica del corretto esercizio dei poteri in esame.
- b)
Sotto un diverso profilo nella memoria si eccepisce l’inammissibilità del
ricorso del Pg che sarebbe privo della legittimazione attiva qualora, come
nella specie, si discuta soltanto della quantificazione della somma dovuta a
titolo di indennizzo perché in questo caso la scelta di contestare la somma
liquidata sarebbe riservata al contradditore naturale, cioè al ministero
dell’Economia e delle finanze, mentre il Pm non avrebbe interesse
all’impugnazione non ‘potendosi sostituire alle scelte negoziali delle
parti private.
- Ma
anche questa tesi è priva di fondamento: il Cpp non pone infatti, in
generale, alcun limite al potere di impugnazione del Pm e, allorquando ha
voluto limitare questo potere rispetto a quelli conferiti alle parti
private, lo ha espressamente precisato (v. articolo 443 comma 30 Cpp). Ciò
del resto è conforme alla disciplina ordinamentale del Pm che (articolo 73
Rd 30 gennaio 1941, ordinamento giudiziario) "veglia alla osservanza
delle leggi" e quindi ha una competenza di carattere generale, e non
limitata, anche per questioni che riguardano rapporti tra parti private che
concernono comunque l’applicazione di leggi aventi riflessi pubblicistici
e che sarebbe quindi illogicamente amputata seguendo l'interpretazione
proposta. Del resto questo è il senso dell’intervento del Pm in tutta una
serie di cause civili normativamente previste e in tutte le cause civili
davanti alla Corte di cassazione.
- Né,
può negarsi, come fa la difesa Barillà, che l’interesse sia concreto (e
non generico ed astratto come sostiene la difesa Barillà) perché,
contestando i criteri utilizzati dal giudice di merito per la liquidazione
dell’indennizzo, il Pg ha posto in discussione la corretta applicazione,
nel caso concreto, della disciplina di liquidazione dell’indennizzo dovuto
per la riparazione dell’errore giudiziario e non ha inteso semplicemente
riaffermare astrattamente principi dalla cui violazione non sia derivata
alcuna lesione effettiva del pubblico interesse di riferimento.
- Errata
è infine la tesi secondo cui la materia della riparazione (dell’errore
giudiziario o dell’ingiusta detenzione) sia devoluta esclusivamente alle
scelte negoziali delle parti private come è dimostrato dalla scelta
legislativa di consentire la liquidazione non per autonoma scelta del
ministero ma solo in esito al giudizio di riparazione la cui decisione
conclusiva ha natura costitutiva del diritto (v. Cassazione, Su, 14/2001,
Caridi).
- c)
La terza eccezione di inammissibilità, formulata in relazione ad entrambi i
ricorsi, riguarda invece un’asserita acquiescenza che vi sarebbe stata da
parte di entrambi i ricorrenti. Tacita da parte del Pg che mai avrebbe
interloquito nel corso del procedimento di riparazione svoltosi davanti alla
Corte d’appello; espressa da parte dell’Avvocatura dello Stato che, in
più occasioni, avrebbe dichiarato di non opporsi all’accoglimento della
domanda e di rimettersi alla valutazione del giudice per quanto riguarda la
determinazione del quantum dovuto.
- Va
in contrario rilevato che, anche ammessa la possibilità (ma soprattutto la
rilevanza: il giudice della riparazione ben potrebbe respingere la domanda
cui il Ministero avesse prestato adesione) dell’ acquiescenza in un
rapporto di tipo pubblicistico quale quello in esame, questo comportamento
passivo va valutato in relazione alle evidenze disponibili e quindi
all’esistenza dei presupposti per la liquidazione dell’indennizzo,
all’assenza di cause ostative quali il dolo o la colpa, all’esistenza
astratta del diritto; non certo in relazione a quanto non è stato ancora
accertato e quindi sia da considerare allo stato privo di giuridico rilievo,
se non inesistente, e possa sorgere solo con la pronunzia del giudice.
Insomma sembra del tutto ovvio che rimettersi alla decisione del giudice in
merito alla determinazione della somma dovuta non corrisponde ad accettare
preventivamente l’entità della riparazione, poi determinata in concreto,
anche se con un giudizio a posteriori non si condivideranno i criteri
utilizzati a tale fine.
- V’è
un’ulteriore ragione per non attribuire rilievo di acquiescenza al
comportamento dell’Avvocatura. È principio ormai indiscusso (fin dalla
decisione delle sezioni unite di questa Corte 6 marzo 1992, Ministero del
Tesoro C. Fusilli, in Cassazione penale, 2035/92) che il procedimento
relativo alla riparazione per l’ingiusta detenzione che ha la medesima
natura del procedimento per la riparazione dell’errore giudiziario ha per
vari aspetti natura civilistica; da ciò consegue che la ripartizione delle
spese di lite va effettuata in base al principio della soccombenza di cui
all’articolo 91 del Cpc.
- Questo
principio trova certamente piena attuazione nel caso in cui il procedimento
in questione assuma carattere contenzioso; il che avviene quando
l’amministrazione si opponga all’accoglimento della domanda anche
soltanto in relazione al "quantum" richiesto. Ma, nel caso in cui
l’Amministrazione non ritenga neppure di costituirsi in giudizio ovvero,
pur essendosi costituita, non si opponga all’accoglimento della domanda,
il procedimento conserva natura (se non di volontaria giurisdizione)
certamente non contenziosa. In questo caso il ministero del Tesoro (adesso
ministero dell’Economia e delle finanze) è contradditore necessario di
chi ha proposto l’istanza sol perché, come si è in precedenza accennato,
non ha la possibilità, al di fuori della sede giurisdizionale prevista
dalla legge, di liquidare la somma dovuta per la riparazione (cfr. in questo
senso Cassazione, sezione quarta, 9 maggio 1996, Citarella, in Cassazione
penale, 1838/97).
- Ne
consegue un interesse specifico dell’Avvocatura quando non ritenga di
contestare i presupposti per il riconoscimento della riparazione consistente
nella necessità di assumere un comportamento processuale che valga ad
evitare la condanna del ministero al pagamento delle spese di lite quando
ritenga equa la quantificazione dell’indennizzo. Ma ciò non può certo
significare la rinunzia ad impugnare la decisione che travalichi invece i
limiti di quello che la parte ritiene equo.
- Del
tutto privi di rilievo sono poi, per i fini che interessano, i comportamenti
processuali che nella memoria vengono indicati a conferma dell’asserita
acquiescenza. Trattasi, in realtà, di comportamenti idonei a fondare il
consenso solo per quanto riguarda gli aspetti procedimentali
dell’accertamento (nomina dei periti, criteri indicati ai medesimi,
formulazione dei quesiti ecc.) mentre la mancata contestazione del rilievo
della documentazione prodotta e la mancata opposizione alle richieste
dell’istante non significano certo rinunzia a far valere il dissenso in
ordine ai risultati del procedimento valutativo del giudice ma possono
assumere esclusivamente valore di accettazione della genuinità della
documentazione prodotta (e neppure della sua rilevanza) e della correttezza
del procedimento probatorio seguito dal giudice.
- d)
Manifestamente infondata è l’ultima eccezione con la quale si lamenta,
deducendo la violazione dell’articolo 581 Cpp, che i ricorrenti si
sarebbero limitati a chiedere l’annullamento dell’ordinanza impugnata
senza precisare se si tratti di annullamento con rinvio o senza rinvio e
senza delineare il principio di diritto al quale il giudice di rinvio, nel
primo caso, dovrebbe attenersi. Ma anche questa eccezione è palesemente
infondata perché il thema decidendum dell’impugnazione è stato
ampiamente delineato dai ricorrenti con l’esposizione dei motivi di
ricorso e con la richiesta di annullamento dell’ordinanza impugnata.
Stabilire, in relazione all’eventuale accoglimento dei motivi, il tipo di
annullamento e formulare, se del caso, il principio di diritto spetta al
giudice di legittimità e non a chi il provvedimento ha impugnato.
- III)
Formazione del giudicato parziale. La difesa di Barillà ha chiesto che si
dia atto della formazione del giudicato per alcune voci dell’indennizzo
che non sono state contestate con i motivi di ricorso (perdita
dell’autovettura cointestata, vendita della casa di abitazione, spese per
trattamenti medici); per queste statuizioni la richiesta appare corretta
perché si tratta di voci che non formano oggetto delle censure contenute
nei ricorsi.
- Non
altrettanto può dirsi in relazione alle spese di lite liquidate dalla Corte
di merito; la condanna alle spese è infatti conseguente alla decisione
definitiva sul merito della causa per cui diverrebbe definitiva con il
rigetto o l’inammissibilità dei ricorsi ma, in tutta evidenza, un
annullamento anche parziale con rinvio (e a maggior ragione un annullamento
senza rinvio) porrebbe in discussione anche questa statuizione direttamente
ricollegata alla decisione definitiva sulla pretesa dell’istante;
d’altro canto l’Avvocatura ricorrente, nel chiedere l’annullamento
dell’ordinanza impugnata, ha aggiunto la richiesta di "ogni
conseguenziale pronuncia" che può essere legittimamente intesa come
riferita anche alla liquidazione delle spese tra le parti.
- IV)
Le censure di carattere generale. I ricorsi del Pg e dell’Avvocatura
distrettuale sono, come si è detto, largamente sovrapponibili per cui gli
identici motivi di ricorso saranno sintetizzati ed esaminati congiuntamente.
- I
ricorrenti censurano innanzitutto l’ordinanza della Corte genovese sia in
merito ai criteri utilizzati nella ripartizione dell’onere della prova sia
per quanto riguarda i criteri di valutazione delle risultanze peritali.
- In
particolare nei ricorsi ci si duole:
- con
il primo motivo (con cui si denunzia la violazione degli articoli 115 Cpc,
127 e 645 Cpp) della circostanza che i giudici della riparazione avrebbero
recepito acriticamente le risultanze delle perizie disposte senza tener
conto della circostanza che l’istante non aveva provato di aver percorso
altre strade al fine di pervenire alla liquidazione dell’azienda.
L’unica circostanza che potrebbe ritenersi provata è quella che
l’istante non era in grado di provvedere personalmente alla liquidazione
dell’azienda ma non certo che non potesse farlo per mezzo di un
procuratore o del socio familiare;
- con
il secondo motivo (riferito alla violazione degli articoli 62, 115, e 198
Cpc, 645 e 646 Cpp) della circostanza che il perito contabile, violando i
limiti dell’incarico conferitogli, abbia esteso i suoi accertamenti con
l’assunzione di informazioni (presso i committenti di Barillà, le
associazioni di categoria, altre aziende svolgenti attività analoga)
compiendo quindi un’indagine non autorizzata dal giudice. Ciò renderebbe
invalida la perizia perché svolta con modalità tali da alterare i criteri
di ripartizione dell’onere della prova e senza che venisse garantito il
contraddittorio tra le parti; il compito del perito non è infatti quello di
ricercare le prove ma di fornire al giudice elementi di giudizio per la
valutazione delle prove acquisite. In ogni caso difetterebbe, nel
provvedimento impugnato, ogni motivazione sulle ragioni che hanno indotto la
Corte a condividere le conclusioni del perito contabile che sarebbero state
invece acriticamente accolte;
- con
il terzo motivo (che denunzia la violazione degli articoli 314, 315, 645 e
646 Cpp) si sostiene che l’istituto della riparazione dell’errore
giudiziario deve ritenersi ispirato ai medesimi criteri di equità previsti
per la riparazione dell’ingiusta detenzione con la conseguenza che, pur
non essendo previsto per l’errore giudiziario un tetto massimo, a
differenza dell’ingiusta detenzione, la somma liquidata non potrebbe
discostarsi, in modo rilevante e irragionevole, da quella prevista per
l’ingiusta detenzione essendo identico il bene della vita tutelato.
- Il
Pg presso questo ufficio ha ritenuto infondate tutte queste critiche
chiedendo il rigetto dei motivi in cui sono state espresse e la Corte
condivide questa valutazione.
- Sui
criteri di ripartizione dell’onere della prova deve escludersi che la
Corte di merito abbia violato i principi stabiliti dalla legge in materia.
Riservato l’esame della censura che si riferisce all’avvenuta
liquidazione dell’azienda alla valutazione dei motivi relativi a questo
argomento si osserva che l’istante ha provato i fatti costitutivi della
domanda (condanna, revisione, detenzione ed espiazione della pena) e ha
documentato in larga parte i danni effettivamente subiti. I giudici, che
hanno ritenuto di applicare criteri risarcitori e non indennitari, hanno
disposto due perizie per fondare l’accertamento dei danni su valutazioni
tecnicamente adeguate e non di parte.
- Le
critiche dei ricorrenti (che non contestano l’utilizzazione del criterio
risarcitorio) sembrano denunziare una violazione dei principi sulla
ripartizione della prova che la legge pone a fondamento del processo civile
ma dimenticano che nel processo civile il giudice è dotato (articolo 115
Cpc) di ampi poteri officiosi nella disponibilità delle prove, sia pure nei
soli casi previsti dalla legge, peraltro numerosi ed incisivi
(interrogatorio non formale delle parti: articolo 117; ispezione di persone
e di cose: articolo 118; nomina di consulente tecnico: articolo 191;
richiesta d’informazioni alla Pa: articolo 213; assunzione di testi de
relato: articolo 257 ecc.).
- Se
quindi dovessero integralmente applicarsi al procedimento per la riparazione
dell’errore giudiziario i principi del processo civile non per questo
sarebbe sottratto al giudice ogni potere istruttorio al fine di verificare
l’esistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda una volta
provati i fatti costitutivi della medesima. Si pensi, in particolare, al
potere di richiedere d’ufficio informazioni alla pubblica amministrazione
o di disporre una consulenza tecnica d’ufficio (perizia, in questo caso,
dovendosi applicare le norme del processo penale) per comprendere come, al
di là dell’iniziativa delle parti, siano attribuiti anche al giudice
civile (in questo caso al giudice della riparazione) i più ampi poteri per
acquisire tutte le informazioni e la documentazione necessarie al fine di
decidere (anche) il quantum della riparazione.
- Ma
v’è di più: come questa sezione ha più volte sottolineato (v. da ultimo
sentenza 2815 dell’11 maggio 2000, Salamone) il procedimento per la
riparazione (i precedenti sono riferiti all’ingiusta detenzione ma
pacificamente applicabili anche alla riparazione a seguito di revisione),
pur essendo ispirato ai principi del processo civile, si riferisce pur
sempre ad un rapporto obbligatorio di diritto pubblico; dal che non può non
discendere un rafforzamento dei poteri officiosi del giudice che può quindi
fondare la sua decisione su atti diversi da quelli prodotti dalle parti,
purché conosciuti o conoscibili, eventualmente attraverso la richiesta di
cui all’articolo 116 Cpp.
- Quanto
alla violazione del contraddittorio i ricorsi sono parimenti infondati. Va
premesso, su questo punto, che il perito commercialista nominato dalla Corte
ha acquisito informazioni al fine di accertare il valore dell’azienda che
Barillà è stato costretto a dismettere a causa della imprevista
carcerazione sofferta presso importanti aziende del settore motociclistico
(l’azienda di Barillà svolgeva attività di assemblaggio di materiale
elettrico per motocicli per conto di due imprese non più esistenti), presso
aziende che svolgono attività di cablaggio elettrico per motocicli e presso
un’associazione di categoria di queste aziende.
- Orbene
l’acquisizione di questo tipo di informazioni rientra pienamente nei
poteri del perito ed è espressamente prevista dall’articolo 228 comma 30
Cpp in questa parte certamente applicabile non esistendo alcuna
incompatibilità con la procedura della riparazione. Va ancora osservato che
il perito era stato autorizzato, all’udienza del 30 gennaio 2002, «ad
accedere presso uffici e stabilimenti pubblici e ad acquisire copia dei
documenti ivi reperiti in particolare presso gli istituti carcerari presso
cui il Barillà è stato detenuto e ospedali presso cui è stato ricoverato,
uffici fiscali, camera di commercio».
- Ma,
accertato che non vi è stato alcun travalicamento del perito dall’ambito
dei suoi poteri, va aggiunto che neppure può ritenersi sussistente alcuna
violazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova
perché sia il Pg che l’Avvocatura distrettuale non hanno esercitato il
diritto di nominare un loro consulente tecnico, che avrebbe potuto
partecipare alle operazioni peritali (articolo 230 comma 2° Cpp), e
comunque non hanno chiesto l’assunzione di mezzi di prova o provveduto a
compiere le indagini e gli accertamenti eventualmente ritenuti utili per
contrastare l’esito degli accertamenti svolti dal perito i quali, oltre
tutto, non hanno valore di prova incontestabile ma costituiscono elementi di
conoscenza, posti a disposizione del giudice per la sua autonoma
valutazione, ai quali le parti possono contrapporre altri elementi di
conoscenza.
- In
definitiva, su questo punto: non può lamentare la violazione del principio
del contraddittorio la parte che, pur avendo a disposizione i mezzi
processuali necessari per controllare la formazione della prova, di fatto
non se ne avvalga.
- Resta
da esaminare la censura che si riferisce all’adesione acritica, che
sarebbe stata fatta dalla Corte di merito, alle conclusioni peritali. Ma
anche questa doglianza è infondata perché la Corte di merito, anche con
l’esame comparato delle valutazioni compiute dai due consulenti di parte
(quelli di Barillà), con l’integrazione tra i risultati delle due perizie
(in particolare nel calcolo del danno derivante dalla riduzione della
capacità lavorativa) e in assenza di specifiche contestazioni, nella fase
di merito, delle singole voci di danno ha mostrato di aver recepito le
conclusioni dei periti, in particolare del perito commercialista, dopo aver
vagliato criticamente le conclusioni adottate anche se queste sono state di
fatto accolte integralmente. Anzi, poiché alcune parti della motivazione
consistono nel mero rinvio alle relazioni dei periti (in particolare a
quella del commercialista), i vizi di motivazione denunziati dovranno essere
conseguentemente valutati con l’esame delle argomentazioni del perito alle
cui argomentazioni è stato fatto rinvio per relationem.
- V)
Principi generali in tema di riparazione. Come è comunemente riconosciuto
la riparazione per l’errore giudiziario, come quella per l’ingiusta
detenzione, non ha natura di risarcimento del danno ma (e qui il consenso è
meno univoco) di semplice indennità o indennizzo in base a principi di
solidarietà sociale per chi sia stato ingiustamente privato della libertà
personale o ingiustamente condannato. L’origine solidaristica della
previsione dei due casi di riparazione non esclude però che ci si trovi in
presenza di diritti soggettivi qualificabili di diritto pubblico cui si
contrappone, specularmente, un’obbligazione dello Stato da qualificare
parimenti di diritto pubblico.
- Il
criterio seguito dalla legge e diretto ad escludere una tutela obbligata di
tipo risarcitorio risponde ad una precisa finalità: se il legislatore
avesse costruito la riparazione dell’errore giudiziario, o dell’ingiusta
detenzione, come risarcimento dei danni avrebbe dovuto richiedere, per
coerenza sistematica, che il danneggiato fornisse non solo la dimostrazione
dell’esistenza dell’elemento soggettivo, fondante la responsabilità per
colpa o per dolo, nelle persone che hanno agito ma anche la prova
dell’entità dei danni subiti. Ciò si sarebbe peraltro posto in un quadro
di conflitto con l’esigenza (fondata non solo su una precisa disposizione
della nostra Costituzione articolo 24 comma 4° ma anche sull’articolo 5
comma 5° della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e
sull’articolo 9 n. 5 del Patto internazionale dei diritti civili e
politici) di garantire un adeguato ristoro a chi sia stato comunque
ingiustamente condannato o privato della libertà personale senza
costringerlo a defatiganti controversie sull’esistenza dell’elemento
soggettivo di chi aveva agito e sulla determinazione dei danni.
- Se
la scelta del legislatore è condivisibile deve però rilevarsi come essa
non sia scevra da inconvenienti. Il primo è costituito dalla circostanza
che il significato di indennità e di indennizzo (che peraltro il codice in
questo caso non usa: di qui le opinioni che contestano questa costruzione
teorica) non è utilizzato dal legislatore in senso univoco. In alcuni casi
l’indennità è intesa come un corrispettivo per la perdita o la
limitazione di un diritto; sono i casi di espropriazione, servitù coattive,
occupazioni di fondo altrui (per es. articolo 938 Cc. In altri casi come
prestazione derivante dalla conclusione di un contratto (per es. i casi nei
quali l’assicuratore gode di un limite alla sua responsabilità). In un
terzo gruppo di casi il pregiudizio deriva da una condotta conforme
all’ordinamento che però ha prodotto un danno che deve comunque essere
riparato; alcuni esempi possono trarsi dal codice civile: articolo 2045 (indennità per il danneggiato da chi
abbia agito in stato di necessità), 2047 comma 2° (danno cagionato
dall’incapace), 843 comma 2° (accesso al fondo per costruire o riparare)
ecc..
- La
riparazione per l’errore giudiziario o per l’ingiusta detenzione sembra
avvicinarsi a questa terza specie di indennità, per la quale si è fatto
ricorso alla figura dell’atto lecito dannoso: l’atto è stato infatti
emesso nell’esercizio di un’attività legittima (e doverosa) da parte
degli organi dello Stato anche se, in tempi successivi, ne è stata
dimostrata (non l’illegittimità ma) l’erroneità o l’ingiustizia.
- Un
altro inconveniente del sistema delineato è costituito dalla necessità di
utilizzare, prevalentemente se non esclusivamente, criteri equitativi per la
liquidazione dell’indennizzo. Il giudice, per limitare il margine di
discrezionalità, ineliminabile in questa forma di liquidazione, può
soltanto utilizzare parametri, non previsti normativamente, che valgano a
rendere razionali, trasparenti e non casuali i criteri utilizzati. Si tratta
quindi di verificare, in questa ottica, se possano essere utilizzati per la
liquidazione dell’indennizzo anche criteri normativi previsti per la
liquidazione del danno.
- La
necessità di utilizzare criteri equitativi non è esclusa, nel caso della
riparazione dell’errore giudiziario, dall’eliminazione dell’aggettivo
l’equa, che qualificava la riparazione e che più non compare nel 1°
comma dell’articolo 643 Cpp a differenza di quanto previsto
dall’articolo 571 dell’abrogato codice di rito e dal vigente articolo
314 in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione. Dottrina e
giurisprudenza sono infatti concordi nel ritenere che il mancato espresso
richiamo all’equità sia privo di concreta rilevanza, come confermato
anche dalla relazione al progetto preliminare del codice, essendo
ineliminabile l’uso di criteri equitativi per determinare in concreto, con
la successiva traduzione in termini monetari, le conseguenze dell’ingiusta
condanna.
- Il
mancato richiamo all’equità da parte dell’articolo 643 può però
consentire di affermare che non è inibito al giudice della riparazione fare
riferimento anche a criteri di natura risarcitoria che possono validamente
contribuire a restringere i margini di discrezionalità inevitabilmente
esistenti nella liquidazione di tipo esclusivamente equitativo. E infatti in
dottrina si è affermato che «attraverso la procedura di riparazione
dell’errore giudiziario, la vittima può in definitiva ottenere la
liquidazione dei danni provocati dall’ingiusta condanna». Più di un
autore, d’altra parte, ha ravvisato nella riparazione per l’errore
giudiziario una componente indennitaria e una risarcitoria, quasi si
trattasse di un tertium genus rispetto alle due forme di ristoro.
- In
conclusione, su questo punto, deve ritenersi corretto il procedimento
(peraltro non posto in discussione dai ricorrenti) seguito dalla Corte
genovese laddove ha applicato criteri risarcitori ai danni, patrimoniali e
non patrimoniali, subiti da Barillà limitando il criterio equitativo alle
voci di danno non esattamente quantificabili seguendo un criterio già
adottato da altre Corti di merito (v., per es. App. Palermo 15 febbraio
2000, in Foro it., 2001, 11, 41) in contrapposizione ad altre decisioni (si
veda in particolare App. Perugia 24 gennaio 1996, in Giur. it., 1996, 366)
che hanno invece utilizzato un criterio esclusivamente equitativo con una
liquidazione globale di tutte le conseguenze dell’errore giudiziario
(procedimento, peraltro, da ritenersi parimenti corretto ove il giudice di
merito abbia comunque dato adeguato conto dei criteri seguiti nella
liquidazione, ancorché di natura esclusivamente equitativa, e questi
criteri non appaiano manifestamente illogici).
- Deve
però rilevarsi e qui il discorso completa le osservazioni in precedenza
espresse in merito all’eccezione di inammissibilità dei ricorsi formulata
dalla difesa dell’istante nella memoria difensiva che, come nella
liquidazione esclusivamente equitativa il giudice di merito deve esplicitare
i criteri o parametri utilizzati che rendano la sua decisione logicamente
motivata e trasparente, ancorché fondata esclusivamente sull’equità, a
maggior ragione il giudice che ritenga di utilizzare i criteri risarcitori
deve procedere con il rispetto delle regole civilistiche applicabili al
risarcimento del danno. Non potrebbe quindi il giudice della riparazione,
dopo aver optato per il criterio risarcitorio, liquidare danni che in base
alla disciplina applicabile ai danni civili non siano ritenuti risarcibili o
con criteri confliggenti con tali regole; ferma restando la possibilità di
applicare criteri equitativi per la liquidazione di un danno che non può
essere provato nel suo preciso ammontare (articoli 1226 e 2056 comma lo Cc).
- Per
concludere sui criteri generali di liquidazione della riparazione per
l’errore giudiziario va ora esaminata l’eccezione, formulata da entrambi
i ricorrenti (per la verità con poca convinzione), sulla sostanziale
applicabilità alla somma liquidata a titolo di riparazione per l’errore
giudiziario, quanto meno come termine di riferimento, del tetto massimo per
la riparazione per l’ingiusta detenzione. Il rilievo è manifestamente
infondato ove si considerino non solo l’eccezionalità della previsione di
un tetto ma, soprattutto, la diversità della natura del titolo privativo
della libertà personale nell’ingiusta detenzione (un titolo provvisorio
soggetto a verifiche successive e assistito dalla presunzione di non
colpevolezza) rispetto alle conseguenze, di ben altro rilievo, provocate da
una condanna non più soggetta ad impugnazione e atta a rimuovere
l’indicata presunzione (sulla inapplicabilità del ricordato
"tetto" alla riparazione per l’errore giudiziario v. Cassazione,
sezione quarta, 532/94, Moroni).
- VI)
Danno patrimoniale. L’ordinanza impugnata ha esaminato separatamente le
conseguenze di natura patrimoniale rispetto a quelle di carattere non
patrimoniale e appare opportuno seguire il medesimo criterio nell’esame
delle censure proposte al fine di verificare se la Corte di merito si sia
attenuta a corretti criteri logico giuridici per la determinazione delle
singole voci di danno.
- a)
Perdita dell’attività commerciale. Barillà, all’epoca dell’arresto
(13 febbraio 1992), era titolare di una ditta artigiana che svolgeva attività
di assemblaggio di materiale elettrico per motocicli fin dall’ottobre
1989. La Corte ha determinato in lire 65.000.000, sulla scorta degli
accertamenti svolti dal perito, il reddito riferibile all’anno 1991; ha
elaborato questo reddito secondo le prospettive di sviluppo per gli anni
successivi con un incremento annuo del 5 % e ha stabilito un reddito medio
ponderato annuo che può variare, a seconda dei criteri utilizzati, da lire
75.800.000 a lire 81.750.000. Partendo da quest’ultima somma, ritenuta
reddito medio annuale, e applicando per un periodo di dieci anni un tasso di
attualizzazione della rendita del 15 %, il perito, con valutazione condivisa
dalla Corte genovese, ha fissato in lire 784.287.308 il valore
dell’azienda alla data del 31 dicembre 1991 detraendo la somma di lire
33.000.000 che Barillà, è riuscito a realizzare.
- Il
perito ha poi capitalizzato la somma indicata al 31 dicembre 2001,
applicando il tasso medio di rendita dei titoli pubblici del 7,50 %,
pervenendo alla somma di lire 1.630.000.000 come determinazione del danno
complessivo derivante dalla perdita dell’azienda (in questa somma è
compresa la perdita di lire 40.000.000, nella misura attualizzata,
conseguente alla vendita della casa di abitazione ad un prezzo inferiore a
quello di mercato). La somma complessiva indicata è stata attualizzata al
31 dicembre 2002 con una maggiorazione del 4,78 % corrispondente alla
rendita attuale dei titoli pubblici e determinata definitivamente in Euro
888.247,00.
- Il
Pg e l’Avvocatura ricorrenti denunziano la mancanza e la manifesta
illogicità della motivazione sotto diversi profili:
- -
l’ordinanza. impugnata non avrebbe considerato che la perdita
dell’azienda era dovuta ad un atteggiamento passivo ed inerte
dell’istante che, sia pure detenuto, avrebbe potuto attivarsi per la
liquidazione della medesima invece di lasciarla morire;
- - i
giudici di merito non avrebbero spiegato perché un’attività artigiana,
iniziata da poco più di due anni e riguardante beni di nessun pregio
tecnologico, fosse soggetta ad espansione, tanto più che le imprese
committenti non sono più esistenti e le capacità imprenditoriali di Barillà
sono soltanto affermate ma non dimostrate;
- -
non si sarebbe tenuto conto della circostanza che la ditta di Barillà era
cointestata con la cognata e l’ordinanza impugnata non avrebbe considerato
che il Ctu aveva quantificato l’apporto personale di Barillà in misura
pari ad un terzo del reddito complessivo prodotto dall’impresa;
- -
priva di motivazione sarebbe la decisione di considerare l’esistenza di un
reddito non contabilizzato senza che venisse addotta alcuna prova (se non le
dichiarazioni dell’interessato) a fondamento di una maggior redditività
rispetto a quella fiscalmente dichiarata (lire 15.210.000 nel 1989 e lire
14.242.000 nel 1990) e con l’applicazione, al fine. di calcolare il
reddito medio ponderato, di un coefficiente annuo di incremento pari al 5%
determinato in via del tutto congetturale e contraddetto dall’evoluzione
dimostrata nei due anni per i quali è stata presentata la dichiarazione dei
redditi (1990 e 1991) che dimostravano addirittura un decremento di
redditività;
- - la
sola Avvocatura ricorrente lamenta poi l’illogicità dei criteri
utilizzanti per determinare il valore del danno derivante dalla perdita del
patrimonio dell’impresa (con particolare riferimento ai criteri non
esplicitati e non giustificati in alcun modo con cui è stato determinato il
valore di realizzo dei beni in leasing e dei beni residui) e l’inesistenza
della prova delle spese eccezionali incontrate per la repentina cessazione
dell’attività;
- -
illogico sarebbe poi aver determinato un ulteriore incremento della somma
stabilita per determinare il valore dell’azienda (assumendo che, se la
medesima fosse stata liquidata al 31 dicembre 1991, l’istante avrebbe
potuto impiegare la somma ricavata in titoli di stato) senza che si fossero
verificati i presupposti di fatto ipotizzati.
- Il
Pg presso questo ufficio, in merito alle censure riassunte, ha chiesto che
venissero accolte solo quelle relative alla mancata considerazione, da parte
della Corte d’appello, della circostanza che Barillà non era l’unico
titolare dell’azienda e all’inesistenza di motivazione sulla
attualizzazione del credito non in base al tasso d’interesse corrente ma
in base ad un impiego maggiormente remunerativo senza che sia stata indicata
alcuna ragione a fondamento di questa scelta.
- Le
censure proposte contro la determinazione del valore dell’azienda cessata
sono solo in parte fondate.
- Va
premesso che di seguito verranno esaminate, ovviamente, solo le censure
formulate dai ricorrenti restando esclusi i punti sui quali i medesimi non
hanno manifestato alcun dissenso.
- E
innanzitutto infondata la critica che si riferisce alla scelta di Barillà
di "lasciar morire" l’azienda invece di liquidarla e ricavarne
un ben più sostanzioso prezzo di vendita. La censura, che implicitamente
richiama la violazione dell’articolo 1227 comma 2° Cc, appare
inammissibile (perché riguarda una valutazione di merito motivatamente
compiuta dal giudice della riparazione) e comunque non fondata perché il
giudice di merito ha adeguatamente argomentato non solo sull’impossibilità
(ovvia, ma neppure i ricorrenti la pongono in discussione) per Barillà, di
seguire l’attività d’impresa, eventualmente per mezzo di una terza
persona, stante la natura artigianale dell’attività svolta personalmente
dall’istante, ma altresì sull’estrema difficoltà, in considerazione
del suo stato di detenzione, che egli avrebbe comunque incontrato per cedere
o liquidare ad un prezzo congruo l’azienda incaricando terze persone di
questo incombente. Affermazione certamente esente da vizi logici o giuridici
che la esonerano dal sindacato di legittimità.
- Le
stesse considerazioni possono farsi in merito alle censure, rivolte dalla
sola Avvocatura all’ordinanza impugnata, che si riferiscono alla
determinazione del valore del danno derivante dalla perdita del patrimonio
dell’impresa del quale fu possibile realizzare solo la somma di lire
33.000.000. È vero che su questo punto la motivazione dell’ordinanza è
mancante ma è altrettanto vero che il rinvio alla perizia consente di
ritenere che alle considerazioni in questo atto contenute si sia fatto
riferimento; e l’esame di esse permette di affermare che questi valori
siano stati ragionevolmente accertati con motivazione in parte del tutto
adeguata (quella dei beni in leasing) e in altra parte sufficiente; il che
rende, anche per questa parte, incensurabile in sede di legittimità il
relativo accertamento non potendosi ritenere mancante la motivazione.
- Sono
invece fondate le altre censure rivolte dai ricorrenti al provvedimento
impugnato sotto il profilo dei criteri utilizzati per la determinazione del
reddito d’impresa al fine di accertare il valore dell’impresa
prematuramente cessata e (nei limiti di cui si dirà) quelle relative alla
ripartizione del valore dell’azienda e del reddito tra i soci della
medesima.
- Sul
primo punto va rilevata la manifesta illogicità della motivazione contenuta
nell’ordinanza impugnata. Occorre premettere che questa Corte non ritiene
che il contenuto della dichiarazione dei redditi costituisca un ostacolo
insuperabile all’accertamento di un reddito superiore a quello fiscalmente
dichiarato in tutti ì casi in cui l’interessato abbia un interesse in tal
senso, come quello in esame. L’affermazione di una preclusione in tal
senso presupporrebbe (oltre che l’applicazione esclusiva di principi
processualcivilistici) la possibilità di inquadrare la dichiarazione dei
redditi nell’istituto della confessione stragiudiziale e l’affermazione
che la dichiarazione dei redditi essendo diretta al medesimo soggetto (il
ministero dell’Economia e delle finanze) che oggi è contradditore del
dichiarante ha la stessa efficacia probatoria della confessione giudiziale
(articolo 2735 comma lo Cpp).
- Sembra
peraltro più ragionevole, in considerazione delle diverse vesti funzionali
che assume il medesimo ministero, nell’ambito degli adempimenti tributari
e quale contradditore nel procedimento per la riparazione, ritenere la
dichiarazione una confessione stragiudiziale che può essere liberamente
apprezzata dal giudice, del resto in armonia con la natura del procedimento
di riparazione disciplinato dal codice di rito penale che rifiuta la stessa
esistenza di prove legali (compresa la confessione).
- Ma
di questo libero apprezzamento nell’ordinanza impugnata non v’è
traccia. I giudici di merito hanno recepito integralmente e acriticamente
una ricostruzione di natura induttiva fondata su mere supposizioni e in
assenza di qualsiasi elemento atto ad intaccare la fondatezza delle notizie
contenute nelle dichiarazioni dei redditi presentate dal contribuente. S’è
detto che il giudice, ai fini che interessano, può ricostruire il flusso
reddituale in modo diverso da quanto risulta dalle dichiarazioni dei redditi
ma deve pur sempre fondare questo diverso accertamento su elementi di fatto
obiettivi idonei, se non a dimostrare, a rendere ragionevolmente credibile
lo scostamento tra reddito prodotto e reddito dichiarato.
- Oorbene
il provvedimento impugnato non solo non dà alcun conto di questi elementi
dai quali possa dedursi, sia pure in via induttiva, tale scostamento ma
addirittura ne indica diversi di segno contrario. In particolare la
circostanza che l’azienda era stata appena avviata; la natura
tecnologicamente modesta delle lavorazioni; la chiusura delle aziende
committenti; il decremento del reddito dichiarato nel secondo anno
d’attività. Trattasi di elementi tutti contrastanti con le ipotesi
ricostruttive del reddito reale e di espansione dell’attività d’impresa
formulate dal perito che, difatti, le ha elaborate con riferimento al
settore motociclistico in generale e quindi senza alcun riferimento al
settore specifico e, soprattutto, senza alcun riferimento all’azienda di
Barillà; e con un’ulteriore apodittica previsione di riemersione del
reddito occultato che non trova alcun elemento di conferma.
- Non
compete certamente al giudice di legittimità rivalutare gli elementi di
giudizio presi in considerazione dai giudici di merito. In questa sede è
solo possibile verificare la manifesta illogicità di una ricostruzione che,
in presenza di elementi inidonei a fondare la valutazione di produzione di
maggior reddito (oltre tre volte quello dichiarato) non indica alcun
elemento di supporto idoneo a fondare questo giudizio e non prende in alcuna
considerazione, come si è detto, quelli, tutti di segno contrario, pur
esistenti e ritenuti provati. Un accertamento induttivo di questo tipo
effettuato in malam partem (nei confronti del contribuente) da un ufficio
finanziario non reggerebbe al vaglio di qualunque commissione tributaria.
- Ma
v’è un ulteriore errore metodologico contenuto nella perizia richiamata
dall’ordinanza impugnata. Il perito ha così calcolato il reddito
complessivo, al lordo dell’imposizione fiscale, prodotto dall’impresa
nell’anno 1991 attribuendo alle persone che contribuivano alla formazione
del reddito le seguenti quote di contributo alla sua formazione: lire
30.000.000 al suo titolare; lire 20.000.000 al collaboratore familiare; lire
40.000.000 agli altri collaboratori.
- Orbene
mentre le quote al titolare e al collaboratore costituiscono quote di
reddito dell’impresa familiare, e possono quindi essere utilizzate al fine
di ricostruire la potenzialità economica dell’impresa, lo stesso non può
dirsi per i compensi ai collaboratori (che neppure vengono indicati) che
invece costituiscono costi per l’impresa. Certamente la disponibilità di
collaboratori, siano essi dipendenti o lavoratori autonomi, può costituire
un dato utilizzabile per la determinazione del valore dell’azienda
(secondo i criteri utilizzati, per es., nella determinazione dei parametri
reddituali per i fini fiscali) ma ciò che non è certamente possibile è
trasformare un costo in un reddito.
- Solo
parzialmente fondata è invece la censura che si riferisce alla ripartizione
del reddito tra Barillà e il socio familiare Favorido Miriam. Anche in
questo caso il dato fattuale, peraltro non contestato dalle parti, risulta
dalla relazione peritale (più volte richiamata dall’ordinanza della Corte
di merito) dalla quale emerge (pag. 15) che il «reddito risulta
integralmente assegnato al titolare malgrado l’impresa familiare con la
cognata Favorido Miriam risulti essere stata costituita con scrittura a
firma autenticate dal Notaio Elefante in data 5 dicembre 1990 (all. 11)».
- Le
ragioni per le quali il reddito sia stato integralmente attribuito al
titolare non vengono spiegate dal perito e questa circostanza non è stata
presa in alcuna considerazione dall’ordinanza impugnata pur essendo stata
richiamata nella medesima con il rinvio alla relazione. Non può quindi il
giudice di legittimità ricostruire la volontà delle parti private della
società familiare richiedendo questa operazione una valutazione di merito
(in particolare l’interpretazione di un contratto che risulta essere
allegato alla relazione del perito) tra l’altro resa difficoltosa dalla
non chiara formulazione degli accordi in precedenza riportati.
- Su
questo punto la difesa di Barillà si è ampiamente diffusa, nella seconda
memoria di replica, con argomentazioni largamente condivisibili sulla natura
dell’impresa familiare ritenuta impresa individuale con un solo titolare.
Questa ricostruzione dell’impresa familiare è corretta anche alla luce
della giurisprudenza civile di legittimità che ha sempre ritenuto che
questa forma di impresa appartenga esclusivamente al suo titolare (v.
Cassazione, sezione lavoro, 9897/03; 1917/99; 8959/92) che solo ha la
qualifica di imprenditore e al quale spettano i poteri di gestione e di
organizzazione del lavoro (v., oltre alla sentenza 1917 citata, sezione
lavoro 10412/95).
- Peraltro
l’articolo 230bis Cc attribuisce al socio familiare la partecipazione agli
utili dell’impresa familiare in proporzione alla quantità e qualità del
lavoro prestato; dal che consegue che al titolare dell’impresa familiare
non può essere attribuita l’intera quota di reddito se il socio familiare
ha contribuito alla sua formazione; tanto è vero che l’articolo 230bis Cc
prevede che le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli
incrementi sono adottate da tutti i familiari che partecipano all’impresa
(v., su questo punto, Cassazione, sezione seconda civile, 11689/99).
- Da
questa complessa disciplina possono trarsi le seguenti conclusioni sul caso
in esame: il valore complessivo dell’azienda dismessa deve essere valutato
tenendo conto anche del contributo del socio familiare ma poiché
l’azienda appartiene al titolare l’intero valore va a lui attribuito. È
vero che il socio familiare ha diritto, nel caso di alienazione
dell’azienda, alla liquidazione del suo diritto di partecipazione
(articolo 230bis comma 4°) ma ciò può comportare esclusivamente il
diritto del socio familiare di ottenere la liquidazione della sua quota nel
caso di alienazione. Insomma l’impresa e l’azienda sono uniche e
appartengono al titolare; il socio familiare, oltre ad aver diritto ad una
quota del reddito prodotto, ha diritto di ottenere dall’unico titolare la
liquidazione del suo diritto di partecipazione nel caso di cessazione
dell’impresa o di liquidazione dell’azienda, ma ciò si risolve
nell’ambito di un rapporto di debito credito tra titolare e socio
familiare e non intacca il principio dell’unità dell’impresa e della
sua titolarità esclusiva in capo alla persona fisica del titolare.
- L’attribuzione
del valore dell’intera impresa al titolare Barillà, deve quindi ritenersi
corretta (salvo il ricalcolo del suo valore tenendo conto di quanto già
evidenziato). Invece anticipando l’esame delle censure che si riferiscono
alla diminuzione della capacità di lavoro poiché dal reddito
dell’impresa familiare il titolare deve detrarre la quota corrisposta al
socio familiare nel calcolo della capacità di guadagno del titolare non può
prendersi in considerazione l’intero reddito dell’impresa familiare
perché questo reddito non corrisponde, ed è superiore, a quello di cui
gode effettivamente il titolare.
- Il
giudice del rinvio dovrà quindi compiere un accertamento ulteriore sulla
natura del patto intervenuto tra le parti e sulla quota di partecipazione
del socio familiare agli utili con la conseguente detrazione di questa
percentuale di reddito da quello preso in considerazione ai fini della
determinazione della capacità di Barillà di produrre reddito.
- Infine
deve ritenersi fondata anche la censura che si riferisce alla
capitalizzazione della somma di lire 751.287.000 (comprensiva della perdita
dell’attività d’impresa e del danno derivante dalla vendita della casa
di abitazione) effettuata dal perito, con criterio acriticamente recepito
dal giudice della riparazione, che ha applicato il tasso medio di rendita
dei titoli pubblici (pari al 7,50 %). A parte il rilievo che questo
rendimento, essendo annualmente determinabile, non poteva essere calcolato
come media tra i diversi anni deve rilevarsi che la Corte di merito ha
implicitamente applicato il disposto dell’articolo 1224 Cc e ciò ha fatto
correttamente trattandosi di obbligazione pecuniaria.
- Non
poteva però la Corte applicare il disposto del 2° comma dell’articolo
1224 in esame perché il maggior danno (sostitutivo e non aggiuntivo degli
interessi legali) rispetto alla misura degli interessi legali può essere
liquidato solo nel caso in cui il creditore ne dimostri l’esistenza. E,
nel caso di specie, questa prova, a quanto risulta dall’ordinanza
impugnata, non è stata sicuramente fornita neppure in via presuntiva
(facoltà peraltro fortemente limitata in base ai più recenti orientamenti
della giurisprudenza civile di legittimità).
- b)
Spese di difesa. La Corte d’appello ha liquidato per tale titolo la somma
di Euro 206.582,75 (corrispondente a 400 milioni di lire) ritenendo la somma
richiesta dall’istante "congrua e liquidabile in via equitativa".
I ricorrenti lamentano l’irrazionalità di questa statuizione rilevando
che i compensi in esame (compresi quelli che l’istante afferma essere
stati corrisposti ad un’agenzia di investigazioni private) o sono stati
effettivamente corrisposti e in tal caso dovranno essere integralmente
rimborsati ma previa produzione della necessaria documentazione o non lo
sono state e in questo caso è irragionevole liquidarle equitativamente.
- Secondo
il Pg presso questo Ufficio non sarebbe necessaria la prova dell’avvenuto
pagamento perché comunque il ricorrente sarebbe debitore delle somme
vantate da difensori e investigatori. Solo la contestazione delle singole
poste potrebbe formare oggetto del giudizio di legittimità.
Osserva la Corte che, effettivamente, la soluzione accolta dal giudice di
merito presenta aspetti di manifesta illogicità. Non sono anzitutto
condivisibili le conclusioni su questo punto del Pg presso questa Corte.
L’istante ha dichiarato di aver pagato difensori e investigatori privati e
non di essere rimasto loro debitore; è conforme alla disciplina
risarcitoria utilizzata dal giudice di merito, quindi, affermare la necessità
che i pagamenti vengano documentati o, quanto meno, che la statuizione si
fondi su prove idonee a dimostrare l’avvenuto pagamento.
- Deve
infatti essere ribadito che non è possibile, in relazione alla medesima
voce di danno, combinare i criteri equitativo e risarcitorio. Scelta la via
risarcitoria il criterio equitativo assume carattere residuale ma
esclusivamente per quei danni di cui sia certa l’esistenza ma che non
possono essere provati nel loro preciso ammontare. Il che, evidentemente,
non si verifica nel caso in esame nel quale i compensi pagati ben possono
essere documentati con regolari fatture o, quanto meno, con dichiarazioni di
coloro che hanno effettuato le prestazioni o con altri mezzi di prova idonei
a dimostrare l’avvenuto pagamento (tali non sono certamente le fatture
"pro forma" prodotte dall’istante perché non documentano
l’avvenuto pagamento che l’istante afferma essere avvenuto).
- c)
Riduzione della capacità lavorativa. La Corte di merito, sulla scorta delle
conclusioni del secondo perito nominato, ha ritenuto che Barillà, «ha
contratto in conseguenza della vicenda giudiziaria e carceraria
un’invalidità permanente e una inabilità al lavoro pari al 70%». E per
questo titolo, prendendo a riferimento il reddito prodotto prima della
carcerazione, rivalutato al 1999, ha determinato in lire 57.120.000
all’anno la perdita reddituale; ha moltiplicato per 34 questa somma
considerando gli anni (26) fino all’età pensionabile e, aggiungendo 8
anni per integrazioni contributive previdenziali corrispondenti alla forzata
omissione contributiva per gli anni dal 1991 al 1999, è pervenuto alla
liquidazione di una somma complessiva, per tale titolo, pari a Euro
1.003.000,00.
- I
ricorrenti, con identiche considerazioni, lamentano che il danno accertato
dal perito in realtà si riferisca non alla capacità lavorativa ma al danno
biologico anche perché Barillà è riuscito a reimpiegarsi in una nuova
attività lavorativa e lo stesso perito, secondo i ricorrenti, escluderebbe
una perdita della capacità lavorativa. L’errore concettuale nel quale
sarebbe incorsa l’ordinanza impugnata è la corrispondenza tra invalidità
accertata e la conseguente incapacità lavorativa mentre è noto che ad
un’invalidità permanente non corrisponde una percentualmente uguale
riduzione della capacità lavorativa generica e di quella specifica.
- In
realtà, secondo i ricorrenti, la Corte avrebbe liquidato all’istante la
somma indicata a titolo di "lucro cessante" senza peraltro che vi
fosse la prova dell’effettiva riduzione della capacità di produrre
reddito anche perché la Corte non ha tenuto conto della circostanza che
l’istante attualmente svolge un’attività lavorativa da cui deriva un
reddito che avrebbe dovuto essere detratto da quello accertato per il titolo
in esame «ma si è limitata ad una mera operazione aritmetica assumendo
come fattori il reddito medio accertato al momento dell’arresto e la vita
lavorativa residua (26 anni) aggiungendovi, senza per altro motivare in
merito, altri otto anni per compensare il Barillà della forzata omissione
contributiva».
- Il
Pg presso questo Ufficio ha concluso, su questo punto, dichiarando di
condividere le censure proposte dai ricorrenti contro la liquidazione di cui
trattasi.
- Le
censure sono solo in parte fondate. Innanzitutto va rilevato che,
ovviamente, in sede di rinvio il reddito presunto su cui calcolare il valore
economico della riduzione della capacità lavorativa dovrà essere
rideterminato a seguito del corretto calcolo del reddito prodotto da Barillà
al momento dell’arresto secondo i principi indicati in precedenza. Per
quanto attiene invece alle censure che si riferiscono ai criteri utilizzati
dalla Corte d’appello per la valutazione del danno conseguente alla
riduzione della capacità lavorativa vanno fatte alcune precisazioni.
- La
giurisprudenza civile di legittimità opera una distinzione nell’ambito
delle conseguenze dell’invalidità procurata da atto illecito ritenendo
che quelle inabilità che determinano l’esclusione o la riduzione della
capacità lavorativa specifica, idonea a produrre reddito, vadano risarcite
come danno patrimoniale mentre la riduzione della capacità lavorativa
generica costituisca una componente del danno biologico e vada quindi in
esso considerata.
- In
questo senso si veda la recente Cassazione, sezione terza civile, 2589/02
(per est. in Foro it., 2002,1,2074) che così si esprime: esiste, dal punto
di vista scientifico e medico legale, una fondamentale distinzione tra
invalidità (temporanea o permanente) quale compromissione dell’integrità
e della validità biologica dell’individuo, che è valutata e risarcita
integralmente come danno biologico, ed incapacità (temporanea o permanente)
che riguarda le perdite e i riflessi patrimoniali derivanti dalla momentanea
o definitiva impossibilità, per il soggetto leso, di svolgere la propria
attività lavorativa, ovvero di iniziare in futuro un’attività
lavorativa.
- Orbene,
malgrado la Corte di merito non abbia specificato nella motivazione se la
capacità lavorativa presa in considerazione sia quella generica o quella
specifica, dalle argomentazioni sul punto emerge incontestabilmente che ì
giudici hanno inteso riferirsi a quella specifica perché si fa, nel
provvedimento, più volte richiamo alla capacità lavorativa come
"capacità di produrre reddito"; tanto è vero che viene calcolato
il danno patrimoniale facendo riferimento ai presunti redditi che Barillà
avrebbe potuto produrre se non fosse stato coinvolto nella descritta
vicenda. Non è vero, dunque, che vi sia stata sovrapposizione tra la
riduzione della capacità lavorativa e il danno biologico per cui la censura
deve ritenersi infondata anche se è vero che l’ordinanza impugnata ha
omesso di esplicitare parte del percorso decisionale.
- Né
può parlarsi di duplicazione del risarcimento essendo stato più volte
affermato, dalla giurisprudenza di legittimità, che entrambi i danni devono
essere liquidati e che, solo nel caso di chi non svolga attività produttive
di reddito e non sia in procinto di svolgerle, è escluso il risarcimento
del danno patrimoniale (non di quello biologico): in tal senso v., da
ultimo, Cassazione, sezione terza civile, 8599/01; 13409/01; 239/01.
- La
riduzione della capacità lavorativa generica è stata invece ricompresa
dall’ordinanza impugnata, anche se in modo non del tutto esplicito, nel
danno biologico e questa soluzione deve ritenersi corretta in base ai
principi enunciati. Ed è vero che il perito ha accertato (con motivazione
richiamata per relationem dall’ordinanza impugnata) una riduzione
percentualmente uguale dei due fattori (riduzione della capacità lavorativa
specifica e danno biologico) ma ciò ha fatto motivatamente con
considerazioni (peraltro neppure specificamente oggetto di impugnazione
sotto il profilo indicato) cui l’ordinanza impugnata rinvia e che non
possono essere oggetto del sindacato di legittimità perché congruamente e
logicamente motivate.
- In
ogni caso va ulteriormente ribadito che ben distinti concettualmente sono i
presupposti per accertare la riduzione della capacità lavorativa specifica,
che attiene esclusivamente alla riduzione della capacità reddituale del
soggetto, e ha quindi natura di danno patrimoniale, da quelli utilizzati per
valutare l’esistenza e la consistenza del danno biologico che consiste
invece nella lesione dell’integrità psico fisica della persona,
indipendentemente dalla riduzione reddituale, e del quale si parlerà in
seguito (cfr., nel senso indicato, Cassazione, sezione terza civile,
13126/97; 605/98, entrambe per est. in Resp. civ. e prev., 1998, 363).
- È
quindi vero che la somma è stata liquidata a titolo di "lucro
cessante" ma questa qualificazione appare corretta perché costituisce
la sostanza della riduzione della capacità lavorativa specifica (che può
dar luogo anche a un "danno emergente" nella specie non liquidato
per quegli oneri ai quali il danneggiato deve far fronte per sopperire al
venir meno, totale o parziale, della fonte di reddito: cfr. Cassazione,
sezione terza civile, 2589/02, per est. in Foro it., 2002,1,2074).
- Solo
parzialmente condivisibile è invece la doglianza che si riferisce alla
mancata detrazione, dalla somma liquidata per il titolo indicato (danno
patrimoniale per riduzione della capacità lavorativa specifica), delle
somme percepite per l’attività lavorativa che attualmente Barillà svolge
(peraltro nella seconda memoria il difensore dell’istante afferma che
questa attività dell’istante sarebbe cessata).
- Anche
in questo caso soccorre la giurisprudenza civile di legittimità che ha
affermato che lo svolgimento di un’attività lavorativa idonea a garantire
alla persona parzialmente invalida un reddito identico a quello
precedentemente ricavato dalla medesima attività non consente di ritenere
automaticamente inesistente il corrispondente danno patrimoniale dovendosi
accertare se sia maggiormente usurante la prestazione svolta e se
l’invalidità inibisca comunque futuri miglioramenti dovuti ad
un’intensificazione delle prestazioni (v., riferita ad un caso di lavoro
subordinato ma con principi estensibili al ‘ lavoro autonomo, Cassazione,
sezione terza civile, 15641/02).
- Attenendosi
a questi principi il giudice di rinvio dovrà sottrarre dall’entità di
quanto dovuto per il titolo in esame il reddito eventualmente prodotto
verificando altresì al fine di confermare in tutto o in parte la detrazione
(in questo caso da determinare ovviamente in via esclusivamente equitativa)
dalla somma attribuita a titolo di riduzione della capacità lavorativa
specifica se la produzione del reddito sia riconducibile ad un’usura non
ordinaria delle residue energie lavorative e se l’invalidità inibisca
ulteriori miglioramenti reddituali.
- VII)
Danno non patrimoniale.
- a)
Le statuizioni della Corte di merito e i motivi di ricorso sul danno non
patrimoniale.
- La
Corte d’appello ha liquidato, in base a criteri esclusivamente equitativi,
la somma di Euro 800.000,00 a titolo di danno biologico per la grave
compromissione della salute psico fisica subita da Barillà, a causa
dell’arresto, della carcerazione subita e del processo. Le gravi
conseguenze, causalmente ricollegabili alla vicenda in cui è rimasto
coinvolto Barillà, sono state ritenute accertate in base alla perizia
disposta e a considerazioni svolte dal giudice di merito che ha così
descritto il quadro clinico accertando la presenza di una grave
sintomatologia depressiva con idee di rovina e autosoppressive, accompagnate
da una sorta di ottusità emotiva, tendenza all’isolamento e al pessimismo
morale, disturbi del sonno e dell’adattamento sociale, la presenza di una
sindrome ansiosa con una sintomatologia cefalalgica sovrapposta, la presenza
di un’ideazione persecutoria ben delineata determinata dallo sviluppo di
tematiche di sospettosità e diffidenza.
- I
ricorrenti contestano sia la mancanza di uno specifico quesito al perito per
determinare l’esistenza e la portata del danno biologico sia il criterio
equitativo utilizzato dalla Corte per la liquidazione del danno rilevando
che il danno biologico deve essere espresso in percentuale e deve evitarsi
una sovrapposizione con il danno esistenziale pure liquidato
nell’ordinanza impugnata.
- Sempre
in merito al danno non patrimoniale la Corte ha premesso che non è
liquidabile, a favore dell’istante, alcuna somma a titolo di danno morale
perché l’articolo 2059 Cc limita la risarcibilità del danno morale al
solo caso di fatti costituenti reato mentre la natura non patrimoniale del
danno biologico non ne escluderebbe la risarcibilità ai sensi degli
articoli 32 della Costituzione e 2043 Cc. Ha peraltro affermato la Corte che
esiste un ulteriore danno non patrimoniale risarcibile, costituito dal danno
esistenziale inteso come «peggioramento oggettivo delle condizioni di vita
della vittima in conseguenza di un fatto ingiusto», ha ravvisato i
presupposti per il risarcimento "nelle obbligate rinunce alle proprie
abitudini di vita", e ha liquidato a tale titolo, in via meramente
equitativa, la somma di Euro 1.000.000,00 già indicata.
- I
ricorrenti lamentano, nei confronti della liquidazione per il danno non
patrimoniale, la sostanziale duplicazione della voce di danno costituita dal
danno biologico e rilevano come giurisprudenza e dottrina siano concordi nel
riconoscere la risarcibilità del danno esistenziale nei soli casi in cui
non sia risarcibile il danno morale o non sia risarcibile il danno biologico
ovvero quest’ultimo non sia trasmissibile a terzi perché chi l’ha
subito è deceduto in conseguenza del fatto dannoso. E poiché la Corte ha
riconosciuto l’esistenza del danno biologico nulla avrebbe potuto
liquidare a titolo di danno esistenziale.
- In
merito agli indicati danni non patrimoniali il Pg presso questo Ufficio ha
concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi per quanto attiene alla
liquidazione del danno biologico mentre ne ha chiesto l’accoglimento
relativamente alle censure formulate in merito alla liquidazione del danno
esistenziale.
- b)
Premessa sulla natura del danno non patrimoniale. Sulla valutazione del
danno non patrimoniale vanno fatte alcune premesse di carattere generale
rese necessarie dall’evoluzione giurisprudenziale verificatasi negli
ultimi tempi su questo tema che presenta, indubbiamente, maggiori difficoltà
teoriche e ricostruttive rispetto al danno patrimoniale.
- Tradizionalmente
i danni non patrimoniali erano ritenuti risarcibili nei ristretti limiti
previsti dall’articolo 2059 Cc che, prevedendone il ristoro nei soli casi
previsti dalla legge, limitava la loro risarcibilità alla sola ipotesi in
cui il danno fosse stato cagionato da un reato (articolo 185 comma 20 cod.
penale) perché questo era l’unico caso previsto dalla legge.
- In
tempi più recenti, rispetto all’approvazione del codice
penale, sono state introdotte, con innovazioni legislative, ulteriori
forme di risarcimento di danni non patrimoniali (vengono richiamati, da
dottrina e giurisprudenza, l’articolo 2 legge 117/88, sui danni derivanti
dalla privazione della libertà personale cagionati nell’esercizio delle
funzioni giudiziarie; l’articolo 29 comma 9° legge 675/96 sull’impiego
di modalità illecite nella raccolta di dati personali; l’articolo 44
comma 7° D.Lgs 286/98, per gli atti discriminatori per motivi razziali,
etnici e religiosi; l’articolo 2 legge 89/2001 in tema di mancato rispetto
del termine ragionevole di durata del processo; si aggiunga il disposto
dell’articolo 89 comma 2° Cpc nel caso di espressioni sconvenienti o
offensive contenute negli scritti difensivi).
- L’evidente
iniquità della limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale
alle ipotesi di reato (e alle altre limitate ipotesi via via introdotte dal
legislatore) ha indotto dottrina e giurisprudenza a costruire, in un primo
tempo, ipotesi di danni risarcibili come danni patrimoniali anche in casi
nei quali la lesione patrimoniale era assai poco evidente e comunque poteva
mancare: ci si riferisce in particolare al danno biologico costituito, come
si è detto, dalla lesione dell’integrità psico fisica della persona che
è stato fondato sulla diretta violazione del diritto alla salute e
all’integrità psico fisica della persona, garantito dall’articolo 32
della Costituzione, ma con il richiamo all’articolo 2043 Cc, e non
all’articolo 2059 del medesimo codice, anche dopo che ne è stata
riconosciuta la natura non patrimoniale.
- Più
complesso appare il percorso argomentativo utilizzato per affermare la
risarcibilità del danno esistenziale la cui natura non patrimoniale, a
differenza di quello biologico, è sempre stata indiscussa ma per il quale
era meno agevole rinvenire il fondamento normativo (difatti ancor oggi
importanti orientamenti dottrinari dubitano della risarcibilità, o
riparabilità, del danno esistenziale).
- Questa
tendenza ad ampliare l’ambito di risarcibilità (ma spesso si preferisce
parlare di riparabilità) dei danni non patrimoniali si è manifestata sotto
diversi profili. Innanzitutto si è affermato il concetto, ormai comunemente
condiviso, che il danno non patrimoniale risarcibile non può essere
riduttivamente ricondotto al c.d. "danno morale soggettivo" (che
peraltro né l’articolo 2059 Cc né l’articolo 185 cod. penale
menzionano) cioè alla mera sofferenza psicologica, al patema d’animo, al
turbamento contingente conseguente al fatto illecito riguardando invece
tutte le conseguenze dell’illecito che non sono suscettibili di una
valutazione pecuniaria.
- L’ampliamento
della nozione di danno non patrimoniale oltre la nozione di danno morale
soggettivo ha avuto come prima conseguenza quella di consentire di estendere
la risarcibilità del danno non patrimoniale anche a soggetti diversi dalle
persone fisiche (in questo senso v. Cassazione civile, sezione terza,
2367/00, per est. in Danno e resp. 2000, 490). Non ignora la Corte che nella
giurisprudenza penale di legittimità questi principi siano stati ancor di
recente posti in discussione (v. Cassazione, sezione sesta, 32957/01,
Policella che così si esprime: «non è ravvisabile, come ritenuto dal
giudice del merito, un danno all’immagine, riconducibile al comune, giacché
esso per la sua natura di danno morale, come tale correlabile ad una
sofferenza fisica o psichica è più propriamente riferibile al soggetto
privato danneggiato e non ad un ente della Pa»). È peraltro da rilevare
che la prevalente giurisprudenza penale di legittimità è nel senso accolto
da quella civile (v. Cassazione, sezione prima, 8 luglio 1995, Costioli;
8381/92, Bono; sezione prima, 9105/92, Maggi; sezione prima, 13850/98,
Paticchia) di talché l’orientamento ricordato, anche se più recente,
deve ritenersi isolato.
- Non
è poi privo di significato l’orientamento della giurisprudenza
comunitaria che, dopo avere in più occasioni riaffermato che la
risarcibilità del danno morale costituisce problema riservato alle
legislazioni nazionali, ha - in un caso che potrebbe anche essere
recentemente ritenuto di natura "bagatellare" (quello della
"vacanza rovinata") e che, proprio per questa ragione, conferma la
tendenza espansiva del danno non patrimoniale - affermato la risarcibilità
del danno morale conseguente all’inadempimento delle prestazioni pattuite
dagli organizzatori di viaggi organizzati (v. sentenza della Corte di
giustizia delle comunità europee 12 marzo 2002, causa C-168/00, per est. in
Foro ít., 2002,IV,329).
- Ma
l’evoluzione giurisprudenziale più significativa in tema di danno non
patrimoniale è recentissima. Con due sentenze depositate il medesimo giorno
(31 maggio 2003 nn. 8828, che indica le soluzioni proposte, e 8827 che, su
questi temi, richiama e fa proprie le argomentazioni dell’altra sentenza)
la terza sezione civile di questa Corte ha ribadito innanzitutto come non
possa più essere ricondotto, il concetto di danno non patrimoniale, al mero
danno morale soggettivo e ha interpretato l’articolo 2059 in esame nel
senso che «il danno non patrimoniale deve essere inteso come che categoria
ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla
persona». Ha ritenuto che una lettura costituzionalmente orientata
dell’articolo 2059 Cc imponga di ritenere inoperante il limite posto da
tale norma «se la lesione ha riguardato valori della persona
costituzionalmente garantiti» ed in particolare i diritti inviolabili
dell’uomo riconosciuti e garantiti dall’articolo 2 della Costituzione.
- Il
giudice civile di legittimità sembra propendere per un concetto unitario di
danno non patrimoniale e ritiene non proficuo «ritagliare all’interno di
tale generale categoria specifiche figure di danno etichettandole in vario
modo: ciò che rileva, al fini dell’ammissione al risarcimento, in
riferimento all’articolo 2059, è l’ingiusta lesione di un interesse
inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di
valutazione economica». In questa ottica le sentenze citate della terza
sezione evitano di fare espresso riferimento al danno esistenziale ma
l’esame dei casi presi in considerazione conferma che i danni accertati
erano riferiti a questo tipo di danno (in un caso riguardavano la perdita
del rapporto parentale; nell’altro lo sconvolgimento delle abitudini dei
genitori conseguente alle gravissime lesioni subite dal figlio ridotto allo
stato vegetativo) perché si riferivano a casi che la precedente
giurisprudenza, anche di legittimità, collocava tra i danni di natura
esistenziale.
- Le
considerazioni svolte nelle due sentenze, come è agevole verificare dai
punti sintetizzati, hanno peraltro una portata interpretativa ben più ampia
che consente di esaminare le censure formulate dai ricorrenti sotto il
profilo del danno non patrimoniale.
- c)
L’esame delle censure. Il danno morale soggettivo. Va premesso
che un’affermazione contenuta nell’ordinanza impugnata non può più
essere posta in discussione: quella secondo cui il danno morale (da
intendere come danno morale soggettivo consistente nella sofferenza
psicologica o nel turbamento transitorio provocato dal fatto illecito) non
sarebbe risarcibile in quanto non derivante da reato per la nota richiamata
interpretazione dell’articolo 2059 Cc che ne limiterebbe l’ambito di
applicazione ai soli danni derivanti da reato. Pur non avendo l’istante
impugnato il punto concernente questo diniego alcune puntualizzazioni sono
necessarie perché la Corte parrebbe in realtà far rifluire il danno morale
soggettivo in quello esistenziale che forma oggetto delle due impugnazioni
in esame.
- L’interpretazione
della Corte di merito sul danno morale soggettivo appare riduttiva perché
questa tipologia di danno ha perso, o visto attenuato nel tempo,
l’originario carattere sanzionatorio per assumere sempre più una veste
anche riparatoria estesa, dalla più recente giurisprudenza di legittimità,
anche a danni provocati da condotte che solo astrattamente possono
costituire reato (il "reato" commesso dall’incapace; i casi di
presunzione di concorso di colpa ecc. ; v. Cassazione, sezione terza civile,
7283/03, per est. in Danno e resp., 2003, 713). Anzi la citata sentenza 8827
della terza sezione civile di questa Corte ha compiuto un ulteriore passo
per svincolare dal reato anche il danno morale soggettivo avendo ritenuto
che, nel caso di pregiudizi derivanti dalla lesione di un interesse
costituzionalmente protetto, «il pregiudizio consequenziale integrante il
danno morale soggettivo (patema d’animo) è risarcibile anche se il fatto
non sia configurabile come reato».
- Potrebbe
quindi essere posto in discussione, ove si seguisse questo orientamento, il
diniego del danno morale soggettivo: sia per la riparazione a seguito di
revisione che per quella per l’ingiusta detenzione le cui conseguenze
neppure astrattamente (proprio per la causa che ha dato origine alla vicenda
ravvisabile nel legittimo esercizio di una pubblica funzione) possono essere
ricondotte alla consumazione di un reato potrebbe infatti essere
riconosciuta anche il danno morale soggettivo vertendosi, come si vedrà più
avanti, in tema di lesione dei diritti inviolabili dell’uomo.
- In
realtà all’istante non è derivato alcun danno da questa statuizione
perché le sofferenze fisiche e morali sono state prese in considerazione
dai giudici di merito per la liquidazione del danno esistenziale. Peraltro
non appare condivisibile l’affermazione della Corte di merito, secondo cui
il danno esistenziale di fatto assorbirebbe quello morale; se così fosse si
tratterebbe di un modo singolare per aggirare l’affermazione sul diniego
della riparazione del danno morale soggettivo. In realtà la Corte, quando
individua i presupposti per la liquidazione del danno esistenziale fa
riferimento ai presupposti per la riparazione di questo danno e non a quelli
del danno morale soggettivo come si preciserà meglio nel capitolo dedicato
al danno esistenziale.
- d)
Il danno biologico. Vanno invece ora prese in esame le doglianze che si
riferiscono alla liquidazione del danno biologico e di quello esistenziale.
Prescindendo per il momento dalle critiche sui criteri adottati dalla Corte
di merito per la liquidazione del danno non patrimoniale, che verranno
successivamente esaminate, occorre anzitutto premettere alcune
considerazioni sulla natura del danno biologico e, successivamente,
verificare se sia corretto l’inquadramento, da parte della Corte genovese,
del danno biologico nella categoria del danno non patrimoniale.
- La
nozione di danno biologico è frutto di elaborazione giurisprudenziale (ma
recentemente ha trovato significative conferme a livello legislativo con
l’entrata in vigore del D.Lgs 38/2000 e della legge 57/2001) ed è
costituito dalla compromissione, di natura areddituale, dell’integrità
psicofisica della persona. Generalmente è ritenuto necessario che a questa
compromissione si accompagni una perdita o riduzione di funzioni vitali,
anche non definitiva.
- Sul
punto della collocazione teorica del danno biologico deve rilevarsi che la
qualificazione come danno non patrimoniale data dal giudice della
riparazione appare del tutto corretta e confermata dalla giurisprudenza di
legittimità. La lesione del bene giuridico tutelato non necessariamente
comporta un pregiudizio di natura patrimoniale: chi vive esclusivamente di
investimenti finanziari potrà continuare a farlo, e a percepire i medesimi
introiti, anche se ha subito un gravissimo incidente che ne provoca
l’immobilità. Per converso un danno biologico modesto (per es. una
lesione permanente ad una mano) potrà provocare un danno economico
rilevantissimo ad un affermato pittore o ad un noto pianista. Ma, in
quest’ultimo caso, il danno economico andrà risarcito autonomamente come
riduzione della capacità lavorativa (in questo caso specifica) e non come
danno biologico che troverà un suo autonomo risarcimento (ma taluni, come
si è già accennato, preferiscono usare, per il danno non patrimoniale e
quindi anche per il danno biologico, il termine riparazione).
- Le
due citate sentenze della terza sezione della Corte di cassazione, 8827 e
8828/03, laddove hanno posto il problema della qualificazione del danno
biologico non hanno messo quindi in discussione un principio ormai
consolidato quello della natura non patrimoniale del danno ma il suo
fondamento normativo riservandosi peraltro di affrontarlo in altra occasione
non essendo rilevante nei casi esaminati (le decisioni citate, dopo aver
ricordato che «la tutela risarcitoria del c.d. danno biologico viene
somministrata in virtù del collegamento tra l’articolo 2043 Cc e
l’articolo 32 Costituzione e non già in ragione della collocazione del
danno biologico nell’ambito dell’articolo 2059, quale danno non
patrimoniale» concludono peraltro nel senso che anche tale orientamento,
non appena ne sarà fornita l’occasione, merita di essere rimeditato).
- Il
messaggio, seppur soltanto accennato come obiter dictum, della terza
sezione civile è chiaro: fermo restando che il danno biologico è un danno
di natura non patrimoniale, e come tale va considerato, il fondamento della
tutela deve però rinvenirsi nell’articolo 2059 Cc e non nell’articolo
2043; e questa impostazione è stata autorevolmente accolta anche dalla
Corte costituzionale che, investita per l’ennesima volta della questione
di costituzionalità dell’articolo 2059 Cc, ha, con la sentenza 233/03,
condiviso integralmente il mutamento giurisprudenziale del giudice di
legittimità sul danno non patrimoniale e ha espressamente affermato la
natura non patrimoniale del danno biologico tutelabile attraverso la tutela
fornita dall’articolo 2059 Cc che, proprio in conseguenza di questa
interpretazione costituzionalmente orientata, si è salvato ancora una volta
dalla dichiarazione di incostituzionalità.
- Questo
collegio non ignora che autorevole corrente dottrinaria ha posto
motivatamente in discussione questo orientamento ed in particolare la
tendenza a creare, con l’interpretazione ricordata dell’articolo 2059 Cc,
una clausola generale di responsabilità non patrimoniale relegando
l’articolo 2043 del medesimo codice a clausola generale di responsabilità
patrimoniale. Ritiene però di condividere l’orientamento ricordato per
affermare la natura non patrimoniale del danno biologico e la sua
collocazione all’interno dell’articolo 2059 Cc quale danno alla salute
tutelato direttamente dall’articolo 32 della Costituzione.
- Senza
addentrarsi in una problematica che sarebbe opera di presunzione tentare di
risolvere da parte del giudice penale di legittimità, è infatti possibile
osservare che le fondate preoccupazioni della corrente dottrinaria contraria
a questa evoluzione della giurisprudenza, preoccupazioni dirette soprattutto
alla finalità di non estendere in modo abnorme una forma di responsabilità
per sua natura dai contorni generici e indefiniti possono essere
significativamente attenuate con una duplice considerazione: 1) anche il
danno non patrimoniale richiede pur sempre l’ingiustizia (oltre che
l’elemento soggettivo e il rapporto di causalità) secondo i criteri di
valutazione formatisi nell’interpretazione dell’articolo 2043 Cc (che può
quindi continuare a rappresentare la clausola generale della responsabilità
compresa quella per danni non patrimoniali; un passaggio della sentenza
8828/03 lo dice espressamente); 2) l’applicazione estensiva
dell’articolo 2059 Cc non dà luogo ad un abnorme ampliamento dei casi di
danni risarcibili perché la selezione degli interessi meritevoli di tutela
avviene con il parametro costituzionale (addirittura, se il riferimento è
all’articolo 2, con la sola considerazione dei diritti l’inviolabili).
- In
definitiva il sistema della responsabilità per danno non patrimoniale è
dotato di due filtri, quello dell’articolo 2043 e, una volta superato
questo varco, quello dell’articolo 2059 (casi previsti dalla legge, reato,
lesione di diritti costituzionalmente protetti). E questo assetto, tra
l’altro, garantisce un sufficiente grado di tipicità delle ipotesi di
danno riparabile venendo incontro ad un’altra preoccupazione espressa da
una parte della dottrina. Si aggiunga, come possibile (e discusso) ulteriore
criterio selettivo (peraltro non richiamato né dalla Corte costituzionale né
dalla Cassazione), quello sostenuto da autorevole dottrina che richiede
inoltre, come previsto da altri ordinamenti per i danni non patrimoniali,
una gravità dell’offesa che giustifichi la riparazione.
- Insomma
ingiustizia del danno e valori costituzionali valgono sufficientemente a
selezionare i danni meritevoli di tutela riparatoria, anche se provocati
nell’esercizio di attività legittime (ma con conseguenze ingiuste)
rispetto a quelli bagatellari. Sarà pur vero, come è stato autorevolmente
osservato a commento ironico delle due sentenze della terza sezione di
questa Corte, che con queste decisioni l’articolo 2059 Cc è stato «tirato
fuori dallo stanzino dei robivecchi, fatto oggetto di respirazione bocca a
bocca, riverniciato completamente, salvato all’ultimo momento dalla
rottamazione», ma ciò è avvenuto in un disegno complessivo di
razionalizzazione del sistema della responsabilità civile nell’ambito di
un processo che mostra una condivisibile tendenza alla tutela dei valori
della persona anche quando i pregiudizi subiti dalla medesima non abbiano
risvolti economici ma si risolvano nella lesione dell’integrità fisica e
morale, degli interessi riguardanti gli affetti, i rapporti personali e
familiari. Situazioni giuridiche spesso contrabbandate come aventi carattere
patrimoniale proprio per garantirne la tutela giurisdizionale (lo stesso
Autore, del resto, constata come spesso sono stati i danni ingiusti a
orientare l’interpretazione della norma e non viceversa).
- Devono
quindi ritenersi infondate le critiche dei ricorrenti, peraltro solo in
parte esplicitate, che lamentano, se non una duplicazione di risarcimento,
un sostanziale appiattimento, che avrebbe operato la Corte di merito, del
danno biologico sulla riduzione della capacità lavorativa. Critica che
sarebbe difficile superare ove il danno biologico fosse considerato di
natura patrimoniale mentre, ritenendolo di natura non patrimoniale, riescono
di maggiore evidenza le linee di demarcazione con il danno economico
derivante dalla lesione della capacità lavorativa.
- In
conclusione su questo punto: corretta è l’affermazione dell’ordinanza
impugnata che ritiene di natura non patrimoniale il danno biologico anche se
può essere ritenuto non condivisibile il percorso argomentativo che si
fonda interamente sull’articolo 2043 Cc ritenendo non applicabile
l’articolo 2059. Ma la conclusione cui il giudice della riparazione è
pervenuto deve ritenersi giuridicamente corretta.
- e)
Il danno esistenziale. Questa tipologia di danno al quale si è già
fatto ampiamente cenno trattando in generale del danno non patrimoniale
costituisce il frutto di un’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale
relativamente recente. Si è già precisato che il danno esistenziale è
ricollegato ad un peggioramento non temporaneo della qualità della vita del
danneggiato con un conseguente mutamento radicale delle sue abitudini, dei
suoi rapporti personali e familiari. Sulla natura, presupposti e fondamento
del danno esistenziale la dottrina è divisa (si sono formate tre scuole
facenti capo a sedi universitarie denominate triestina, torinese e pisana,
quest’ultima contraria alla categoria del danno esistenziale) mentre la
giurisprudenza è sempre più orientata a ritenere ammissibile la
riparazione del danno esistenziale e questo percorso è da ritenere
confermato dalle citate sentenze 8828 e 8827 e da quella della Corte
costituzionale n. 233 (quest’ultima, a differenza delle altre due, fa
esplicito riferimento anche al danno esistenziale).
- Quanto
al danno esistenziale non è condivisibile la critica di fondo contenuta nei
due ricorsi che, sostanzialmente, lamentano che, con il riconoscimento del
danno esistenziale, si opererebbe un’indebita duplicazione risarcitoria
con il danno biologico. Questa duplicazione non esiste perché il danno
esistenziale è cosa diversa dal danno biologico e non presuppone alcuna
lesione fisica o psichica, né una compromissione della salute della
persona, ma si riferisce ai già indicati sconvolgimenti delle abitudini di
vita e delle relazioni interpersonali provocate dal fatto illecito. Si
vedano gli esempi esaminati, e già accennati, nelle sentenze 8827 e 8828.
- Neppure
appare corretta l’affermazione, contenuta nell’ordinanza impugnata,
secondo cui il danno morale soggettivo, non risarcibile per la ragione
indicata, sarebbe di fatto assorbito dal danno esistenziale perché, anche
con questa affermazione, si confonde la natura delle due tipologie di danno:
il danno morale soggettivo (pati) si esaurisce nel dolore provocato
dal fatto dannoso, è un danno transeunte di natura esclusivamente
psicologica; il danno esistenziale (non facere ma anche un facere obbligato
che prima non esisteva), pur avendo conseguenze di natura psicologica, si
traduce in cambiamenti peggiorativi permanenti, anche se non sempre
definitivi, delle proprie abitudini di vita e delle relazioni
interpersonali.
- La
non sovrapponibilità tra le due categorie di danno emerge chiaramente
proprio in relazione all’ingiusta detenzione: la privazione della libertà
personale per un solo giorno può provocare un gravissimo danno morale ma il
danno esistenziale, in questi casi, può anche mancare. Si è però già
rilevato che la statuizione sulla non risarcibilità del danno morale è da
ritenere ormai definitiva per mancata impugnazione; sotto altro profilo i
danni che la Corte indica come produttivi di questo danno sono invece tutti
riferibili a conseguenze di natura esistenziale e come tali correttamente
considerate (la Corte fa infatti riferimento al "carico di
sofferenze" ma lo ricollega al modificato regime di vita e alla
privazione della libertà personale, le cui conseguenze perdurano nel tempo,
non avendo potuto il Barillà, dopo la scarcerazione, ripristinare le sue
precedenti abitudini di vita. Non quindi sofferenza psicologica transitoria
connaturata al danno morale soggettivo ma sconvolgimento perdurante nel
tempo (anche successivamente all’avvenuta scarcerazione) delle abitudini
di vita che costituisce l’aspetto caratterizzante del danno esistenziale.
- Orbene,
nel caso in esame il giudice di merito ha accertato l’esistenza di tutti i
presupposti per la risarcibilità del danno esistenziale subito da Barillà,
e ben può affermarsi che l’ipotesi in esame costituisca un caso
emblematico dello sconvolgimento esistenziale che procurano una detenzione,
una sottoposizione a processo e una condanna ad una lunga pena da espiare,
poi rivelatesi ingiuste, e da cui conseguono la privazione della libertà
personale, l’interruzione delle attività lavorative e di quelle
ricreative, l’interruzione dei rapporti affettivi e di quelli
interpersonali, il mutamento radicale peggiorativo e non voluto delle
abitudini di vita e altre che non è necessario precisare. Insomma
l’ingiusta detenzione e l’ingiusta sottoposizione a processo
costituiscono forse un caso ancor più significativo tra quelli che la
giurisprudenza ha fino ad oggi preso in considerazione per fondare la
risarcibilità del danno esistenziale.
- Quanto
al fondamento giuridico (il rinvio, da taluno ritenuto riserva di legge,
contenuto nell’articolo 2059 Cc) in questo caso la tutela si fonda non
solo sulla norma costituzionale generica (articolo 2 che riconosce e
garantisce i diritti inviolabili dell’uomo) ma anche sulle norme,
specifiche, che sanciscono l’inviolabilità della libertà personale
(articolo 13) e tutelano le libertà, previste negli articoli successivi,
che la detenzione inevitabilmente comprime o addirittura esclude (per es. la
libertà di circolazione).
- Ne
consegue che correttamente la Corte di merito ha ritenuto la risarcibilità
(o riparabilità) anche del danno esistenziale perché ricollegato ad una
privazione o restrizione legittime ma successivamente rivelatesi ingiuste
degli indicati diritti garantiti non solo dalla nostra Costituzione ma anche
dai già ricordati articolo 5 comma 5° della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo e sull’articolo 9 n. 5 del Patto internazionale dei
diritti civili e politici.
- Sicché
sembra del tutto condivisibile l’affermazione fatta in dottrina, proprio a
commento dell’ordinanza in esame, che l’articolo 643 Cpp "contempli
uno dei casi di risarcibilità dei danni non patrimoniali a cui rinvia
l’articolo 2059 Cc".
- f) I
criteri di determinazione e liquidazione del danno non patrimoniale. Va
premesso che le innovazioni giurisprudenziali riferite non influiscono sui
criteri di determinazione e liquidazione del danno non patrimoniale. Per
quanto riguarda le critiche rivolte dai ricorrenti, sotto questi profili,
all’ordinanza impugnata (con particolare riferimento al danno biologico
perché di quello esistenziale sembra essere contestata la sola ammissibilità
non la quantificazione) si osserva innanzitutto che non è fondata la
critica che si riferisce alla quantificazione del danno avendo l’ordinanza
impugnata fatto riferimento ai criteri utilizzati dal perito che ha
ampiamente motivato la percentualizzazione che, peraltro, i ricorrenti
neppure contestano con argomentazioni specifiche per cui la doglianza è
altresì da ritenere generica.
- Parimenti
infondate si rivelano le critiche secondo cui non sarebbe stato formulato al
perito alcun quesito in tema di danno biologico e alla mancata
percentualizzazione del medesimo. Se è vero infatti che il danno biologico
consegue ad una valutazione di tipo medico legale è altrettanto vero che
una volta compiuta questa operazione, anche con la percentualizzazione
dell’invalidità (cosa che il perito ha fatto), l’inquadramento
giuridico nelle varie categorie risarcibili costituisce compito del giudice
di merito che, nel caso di specie, ha correttamente adempiuto a questo
compito cui è attribuito il compito di valutare le conseguenze, di natura
patrimoniale o non patrimoniale, dell’invalidità accertata.
- Per
quanto riguarda invece il mancato uso dei criteri tabellari (sempre in
merito al danno biologico) si osserva che questo criterio, comunemente
utilizzato dalla giurisprudenza civile di merito, e la cui correttezza è
ormai indiscussa anche in sede di legittimità, costituisce un utile
strumento di disciplina per limitare la discrezionalità inevitabile della
valutazione equitativa. La natura non patrimoniale e areddituale del danno
biologico non consente infatti una ricostruzione dell’entità, in termini
monetari, del danno risarcibile e il sistema tabellare (peraltro
diversificato nelle varie sedi giudiziarie: attualmente quello che forse
trova maggior consenso è quello c.d. "a punto tabellare",
elaborato dalla giurisprudenza milanese) viene incontro all’esigenza di
evitare ingiustificate disparità di trattamento inevitabili con l’uso di
un criterio equitativo "puro".
- Ciò
premesso va però precisato che il sistema tabellare non può essere
considerato obbligatorio perché nessuna norma ne impone l’adozione per i
danni da responsabilità aquiliana e quindi deve ritenersi ammissibile una
liquidazione meramente equitativa purché il giudice abbia dato conto dei
criteri equitativi seguiti nella liquidazione, questi criteri non appaiano
illogici e la liquidazione non si discosti clamorosamente e immotivatamente
(in più o in meno) dai criteri tabellari che costituiscono pur sempre il
metodo di liquidazione che il diritto vivente adotta e privilegia .
- V’è
da osservare inoltre che la valutazione esclusivamente equitativa del danno
biologico potrebbe trovare conferma nelle considerazioni che le sentenze
8827 e 8828 citate svolgono in merito alla opportunità di una valutazione
complessiva di tutti i danni non patrimoniali, compreso quello biologico.
Una valutazione complessiva renderebbe infatti non impossibile ma certamente
più complesso utilizzare il metodo tabellare.
- Nel
caso di specie il giudice di merito si è adeguato ai principi indicati
perché ha preso in esame i criteri prospettati optando per una valutazione
equitativa che si discosta in aumento non di molto, in termini percentuali
(meno del 25 %), dal risultato conseguibile con il criterio tabellare e
costituisce meno di un terzo della richiesta dell’istante. Nella
motivazione dell’ordinanza impugnata vengono richiamate le caratteristiche
della vicenda per sottolineare la gravità del danno biologico subito
evidenziando i gravi danni alla salute provocati dalla detenzione e dalle
altre conseguenze della detenzione, del processo e della condanna. Insomma i
giudici hanno giustificato congruamente la loro decisione sul punto
valutando criticamente le opzioni proposte al fine di determinare il valore
definitivo assegnato alla liquidazione per questo titolo.
- Quanto
alla valutazione del danno esistenziale, che effettivamente potrebbe
sembrare liquidato con eccessiva larghezza (Euro 1.000.000,00), va rilevato
che tale statuizione si appalesa incensurabile in sede di legittimità
trattandosi (ovviamente) di valutazione esclusivamente equitativa per un
danno che, per l’estrema variabilità delle situazioni tutelate, neppure
si presterebbe ad una disciplina tabellare analoga a quella del danno
biologico.
- E,
anche in questo caso, l’unica censura che potrebbe astrattamente
ipotizzarsi, quella della manifesta illogicità conseguente ad una
valutazione apoditticamente ed arbitrariamente espressa, è da escludere
perché i giudici di merito hanno fornito di adeguata, congrua e certamente
non illogica motivazione la loro valutazione facendo ampio riferimento,
oltre che alla durata della carcerazione, alle forzate rinunce di Barillà
alle proprie abitudini di vita, alla perdita dell’attività d’impresa e
di lavoro, all’interruzione del rapporto affettivo, poi risoltosi
definitivamente, di Barillà con la fidanzata anche lei colta da disturbi
depressivi e costretta a subire un ricovero psichiatrico, alla necessità di
vendere la casa di abitazione, all’impossibilità di partecipare ai
funerali del padre, al discredito sociale conseguente all’essere stato
considerato (con sentenza passata in giudicato ! ) un grosso trafficante di
sostanze stupefacenti (il quantitativo sequestrato nell’operazione fu di
50 chili di cocaina).
- Come
è agevole verificare si tratta di motivazione esente da vizi logici e
giuridici sulla quale non può essere esercitato lo scrutinio di legittimità
richiesto dai ricorrenti.
- Conclusivamente
i ricorsi devono essere accolti nei limiti indicati con rinvio alla Corte
d’appello di Genova per nuovo esame sui punti oggetto dell’annullamento.
L’accoglimento solo parziale dei ricorsi consente di compensare
integralmente le spese tra le parti del presente grado di giudizio mentre
quelle del giudizio di merito formeranno oggetto di nuova valutazione in
esito al giudizio di rinvio.
- La
Corte suprema di cassazione, sezione quarta penale, annulla l’ordinanza
impugnata limitatamente ai seguenti profili dell’indennizzo: perdita
dell’attività commerciale; spese di difesa; riduzione della capacità
lavorativa.
- Rinvia
per nuovo esame sui punti indicati alla Corte d’appello di Genova.
- Rigetta
nel resto i ricorsi e compensa integralmente le spese di questo grado di
giudizio tra le parti.
-