Sul linguaggio aggressivo nelle contese politiche

Cass. pen., sez. V, 14 settembre 2007 n. 34849 – Pres. Nardi – Rel. Marasca-  N. (avv. Surmonte) c. G. (avv. Merluzzi)

 

La Corte di Cassazione osserva :

G., consigliere di opposizione presso il comune di Buccino, nel corso di una intervista pubblicata dal quotidiano La città del 17 giugno 1998,  facendo riferimento ad una denuncia da lui stesso sporta contro l’allora sindaco della città  N., formulava giudizi – “presenza di tangentopoli buccinese e di clientelismo come conseguenza del voto di scambio” - nei confronti di quest'ultimo ritenuti offensivi.

Per tale fatto il N., con sentenza emessa dal Tribunale di Bari il 3 maggio 2005, veniva condannato alle pene di giustizia oltre al risarcimento dei danni in favore del G. costituitosi parte civile.

Con sentenza del 31 marzo 2006 la Corte di Appello di Bari, dopo avere rigettato una eccezione di incompetenza territoriale, ravvisava, ricorrendone i presupposti , nei fatti l'esercizio del diritto di critica politica ed assolveva il G. dal reato ascrittogli perché il fatto non sussiste.

 

Con il ricorso per cassazione la parte civile N. deduceva i seguenti motivi di impugnazione :

1) la inosservanza ed erronea applicazione della legge penale per la mancanza dei presupposti - verità dei fatti , continenza ed interesse pubblico - per ritenere l'esercizio del diritto di critica , dal momento che per il N.  vi era stata soltanto la richiesta di rinvio a giudizio per alcune ipotesi di falso ideologico ;

2) la mancanza e manifesta illogicità della motivazione anche con riferimento a specifici atti del processo , dal momento che , a tutto voler concedere, nella denuncia del G. non si parlava di voto di scambio né di fatti corruttivi che potessero essere ricompresi nel termine tangentopoli.

La Corte non aveva compiuto una analisi per verificare per quali reati vi era stata iscrizione e per quali ragioni per altre ipotesi di reato prospettate dal N. vi fosse stata archiviazione . Infine il vizio di motivazione sarebbe ravvisabile anche con riferimento alla ritenuta continenza espressiva ed all'interesse pubblico alla notizia .

I motivi posti a sostegno del ricorso non sono fondati perché la Corte di merito ha valutato i fatti ed ha ritenuto sussistenti i presupposti per riconoscere l'esercizio del diritto di critica politica di cui all'articolo 51c.p. con motivazione non incongrua e non manifestamente illogica .

Da quanto è dato desumere dalle due sentenze di merito il G. rilasciò una intervista telefonica ai giornale La Città in merito alla pubblicazione di un manifesto murale con il quale aveva criticato il sindaco di Buccino in carica ricordando di averlo denunciato un anno prima per la c.d. tangentopoli buccinese. Il G. era all'epoca capo della opposizione nel consiglio comunale di Buccino.

Orbene la decisione censurata appare del tutto corretta.

Non vi è dubbio che la notizia che il capo della opposizione avesse denunciato il sindaco della città per vari reati attinenti al funzionamento della pubblica amministrazione era di interesse pubblico, essendo interesse della cittadinanza conoscere la valutazione della opposizione sull'operato di un pubblico amministratore .

E' altrettanto fuori dubbio che quando un uomo politico assuma una iniziativa così grave , come certamente è la denuncia di un amministratore in carica, abbia il diritto - dovere di comunicare alla pubblica opinione la sua iniziativa , che ha una indubbia valenza politica, dal momento che gli elettori anche su tali fatti e comportamenti dovranno poi giudicarlo.

Quanto al requisito della c.d. continenza la Corte territoriale ha spiegato che il tenore della intervista era sostanzialmente corretto.

Sono stati usati toni certamente aspri e forti per raccontare i fatti, ma mai il G. si è abbandonato a gratuiti attacchi alla persona del  N., avendo sempre censurato in modo assai chiaro il comportamento del sindaco della città , e si è limitato a censurare i comportamenti politici ed amministrativi dello stesso.

Quello sullo continenza delle espressioni usate è un giudizio di merito, che per essere sorretto da una motivazione logica e congrua è esente da censure di legittimità.

Del resto il linguaggio di molti politici di livello nazionale, ed in alcuni casi addirittura dei leaders, si è talmente involgarito ed è divenuto così aggressivo, che non deve meravigliare se poi rappresentanti politici locali imitino i propri capi.

In ogni caso nella presente situazione , come è stato correttamente stabilito dalla Corte di merito , non sono ravvisabili espressioni volgari o argumenta ad hominem, ma semplicemente giudizi duri ed aspri, che sono pienamente giustificati dal contenzioso politico esistente sfociato addirittura in una denuncia penale.

Anche sul terzo necessario presupposto della verità della notizia le critiche della parte civile ricorrente non colgono nel segno.

In primo luogo è opportuno chiarire che a ben leggere l'articolo incriminato sembra che il G. avesse più che altro interesse a censurare la lentezza della giustizia, dal momento che a distanza di oltre un anno dalla presentazione della denuncia non era stato adottato alcun provvedimento dell'Autorità Giudiziaria.

Si tratta di lentezza per così dire normale per gli addetti del settore, ma che stupisce un normale cittadino, perché appare del tutto ragionevole ritenere che i procedimenti a carico di pubblici amministratori si svolgano celermente nell'interesse del denunciante e del denunciato , ma principalmente nell'interesse dei cittadini - elettori, che hanno il diritto di sapere in breve tempo se il loro sindaco sia persona che commetta reati o se l'uomo politico denunciante sia un calunniatore.

Le considerazioni sul punto dei giudici di secondo grado sono, pertanto, da condividere.

Ma anche a volere considerare l'intervista del G. una critica al sindaco, va detto che la verità della notizia appare sussistente .

Intanto vi è da chiedersi quale sia la vera notizia riportata nel testo , introducendo così un argomento non approfonditamente considerato né dalla Carte di merito né dal ricorrente.

In effetti la vera notizia sembra essere che il G., nella sua qualità di capogruppo della minoranza in consiglio comunale , aveva presentato una denuncia per gravi fatti, denominati genericamente tangentopoli buccinese contro il sindaco della città, assumendosi in tal modo pesanti responsabilità, ivi compresa anche una eventuale denuncia per calunnia.

Se è questa la notizia, unita a quella della inerzia, ritenuta dal denunciante, della competente magistratura, non vi è dubbio che essa sia vera perché effettivamente la denuncia era stata presentata e davvero il denunciante si era lamentato per la lentezza del corso della giustizia .

Ma anche a non volere ritenere questa la vera notizia fornita ai cittadini con la intervista incriminata, si deve ritenere che il requisito della verità della notizia sia soddisfatto anche con riferimento alle accuse mosse al sindaco , come ritenuto dalla Corte di merito.

Risulta, infatti, che dalla denuncia indicata sia scaturita, anche se a distanza di alcuni anni, una richiesta di rinvio a giudizio del N. per delitti di falso in atto pubblico.

Per altri fatti, invece, venne disposta l'archiviazione degli atti; non è dato sapere se l'archiviazione venne disposta per insussistenza dei fatti o per prescrizione dei reati, come sembra ipotizzare la Corte territoriale.

E' certo, però, che per i fatti denunciati come tangentopoli buccinese vi è stata una richiesta di rinvio a giudizio del con un primo vaglio da parte di un magistrato che ha ritenuto sostenibile l'accusa in dibattimento ed ha ritenuto necessaria una verifica dibattimentale della vicenda.

Ciò dimostra che i relativi fatti meritavano di essere portati alla attenzione della Magistratura, indipendentemente dall'esito finale del processo e fatta salva, ovviamente, la presunzione di innocenza dell'imputato fino alla sentenza definitiva.

La parte ricorrente ha, però, sostenuto che i reati per i quali era stato chiesto il rinvio a giudizio non avevano niente a che fare con la denunciata tangentopoli buccinese, che evoca ben altri reati.

Siffatta tesi non può essere accolta perché nel linguaggio comune ed anche giornalistico il termine tangentopoli sta ad indicare un modo di amministrare disinvolto e non rispettoso delle regole legali; con tale termine in effetti si vogliono indicare vari reati commessi da pubblici amministratori, che vanno da casi di vera e propria corruzione, ad ipotesi di illecito finanziamento dei partiti ed a fatti di ricettazione e di falso .

Interpretato in tal senso il termine usato nella intervista, i reati di falso in questione contestati al capo di una amministrazione sono certamente espressione di un uso disinvolto dei propri poteri; ci si può lamentare che il termine sia troppo enfatico e che per la situazione data era forse un po' eccessivo, ma argomentare dall'uso di tale parola che l'imputato abbia dato una notizia falsa, o meglio non vera, non è possibile perché sarebbe contro ogni logica.

Anche su tale punto la sentenza impugnata non merita , quindi , censure sotto il profilo della legittimità.

Ma il ricorrente ha sostenuto che il termine voto di scambio usato nell'intervista evocava il reato di cui all'articolo 96 del testo unico del 1957/361 , reato per il quale non vi era stata alcuna denuncia del G.  e per il quale , quindi , non era stato disposto alcun rinvio a giudizio .

Anche tale prospettazione non coglie nel segno.

In effetti il G. nell'intervista ha sostenuto che si era in presenza di un clientelismo esasperato che connoterebbe ogni decisione amministrativa e che ciò sarebbe conseguenza del voto di scambio.

L'accusa , quindi, era tutta politica, nel senso che il N. accusava il sindaco di fare un a politica clientelare.

Cosa questa, peraltro, per nulla originale perché del c.d. clientelismo sarebbe permeata tutta la politica nazionale , specialmente quella meridionale, se si vuole prestare fede ai nostri politici che si accusano l'un l'altro di favorire, sia a livello locale che nazionale, i propri elettori e le proprie clientele.

Il termine voto di scambio in tale contesto politico all'evidenza non è stato utilizzato dal G. nel senso tecnico proprio del legislatore e della giurisprudenza penale, ma come espressione sintetica ed icastica per affermare che venivano favorite dalla politica del sindaco le sue clientele.

Si tratta di critica politica, dunque, forte ed aspra , ma non di attribuzione di un fatto reato specifico come erroneamente pretende il ricorrente.

In conclusione ricorrevano tutti i presupposti per ritenere sussistente nel caso di specie, come ha fatto la Corte di merito, la esimente dell'esercizio del diritto di critica .

Per le ragioni indicate il ricorso deve, pertanto, essere rigettato ed il ricorrente condannato a pagare le spese del procedimento .

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del procedimento.

Così deliberato in Camera di consiglio, in Roma, in data 8 maggio 2007 (depositato il 14.9.2007).

 

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La volgarità dilaga nel Palazzo – per la Cassazione non va più punita

 

La Suprema Corte: “Nessuna meraviglia se i dirigenti locali dei partiti imitano i capi nazionali”

 

E’ UFFICIALE: la volgarità dei politici non è punibile. Lo ha detto —sia pure a malincuore— la Cassazione, giudicando un consigliere comunale pugliese che, prendendosela con il sindaco di Buccino, gli aveva rinfacciato la «tangentopoli buccinese» e il «clientelismo» comunale. Assolto «perché il fatto non sussiste». E non solo perché «tangentopoli» è una parola «entrata nel linguaggio comune per indicare un modo di amministrare disinvolto e non rispettoso delle leggi». Non solo perché del «clientelismo» sarebbe ormai intrisa l'intera politica nazionale, «se si vuole prestare fede ai nostri politici che si accusano l'un l'altro di favorire le proprie clientele». Ma anche—e soprattutto— perché la volgarità ormai è entrata nel lessico ufficiale del Palazzo: «Il linguaggio di molti politici a livello nazionale, e in alcuni casi addirittura dei leaders — scrive la Suprema Corte nella sentenza numero 34849/2007 — si è talmente involgarito ed è divenuto così aggressivo che non deve meravigliare se poi rappresentanti politici locali imitino i loro capi».

Diciamo la verità: s'era capito. Ancora prima del «Vaffanculo Day», aleggiava un vago sospetto che a Montecitorio non valessero più —e da un pezzo— le regole importate dal Parlamento inglese nell'Ottocento, secondo le quali era severamente proibito «indicare gli oratori precedenti per nome, il che può talvolta prendere un tono di provocazione»,e dunque per citarli bisognava dire «"il nobile e dotto Lord", se si tratta di un legista, "il molto reverendo prelato", pe' vescovi, "il valoroso membro", se è un militare, o "il molto onorevole" se è, o è stato, ministro».

Se avesse rispettato questo galateo parlamentare, in una seduta di tre anni fa Cesare Previti si sarebbe dovuto rivolgere al diessino Francesco Bonito chiamandolo «il nobile e dotto deputato», anziché gridargli «sei un pezzo di merda!», e quello, di rimando, avrebbe dovuto evocarlo come «il molto onorevole parlamentare», invece di sibilargli «lo sei tu, oltre che un noto ladro e delinquente».

D'altra parte, non si poteva pretendere il rispetto delle forme da due semplici parlamentari, dopo quello che un segretario di partito come Umberto Bossi aveva detto del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro («Con una scoreggia a quello lì gli sbianchiamo i capelli»), dell'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi («E' un povero pirla, un traditore del Nord. Un Peron della mutua. Ha qualcosa di nazistoide, di mafioso») o del capo del governo in carica, Giuliano Amato («Un nano nazista»).

Una volta si diceva: vabbe’, i leghisti sono fatti così. Poi però quelli hanno fatto scuola. Non solo presso i solisti della lite come Vittorio Sgarbi (ad Alessandra Mussolini: «Tu sei una merda secca»), non solo tra i nostalgici del «me ne frego» come la medesima Mussolini (a Vladimir Luxuria: «Meglio essere fascista che frocio») o il pittoresco  Francesco  Storace  (su Walter Veltroni: «Vinte le elezioni, dopo l'aviaria dei polli ci occuperemo del lombrico»).

No, ormai il vocabolo scurrile, il verbo tabù, l'aggettivo triviale fanno parte dell'armamento d'ordinanza del leader politico. Romano Prodi dà dell'«ubriaco» a Silvio Berlusconi, nel faccia-a faccia televisivo, e quello gli risponde chiamandolo «utile idiota». Il Cavaliere, a giudicare dagli archivi, ispira: «Ci fa schifo» ha detto di lui Oliviero Diliberto, che già lo aveva dipinto come «un pazzo estremista». «E' una persona non solo inaffidabile, ma anche pericolosa per il sistema democratico del Paese» (Luciano Violante), «E' il vero eversore di questo Paese» (Alfonso Pecoraro Scanio), «Rispetto a lui, Goebbels era un bambino» (Romano Prodi).

Però anche Berlusconi si fa ispirare dagli avversari. Fassino? «E' ricercatissimo dall'associazione delle pompe funebri, che lo vuole come testimonial». Mussi? «E'uno con la faccia a metà tra un salumiere e Hitler». Prodi? «E' un poveraccio che si illude di contare qualcosa». Sorvolando sulla sua celebre teoria sull'autolesionismo degli elettori di sinistra, che sdoganò definitivamente — nei telegiornali della sera — la parola «coglioni».

Insomma, se loro si danno del «pezzo di merda», del «delinquente», dell'«ubriaco», dell'«utile idiota», del «frocio» e del «coglione», come si fa a prendersela con un povero consigliere comunale che, in un impeto oratorio, non sa fare di meglio che tirar fuori l'aggettivo «clientelare»? Altro che una condanna: un premio, bisognava dar gli: per la temperanza, la misura e la sobrietà.

Sebastiano Messina

(fonte: la Repubblica, 15.9.2007, p. 9)

 

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Quando invece in luogo dell'indirizzare espressioni inopportune o epiteti pseudo-offensivi, si passa all'attribuzione di comportamenti illeciti ("cd."fatti determinati") non provati - come riscontrato dalla sottostante sentenza afferente affermazioni dell'ex magistrato ed ex parlamentare Tiziana Parenti nei confronti dell'ex sindaco di Roma Francesco Rutelli - non ricorre il beneficio della "non punibilità":

 

(fonti:http://www.litis.it/attnews/news.asp?id=1182;http://www.studiolegalelaw.it/new.asp?id=2656;http://www.adnkronos.com/IGN/Politica/?id=1.0.1298813851)

Cassazione – Sezione terza civile – sentenza 6 luglio – 6 settembre 2007, n. 18689 – Presidente: Preden – Relatore: Bisogni -  Pm: Fedeli (conf.) – Ricorrente Parenti – Controricorrente Rutelli
 
Svolgimento del processo
 
Con citazione del 10 novembre 1997 Francesco Rutelli conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma Tiziana Parenti perché fosse condannata al risarcimento dei danni derivanti dalle frasi diffamatorie pronunciate nel corso del dibattito, svoltosi, nell'ambito della campagna elettorale per la elezione a Sindaco di Roma, il 4 novembre 1997, nella sala della Protomoteca del Campidoglio. Dopo aver richiamato i manifesti che raffiguravano il suo avversario accompagnato dalla scritta "un sindaco non una poltrona" e "per quattro anni di onestà", la Parenti pronunciava le seguenti frasi: "ma noi siamo sicuri che c'è stata così tanta onestà in questi quattro anni già trascorsi?" e aggiungeva: "Voi fate una prova, andate a vedere i cantieri di cui parla il nostro Sindaco a me hanno fatto impressione, perché sapete ho trovato le medesime cordate che ho trovato all'epoca, non molto tempo fa, il solito capofila, la solita cooperativa rossa, il solito prestanome. Se si ritorna di nuovo nell'ambito del Giubileo, sono state fatte consulenze a non finire e voi ritroverete sempre le medesime cordate di impresa, sempre il medesimo sistema di appalti"; "su questo si sta facendo uno studio che mi auguro di poter pubblicare o comunque di rendere pubblico nei giorni a venire perché vedete, questi sono soldi pubblici e vedete che il Sindaco Rutelli ha una posizione molto avvantaggiata, perché ha il Governo, la Regione e il Comune dello stesso colore. Sapete cosa significa? Che manca qualsiasi controllo. C'è stata una spartizione di appalti che fa paura. Voi volete altri quattro anni di questa onestà?". "Noi vorremmo un Sindaco che almeno garantisca l'onestà e non lo spreco di denaro pubblico perché se ne è sprecato già molto e se questi progetti non si faranno è perché si è passato il tempo a compiacere le clientele e ad aggiustarsi i diversi capofila, le diverse cooperative che sono le uniche che lavorano a Roma".
Analoghi concetti venivano espressi in una intervista rilasciata dalla Parenti al quotidiano romano "il Tempo".
Si costituiva in giudizio la Parenti che contestava la sussistenza della diffamazione e affermava che le sue dichiarazioni erano rimaste nell'ambito di una dura ma legittima critica politica. Invocava inoltre l'esimente di cui all'articolo 68 della Costituzione.
Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 29104/2000 del 26 settembre 2000, condannava la Parenti al pagamento, a titolo di risarcimento danni, della somma di lire 50.000.000, oltre alle spese processuali. Riteneva il Tribunale che la convenuta non si era limitata a una critica politica ma aveva posto in essere una lesione del decoro e dell'onore del Rutelli con accuse non dimostrate di fatti penalmente rilevanti e in assenza di una verità anche solo putativa dei fatti esposti.
Proponeva appello la Parenti deducendo censure alla sentenza di primo grado in ordine alla ritenuta illiceità delle sue dichiarazioni e inapplicabilità della prerogativa di cui all'articolo 68 della Costituzione. Si costituiva l'appellato chiedendo il rigetto dell'appello.
La Corte di appello di Roma, con sentenza del 29.5.2003 21.7.2003, rigettava l'appello ritenendo fondata sotto entrambi i profili la sentenza di primo grado.
Ricorre per cassazione la Parenti affidandosi a due motivi di impugnazione, si difende con controricorso il Rutelli. La ricorrente deposita memoria ex articolo 378 cod. proc. civ.
 
Motivi della decisione
 
Con il primo motivo di ricorso Tiziana Parenti deduce la violazione o errata applicazione dei principi in materia di diffamazione e di diritto di critica (articolo 21 della Costituzione) nonché la illogicità, contraddittorietà e insufficienza della motivazione. Le critiche mosse alla sentenza di appello ripropongono sostanzialmente una diversa valutazione dei fatti e sono dirette in primo luogo a dimostrare che l’obiettivo critico delle dichiarazioni rese dalla Parenti non era la persona del Rutelli ma piuttosto la oggettiva situazione di mancanza di trasparenza nel sistema degli appalti e delle opere pubbliche dovuta al riformarsi del rapporto fra nuova classe politica e vecchia imprenditoria. Una critica politica dai toni aspri ma niente affatto diffamatoria perché basata su una serie di riscontri oggettivi valutabili ancor meglio ex post.
È evidente però che questa diversa lettura delle dichiarazioni della ricorrente presuppone una sostanziale riedizione del giudizio di merito che è ovviamente precluso in questa sede. Quello che qui si può evidenziare è che le sentenze di merito hanno già ampiamente preso in esame queste difese e ne hanno riscontrato l'infondatezza rilevando nelle dichiarazioni della Parenti una serie di accuse penalmente rilevanti riferibili in primo luogo proprio alla persona del sindaco Rutelli che, in base alle parole dell'on. Parenti, non poteva non essere identificato come il primo responsabile della formazione di un sistema di corruzione e collusione fra politica e imprese. Sistema che, secondo la Parenti, aveva determinato la totale alterazione del funzionamento degli appalti pubblici e la gestione in funzione clientelare delle opere pubbliche attraverso meccanismi di scambio del consenso elettorale con l'affidamento di lavori pubblici e consulenze.
La ricorrente richiama la giurisprudenza di merito e legittimità che configura la liceità, nel quadro dell'esercizio del diritto di critica politica, dell'utilizzo di espressioni aspre e anche offensive al fine di evidenziare la contrarietà della motivazione della Corte di appello di Roma a tali pronunce. La censura non è pertinente dato che, come si è detto, i giudici di merito hanno ritenuto la diffamatorietà non in relazione ai toni e alle espressioni usate dalla Parenti ma in relazione al contenuto delle sue accuse. L'odierna ricorrente poneva infatti, secondo i giudici di merito, a carico dell'antagonista un complessivo comportamento penalmente illecito senza che di tale comportamento venissero fornite prove concrete. Anche il riferimento della ricorrente all'accertamento giudiziale di comportamenti del Rutelli, e della sua giunta, produttivi di danno erariale non è idoneo a sovvertire le valutazioni compiute dai giudici di merito. Questi hanno infatti chiaramente messo, in evidenza nella loro motivazione come la Parenti non avesse soltanto affermato l'incapacità di amministrare o lo spreco di denaro pubblico da parte del Rutelli ma gli avesse addebitato altresì comportamenti illeciti. E aveva affermato che tali comportamenti erano tipici dell'organizzazione affaristicocriminale oggetto delle indagini da lei svolte quando era sostituto procuratore della Repubblica a Milano. Gli stessi giudici hanno poi rilevato la mancanza di qualsiasi corrispondenza al vero di tali accuse.
Al di là quindi di ogni valutazione sulla fondatezza nel merito della decisione di primo grado e della sua riconferma in appello deve ritenersi che la sentenza della Corte di appello di Roma sia stata esaurientemente e coerentemente motivata e non sia affatto incorsa in una interpretazione contraria all'articolo 21 della carta costituzionale. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione di legge in merito alla pronuncia sulla insindacabilità delle dichiarazioni ex articolo 68 della Costituzione e la violazione o errata applicazione dell'articolo 3 della legge 20 giugno 2003 n. 140 nonché la illogicità, contraddittorietà e insufficienza della motivazione. Da parte della ricorrente si fa rilevare in particolare che in alcune interrogazioni parlamentari erano stati adombrati pesanti dubbi sull'operato della giunta capitolina sugli stessi punti oggetto dell'intervento politico della Parenti in campagna elettorale.
Anche qui i giudici di appello hanno preso in esame la possibilità di ritenere l'immunità della Parenti come conseguenza della sua qualità di membro del Parlamento e hanno escluso che ciò potesse affermarsi per difetto del requisito dell'omogeneità del contesto funzionale richiesto dalla giurisprudenza in tema di articolo 68 della Costituzione (cfr. in particolare Cassazione civile sezione III, n. 8626 del 12 aprile 2006, Rv. 589636; n. 18781 del 26 settembre 2005, Rv. 583638; n. 13346 del 19 luglio 2004 Rv. 575641). Infatti hanno affermato che non poteva di certo sostenersi che il dibattito in cui la Parenti pronunciò le dichiarazioni controverse, pur interessato da tematiche politiche di ampio raggio e di rilievo nazionale, consentisse il ricorso ad esse in quanto espressive della (o comunque legate alla) attività parlamentare della Parenti. La motivazione della Corte di appello ha messo specificamente in rilievo la diversità del contesto in cui le affermazioni furono pronunciate; un contesto strettamente legato alla elezione del sindaco di Roma, carica a cui sia il Rutelli che la Parenti si erano candidati. Anche qui ci si trova di fronte a una valutazione di merito che non è dato sindacare stante la chiara motivazione della Corte di appello. Ciò vale anche se si considera la possibilità di applicare alla fattispecie la legge n. 140 del 2003 in quanto anche tale legge richiede un collegamento fra le critiche e le denunce politiche e la funzione di parlamentare.
Nella specie la valutazione di merito doveva consistere proprio nel verificare se le pesanti critiche mosse al Rutelli rappresentassero la riproposizione di un dibattito svoltosi in Parlamento e nello stesso tempo di porre la necessaria attenzione alla ipotesi di una loro strumentalizzazione nella competizione elettorale. Per quanto riguarda in particolare le interrogazioni proposte da altri parlamentari sul tema delle opere pubbliche in corso di svolgimento a Roma non vi è traccia nella sentenza impugnata della circostanza per cui tali interrogazioni furono portate all'attenzione dei giudici di merito.
Né la ricorrente ha dedotto di averlo fatto indicandone i relativi tempi e la sede processuale. In ogni caso si tratta di interrogazioni che proprio in quanto tali non si prestano, per le ragioni già esposte dalla Corte di appello, a una relazione, se non strumentale, con le affermazioni della Parenti la quale, secondo quanto ritenuto dai giudici di merito, ha invece mosso delle precise e gravi accuse al suo avversario politico senza peraltro portare delle prove concrete a loro sostegno.
Il ricorso va quindi respinto con condanna al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.
 
PQM
 
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione liquidate in complessivi euro 2.600 di cui 100 euro per spese generali.

NOTE e COMMENTI

Accuse ingiustificate: l'ex Pm Tiziana Parenti dovrà risarcire Francesco Rutelli
 
L'ex Pm milanese e deputata del centrodestra Tiziana Parenti dovrà risarcire con 25 mila euro il leader della Margherita Francesco Rutelli per alcune affermazioni pronunciate nella campagna elettorale per l'elezione a sindaco di Roma nel novembre '97. Lo ha deciso la terza sezione civile della Cassazione con la sentenza 18689 depositata il sei settembre (qui leggibile come documento correlato). All'epoca la Parenti correva – anche lei - per la  'poltrona’ del Campidoglio e, durante un faccia a faccia pubblico con il suo antagonista nella sala della Protomoteca capitolina (e poi in un intervista su un quotidiano romano), lo aveva accusato di non aver fatto onestamente il sindaco della capitale (Rutelli aveva già svolto un primo mandato) e di aver fatto lavorare ai cantieri per le opere del Giubileo "il solito capofila, la solita cooperativa rossa, il solito prestanome". In poche parole, gli appalti erano stati spartiti in un modo "che fa paura". Subito Rutelli diede mandato al suo legale di intraprendere la causa risarcitoria.
Sia in primo che in secondo grado il Tribunale e la Corte d'Appello di Roma, con sentenze emesse nel 2000 e nel 2003, hanno giudicato lesive "del decoro e dell'onore" dell’ex primo cittadino di Roma le affermazioni della Parenti lanciate, "con accuse non dimostrate di fatti penalmente rilevanti". Senza successo l'ex Pm ha fatto ricorso alla Suprema Corte contestando il risarcimento. I giudici di piazza Cavour hanno confermato la condanna ed hanno escluso che le dichiarazioni della Parenti potessero godere dell'immunità parlamentare. Anche il Sostituto procuratore generale della Cassazione Massimo Fedeli aveva chiesto il rigetto del reclamo di ‘Titti la rossa’.
 
(fonte: D&G, quotidiano del  12/9/2007)

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