Nozione di equivalenza e reintegrazione in forma specifica nelle mansioni, salvo lo ius variandi ex art. 2103 c.c.
 
Corte di Cassazione, sez. lav. 12 gennaio 2006, n. 425 - Pres. Mattone - Est. Capitanio – P.M. Abbritti (concl. conf.) - Soc. Sevel europea veicoli leggeri c. Di Giuseppe.

Categorie e qualifiche dei lavoratori - Art. 2103 c.c. - Dequalificazione del lavoratore - Ripristino della precedente situazione - Adempimento in forma specifica - Ammissibilità - Criteri.

Al fine di valutare se lo ius variandi, attribuito al datore di lavoro entro i limiti indicati dall'art. 2103 c.c., sia stato esercitato secondo correttezza e buona fede, non è sufficiente verificare se le nuove mansioni assegnate al dipendente siano comprese nel livello contrattuale nel quale questi è inquadrato, essendo necessario accertare altresì l'equivalenza in concreto di tali mansioni con quelle in precedenza svolte alla stregua del contenuto, della natura e delle modalità del loro espletamento, atteso che l'equivalenza presuppone che le nuove mansioni, pur se non identiche a quelle in precedenza svolte, corrispondano alla specifica competenza tecnica del livello professionale e siano, comunque, tali da consentire al lavoratore l'utilizzazione del patrimonio di esperienza acquisita nella pregressa fase del rapporto di lavoro (in tal senso cfr., ex multis, Cass., 17 luglio 1998, n. 7040; Cass., 11 febbraio 2004, n. 2649). (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva adeguatamente motivato in ordine alla sussistenza del demansionamento, avendo accertato che le mansioni cui era addetto in precedenza il dipendente addetto alla conduzione di un complesso impianto di verniciatura, erano di gran lunga più impegnative e responsabilizzanti delle successive mansioni di addetto alla linea sigillatura, proprie dell'operaio generico di catena di montaggio). Poiché la violazione della norma imperativa contenuta nell'art. 2103 ce. implica la nullità del provvedimento datoriale di assegnazione di mansioni non equivalenti, si deve ammettere la possibilità che al lavoratore sia accordata la tutela piena, mediante l'automatico ripristino della precedente posizione, fatto salvo, ovviamente, il cosiddetto « ius variandi» del datore di lavoro. Pertanto, ove venga accertata l'esistenza di un comportamento contrario all'art. 2103 del codice civile, il giudice di merito, oltre a sanzionare l'inadempimento dell'obbligo contrattualmente assunto dal datore di lavoro con la condanna al risarcimento del danno, può ben emanare una pronuncia di adempimento in forma specifica, avente contenuto pienamente satisfattorio dell'interesse leso, portante la condanna del medesimo datore di lavoro a rimuovere gli effetti che derivano dal provvedimento di assegnazione delle mansioni inferiori, affidando al lavoratore l'originario incarico, ovvero un altro di contenuto equivalente.

Fatto. - Con ricorso del 13 novembre 2000 la Sevel, Società europea veicoli leggeri s.p.a., proponeva appello nei confronti della sentenza del Tribunale di Lanciano con la quale era stata condannata a reintegrare il proprio dipendente Nicola Di Giuseppe nelle mansioni di conduttore di impianti o in altre equivalenti, avendo il giudice di primo grado ritenuto che, dal gennaio 1998, questi fosse stato adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle svolte in precedenza. A fondamento dell'impugnazione deduceva la società che era insussistente l'asserita dequalificazione, essendo le mansioni svolte da Di Giuseppe, prima e dopo il 2 gennaio 1998, riconducibili a quelle previste dalla declaratoria contrattuale del III livello, e che in ogni caso non avrebbe potuto sancirsi il diritto alla «reintegrazione» nelle mansioni, la reintegrazione essendo prevista soltanto nel caso di licenziamento illegittimo. Con sentenza del 22 gennaio 2002 la Corte d'Appello degli Abruzzi osservava, in primo luogo, che attraverso sia le ammissioni contenute nella memoria di costituzione della società stessa sia le deposizioni testimoniali raccolte in primo grado era risultato che sino al 2 gennaio 1998 Di Giuseppe aveva svolto le mansioni di Civ (conduttore impianti verniciatura), connotate da una certa complessità; laddove successivamente a detta data era stato addetto alla «linea sigillatura», espletando un'attività che si risolveva nell'applicazione di sigillante sulle scocche e che, secondo le deposizioni testimoniali, erano risultate proprie dell'operaio generico di catena di montaggio. Sulla base della declaratoria contrattuale relativa al III livello escludeva, inoltre, che le «nuove» mansioni attribuite a Di Giuseppe potessero essere in essa ricomprese. Quanto, poi, «al contestato uso da parte del giudice di primo grado del termine "reintegrazione" per intendere l'adibizione del ricorrente alle mansioni legittimamente sottrattegli, o ad altre equivalenti», rilevava che la non correttezza della terminologia adoperata era del tutto ininfluente, «stante l'inequivoco significato della condanna della Sevel, ben chiaro alla stessa», tanto che Di Giuseppe, nel costituirsi in quel grado di giudizio, aveva dato atto di essere stato adibito, in esecuzione della sentenza, a mansioni di conduttore di impianti di lastratura, equivalenti a quelle di conduttore di impianti di verniciatura. E rigettava, pertanto, l'appello. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la s.p.a. Sevel sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria difensiva. Nicola Di Giuseppe non si è costituito in giudizio.

Diritto. - Con il primo motivo la società ricorrente lamenta che la sentenza impugnata in violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c.. nonché con omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione abbia omesso di accertare «la violazione del livello retributivo, il livello delle mansioni "vecchie" e di quelle "nuove" (e) la comparazione in astratto»; e, quanto alla comparazione in concreto, abbia ritenuto esistente la dequalificazione dedotta dal proprio dipendente senza verificare se le nuove mansioni comportassero un effettivo depauperamento del suo patrimonio professionale. Con il secondo motivo - concernente violazione e falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione - si duole che la Corte d'Appello abbia valutato in modo erroneo le prove testimoniali espletate ed abbia omesso di considerare che le mansioni di conduttore sono ripetitive, non esigono particolare professionalità e «riguardano la attività di sigillatura che costituisce oggetto delle nuove, mansioni» ritenute dequalificanti. Con il terzo motivo lamenta la società ricorrente che la sentenza impugnata - in violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 ss. c.c., nonché con omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione — non abbia preso in considerazione, e comunque abbia falsamente interpretato, il contratto collettivo del settore, prodotto con riferimento alla declaratoria delle qualifiche che interessavano la presente controversia - testualmente riportate in ricorso al fine di soddisfare il requisito della ed. autosufficienza - e dalle quali si sarebbe dovuto evincere, secondo la volontà delle parti collettive stipulanti, l'equivalenza e la pari dignità delle mansioni attribuite in precedenza e di quelle successivamente assegnate, entrambe rientranti nella terza categoria. Deduce, altresì, che la Corte territoriale ha omesso di considerare che le mansioni successivamente attribuite a Di Giuseppe erano professionalmente affini a quelle in precedenza svolte e gli consentivano certamente di utilizzare appieno il corredo di nozioni, esperienze e perizia da lui acquisite nel campo della manutenzione, con attività lavorativa svolta nel medesimo reparto. Infine, con il quarto ed ultimo motivo la società ricorrente lamenta, in primo luogo, che la Corte d'Appello, in violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c.. e con omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, non abbia tenuto presente che l'onere della prova dell'asserita dequalificazione era a carico della controparte e non era stato da essa minimamente assolto, giocando semmai a proprio favore il contrasto, rilevato dai giudici di merito, tra le deposizioni raccolte. In secondo luogo, deduce che la condanna alla reintegra di Di Giuseppe non trova riscontro in alcuna disposizione legislativa nell'interpretazione giurisprudenziale, essendo un provvedimento siffatto previsto soltanto nell'ipotesi di licenziamento illegittimo, e non avendo ad ogni modo la sentenza impugnata fornito un'appagante spiegazione di tale opzione, avendo tentato di «scioglie(re) la questione trasportandola sul piano meramente terminologico». Il ricorso è infondato. Con riferimento ai primi tre motivi del ricorso ed alla prima delle censure contenute nel quarto motivo, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi tra loro, va premesso in termini generali che, al fine di valutare se lo ius variandi, attribuito al datore di lavoro entro i limiti indicati dall'art. 2103 c.c., sia stato esercitato secondo correttezza e buona fede, non è sufficiente verificare se le nuove mansioni assegnate al dipendente siano comprese nel livello contrattuale nel quale questi è inquadrato, essendo necessario accertare altresì l'equivalenza in concreto di tali mansioni con quelle in precedenza svolte alla stregua del contenuto, della natura e delle modalità del loro espletamento, atteso che l'equivalenza presuppone che le nuove mansioni, pur se non identiche a quelle in precedenza svolte, corrispondano alla specifica competenza tecnica del livello professionale e siano, comunque, tali da consentire al lavoratore l'utilizzazione del patrimonio di esperienza acquisita nella pregressa fase del rapporto di lavoro (in tal senso cfr., ex multis, Cass., 17 luglio 1998, n. 7040; Cass., 11 febbraio 2004, n. 2649). Ciò posto, si osserva che la sentenza impugnata, attraverso una puntuale valutazione delle deposizioni raccolte, valutazione che, per essere adeguatamente motivata, è incensurabile in questa sede, tanto più che l'esito della prova orale ha trovato riscontro - a giudizio della corte territoriale - nelle circostanze riferite dalla società nella memoria di costituzione e nelle stesse ammissioni del suo procuratore speciale, ha in primo luogo affermato che le mansioni di conduttore di impianti di verniciatura (Civ) svolte da Di Giuseppe sino al gennaio 1998 consistevano nell'avviamento e spegnimento degli impianti; nella pulizia e controllo a vista degli stessi; in interventi manutentivi aventi ad oggetto la verifica della temperatura o pressione delle pompe, del numero dei giri o del livello dell'olio dei motori o delle centraline, ecc.; e nell'avvisare il Cpi ed il manutentore d'area di eventuali anomalie che questi avrebbe dovuto poi riparare. Sempre alla stregua degli indicati elementi probatori la Corte aquilana ha precisato che l'impianto affidato a Di Giuseppe, in qualità di Civ, era molto complesso perché formato da molti circuiti di riempimento e svuotamento vasca, e che questi doveva controllare i livelli delle vasche, se necessario mantenerli costanti, eseguendo delle manovre specifiche a tal fine; ottimizzare il ciclo della macchina durante il funzionamento; e riparare anche i guasti di primo livello. Prendendo quindi in esame il periodo successivo al 2 gennaio 1998, la sentenza impugnata ha rilevato che le mansioni di addetto alla linea sigillatura erano (tutt'altro che complesse, ma) proprie dell'operaio generico di catena di montaggio, consistendo nella (mera) applicazione di sigillante sulle scocche; e nel prendere in considerazione la declaratoria del III livello del contratto collettivo del settore (esame che - per quanto detto in premessa - non era peraltro essenziale ai fini della decisione) ha escluso ad ogni modo che le nuove mansioni potessero essere comprese in essa in considerazione del fatto (questo, sì, rilevante nell'economia della presente controversia) che per applicare sigillante alle scocche non è richiesta una preparazione specifica, laddove a detta categoria appartengono i lavoratori che svolgano attività richiedenti «una specifica preparazione risultante da diploma o acquisita attraverso una corrispondente esperienza di lavoro». Contrariamente a quanto dedotto dall'attuale ricorrente, la sentenza impugnata, con motivazione adeguata ed esente dai vizi denunciati, ha individuato la natura delle mansioni svolte da Di Giuseppe sino al 2 gennaio 1998 ed in epoca successiva, ha ritenuto attraverso gli elementi probatori acquisiti che diversamente dalle prime le seconde fossero prive di complessità e non richiedessero una preparazione specifica e, facendo corretta applicazione dei principi al riguardo enunciati da questa Corte, ha legittimamente concluso, quindi, per la sussistenza della lamentata dequalificazione (id est: per l'esercizio illegittimo dello ius variandi). Del pari infondata è, infine, la seconda delle censure di cui al quarto motivo del ricorso, la quale possiede una propria autonomia. Se in passato la giurisprudenza di questa Corte aveva dubitato circa la legittimità, in caso di dequalificazione del lavoratore dipendente, di una sentenza di condanna del datore di lavoro ad adibire il lavoratore alle mansioni in precedenza assegnate, soprattutto in considerazione del carattere eccezionale del provvedimento di reintegrazione, consentito nei soli casi previsti dall'art. 18 della l. n. 300 del 1970 (cfr. Cass., 23 gennaio 1988, n. 539 e, in precedenza, Cass., 7 settembre 1981, n. 5052), le pronunce emanate in epoca successiva hanno osservato che, anche a voler ritenere che il cd. ordine di reintegrazione nelle specifiche mansioni esercitate prima della illegittima destinazione ad altro incarico non sia suscettibile di esecuzione forzata, è tuttavia consentita l'emanazione dell'ordine in questione da parte del giudice, restando inteso che il datore di lavoro può ottemperarvi anche assegnando il dipendente a mansioni diverse e caratterizzate soltanto dal requisito della equivalenza alle precedenti (Cass., 20 settembre 1990, n. 9584); con la conseguenza che la condotta del datore è sanzionabile, oltre che mediante la condanna del medesimo al risarcimento del danno, anche con l'ordine di reintegrazione del lavoratore nel precedente incarico o in altro avente identico contenuto (Cass., 10 marzo 1992, n. 2889 e Cass., 14 luglio 1997, n. 6381). Questi principi sono stati più di recente ribaditi da Cass., 27 aprile 1999, n. 4221, ove si è puntualizzato che, se si riconosce la violazione della norma imperativa di cui all'art. 2103 c.c., poiché implica la nullità del provvedimento datoriale, si deve ammettere la possibilità che al lavoratore sia accordata una tutela piena, mediante l'automatico ripristino della precedente situazione, fatto salvo, ovviamente, il cd. ius variandi del datore di lavoro. Ma tale situazione non ha nulla a che vedere con quella prevista dall'art. 18 della l. n. 300 del 1970, in tema di tutela reale contro i licenziamenti individuali illegittimi. Nell'aderire a questa impostazione, che può dirsi ormai consolidata nella giurisprudenza di legittimità e nei cui confronti la ricorrente non ha sollevato peraltro censure dotate del carattere della novità, la Corte ritiene opportuno aggiungere, proprio in riferimento all'ultimo rilievo formulato da Cass., n. 4221 del 1999, che l'ordinamento vigente (come si sottolinea in dottrina) privilegia la tutela satisfattoria dell'interesse leso e che alla sua realizzazione è preordinata, a ben vedere, la pronuncia di condanna del datore all'adempimento in forma specifica (nella specie, la riassegnazione delle mansioni precedentemente svolte o di quelle equivalenti); tutela che è anch'essa «reale», al pari di quella prevista dall'art. 18 cit., in quanto comporta la persistenza del rapporto illegittimamente modificato dal datore, ma appartiene alla sfera del «diritto comune» non essendo assimilabile ai regime «speciale» previsto per il licenziamento ritenuto illegittimo. Nel caso in esame, il Tribunale, ravvisato l'illegittimo esercizio dello ius variandi da parte della società ricorrente, l'ha condannata «a reintegrare il proprio dipendente... nelle mansioni di conduttore di impianto o in altre equivalenti», intendendo cioè, senza che in proposito potessero sorgere degli equivoci, disporre la «adibizione del ricorrente alle mansioni illegittimamente sottrattegli o ad altre equivalenti», così come rettamente osservato dal giudice di appello, che si è in effetti uniformato, quindi, ai criteri enunciati al riguardo da questa Corte. Rigettato il ricorso, nessuna pronunzia va adottata in ordine alle spese della presente fase in quanto l'intimato non ha svolto alcuna attività difensiva. (Omissis).

(p. anche in Not. giur. lav. 2006, 175)

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