Demansionamento e danno biologico –
Discrezionalità nel ricorso a CTU – Limiti – Ferie non fruite nonostante
l’invito datoriale – Spettanza, comunque, dell’indennità sostitutiva.
Il
giudizio sulla necessità ed utilità di far ricorso allo strumento della
consulenza tecnica rientra nel potere discrezionale del giudice del merito,
la cui decisione è, di regola, incensurabile in Cassazione; tuttavia, quando
la decisione della controversia su un determinato punto dipende
esclusivamente da un questione tecnica, poiché i fatti da porre a base del
giudizio non possono essere altrimenti accertati o provati, il giudice non
può non disporre indagini tecniche, a meno che non dia conto della sua
scelta utilizzando nozioni tecniche di comune conoscenza (Cass., 1 marzo
2007 n. 4853; 3 marzo 2005 n. 4652; 8 marzo 2004 n. 4686; 16 luglio 2003 n.
11143)
Fermo
restando il carattere irrinunciabile del diritto alle ferie, garantito anche
dall’art. 36 della Costituzione, ove le ferie non siano effettivamente
fruite, anche senza responsabilità del datore di lavoro, spetta al
lavoratore l’indennità sostitutiva, la quale ha per un verso carattere
risarcitorio, in quanto idonea a compensare il danno costituito dalla
mancata fruizione del riposo (e quindi dall’espletamento di un plus di
lavoro con mancata ricostituzione delle energie psicofisiche e ridotta
possibilità di dedicarsi ad attività ricreative o relazioni familiari e
sociali), e per altro verso costituisce erogazione di indubbia natura
retributiva.
Alla luce
del ricordato principio di diritto il motivo è fondato nei limiti della
misura della indennità sostitutiva, a nulla rilevando il mancato
ottemperamento del lavoratore agli inviti a fruire delle ferie.
Nulla,
invece, è dovuto al di là della citata indennità, sostitutiva, in primo
luogo perché l’accertato rifiuto del lavoratore a usufruiredelle
ferie è idoneo ad escludere responsabilità per danni ulteriori rispetto a
quelli coperti dalla indennità sostitutiva delle ferie non godute; e,
inoltre, perché non risulta comunque dedotto e provato un danno ulteriore
rispetto a quello che l’indennità è destinata a ristorare.
Svolgimento del processo
Con
ricorso al Pretore di Roma, depositato il 23 settembre 1996, Antonio Uliana,
dipendente della s.p.a. Istituto Nazionale delle Assicurazioni con
inquadramento nel settimo livello e qualifica di funzionario di seconda
classe, conveniva in giudizio la società datrice di lavoro chiedendo: a)
accertare la dequalificazione da lui subita e disporre la reintegra nelle
mansioni di incaricato dei rapporti istituzionali dell’ente, con il suo
accreditamento presso la Camera dei Deputati, il Senato ed il Ministero
dell’Industria; b) accertare il suo diritto all’inquadramento nella
categoria dirigenti dal settembre 1990; c) condannare l’INA al risarcimento
del danno da dequalificazione professionale e del danno bio-psichico subito
per la dequalificazione stessa; d) condannare la società al pagamento del
danno da lavoro usurante per mancata fruizione delle ferie.
A
fondamento delle sue pretese il ricorrente esponeva che, con la nomina del
nuovo presidente dell’INA, avvenuta nel novembre 1994, non gli era stata più
richiesta l’attività di collaborazione che aveva svolto, dal settembre 1990,
per il precedente presidente, con un servizio di supporto e di consulenza
relativo alle attività dei due rami del Parlamento e del Ministero
dell’Industria.
L’INA,
costituitasi, contestava le domande.
Escussi
alcuni testi, il Pretore rigettava il ricorso.
L’appello
del lavoratore – cui resisteva l’INA Vita s.p.a., quale successore dell’INA
s.p.a. a seguito di conferimento di ramo di azienda, mentre la s.p.a.
Assicurazioni Generali, quale incorporante dell’INA s.p.a., si costituiva
solo per evidenziare la sua estraneità al giudizio – veniva parzialmente
accolto dal Tribunale di Roma con sentenza del 23 ottobre/11 novembre 2003.
I giudici
di secondo grado ritenevano che dequalificazione vi era stata dal gennaio
1996, allorquando non era stato chiesto il rinnovo della tessera di accesso
al Senato per l’appellante, al settembre 1996, epoca di deposito del
ricorso; in tale periodo il lavoratore era rimasto inattivo per buona parte
della giornata, atteso che le mansioni svolte all’esterno occupavano da un
terzo alla metà dell’orario lavorativo.
Escludevano la dequalificazione per il periodo precedente, per il quale il
lavoratore si era limitato a lamentare che la documentazione e le note
informative presentate non avevano trovato riscontro presso il nuovo
presidente.
Ritenevano
improbabile la insorgenza di una seria patologia psichica di carattere
permanente da ricondurre al comportamento datoriale.
Respingevano le altre censure, osservando, quanto al lamentato danno da
superlavoro per mancata fruizione delle ferie, che il teste Battisting aveva
dichiarato che l’appellante si rifiutava di andare in ferie nonostante i
suoi inviti; e che riprova della volontà dell’INA di far fruire le ferie si
ritrovava nella lettera dell’8 aprile 1991.
Il
Tribunale condannava quindi l’INA VITA s.p.a. al pagamento della somma di
euro 6.274,95 a titolo di risarcimento del danno da dequalificazione
professionale, oltre rivalutazione ed interessi.
Per la
cassazione di tale decisione ricorre, formulando tre motivi di censura,
Antonio Uliana.
INA VITA
s.p.a resiste con controricorso. Le parti hanno depositato memoria.
Motivi
della decisione
1. Con il
primo motivo, denunciando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2, 4
e 35 della Costituzione, 2103 e 2087 c.c. e vizio di motivazione, la difesa
del ricorrente critica la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso
il danno da dequalificazione per il periodo precedente il gennaio 1996.
Critica la
motivazione sul punto ("in quanto, nello stesso ricorso il lavoratore non
lamenta la privazione delle mansioni ma solo che le note informative e la
documentazione presentata non aveva avuto alcun riscontro e che non aveva
ricevuto istruzioni sul lavoro da svolgere, comportamenti questi che
rientravano nel potere del Presidente il quale non aveva alcun obbligo di
utilizzare e condividere le informazioni e proposte elaborate dal
ricorrente, né di impartirgli istruzioni, considerata la autonomia
asseritamente goduta dallo stesso nell’effettuare ricerche ed elaborare
studi.").
Sostiene
che il Tribunale non ha considerato che gli accessi periodici al Parlamento
derivavano dalla stretta collaborazione con il Presidente, collaborazione
negata dal nuovo Presidente.
Ricorda
che il datore di lavoro ha l’obbligo di predispone il cd. substrato
materiale dell’obbligazione lavorativa, e che, se è vero che il mancato
rinnovo della tessera di accesso al Senato per il 1996 impediva lo
svolgimento di attività presso tale organo istituzionale, il Tribunale ha
comunque omesso di accertare se, nel corso di vigenza dell’accredito, il
dott. Uliana fosse stato messo in condizione di svolgere tale attività.
1.a.
Il motivo non è fondato.
Le
considerazioni dei giudici di appello sulla attività (note informative,
ricerche e raccolta di documentazione) svolta dall’appellante nel primo
periodo successivo alla nomina del nuovo presidente e fino al dicembre 1995
costituiscono apprezzamenti di fatto, riservati ai giudici di merito, che ne
hanno dato congrua motivazione. Le censure si risolvono nella non
condivisione di tali apprezzamenti ma, come tali, sono inammissibili in sede
di legittimità.
2.
Con il secondo motivo, denunciando violazione e/o falsa applicazione degli
artt. 2697, 2700, 2087 c.c., 194, 61 e 62 c.p.c., nonché vizio di
motivazione, la difesa del dott. Uliana critica la sentenza nella parte in
cui non ha disposto una consulenza tecnica di ufficio, ritenendo
"improbabile l’insorgenza di una seria patologia psichica di carattere
permanente da connettere casualmente con il comportamento datoriale", sulla
scorta di considerazioni prive di valenza scientifica (quale la durata di
otto mesi del demansionamento) o estranee al dedotto rapporto causale (quale
il richiamo alla fase di mutamento di mansioni comportante comunque problemi
organizzativi in una società di rilevanti dimensioni, come l’appellata).
Deduce che
gli elementi forniti dal ricorrente in ordine alla patologia sofferta non
erano affatto generici, e riporta il contenuto di tre certificati medici,
uno del dott. Giordano in data 23 gennaio 1996, due del dott. Causi,
dell’ambulatorio neurologico dell’Ospedale San Camillo Forlanini Spallanzani;
assume che gli ultimi due, in quanto sottoscritti dal primario di un
istituto pubblico, costituiscono atto pubblico e fanno piena prova delle
attestazioni in essi contenute.
Richiama
inoltre la consulenza di parte allegata al ricorso introduttivo.
2 a.
Il motivo non è fondato.
Il
giudizio sulla necessità ed utilità di far ricorso allo strumento della
consulenza tecnica rientra nel potere discrezionale del giudice del merito,
la cui decisione è, di regola, incensurabile in Cassazione; tuttavia, quando
la decisione della controversia su un determinato punto dipende
esclusivamente da un questione tecnica, poiché i fatti da porre a base del
giudizio non possono essere altrimenti accertati o provati, il giudice non
può non disporre indagini tecniche, a meno che non dia conto della sua
scelta utilizzando nozioni tecniche di comune conoscenza (Cass., 1 marzo
2007 n. 4853; 3 marzo 2005 n. 4652; 8 marzo 2004 n. 4686; 16 luglio 2003 n.
11143).
Nella
fattispecie in esame i giudici di appello, dopo aver affermato che fino al
dicembre 1995 non vi era stato demansionamento (primo motivo), hanno negato
(come improbabile) la insorgenza di una seria patologia psichica di
carattere permanente causata dal comportamento datoriale, per la breve
durata del demansionamento e perché si era in una fase di mutamento di
mansioni comportante comunque problemi organizzativi in una società di
rilevanti dimensioni come l’appellata.
Ora, se è
vero che la seconda delle argomentazioni risulta incongrua, è anche vero che
il primo dei certificati di cui si lamenta una non attenta valutazione
risale al 23 gennaio 1996 e, secondo quanto si afferma nel ricorso (pag. 9),
reca la diagnosi di stato depressivo ansioso reattivo con tachicardia ed
insonnia con claustrofobia, malattia che si afferma risalente al gennaio
1995.
Ne
consegue che, una volta escluso che vi sia stata dequalificazione fino al
dicembre 1995, una malattia già diagnosticata nel gennaio 1996 (ed
addirittura risalente ad un anno prima) non può, da un punta di vista
logico, essere ricondotta al demansionamento intervenuto dal gennaio al
novembre 1996.
Non
sussiste pertanto violazione delle norme denunciate, né ricorre un vizio
della motivazione su un punto decisivo.
3.
Con il terzo motivo, denunciando violazione e/o falsa applicazione degli
artt, 36 e 41 Cost., 2109, 2087 e 2697 c.c., e 432 c.p.c., nonché vizio di
motivazione, la difesa del ricorrente critica la sentenza nella parte in cui
ha escluso il danno per mancata fruizione delle ferie.
Deduce che
la società aveva ammesso, con la lettera 8 aprile 1991 (che trascrive), di
avere consentito già nel 1991 un arretrato di ferie pari a 57 giorni; che il
generico invito a fruire delle ferie non configura adempimento del potere
dovere che grava sul datore di lavoro; che l’arretrato ferie si era
ulteriormente aggravato negli anni successivi, tanto da raggiungere i 131
giorni al novembre 1995, a causa della intensa collaborazione con il
Presidente dell’Istituto.
3 a.
Il motivo è fondato nei limiti di seguito precisati.
Questa
Corte ha chiarito che, fermo restando il carattere irrinunciabile del
diritto alle ferie, garantito anche dall’art. 36 della Costituzione, ove le
ferie non siano effettivamente fruite, anche senza responsabilità del datore
di lavoro, spetta al lavoratore l’indennità sostitutiva, la quale ha per un
verso carattere risarcitorio, in quanto idonea a compensare il danno
costituito dalla mancata fruizione del riposo (e quindi dall’espletamento di
un plus di lavoro con mancata ricostituzione delle energie psicofisiche e
ridotta possibilità di dedicarsi ad attività ricreative o relazioni
familiari e sociali), e per altro verso costituisce erogazione di indubbia
natura retributiva (v. Cass., 25 settembre 2004 n. 19303; 19 maggio 2003 n.
7836).
Alla luce
del ricordato principio di diritto il motivo è fondato nei limiti della
misura della indennità sostitutiva, a nulla rilevando il mancato
ottemperamento del lavoratore agli inviti a fruire delle ferie.
Nulla,
invece, è dovuto al di là della citata indennità, sostitutiva, in primo
luogo perché l’accertato rifiuto del lavoratore a usufruiredelle
ferie è idoneo ad escludere responsabilità per danni ulteriori rispetto a
quelli coperti dalla indennità sostitutiva delle ferie non godute; e,
inoltre, perché non risulta comunque dedotto e provato un danno ulteriore
rispetto a quello che l’indennità è destinata a ristorare.
In
conclusione va accolto per quanto di ragione il terzo motivo e vanno
rigettati i primi due. La sentenza va cassata in relazione alla censura
accolta e la causa va rinviata, per nuovo esame, ad altro giudice di secondo
grado, che si indica nella Corte di Appello di Roma. Il giudice di rinvio si
atterrà al seguente principio di diritto: "fermo restando il carattere
irrinunciabile del diritto alle ferie, garantito anche dall’art. 36 della
Costituzione, ove le ferie non siano effettivamente fruite, anche senza
responsabilità del datore di lavoro, spetta al lavoratore l’indennità
sostitutiva, la quale ha per un verso carattere risarcitorio, in quanto
idonea a compensare il danno costituito dalla mancata fruizione del riposo
(e quindi dall’espletamento di un plus di lavoro con mancata ricostituzione
delle energie psicofisiche e ridotta possibilità di dedicarsi ad attività
ricreative o relazioni familiari e sociali), e per altro verso costituisce
erogazione di indubbia natura retributiva"; la domanda di risarcimento del
lavoratore dovrà quindi essere valutata nei limiti della predetta indennità
sostitutiva.
Al giudice di rinvio si rimette anche la regolazione delle spese di questo
giudizio di legittimità.
PQM
La Corte
accoglie il terzo motivo di ricorso e rigetta i primi due; cassa la sentenza
impugnata nei limiti della censura accolta e rinvia la causa, anche per le
spese, alla Corte di Appello di Roma.