Demansionamento breve e usura da ferie non fruite: spettanza dell'indennità sostitutiva
 
Cass., sez. lav., 29 novembre 2007, n. 24905 - Pres. Senese – Rel. Celentano - Pm Patrone – (parz. diff.) – Ricorrente Uliana
 
Demansionamento e danno biologico – Discrezionalità nel ricorso a CTU – Limiti – Ferie non fruite nonostante l’invito datoriale – Spettanza, comunque, dell’indennità sostitutiva.
 
Il giudizio sulla necessità ed utilità di far ricorso allo strumento della consulenza tecnica rientra nel potere discrezionale del giudice del merito, la cui decisione è, di regola, incensurabile in Cassazione; tuttavia, quando la decisione della controversia su un determinato punto dipende esclusivamente da un questione tecnica, poiché i fatti da porre a base del giudizio non possono essere altrimenti accertati o provati, il giudice non può non disporre indagini tecniche, a meno che non dia conto della sua scelta utilizzando nozioni tecniche di comune conoscenza (Cass., 1 marzo 2007 n. 4853; 3 marzo 2005 n. 4652; 8 marzo 2004 n. 4686; 16 luglio 2003 n. 11143)
Fermo restando il carattere irrinunciabile del diritto alle ferie, garantito anche dall’art. 36 della Costituzione, ove le ferie non siano effettivamente fruite, anche senza responsabilità del datore di lavoro, spetta al lavoratore l’indennità sostitutiva, la quale ha per un verso carattere risarcitorio, in quanto idonea a compensare il danno costituito dalla mancata fruizione del riposo (e quindi dall’espletamento di un plus di lavoro con mancata ricostituzione delle energie psicofisiche e ridotta possibilità di dedicarsi ad attività ricreative o relazioni familiari e sociali), e per altro verso costituisce erogazione di indubbia natura retributiva.
Alla luce del ricordato principio di diritto il motivo è fondato nei limiti della misura della indennità sostitutiva, a nulla rilevando il mancato ottemperamento del lavoratore agli inviti a fruire delle ferie.
Nulla, invece, è dovuto al di là della citata indennità, sostitutiva, in primo luogo perché l’accertato rifiuto del lavoratore a usufruire delle ferie è idoneo ad escludere responsabilità per danni ulteriori rispetto a quelli coperti dalla indennità sostitutiva delle ferie non godute; e, inoltre, perché non risulta comunque dedotto e provato un danno ulteriore rispetto a quello che l’indennità è destinata a ristorare.
Svolgimento del processo
Con ricorso al Pretore di Roma, depositato il 23 settembre 1996, Antonio Uliana, dipendente della s.p.a. Istituto Nazionale delle Assicurazioni con inquadramento nel settimo livello e qualifica di funzionario di seconda classe, conveniva in giudizio la società datrice di lavoro chiedendo: a) accertare la dequalificazione da lui subita e disporre la reintegra nelle mansioni di incaricato dei rapporti istituzionali dell’ente, con il suo accreditamento presso la Camera dei Deputati, il Senato ed il Ministero dell’Industria; b) accertare il suo diritto all’inquadramento nella categoria dirigenti dal settembre 1990; c) condannare l’INA al risarcimento del danno da dequalificazione professionale e del danno bio-psichico subito per la dequalificazione stessa; d) condannare la società al pagamento del danno da lavoro usurante per mancata fruizione delle ferie.
A fondamento delle sue pretese il ricorrente esponeva che, con la nomina del nuovo presidente dell’INA, avvenuta nel novembre 1994, non gli era stata più richiesta l’attività di collaborazione che aveva svolto, dal settembre 1990, per il precedente presidente, con un servizio di supporto e di consulenza relativo alle attività dei due rami del Parlamento e del Ministero dell’Industria.
L’INA, costituitasi, contestava le domande.
Escussi alcuni testi, il Pretore rigettava il ricorso.
L’appello del lavoratore – cui resisteva l’INA Vita s.p.a., quale successore dell’INA s.p.a. a seguito di conferimento di ramo di azienda, mentre la s.p.a. Assicurazioni Generali, quale incorporante dell’INA s.p.a., si costituiva solo per evidenziare la sua estraneità al giudizio – veniva parzialmente accolto dal Tribunale di Roma con sentenza del 23 ottobre/11 novembre 2003.
I giudici di secondo grado ritenevano che dequalificazione vi era stata dal gennaio 1996, allorquando non era stato chiesto il rinnovo della tessera di accesso al Senato per l’appellante, al settembre 1996, epoca di deposito del ricorso; in tale periodo il lavoratore era rimasto inattivo per buona parte della giornata, atteso che le mansioni svolte all’esterno occupavano da un terzo alla metà dell’orario lavorativo.
Escludevano la dequalificazione per il periodo precedente, per il quale il lavoratore si era limitato a lamentare che la documentazione e le note informative presentate non avevano trovato riscontro presso il nuovo presidente.
Ritenevano improbabile la insorgenza di una seria patologia psichica di carattere permanente da ricondurre al comportamento datoriale.
Respingevano le altre censure, osservando, quanto al lamentato danno da superlavoro per mancata fruizione delle ferie, che il teste Battisting aveva dichiarato che l’appellante si rifiutava di andare in ferie nonostante i suoi inviti; e che riprova della volontà dell’INA di far fruire le ferie si ritrovava nella lettera dell’8 aprile 1991.
Il Tribunale condannava quindi l’INA VITA s.p.a. al pagamento della somma di euro 6.274,95 a titolo di risarcimento del danno da dequalificazione professionale, oltre rivalutazione ed interessi.
Per la cassazione di tale decisione ricorre, formulando tre motivi di censura, Antonio Uliana.
INA VITA s.p.a resiste con controricorso. Le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, denunciando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2, 4 e 35 della Costituzione, 2103 e 2087 c.c. e vizio di motivazione, la difesa del ricorrente critica la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso il danno da dequalificazione per il periodo precedente il gennaio 1996.
Critica la motivazione sul punto ("in quanto, nello stesso ricorso il lavoratore non lamenta la privazione delle mansioni ma solo che le note informative e la documentazione presentata non aveva avuto alcun riscontro e che non aveva ricevuto istruzioni sul lavoro da svolgere, comportamenti questi che rientravano nel potere del Presidente il quale non aveva alcun obbligo di utilizzare e condividere le informazioni e proposte elaborate dal ricorrente, né di impartirgli istruzioni, considerata la autonomia asseritamente goduta dallo stesso nell’effettuare ricerche ed elaborare studi.").
Sostiene che il Tribunale non ha considerato che gli accessi periodici al Parlamento derivavano dalla stretta collaborazione con il Presidente, collaborazione negata dal nuovo Presidente.
Ricorda che il datore di lavoro ha l’obbligo di predispone il cd. substrato materiale dell’obbligazione lavorativa, e che, se è vero che il mancato rinnovo della tessera di accesso al Senato per il 1996 impediva lo svolgimento di attività presso tale organo istituzionale, il Tribunale ha comunque omesso di accertare se, nel corso di vigenza dell’accredito, il dott. Uliana fosse stato messo in condizione di svolgere tale attività.
 
1.a. Il motivo non è fondato.
Le considerazioni dei giudici di appello sulla attività (note informative, ricerche e raccolta di documentazione) svolta dall’appellante nel primo periodo successivo alla nomina del nuovo presidente e fino al dicembre 1995 costituiscono apprezzamenti di fatto, riservati ai giudici di merito, che ne hanno dato congrua motivazione. Le censure si risolvono nella non condivisione di tali apprezzamenti ma, come tali, sono inammissibili in sede di legittimità.
2. Con il secondo motivo, denunciando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697, 2700, 2087 c.c., 194, 61 e 62 c.p.c., nonché vizio di motivazione, la difesa del dott. Uliana critica la sentenza nella parte in cui non ha disposto una consulenza tecnica di ufficio, ritenendo "improbabile l’insorgenza di una seria patologia psichica di carattere permanente da connettere casualmente con il comportamento datoriale", sulla scorta di considerazioni prive di valenza scientifica (quale la durata di otto mesi del demansionamento) o estranee al dedotto rapporto causale (quale il richiamo alla fase di mutamento di mansioni comportante comunque problemi organizzativi in una società di rilevanti dimensioni, come l’appellata).
Deduce che gli elementi forniti dal ricorrente in ordine alla patologia sofferta non erano affatto generici, e riporta il contenuto di tre certificati medici, uno del dott. Giordano in data 23 gennaio 1996, due del dott. Causi, dell’ambulatorio neurologico dell’Ospedale San Camillo Forlanini Spallanzani; assume che gli ultimi due, in quanto sottoscritti dal primario di un istituto pubblico, costituiscono atto pubblico e fanno piena prova delle attestazioni in essi contenute.
Richiama inoltre la consulenza di parte allegata al ricorso introduttivo.
2 a. Il motivo non è fondato.
Il giudizio sulla necessità ed utilità di far ricorso allo strumento della consulenza tecnica rientra nel potere discrezionale del giudice del merito, la cui decisione è, di regola, incensurabile in Cassazione; tuttavia, quando la decisione della controversia su un determinato punto dipende esclusivamente da un questione tecnica, poiché i fatti da porre a base del giudizio non possono essere altrimenti accertati o provati, il giudice non può non disporre indagini tecniche, a meno che non dia conto della sua scelta utilizzando nozioni tecniche di comune conoscenza (Cass., 1 marzo 2007 n. 4853; 3 marzo 2005 n. 4652; 8 marzo 2004 n. 4686; 16 luglio 2003 n. 11143).
Nella fattispecie in esame i giudici di appello, dopo aver affermato che fino al dicembre 1995 non vi era stato demansionamento (primo motivo), hanno negato (come improbabile) la insorgenza di una seria patologia psichica di carattere permanente causata dal comportamento datoriale, per la breve durata del demansionamento e perché si era in una fase di mutamento di mansioni comportante comunque problemi organizzativi in una società di rilevanti dimensioni come l’appellata.
Ora, se è vero che la seconda delle argomentazioni risulta incongrua, è anche vero che il primo dei certificati di cui si lamenta una non attenta valutazione risale al 23 gennaio 1996 e, secondo quanto si afferma nel ricorso (pag. 9), reca la diagnosi di stato depressivo ansioso reattivo con tachicardia ed insonnia con claustrofobia, malattia che si afferma risalente al gennaio 1995.
Ne consegue che, una volta escluso che vi sia stata dequalificazione fino al dicembre 1995, una malattia già diagnosticata nel gennaio 1996 (ed addirittura risalente ad un anno prima) non può, da un punta di vista logico, essere ricondotta al demansionamento intervenuto dal gennaio al novembre 1996.
Non sussiste pertanto violazione delle norme denunciate, né ricorre un vizio della motivazione su un punto decisivo.
3. Con il terzo motivo, denunciando violazione e/o falsa applicazione degli artt, 36 e 41 Cost., 2109, 2087 e 2697 c.c., e 432 c.p.c., nonché vizio di motivazione, la difesa del ricorrente critica la sentenza nella parte in cui ha escluso il danno per mancata fruizione delle ferie.
Deduce che la società aveva ammesso, con la lettera 8 aprile 1991 (che trascrive), di avere consentito già nel 1991 un arretrato di ferie pari a 57 giorni; che il generico invito a fruire delle ferie non configura adempimento del potere dovere che grava sul datore di lavoro; che l’arretrato ferie si era ulteriormente aggravato negli anni successivi, tanto da raggiungere i 131 giorni al novembre 1995, a causa della intensa collaborazione con il Presidente dell’Istituto.
3 a. Il motivo è fondato nei limiti di seguito precisati.
Questa Corte ha chiarito che, fermo restando il carattere irrinunciabile del diritto alle ferie, garantito anche dall’art. 36 della Costituzione, ove le ferie non siano effettivamente fruite, anche senza responsabilità del datore di lavoro, spetta al lavoratore l’indennità sostitutiva, la quale ha per un verso carattere risarcitorio, in quanto idonea a compensare il danno costituito dalla mancata fruizione del riposo (e quindi dall’espletamento di un plus di lavoro con mancata ricostituzione delle energie psicofisiche e ridotta possibilità di dedicarsi ad attività ricreative o relazioni familiari e sociali), e per altro verso costituisce erogazione di indubbia natura retributiva (v. Cass., 25 settembre 2004 n. 19303; 19 maggio 2003 n. 7836).
Alla luce del ricordato principio di diritto il motivo è fondato nei limiti della misura della indennità sostitutiva, a nulla rilevando il mancato ottemperamento del lavoratore agli inviti a fruire delle ferie.
Nulla, invece, è dovuto al di là della citata indennità, sostitutiva, in primo luogo perché l’accertato rifiuto del lavoratore a usufruire delle ferie è idoneo ad escludere responsabilità per danni ulteriori rispetto a quelli coperti dalla indennità sostitutiva delle ferie non godute; e, inoltre, perché non risulta comunque dedotto e provato un danno ulteriore rispetto a quello che l’indennità è destinata a ristorare.
In conclusione va accolto per quanto di ragione il terzo motivo e vanno rigettati i primi due. La sentenza va cassata in relazione alla censura accolta e la causa va rinviata, per nuovo esame, ad altro giudice di secondo grado, che si indica nella Corte di Appello di Roma. Il giudice di rinvio si atterrà al seguente principio di diritto: "fermo restando il carattere irrinunciabile del diritto alle ferie, garantito anche dall’art. 36 della Costituzione, ove le ferie non siano effettivamente fruite, anche senza responsabilità del datore di lavoro, spetta al lavoratore l’indennità sostitutiva, la quale ha per un verso carattere risarcitorio, in quanto idonea a compensare il danno costituito dalla mancata fruizione del riposo (e quindi dall’espletamento di un plus di lavoro con mancata ricostituzione delle energie psicofisiche e ridotta possibilità di dedicarsi ad attività ricreative o relazioni familiari e sociali), e per altro verso costituisce erogazione di indubbia natura retributiva"; la domanda di risarcimento del lavoratore dovrà quindi essere valutata nei limiti della predetta indennità sostitutiva.
Al giudice di rinvio si rimette anche la regolazione delle spese di questo giudizio di legittimità.
PQM 
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso e rigetta i primi due; cassa la sentenza impugnata nei limiti della censura accolta e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte di Appello di Roma.
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